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Umbria ed Emilia Romagna: caos rapid-test fra prezzi e white list
29 Maggio 2020 | di Cecilia Anesi, Lorenzo Bagnoli
La Corte dei Conti dell’Umbria ha aperto un’inchiesta sulla procedura d’acquisto di 15mila test rapidi Covid19 avviata a marzo dalla Regione. Si era trattato di un affidamento diretto, in deroga al codice degli appalti e formalmente giustificato dall’emergenza coronavirus. Ipotesi “danno erariale”, per cui sono già partiti gli accertamenti della Guardia di Finanza dopo che esponenti d’opposizione M5s-Pd avevano sollevato dubbi sulla procedura, come riporta il Messaggero. I test acquistati sono le “saponette” pungidito a marchio “ScreenTest” e che hanno un codice prodotto che i lettori di IrpiMedia già conoscono: Incp-402s, una variante dei kit di AllTest (Incp-402) al centro della nostra scorsa inchiesta.
Le stranezze di questo acquisto sono emerse grazie agli atti acquisiti dall’opposizione in queste ultime settimane. Il primo elemento è una relazione del Dipartimento di microbiologia dell’ospedale di Perugia datata 19 marzo. Il titolo è “Strategia di utilizzo test rapidi sierologici e molecolari e fabbisogno previsto per la Regione Umbria” e i destinatari sono proprio i funzionari delle regione.
Infatti la relazione spiega come i test possano essere usati per una «individuazione rapida a domicilio» di soggetti sintomatici da più di 7 giorni – a cui in caso di positività dovrà essere poi fatto il tampone – e alla «dimostrazione retrospettiva del superamento dell’infezione». In chiusura, si raccomanda l’acquisto di circa 5mila test rapidi e di 15mila sierologici molecolari, considerati più affidabili, seppur richiedano l’impiego di laboratori e siano più costosi. La Regione seguirà l’indicazione ma abbondando, comprando 15mila test rapidi.
Come sono stati usati dall'azienda ospedaliera di Perugia le “saponette”
Dei 15mila test rapidi comprati dalla Regione, 7mila sono stati consegnati proprio a Microbiologia. «Li abbiamo usati all’interno di una specifica strategia, come test complementari e mai disgiunti dal tampone. Ad esempio per potere testare più persone con il molecolare, visto che ogni macchina processa al massimo 40 tamponi in contemporanea, abbiamo avviato la tecnica del “pooling” (ovvero tre tamponi uniti) unendo solo i tamponi di chi non risultava avere anticorpi nel test pungidito.» Insomma, pur con dei margini di errore, questa strategia ha velocizzato moltissimo il lavoro dell’ospedale di Perugia durante l’emergenza. Oggi, spiega la dottoressa Mencacci, la saponette potrebbero più che altro essere utili nella trovare il Covid19 in quei pazienti gravi in cui il tampone risulta negativo perché il virus è già sceso nelle vie aeree inferiori. Per quanto riguarda la ricerca della positività al virus e quindi la potenziale infettività, per la Prof. Mencacci l’unico strumento diagnostico affidabile è il tampone, ma i test sierologici molecolari, Elisa o Clia, possono e devono essere combinati sia per aiutare lo screening negli ospedali, che per un test di sieroprevalenza della popolazione.
Il test analizzato dall’ospedale perugino è lo “ScreenTest” di ScreenItalia, azienda di Torgiano in provincia di Perugia, codice prodotto Incp-402s. Per quanto la scatola affermi che è made in Italy, l’anima è prodotta da AllTest, l’azienda cinese protagonista della nostra precedente inchiesta uscita il 6 maggio scorso, in cui abbiamo raccontato come diversi Paesi e laboratori internazionali abbiano contestato l’attendibilità dei test Incp-402. I test sono comunque entrati in ospedali e aziende sanitarie regionali italiane. L’Umbria è la regione che, a quanto risulta dalle delibere che abbiamo potuto consultare, ha fatto l’ordine maggiore di test.
In Emilia-Romagna, invece, il Gruppo tecnico regionale ha inserito sia AllTest sia ScreenTest in un elenco di kit «convalidati». È l’unica Regione ad aver stilato un documento del genere. Nelle altre regioni ogni laboratorio diagnostico o clinica privata può offrire il servizio organizzandosi da sé, ovvero acquistando i test rapidi della marca che vuole, o che trova. IrpiMedia ad oggi però non ha potuto visionare i documenti che attestano la qualità dei test rapidi convalidati, né avere accesso ai criteri necessari per entrare nella lista dell’Emilia-Romagna. In questo contesto frammentato, seppur concorde nella necessità dell’uso di ogni possibile strumento di screening, il Comitato Tecnico Scientifico del Ministero della Salute mantiene una posizione in linea con quella dell’Oms, ovvero non raccomanda l’uso dei test rapidi, di qualsivoglia marca.
