Recovery Fund: il muro di gomma sui negoziati europei

#RecoveryFiles

Recovery Fund: il muro di gomma sui negoziati europei
Giulio Rubino

La questione della trasparenza sul PNRR Europeo, già affrontata dal progetto RecoveryFiles nella precedente inchiesta sulla mancata partecipazione dei Parlamenti europei alla stesura dei Recovery Plan, resta un nodo irrisolto nella gestione del piano post pandemia e nella politica europea in generale. Nonostante infatti decine di richieste di accesso agli atti (FOIA, Freedom Of Information Act) fatte dai giornalisti di Recovery Files sia alla Commissione europea che ai governi degli Stati membri, la maggior parte della documentazione riguardo i negoziati che hanno portato ai piani attuali resta segreta.

Lo strumento della richiesta di accesso agli atti, per i giornalisti come per tutti i cittadini, su carta è una garanzia di trasparenza estremamente potente. Sono infatti poche e molto ben delimitate le circostanze che permettono alle istituzioni europee, e quasi ovunque nel continente anche a quelle nazionali, di rifiutare l’accesso a qualsiasi tipo di documentazione pubblica, inclusi i verbali delle riunioni, la corrispondenza fra funzionari pubblici, i budget e le spese effettuate.

Eppure, dopo mesi di tentativi da parte dei giornalisti del progetto Recovery Files, un’inchiesta collaborativa fra testate europee coordinata dal magazine online olandese Follow The Money, bisogna constatare che tale strumento è nella pratica molto meno efficace di come appaia nel diritto, e che permane una notevole ritrosia a livello europeo nel rendere davvero trasparente il processo di spartizione della più grande torta mai messa sul piatto dell’Unione europea.

Questo atteggiamento di chiusura, oltre a danneggiare direttamente il diritto all’informazione dei cittadini, finisce per dare molti argomenti in mano ai detrattori del Recovery Fund in generale: la legittima preoccupazione per il corretto uso di questi fondi viene sempre di più associata ad una posizione di contrarietà al progetto stesso, mentre il dibattito fra coloro che supportano l’iniziativa del PNRR è messo a tacere dall’alto in nome di una realpolitik che pretende di poter agire senza supervisione pubblica.

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L'inchiesta

Questa è la seconda uscita di Recovery Files, un progetto di ricerca paneuropeo che indagherà le spese dei fondi di ripresa e resilienza nei mesi a venire. Il progetto è coordinato da Follow the Money, piattaforma di giornalismo olandese.

Il progetto d’inchiesta è importante non solo in termini di quantità di investimenti pubblici – circa 725 miliardi di euro- ma anche per il preoccupante mancato coinvolgimento dei parlamenti nazionali. Il modo in cui questa enorme quantità di denaro verrà spesa è ovviamente una materia di interesse pubblico per i cittadini di tutta Europa.

IrpiMedia lavora al progetto insieme al resto del team di Recovery Files:

  • Attila Biro, Rise (Romania)
  • Atanas Tchobanov, Bird.bg (Bulgaria)
  • Hans-Martin Tillack, Die Welt (Germania)
  • Petr Vodsedalek, Denik (Repubblica Ceca)
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  • Gabi Horn, Atlatszo (Ungheria)
  • Marie Charrel, Le Monde (Francia)
  • Peter Teffer/Remy Koens/Lise Witteman, Follow the Money (Paesi Bassi)
  • Piotr Maciej Kaczynski, Euractiv.com e Onet.pl (Polonia)
  • Staffan Dahllöf, DEO.dk (Danimarca/Svezia)

Sei mesi di FOIA

Quando il team di Recovery Files ha cominciato a investigare il processo, la prima cosa che abbiamo notato era che i piani sembravano esser stati decisi da gruppi ristretti di membri dei governi e della Commissione europea, con un contributo però molto forte, almeno a giudicare dalle agende dei ministri, di una selezionata schiera di interessi privati.

La mancanza di coinvolgimento dei rappresentanti eletti, nello specifico dei parlamenti nazionali, è stata la prima preoccupazione del team, che nel processo di ricerca ha individuato, per quasi tutti gli Stati membri, un periodo chiave, fra novembre 2020 e marzo 2021, quando finalmente, con vari ritardi, le varie bozze di piano hanno preso forma.

In quei mesi di febbrile lavoro gli ultimi nodi e veti incrociati si sono sciolti, le road-map delle riforme richieste dalla Commissione sono state tracciate e infine, è stata annunciata la luce verde ai vari piani nazionali, ancora con moltissime postille, dettagli da chiarire, fra rischi di green washing e richieste a gran voce di trasparenza da moltissimi attori della società civile.

Il progetto Recovery Files, fin da subito, ha deciso di concentrare gli sforzi su quei mesi chiave, e di cercare di portare alla luce il processo decisionale e i dibattiti che erano stati negati ai parlamenti nazionali.

Lo strumento scelto, inevitabilmente, è stato quello della richiesta di accesso agli atti, per poter ottenere in modo completo e trasparente tutta la documentazione ufficiale rilevante che non fosse già stata pubblicata.

Il processo ha richiesto molti mesi: la prima richiesta è stata infatti inviata dal nostro collega tedesco Hans-Martin Tillack alla Commissione verso la metà di luglio 2021. Si chiedeva la totalità dei documenti in cui si valutava il recovery plan tedesco, una manovra del valore di 25,6 miliardi di euro. Dopo le rituali due settimane di attesa, la risposta della Commissione è stata piuttosto insoddisfacente: la richiesta deve essere più specifica, perché la documentazione in questione è troppo ampia.

A questa prima risposta il nostro collega ha risposto chiedendo una lista dei documenti disponibili, per poter circoscrivere la richiesta precedente. Ancora una volta, la risposta della commissione è stata negativa: non era possibile inviare tale lista senza una «consultazione con i Paesi membri rilevanti (alla richiesta, ndr)».