Questo scenario in cui il monitoraggio è affidato anche ai laboratori privati è recente. Fino ai primi di maggio lo screening era appannaggio solo di entità pubbliche. In Umbria era la Protezione civile, grazie all’acquisto dei 15mila test oggi messi sotto indagine dalla Corte dei Conti.
Riavvolgiamo il nastro al momento decisivo per l’ordine dei test umbri. È il 18 marzo, il giorno prima della relazione dell’Ospedale di Perugia sugli ScreenTest. Come dimostrano alcuni documenti ottenuti dall’opposizione, Vincenzo Monetti, titolare dell’azienda distributrice di dispositivi medici Vim G. Ottaviani Spa di Città di Castello, tra le 17 e le 23 si scambia alcune email con Enrico Bartoletti, responsabile della Funzione amministrativa Protezione civile della Regione Umbria, e Federico Ricci, capo di gabinetto della governatrice leghista Donatella Tesei, in copia in una delle mail.
La determina con l’affidamento senza gara arriva il 25 marzo 2020: la Vim incassa, iva inclusa, 292.800 euro per 15mila ScreenTest. Il prezzo a kit 16 euro + iva, dopo un ribasso dell’offerta iniziale stabilito in seguito a una richiesta di riformulazione del prezzo. Nella determina si cita un contratto tra il “produttore”, la ScreenItalia, e la ditta Vim, la quale «ha il diritto di esclusiva alla commercializzazione del test in oggetto in ambito europeo» e si giustifica un affidamento diretto da quasi 300mila euro poiché il servizio offerto dalla Vim è coperto da «diritto di esclusiva» ed è «infungibile». Quest’ultimo termine, in uso nel gergo giuridico, indica un bene insostituibile per il suo valore economico sociale.
L’altra stranezza in questa fornitura è quella del prezzo. Nello stesso periodo altre pubbliche amministrazioni hanno acquistato i test Incp-402 da rivenditori diversi a prezzi ben inferiori, tra le 10 e le 12 euro.
Per approfondire
Covid19: la zona grigia del mercato dei rapid test
Il sottobosco variegato delle società che rivendono i cosiddetti test rapidi ha approfittato del caos emergenziale. Così vengono venduti i prodotti nascondendone l’origine e spacciandoli per europei
Anche noi di IrpiMedia siamo riusciti a comprare un kit con lo stesso codice prodotto a meno del prezzo strappato dalla Protezione civile umbra. Infatti, il 21 aprile abbiamo acquistato online da un rivenditore italiano un kit da 25 test con codice Incp-402, impacchettati a marchio JusCheck, al prezzo di 317,20 euro, ovvero, con iva e spedizione inclusa, 12,6 euro a test. Alla data del 6 maggio, visto che i test ancora non arrivavano, abbiamo ricevuto un’email: «Come forse sapete per oltre 15 giorni tutti i test rapidi (non solo quelli da noi commercializzati) sono stati bloccati alle dogane. Ci risultano essere stati “sdoganati” il 4/5 e stiamo attendendo comunicazioni in proposito dall’importatore».
Da inizio aprile fino a dopo Pasqua diversi rapid test sono rimasti fermi alle dogane cinesi. Pochi giorni prima, Spagna e Gran Bretagna avevano rispedito indietro, perché ritenuti inaffidabili, i kit AllTest a marchio Biozek. Nello stesso momento, in Umbria, la Protezione civile acquistava 15mila test con lo stesso codice prodotto di quelli fermati in Cina.
Al problema dell’affidabilità si è aggiunto il fatto che altri prodotti per l’emergenza Covid, dai test fino alle mascherine, iniziavano ad arrivare in Europa con certificazioni contraffatte. La Cina si è vista così costretta a bloccare l’export almeno di parte dei prodotti. Stando ad una fonte che preferisce restare anonima, le dogane cinesi hanno chiesto alle aziende distributrici europee di garantire in prima persona sulla qualità del prodotto, anche se non l’avevano mai provato prima, così da poterlo sdoganare. Non tutti i rivenditori europei se la sono sentita di rischiare, e hanno preferito cancellare gli ordini.
Perché la Regione Umbria ha scelto proprio ScreenTest, il kit distribuito dalla Vim G. Ottaviani? La risposta potrebbe stare tra le maglie delle relazioni politiche. Infatti, ha fatto emergere La Repubblica nei giorni scorsi, c’è una foto scattata durante una cena della campagna elettorale di Donatella Tesei in cui la candidata è di fianco al titolare della Vim, Vincenzo Monetti.
Tommaso Bori, medico e consigliere d’opposizione del Pd, sta cercando di fare luce chiedendo delucidazioni alla giunta regionale. «Abbiamo fatto due richieste di accesso agli atti per chiarire i contorni di tutta la vicenda – spiega -, ma ancora non abbiamo ricevuto risposte. La Lega sta anche sabotando i lavori del Comitato di Controllo, facendo mancare il numero legale quando vengono poste le domande scomode».