Decisi a non lasciar cadere il discorso, il team di Recovery Files ha presentato un ricorso alla Mediatrice europea Emily O’Reilly. L’ufficio del Mediatore europeo (European Ombudsman) è infatti un organo indipendente creato precisamente allo scopo di richiamare le istituzioni e le agenzie dell’Ue a rispondere del loro operato, con il potere di avviare inchieste in risposta a denunce di cattiva amministrazione o abusi.

Più trasparenza per una gestione efficiente dei fondi

Di Federico Anghelè, The Good Lobby Italia

Il PNRR rappresenta una grande opportunità di sviluppo economico e sociale per l’Italia, ma anche un gigantesco banco di prova per capire se saremo in grado di agire nell’interesse pubblico. Non possiamo accettare che la gestione delle risorse avvenga senza garanzie di massima trasparenza, partecipazione e inclusività. Purtroppo quanto successo finora non va in questa direzione. Il Governo non ha previsto meccanismi di consultazione dei cittadini per orientare le scelte politiche formulate nel Piano o per vagliare il gradimento delle proposte. Italia Domani, la piattaforma online richiesta a gran voce dalla società civile, che dovrebbe permettere il monitoraggio diffuso e costante sull’uso delle risorse europee e l’andamento dei progetti, è uno strumento del tutto insufficiente a verificare lo stato di attuazione del PNRR. Abbondano i pdf e mancano i dati disponibili in formato aperto, disaggregato e interoperabile fondamentali per il monitoraggio. Per questo, assieme a molte altre organizzazioni civiche, chiediamo che venga al più presto colmata questa lacuna e che vengano inoltre pubblicate informazioni complete sulle scadenze amministrative e procedurali previste, sui beneficiari dei fondi (inclusi i subappalti), sui soggetti coinvolti, sui luoghi dove verranno realizzati gli interventi. Sono dati importantissimi per integrare l’inchiesta che realizzeremo insieme ad IrpiMedia nel corso del 2022 sui potenziali conflitti di interessi nella distribuzione e gestione del Recovery Fund e sulle attività di lobbying che ruotano intorno al PNRR.

Uno scambio di corrispondenza fra l’ufficio di O’Reilly e quello del commissario Von Der Leyen ha portato, lo scorso 15 ottobre, a una lettera di Ursula von der Leyen che echeggia quasi parola per parola la sua dichiarazione pubblica di luglio: «Le posso assicurare il nostro impegno a garantire la trasparenza del Recovery and Resilience Facility, poichè condividiamo la sua valutazione che la piena partecipazione al progetto da parte della cittadinanza europea sia un prerequisito per il suo successo».

Il ricorso al Mediatore europeo ha smosso le acque, e la commissione ha finalmente rilasciato una lista dei documenti riguardanti il PNRR tedesco. Ma, nonostante tutto, buona parte dei documenti ottenuti sono arrivati in notevole ritardo rispetto ai termini stabiliti dalla legge e, soprattutto, è stato in diversi casi (incluso quello tedesco) negato l’accesso ai documenti antecedenti l’invio ufficiale del piano nazionale alla Commissione, esattamente il periodo in cui le decisioni più importanti sono state prese.

Relazioni a rischio

Le altre istanze di accesso fatte dal resto del team in tutta Europa non sono andate tanto diversamente. Le richieste fatte da IrpiMedia riguardo all’Italia sono ancora tutte in elaborazione, nonostante le prime siano state inviate lo scorso 22 dicembre, e il termine ultimo per ottenere una risposta sia di quindici giorni lavorativi.

Gli unici dipartimenti (DG) che hanno già inviato una risposta sono quelli che hanno dichiarato di non aver nessun documento riguardo «le comunicazioni fra governo italiano e commissione». Questi includono, abbastanza sorprendentemente, il Segretariato Generale della Commissione, il Direttorato Generale per gli Affari Economici e Finanziari e quello del Budget, mentre quello di Energia ha richiesto più tempo per le risposte, che aspettiamo nel corso di questo mese di febbraio.

Il PNRR dell’Italia

La composizione del PNRR per missioni e componenti [Valori in €/mld]

Ma sono soprattutto alcune delle risposte già arrivate ai colleghi di altri Paesi a sollevare l’allarme. Nel caso della Romania, che dovrebbe ricevere 30 miliardi di euro dal PNRR, la prima risposta risale allo scorso 19 novembre: la Commissione ha negato l’accesso a una considerevole parte dei documenti richiesti, dichiarando che rivelarli metterebbe a rischio «il clima di rispettiva fiducia» con le autorità romene e avrebbe «aggravato i rapporti di lavoro» fra Bruxelles e Bucharest.

Una risposta simile è arrivata nel caso della Danimarca: anche qui è stato negato accesso ai documenti per evitare che «si vadano a logorare i rapporti di lavoro fra la Commissione europea e le autorità nazionali danesi». Per l’Olanda e la Svezia la Commissione ha risposto con una formulazione meno minacciosa, ma ugualmente negativa: «Danneggerebbe il processo decisionale», ci è stato detto.

Si tratta di una delle eccezioni usata più spesso per rifiutare le richieste di accesso agli atti fatte dal progetto Recovery Files. La pubblicazione di alcuni documenti rischierebbe di inficiare «il processo decisionale di un istituzione».

Abbiamo ricevuto tale risposta in diversi casi. Per Ungheria e Polonia, l’eccezione è anche giustificata, questi Paesi infatti ancora non hanno un PNRR ufficialmente approvato dalla Commissione. Ma nel caso della Slovenia la stessa eccezione è stata usata lo scorso dicembre, quasi sei mesi dopo che il PNRR sloveno aveva ricevuto l’approvazione ufficiale della Commissione.

Päivi Leino-Sandberg, professoressa di diritto internazionale europeo all’università di Helsinki, ritiene che la distinzione sia di primaria importanza «Laddove la decisione è già stata presa» spiega «la documentazione che può rimanere confidenziale è molto limitata». Solo i documenti che includono “opinioni per uso interno” possono essere negati. Ma le risposte della Commissione sembrerebbero indicare che un’ampia varietà di documenti dovrebbero restare segreti fino a che tutte le fasi del PNRR sono state attuate, fino cioè al 2026. «È un arco temporale molto lungo», commenta Leino-Sandberg «e che fa riferimento a processi decisionali del tutto separati».

Per approfondire

Le voci del Recovery: chi ha deciso il piano di ripartenza in Europa

La Commissione e i governi centrali ne hanno disegnato le versioni nazionali evitando il confronto con i parlamenti locali. E ascoltando, al contrario, le lobby delle grandi aziende private

Secondo la professoressa Leino-Sandberg l’uso che la Commissione sta facendo delle limitazioni all’accesso agli atti potrebbe essere politicamente controproducente: «Considerando le quantità di denaro di cui si parla, è normale che la Commissione sia sotto pressione da parte degli Stati membri. Credo – conclude Leino Sandberg – che la trasparenza sarebbe invece d’aiuto alla Commissione per mantenere una posizione imparziale e oggettiva e mostrare che non cede alle pressioni politiche».

Dello stesso parere è anche Helen Darbishire, direttore esecutivo di Access Info Europe, una ONG spagnola parte della Open Spending EU coalition. Raggiunta dal team nel suo ufficio di Madrid ci spiega il suo punto di vista: «Ci è stato detto che gli obiettivi [del PNRR] comprendono una giusta transizione energetica, supporto alla digitalizzazione e la ripresa del sistema economico dalla crisi portata dalla pandemia. Come potranno però gli scienziati del clima valutare se le azioni intraprese contribuiscono a combattere i cambiamenti climatici se non sappiamo dove vanno i soldi?». E aggiunge: «Abbiamo visto durante la pandemia come le procedure di acquisto di emergenza siano state usate per favorire soggetti vicini ai governi. Questa non è soltanto corruzione, è anche uno spreco di denaro pubblico».

Ma Darbishire inquadra il problema anche da una prospettiva politica, andando al centro del dibattito attuale: «Senza trasparenza e responsabilità, ci saranno sicuramente scandali legati all’uso che si farà dei fondi. Scandali che andranno a inficiare la fiducia del pubblico nelle istituzioni europee. Se questi fondi devono salvare le democrazie europee la trasparenza è chiave per il successo di questo piano», conclude.

Il problema centrale è che nonostante tutto la trasparenza è un concetto che fa ancora paura: secondo Helen Darbishire è un «riflesso condizionato» che risale a quando l’Europa era ancora più un circolo diplomatico che non un’istituzione legislativa. «L’idea che la trasparenza possa danneggiare le relazioni internazionali è ridicola, non si può usare il concetto di relazioni internazionali all’interno dell’Unione europea».

Eppure un simile approccio resta molto diffuso non solo a Bruxelles, ma anche fra i governi degli Stati membri. I colleghi che hanno inviato richieste di accesso agli atti anche ai propri governi nazionali hanno infatti ottenuto risultati non sempre soddisfacenti. Finlandia, Danimarca e Svezia hanno da un lato inviato migliaia di documenti alle nostre caselle di posta, ma la quantità di dati nasconde significative omissioni.

Ad esempio, apparentemente il governo finlandese non ha tenuto alcun verbale delle riunioni effettuate, e gli ordini del giorno per tali incontri sono estremamente vaghi. Il neo cancelliere tedesco Scholz ha negato l’accesso a tutti i documenti riguardo la preparazione del PNRR, citando ancora «relazioni internazionali» da proteggere. In Slovenia il ministero dello Sviluppo e delle politiche Europee (SVRK), che era incaricato di redigere il PNRR, ha risposto di non avere documenti sul processo decisionale, suggerendo di contattare gli altri ministeri. Questi, prevedibilmente, hanno risposto che bisogna rivolgersi al SVRK.

CREDITI

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Giulio Rubino

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Lorenzo Bodrero

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Le bandiere della Ue a mezz’asta davanti al quartier general della Commissione europea il 14 gennaio 2022 in segno di lutto per la morte del Presidente del parlamento europeo, David Sassoli
(Thierry Monasse/Getty)

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Le voci del Recovery: chi ha deciso il piano di ripartenza in Europa

Le voci del Recovery: chi ha deciso il piano di ripartenza in Europa

Giulio Rubino

Come maggiore beneficiaria dei fondi messi a disposizione dell’Europa per la ricostruzione post-Covid, l’Italia è chiaramente sotto esame. Colpita forse più duramente di ogni altro Paese europeo dalla pandemia, presa da una crisi economica che pare ormai un male cronico e da una continua instabilità politica che sembra impedire ogni riforma sostanziale, non è sorprendente che il nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sia stato al centro dell’attenzione europea e che in molti abbiano tirato un gran sospiro di sollievo lo scorso giugno, quando la presidentessa della Commissione Europea Ursula von der Leyen a Roma ha dichiarato che l’Italia «ha il completo appoggio della Commissione» e che «Next Generation EU Italia Domani soddisfa chiaramente i criteri stabiliti assieme». «Sono certo che riusciremo ad attuare questo Piano», aveva detto due mesi prima il presidente del Consiglio Mario Draghi, ad aprile, nel presentare il PNRR italiano al Parlamento. «Sono certo – aveva aggiunto – che l’onestà, l’intelligenza, il gusto del futuro prevarranno sulla corruzione, la stupidità, gli interessi costituiti».

Ma, come IrpiMedia ha già analizzato nella serie di inchieste #Greenwashing, gli “interessi costituiti”, sono riusciti a far sentire la loro voce. Le lobby dei combustibili fossili infatti hanno avuto successo a far accettare, nonostante l’opposizione degli ambientalisti di tutta Europa, le controverse tecnologie del Carbon Capture and Storage (CCS), ovvero la cattura e lo stoccaggio della CO2, e la connessa produzione di idrogeno “blu” all’interno dei PNRR nazionali di diversi paesi in nome della transizione ecologica.