Chissà come avrebbe fatto la Presidente della Regione, Donatella Tesei, a comprarne altri 125 mila. Questa era la sua volontà – si legge in una lettera che invia ai Cgil, Cisl e Uil – qualora la sperimentazione avviata dalle Usl umbre con gli Incp-402 dia buoni risultati. Non è stato così, però, a leggere le prime del direttore sanitario della Regione, Claudio Dario, che in un documento datato 17 aprile presenta i risultati della sperimentazione su un campione di 1080 soggetti: il 27% è risultato positivo al sierologico, ma di questo solo un 8,9% è risultato confermato dal test molecolare. Conclusione: i rapid-test Incp-402 non hanno caratteristiche di specificità e sensibilità tali da potere essere impiegati per fini diagnostici né di sorveglianza epidemiologica.
«Abbiamo fatto due richieste di accesso agli atti per chiarire i contorni di tutta la vicenda, ma ancora non abbiamo ricevuto risposte. La Lega sta anche sabotando i lavori del Comitato di Controllo, facendo mancare il numero legale quando vengono poste le domande scomode»
La white list dell’Emilia Romagna
Poco più a nord, nell’ancora rossa Emilia-Romagna, gli inaffidabili gemelli “ScreenTest” e “AllTest” sono dentro l’elenco (la cosiddetta white list) di test rapidi convalidati dal Comitato tecnico regionale.
In regione, nel giro di un mese, è cambiata radicalmente l’opinione nei confronti dei rapid test. A metà aprile, prima che uscisse la delibera regionale sull’uso dei test sierologici, il commissario regionale all’emergenza Covid19 Sergio Venturi aveva dichiarato che i test ai privati dovevano essere vietati in toto. Nella delibera del 16 aprile si legge che l’esecuzione di test sierologici rapidi «rivest[e] scarso significato e può contribuire a creare false aspettative e comportamenti a potenziale rischio nei cittadini interessati». «False aspettative» poi scomparse nelle determinazioni successive, con le quali si applica la delibera. Anzi. I test, per l’Emilia-Romagna, funzionano: i risultati su 60mila operatori sanitari «testimoniano una elevatissima concordanza fra i risultati dei test sierologici rapidi e i test sierologici standard da sangue venoso», si legge in una delibera dell’11 maggio.
Il 21 aprile noi di IrpiMedia abbiamo potuto acquistare un kit di Incp-402 proprio da un’azienda emiliana, la Euronorma. «La vendita è libera, c’è scritto però che l’uso è riservato a personale medico. C’è chi mi ha detto che se l’è fatto da solo, chi lo fa senza medico contravviene alle indicazioni di un dispositivo», spiega il dottor Graziano Frigeri, titolare di Euronorma. La responsabilità è quindi del privato di rivolgersi a un medico. Il test Incp-402 di Euronorma era brandizzato JusCheck ed è fra quelli fermati alla dogana in Cina. Così il 6 maggio l’azienda ha scritto in un messaggio di aver trovato anche altri fornitori. Quando i test ci sono arrivati, il 21 maggio, avevano marca Khb, una di quelle approvate dalla Regione Emilia-Romagna.
Frigeri non vende solo i test online. In qualità di presidente di Assoprev, associazione di categoria che promuove «l’imprenditorialità privata nel campo dei Servizi alle Imprese in materia di Salute e Sicurezza del Lavoro», ha spinto affinché la delibera sui rapid test in Regione Emilia Romagna cambiasse e si permettesse ai laboratori privati di somministrarli. L’11 maggio la Regione ha iniziato a pubblicare elenchi di medici e laboratori accreditati per fare le analisi, tra i quali anche Frigeri. Mentre l’elenco dei marchi di test sierologici convalidati dagli esperti della Regione è stato pubblicato almeno da fine aprile. Quali siano i criteri di approvazione non è stato possibile saperlo perché dalla Regione non hanno voluto commentare.
Quello che è certo è che essere in white list è fondamentale: i distributori il cui prodotto resta escluso non possono più vendere in Emilia-Romagna e si sono anche trovati i carabinieri del Nas a sequestrargli i kit. «Per me è stato un danno economico. I Nas hanno sequestrato i miei test ad almeno ad uno dei miei clienti perché non sono sulla lista – spiega un distributore rimasto escluso, che preferisce restare anonimo per timore di perdere altri clienti -. Nessuno dalla Regione me li ha voluti testare. Non è nemmeno chiaro quali siano i criteri e i dati scientifici su cui basano la convalida», spiega un distributore il cui test non è tra i convalidati.
A parte la Lombardia, che ancora insiste a non utilizzare i pungidito, oggi tutte le Regioni si sono attivate in ottica di prevenzione e monitoraggio della popolazione e usano i test sierologici, sia pungidito sia molecolari. E anche se i massimi vertici della salute, Istituto superiore di Sanità e Oms, non si esprimono, la posizione più condivisa è quella dell’infettivologo dell’Ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, che il 23 aprile a Piazza Pulita diceva: «Per un uso di massa, volto alla riapertura, il test rapido è l’unico sostenibile».