Per quanto riguarda l’Italia, lo scorso maggio IrpiMedia ha evidenziato le piccole ma significative differenze tra la versione del PNRR in inglese presentata alla Commissione europea e quella in italiano che è stata discussa dal Parlamento, segno evidente di come non ci sia mai stata davvero la possibilità di analizzare e discutere il documento inviato a Bruxelles. Eppure solo in tre Paesi – Italia, Danimarca e Lussemburgo – la Decisione di esecuzione del Consiglio, ovvero il documento di approvazione del Piano firmato dal Consiglio europeo, fa accenno a una discussione parlamentare sui contenuti.

E nel resto d’Europa le cose non sembrano essere andate troppo diversamente, come dimostra questa prima inchiesta del progetto #RecoveryFiles.

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L'inchiesta

Questo articolo lancia Recovery Files, un progetto di ricerca paneuropeo che indagherà le spese dei fondi di ripresa e resilienza nei mesi a venire. Il progetto è coordinato da Follow the Money, piattaforma di giornalismo olandese.

Il progetto d’inchiesta è importante non solo in termini di quantità di investimenti pubblici – circa 725 miliardi di euro- ma anche per il preoccupante mancato coinvolgimento dei parlamenti nazionali. Il modo in cui questa enorme quantità di denaro verrà spesa è ovviamente una materia di interesse pubblico per i cittadini di tutta Europa.

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Cosa è rimasto della «piena trasparenza»

Senza la catastrofe della pandemia ogni proposta di costituire un budget comune per l’eurozona, in particolare quelle di Francia e Germania del 2018, ha sempre incontrato la ferma opposizione di molti Paesi membri, tanto che sembrava un obiettivo quasi irraggiungibile. Non che il Covid abbia istantaneamente fatto cambiare idea a tutti, certo. Le obiezioni e le preoccupazioni di diversi Paesi, primi su tutti i famosi “frugali”, hanno tenuto tutti col fiato sospeso per mesi, e ancora non cessano del tutto.

Una prudenza eccezionale è più che comprensibile. Il presidente della Corte dei Conti Europea (ECA), Klaus-Heiner Lehne, ha sottolineato come il Recovery Plan rappresenti un «cambiamento significativo nelle finanze Ue. Comporta un’evidente necessità di controlli efficaci su come il denaro europeo verrà speso, e sul raggiungimento o meno degli obiettivi che si propone».

Ma un’altra fonte all’interno della ECA, che ha chiesto di non essere identificata, ha detto ai giornalisti di Recovery Files che non ci sono sufficienti risorse né personale per tenere sotto controllo le spese di tutti i piani nazionali dei vari paesi. OLAF, l’agenzia antifrode europea, dal canto suo ha sollevato un allarme sul concreto rischio che tali fondi possano essere abusati.

Quando Ursula von der Leyen ha presentato il fondo a luglio 2020, aveva anche detto che i parlamentari europei avrebbero avuto «piena voce in capitolo sulla struttura [del fondo] e sul suo funzionamento» e che «la Commissione avrebbe garantito piena trasparenza». A oltre un anno di distanza da queste dichiarazioni, però, si può affermare che le cose non sono andate esattamente così.

PNRR e cittadini

I finanziamenti totali a disposizione di ciascun Paese e il corrispettivo pro capite

Il fondo messo in piedi dall’Unione europea, e il modo in cui dovrà essere utilizzato, è stato fondamentalmente regolamentato dai soli poteri esecutivi, cioè dalla Commissione stessa e dai governi degli Stati membri. Al contrario i parlamenti, tanto quello europeo quanto quelli nazionali, hanno avuto ben poca voce in capitolo.

Obbligo di riforme, altrimenti scatta il “freno d’emergenza”

Nei due Paesi politicamente più rilevanti per l’approvazione di questo piano, Francia e Germania, la stesura dei PNRR nazionali si sarebbe limitata a un rimaneggiamento di piani già fatti in precedenza. I Verdi tedeschi in particolare hanno lamentato questo approccio semplicistico e il fatto che non sia stata data possibilità al Bundestag di discutere e votare il piano direttamente. Anche il partito liberale (FDP) ha criticato la chiusura del dibattito: «Non abbiamo nessuna influenza diretta [sul PNRR tedesco, ndr] – ha detto il deputato liberale Otto Fricke – né sulle entrate, né sulle spese». In Francia il governo Macron ha rassicurato i parlamentari sul fatto che le richieste di riforme fatte da Bruxelles per l’approvazione del piano erano già in linea con quelle promesse in campagna elettorale: «La Commissione non ci imporrà nuove riforme che non siano state già validate dal popolo francese», ha detto lo scorso aprile il ministro dell’Economia Bruno Le Maire.

Eppure, sebbene inclusa solo in termini piuttosto vaghi, il PNRR francese include anche la riforma del sistema pensionistico, un tema potenzialmente esplosivo per la politica d’oltralpe. Infatti alcuni economisti e il socialista Arnaud Montebourg, candidato alle presidenziali del 2022, sottolineano come la presenza di tale riforma nel PNRR la renda di fatto quasi obbligatoria, anche se non è ancora calendarizzata in termini di traguardi da raggiungere.

Un problema analogo c’è anche in altri Paesi, come la Spagna, dove il nodo principale rischia di essere la riforma del mercato del lavoro, e anche in Italia, dove a preoccupare gli analisti è principalmente la riforma fiscale.

Il piano per la ripresa dell'Europa, glossario

Next Generation EU: è uno strumento temporaneo per la ripresa da oltre 800 miliardi di euro, che contribuirà a riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia di coronavirus.

Il dispositivo per la ripresa e la resilienza: da cui prendono il nome i piani nazionali di ripresa e resilienza (PNRR) è il fulcro di NextGenerationEU, e metterà a disposizione 723,8 miliardi di euro di prestiti e sovvenzioni per sostenere le riforme e gli investimenti effettuati dagli Stati membri.

Assistenza alla ripresa per la coesione e i territori d’Europa (REACT-EU): NextGenerationEU stanzia anche 50,6 miliardi di euro per REACT-EU, una nuova iniziativa che porta avanti e amplia le misure di risposta alla crisi. Le risorse saranno ripartite tra:
– il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR)
– il Fondo sociale europeo (FSE)
– il Fondo di aiuti europei agli indigenti (FEAD)

Tali risorse aggiuntive saranno erogate nel periodo 2021-2022.

All’interno di Next Generation EU sono confluiti anche i fondi già esistenti per la transizione ecologica (Just Transition Fund) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale.

Queste riforme strutturali, che tendono a generare lunghi e difficoltosi dibattiti in parlamento, rischiano di essere affrettate dalla necessità di rispettare gli accordi presi ora con la Commissione, pena l’interruzione delle erogazioni di fondi anti-Covid.

Dall’entrata in vigore nel 2009 del Trattato di Lisbona, la carta fondamentale che distingue le competenze di Unione europea e Stati membri, “ce lo chiede l’Europa”, è stato il ricatto strumentale impiegato dai governi di tutta Europa per tagliare il dibattito parlamentare sul merito di alcune riforme, scegliendo a seconda delle inclinazioni politiche nell’infinito prontuario di regolamenti, direttive e procedimenti di infrazione prodotto ogni anno da Bruxelles.

Questa volta, però, non è retorica: il rischio dell’esclusione dal più grande pacchetto di aiuti comunitari mai erogato se non si rispettano le promesse di riforma è una minaccia molto concreta. È previsto dal cosiddetto “freno d’emergenza”, un meccanismo di controllo che permetterebbe il blocco dei fondi in arrivo da Bruxelles verso uno specifico Paese se determinati traguardi non sono raggiunti nei tempi previsti dai piani. È stato uno dei principali risultati della linea dei quattro “frugali”: Olanda capofila seguita da Austria, Danimarca e Svezia.

Questo sistema però rischia di avere conseguenze negative specialmente sui Paesi più poveri. David Bokhorst, ricercatore associato all’Istituto universitario europeo di Firenze, spiega che con questo sistema «i parlamenti nazionali potrebbero sentirsi obbligati ad accettare i traguardi già stabiliti perché il loro Paese ha bisogno di fondi. Questo comporta che il controllo da parte del potere esecutivo sui parlamenti si fa più forte». Jean Pisani Ferry, economista francese e membro del think tank Bruegel, ha evidenziato come ci siano da aspettarsi «accese polemiche se la Commissione rifiuta i piani inefficaci e ritarda gli esborsi quando i traguardi stabiliti non vengono raggiunti. Il rischio è che il processo finisca in un battibecco burocratico che l’opinione pubblica non riesce a decifrare ma che fornisce munizioni ai populisti».

Gli inascoltati

In diversi altri Paesi europei i parlamenti hanno lamentato di essere stati ignorati o consultati in modo insufficiente. In Danimarca, che come l’Italia ha formalmente dichiarato di aver avuto una consultazione parlamentare sul tema, questa si è in realtà limitata a una ratifica del mandato al governo per la stesura del piano. Allo stesso modo in Belgio il parlamento ha potuto solo rinnovare il mandato al governo. In Repubblica Ceca il piano è stato discusso troppo poco a detta di alcuni parlamentari e ong, e non è stato votato in aula. In Slovenia il governo ha presentato al parlamento una versione confidenziale del piano nazionale alla fine del 2020, che è stata discussa a porte chiuse alla fine di gennaio 2021. Il governo ha dichiarato di aver ascoltato oltre duemila organizzazioni, comprese ong, sindacati, municipi e associazioni professionali. La maggioranza di queste sarebbero state “consultate” in una singola mattinata durante una presentazione online del PNRR sloveno. Alcune di queste organizzazioni hanno dichiarato che sono state invitate a mandare le loro proposte in merito, ma che non hanno avuto nessuna forma di dialogo col governo. Quando la versione definitiva del piano è andata a Bruxelles lo scorso aprile, il parlamento non ha avuto modo di votarlo.

Una fonte all’interno della ECA, che ha chiesto di non essere identificata, ha detto ai giornalisti di Recovery Files che non ci sono sufficienti risorse né personale per tenere sotto controllo le spese di tutti i piani nazionali dei vari paesi.

Considerate le controversie che ci sono fra il suo governo e Bruxelles, l’Ungheria è certamente tra i “sorvegliati speciali” in Europa. Secondo l’Associazione dei Governi locali d’Ungheria (MÖSZ) il governo centrale non ha fatto nessuna consultazione significativa sul proprio PNRR. L’associazione ha minacciato di inviare una formale protesta alla Commissione se il governo di Orban avesse continuato a «prepararsi a spendere i fondi inappropriatamente». Il sindaco di Budapest, esponente di spicco dell’opposizione a Viktor Orban, lo scorso giugno ha inviato a Ursula von der Leyen una lettera in cui denuncia che, a parte quello iniziale, tutti gli altri incontri con il governo centrale in programma sono stati cancellati per volontà dell’esecutivo. L’unica consultazione pubblica è stata fatta in base a un documento di 13 pagine pubblicato a novembre 2020, che però conteneva solo dichiarazioni di intenti generali e nessun dettaglio su come le risorse sarebbero state allocate.

Le proteste hanno avuto successo e alla fine la Commissione europea ha insistito affinché il governo di Orban organizzasse una vera consultazione. Il piano è stato pubblicato il 17 aprile scorso e subito la Commissione ha criticato la riforma dell’università prevista nel piano, segnalando che rappresentava una violazione dell’indipendenza accademica.

Alla fine buona parte della riforma dell’istruzione superiore è stata tolta dal piano, ma nemmeno la seconda versione del PNRR ungherese non è passata dal parlamento e la città di Budapest è stata esclusa completamente da ogni possibilità di ricevere fondi.

Il parlamento olandese aveva inizialmente cercato di mantenere il controllo sui negoziati a Bruxelles imponendo al primo ministro Mark Rutte la linea “frugale”, cioè il rifiuto di garantire il debito di altri Paesi. La delegazione olandese, nel frattempo, ha anche spinto per ottenere finanziamenti e aiuti di Stato per “tecnologie pulite” come l’idrogeno blu, a prescindere dai negoziati sul fondo Next Generation EU. Il parlamento olandese è venuto a sapere di queste azioni di lobby solo dalla stampa, e ha ricevuto la relativa documentazione oltre un mese dopo. Nonostante a giugno avesse approvato una mozione per richiedere che le attività legate ai combustibili fossili fossero escluse dai fondi in arrivo dall’UE, questi contributi alla fine sono stati inseriti in diversi PNRR nazionali, incluso quello olandese.

La voce delle lobby

Se quindi i rappresentanti eletti delle democrazie europee hanno avuto relativamente poco spazio, sembrerebbe che al contrario interessi privati ne abbiano avuto molto di più, per discutere temi cruciali come la transizione ecologica.

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In Italia, dove il PNRR è stato steso fondamentalmente dal governo, prima da quello di Conte e poi da Draghi, l’agenda del ministro della transizione ecologica Cingolani e del suo predecessore Sergio Costa (quando ancora si chiamava ministero dell’ambiente) sono fitte di incontri con le più grandi aziende dell’energia.

Snam, Enel, Eni, Italgas, e molte altre aziende del settore energetico e petrolifero hanno avuto un numero sproporzionato di incontri sia rispetto sia alle associazioni di categoria che, prevedibilmente, alle ong come Legambiente,Greenpeace e WWF (che pure appaiono in un incontro a testa). Anche le case automobilistiche come Stellantis (la holding nata nel 2021 che raggruppa la vecchia galassia Fiat con quella di Peugeot), BMW, Mercedes, Volkswagen e Toyota hanno avuto spazio, e addirittura Costa Crociere e (ancora con il ministro Costa a gennaio 2020) Royal Carribbean.

Un rapporto dell’ong The Good Lobby, che analizza le audizioni informali nelle Commissioni della Camera dei deputati, fa un focus preciso su quelle che, fra gennaio e marzo 2021, hanno riguardato il PNRR italiano.

Secondo il report gli stakeholder esterni hanno avuto molto poco tempo per partecipare alla stesura del PNRR, ma soprattutto sono state chiamate molto tardi, tra febbraio e marzo 2021, quando sostanzialmente le decisioni importanti erano già state prese e la possibilità di contribuire era molto limitata.

Il report, in generale, sottolinea come le associazioni di categoria, anch’esse portatrici di interessi particolari, abbiano avuto enormemente più spazio di quelle della società civile, e di come il governo abbia scelto i suoi interlocutori «in modo tutt’altro che trasparente».

La partita, naturalmente, è ancora molto aperta. Mano a mano che si chiarisce dove esattamente e con che tempi arriveranno gli aiuti europei l’esigenza di un monitoraggio sull’esecuzione del PNRR è sempre più sentita. Il progetto Recovery Files è appena all’inizio e nei mesi a venire continuerà tenere alta la guardia non solo sull’efficienza del processo di riforma ma soprattutto alla sostanza dei progetti e la loro aderenza ai principi che li dovrebbero ispirare.

CREDITI

Autori

Giulio Rubino

In partnership con

Il team di Recovery Files

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Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

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Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea
Foto: martinbertrand/Shutterstock

Estremadura, terra di sacrificio

#GreenWashing

Estremadura, terra di sacrificio

Dani Domìnguez

L’Estremadura è una terra sfortunata. Ricca di importanti risorse naturali, la sua popolazione ne beneficia ben poco. Spogliata della sua ricchezza, dei suoi capitali, […] il sistema gli offre generosamente i detriti dello sviluppo sotto forma di centrali nucleari, cartiere, impianti di trattamento dell’uranio… aggiungendo alla precedente colonizzazione economica, culturale, politica, un colonialismo ecologico, più minaccioso e irreversibile.

Così iniziava, nel 1978, il primo capitolo del libro “L’Estremadura saccheggiata”. Questo passaggio, purtroppo, non è anacronistico nel 2021. L’Estremadura è ancora segnata da un modello economico estrattivista considerato superato nei paesi sviluppati, e col quale si intende continuare a nutrire un territorio che finisce, piuttosto, strozzato dalle sue conseguenze.

Oggi in Estremadura ci sono più di 200 progetti di miniera a cielo aperto, fra quelle attive, quelle previste e quelle esaurite. Nel sottosuolo inoltre sono stati scoperti importanti giacimenti di litio, un minerale molto importante per la transizione ecologica e potenzialmente un’enorme nuova fonte di profitto per l’industria mineraria.

I progetti di nuove miniere nella regione si stanno infatti moltiplicando. Secondo Elena Solís, avvocato ambientale e coordinatrice nazionale per le questioni minerarie dell’ONG Ecologistas en Acción, l’Estremadura è il nuovo oggetto del desiderio per l’industria mineraria, per diversi fattori.

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#GreenWashing

Egitto, la svolta green è una farsa

Durante la Cop27, il Paese ha siglato accordi con l’Ue per forniture di energia verde. Ma resta impantanato nelle fonti fossili. A Sharm e dintorni, è una colata di (nuovo) cemento

L’illusione verde

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Uno di questi è proprio il suo passato. «Molti di questi progetti sono costruiti sopra quelli più vecchi, il che è una garanzia per le aziende», spiega. Inoltre, le grandi imprese tendono a preferire quei territori ricchi di materie prime dove però la mobilitazione sociale sia scarsa, e l’Estremadura soddisfa entrambi i requisiti. Qui infatti «C’è molta società politica e pochissima società civile” afferma Manuel Cañada, deputato regionale tra il 1992 e il 2003, nonché segretario del Partito Comunista dell’Estremadura e coordinatore regionale di Izquierda Unida (IU) «C’è una struttura politica clientelare che resiste da decenni e allo stesso tempo una società civile molto debole».

Sono fattori, questi, su cui le aziende contano apertamente: «Questa zona scarsamente popolata è molto adatta per l’esplorazione e l’estrazione mineraria», ha scritto Valoriza Minería – una controllata della società di costruzioni Sacyr – in un documento interno sui suoi progetti in Estremadura. Valoriza Minería non ha risposto alle domande di Irpimedia. Oggi però, questa voce addormentata, la “voz dormida” come la definisce la scrittrice estremaduregna Dulce Chacón, che le grandi aziende minerarie speravano di incontrare, si è svegliata.

I collettivi anti-miniere sono riusciti a mobilitare una parte consistente della popolazione. Uno dei gruppi più attivi è la Plataforma Salvemos la Montaña de Cáceres, nato a luglio 2017 per cercare di fermare l’autorizzazione della miniera di San José Valdeflórez, una miniera di litio a cielo aperto a meno di due chilometri dalla città di Cáceres, il cui centro storico è Patrimonio dell’Umanità per l’UNESCO. «Il danno e i rischi per la popolazione sarebbero incalcolabili» denunciava a fine marzo Montaña Chávez, portavoce del gruppo. La miniera è un progetto congiunto proprio di Valoriza Minería, assieme alla multinazionale australiana Infinity Lithium.

Gli attivisti hanno organizzato una marcia di quattro giorni a piedi, per ottenere un incontro con il presidente della Giunta del Governo autonomo della regione, a Mérida. Il socialista Guillermo Fernández Vara, infatti, aveva rifiutato fino ad allora ogni tipo di incontro. Dal suo ufficio, non hanno risposto alle domande di Irpimedia.

Un “Governo regionale proattivo” per l’industria mineraria

Oltre alla diversità geologica e alla ricchezza mineraria, l’Estremadura ha due caratteristiche che la rendono particolarmente interessante per le grandi società estrattive: «Stabilità giuridica, tasse e commissioni basse, importanti aiuti e incentivi» e un «governo regionale proattivo e coinvolto nello sviluppo del settore minerario».

I progetti di nuove miniere nella regione si stanno moltiplicando. Secondo Elena Solís, avvocato ambientale e coordinatrice nazionale per le questioni minerarie dell’ONG Ecologistas en Acción, l’Estremadura è il nuovo oggetto del desiderio per l’industria mineraria

I virgolettati vengono da un opuscolo pubblicato dalla stessa Giunta dell’Estremadura nel 2019 con il titolo di “Estremadura (Spagna), una regione mineraria in Europa”, e nel quale sono esposte le ragioni per investire nel settore minerario in questa regione. 

Oltre ai vantaggi già citati, viene messa a disposizione degli investitori anche una “infrastruttura geologico-mineraria, geochimica e geofisica regionale completa” e il Sistema informativo geologico e minerario dell’Estremadura (SIGEO), un portale dove vengono raccolte tutte le informazioni geologiche della regione.

Secondo Anxo Pirés, dottore in Scienze Documentali e membro del collettivo Alconchel y comarca de Olivenza sin minas (attivo nelle due municipalità di Alconchel e di Llanos de Olivenza, nel sud della regione), il SIGEO è uno strumento unico al mondo: «Stiamo pagando con soldi pubblici degli strumenti che servono solo alle aziende private. È una vergogna» dice.

Ma la miniera di San José Valdeflórez a Cáceres si è attirata anche critiche interne al partito di governo. Il sindaco della città, il socialista Luis Salaya, ha infatti minacciato di dimettersi se il piano della miniera dovesse andare avanti. «Se la Giunta dell Estremadura autorizzerà il progetto minerario di Valdeflórez, il PSOE non avrà più un sindaco a Cáceres perché presenterò le mie dimissioni», ha detto.

Salaya sostiene che «nessuna fabbrica di batterie sarà alimentata dal giacimento di litio della miniera di Valdeflores de Cáceres, perché il PGOU (Piano Urbanistico Generale, ndr) non lo consente» e, inoltre, «una larga maggioranza dei consiglieri del Consiglio Comunale di Cáceres si sono opposti a questo progetto».

Manifestazione tra Cáceres e Mérida per chiedere al presidente dell’Estremadura di fermare il progetto Valdeflórez – Foto: Santi Màrquez
Tuttavia, il sindaco non è contrario allo sviluppo minerario in generale, e altri giacimenti a suo avviso potrebbero essere utilizzati «qualora abbiano il sostegno della popolazione locale e siano rispettosi dell’ambiente». Montaña Chávez ha un opinione più radicale: «il territorio non può essere raso al suolo. Non possono venire a espropriare le terre delle famiglie che si dedicano all’agricoltura, all’allevamento o al turismo naturalistico per permettere a una società straniera di cancellare tutto».

La società straniera, in questo caso, sarebbe l’australiana Infinity Lithium, partner dell’impresa di costruzioni spagnola Sacyr – che controlla Valoriza Minería– in questa operazione. A novembre dello scorso anno, Infinity Lithium ha assunto l’ex leader di Ciudadanos (centrodestra liberale, ndr) in Estremadura, Cayetano Polo, come responsabile delle relazioni istituzionali in Spagna, per sbloccare il progetto. L’azienda insiste che «non è opportuno parlare di porte girevoli» in questo caso e sostiene che Polo, «ingegnere con una vasta esperienza in imprese multinazionali, era il candidato perfetto».

La miniera di San José Valdeflórez a Cáceres si è attirata anche critiche interne al partito di governo. Il sindaco della città, il socialista Luis Salaya, ha infatti minacciato di dimettersi se il piano della miniera dovesse andare avanti

Al momento, tuttavia, il progetto ha notevoli difficoltà ad andare avanti. Il Consiglio infatti, lo scorso aprile ha negato il permesso esplorativo all’azienda e a luglio ha respinto i ricorsi presentati da Infinity Lithium. Sebbene vi siano ancora altre autorizzazioni in attesa di approvazione nelle mani del Ministero dell’Industria, le possibilità di approvazione sono scarse. Nonostante ciò, la società ha dichiarato a Irpimedia di aver avviato «una risoluzione contenzioso-amministrativa con la Corte Superiore di Giustizia dell’Estremadura» per «difendere i diritti sui permessi di ricerca che la Giunta dell’Estremadura aveva concesso in primo grado» nel 2015.

Transizione ecologica e Greenwashing

Dall’inizio della febbre mineraria in Estremadura, sia le aziende private sia l’amministrazione locale hanno fatto di tutto per convincere l’opinione pubblica dei benefici della “rivoluzione industriale del XXI secolo”, così definita quest’anno dal presidente della regione, Guillermo Fernández Vara.

Per quanto la miniera di San Jose Valdeflores a Cáceres sia presentata come rispettosa dell’ambiente circostante, dotata di “muri vegetali” per impedire la diffusione delle polveri e di un impianto a osmosi inversa per il riciclaggio interno delle acque, gli elementi principali usati nella stessa cartella stampa di presentazione del progetto per dimostrarne la sostenibilità sembrano essere due: l’importanza del litio nello sviluppo di veicoli elettrici, e l’integrazione dell’intero processo di produzione delle batterie in un unico luogo, che quindi ridurrebbe l’impatto ambientale legato al trasporto delle materie prime.

Nel documento il litio è descritto come «un minerale chiave e strategico a livello mondiale» nello sviluppo delle energie rinnovabili e una materia prima «essenziale e insostituibile» per la fabbricazione di batterie. L’idrossido di litio, dicono, è la «pietra angolare dello sviluppo dei veicoli elettrici». Non ci sono molti altri dettagli su come questa sostenibilità potrà essere garantita, soprattutto a livello locale.

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La sostenibilità ambientale della miniera di Cáceres dipenderebbe insomma più da elementi esterni al progetto minerario che da quelli interni. Ma per quanto l’elettrificazione dei trasporti sia un prerequisito per abbatterne l’impatto climatico, a meno che l’elettricità per caricare queste batterie non sia prodotta da fonti rinnovabili, non ci sarà nessun vero miglioramento per il clima. I veicoli caricati con elettricità prodotta da fonti fossili possono al massimo spostare il problema delle emissioni dai grandi centri urbani a quelli vicini alle centrali elettriche, ma a livello globale potrebbero rivelarsi anche più dannosi.

Infatti, ogni trasformazione da una fonte di energia primaria (da energia chimica a energia elettrica, da elettrica a cinetica) comporta un’inevitabile perdita di potenzialità: è più efficiente bruciare combustibile fossile direttamente dentro il motore di una macchina che usarlo per fare elettricità, poi trasportata per lunghe distanze fino a una colonnina di ricarica, che a sua volta carica una batteria, che a sua volta spinge un auto. A questo si aggiunge tutto il ciclo di produzione e smaltimento delle batterie, un intero nuovo ciclo industriale da aggiungere a quelli esistenti.

Per quanto l’elettrificazione dei trasporti sia un prerequisito per abbatterne l’impatto climatico, a meno che l’elettricità per caricare queste batterie non sia prodotta da fonti rinnovabili, non ci sarà nessun vero miglioramento per il clima

Certo, utilizzare il litio presente in Europa abbatterebbe le emissioni legate al trasporto della materia prima, che altrimenti deve percorrere decine di migliaia di chilometri dai giacimenti sudamericani, australiani o cinesi, ma restano punti critici, come riconosce anche Roberto Martínez Orio, capo del dipartimento risorse minerarie presso l’Istituto geologico minerario di Spagna (IGME).

«Il litio è l’elemento più elettronegativo di tutta la tavola periodica» spiega, «ed è anche un materiale molto leggero, ideale per l’impiego nelle batterie da auto elettriche». Ma mentre i progetti per nuove miniere vengono avviati e finanziati oggi, il futuro del litio è molto più incerto: «Ad oggi non c’è un grande consumo di litio» spiega Martínez Orio a IrpiMedia «la Commissione Europea prevede però un aumento della domanda di quattro volte entro il 2030, e addirittura di venti volte per il 2050. Altri studi parlano di incrementi ancora maggiori».

Se l’obiettivo è sostituire tutte le automobili in circolazione oggi con veicoli elettrici, le nuove miniere da aprire potrebbero essere innumerevoli: «la produzione annuale di litio è sulle 80mila tonnellate, contro dei valori di riserva di 15-18 milioni di tonnellate su scala globale» commenta Martínez Orio «al ritmo attuale ci sono molti anni di riserve, ma se la domanda si moltiplica di 4, 5, 10 o venti volte, le riserve saranno consumate molto più rapidamente».

Calcolatrice alla mano, al ritmo attuale le riserve dovrebbero bastare per oltre 200 anni, che però diventano poco più di dieci, se davvero il consumo dovesse crescere tanto quanto l’industria si aspetta. Certo, la storia del petrolio ci insegna che nuove risorse possono sempre essere trovate se c’è abbastanza domanda, Martínez Orio lo conferma: «Al consumarsi delle riserve, si genera un incentivo per l’esplorazione e la messa in piedi di nuovi progetti. Il concetto di riserva è dinamico, quello che oggi non è considerato come riserva perché antieconomico, al prezzo che avrà fra cinque anni potrebbe diventarlo».

Un dilemma per tutta l'Europa

di Francesca Cicculli

Ad aprile 2021, nell’Alta Valle del Reno, è stato trovato uno dei più grandi giacimenti di litio del mondo. Così grande che potrebbe essere sfruttato per produrre batterie per 400 milioni di veicoli elettrici.  Una proposta di estrazione è arrivata dalla Vulcan Energy Resources, società australiana con partecipazioni tedesche, che ha brevettato un processo chiamato “Zero Carbon Lithium”. La società australiana ritiene di poter estrarre 15 mila tonnellate di idrossido di litio all’anno entro il 2024. 

Nonostante la Vulcan stia già firmando accordi con le principali case automobilistiche europee – l’ultimo è stato con la Renault – le autorizzazioni all’estrazione non sono ancora arrivate, perché politici locali e cittadini tedeschi si stanno opponendo con forza ai progetti geotermici. Il giacimento di litio si trova infatti a diversi chilometri di profondità, lungo tre “aree di esplorazione” in cui nel 2019 sono stati rilasciati i permessi per l’esplorazione ma non per la perforazione. È proprio la perforazione a preoccupare la popolazione per gli eventuali impatti geologici che avrebbe in una zona fortemente sismica come quella dell’Alto Reno. 

C’è già un precedente: nella città di Staufen numerosi edifici si sono crepati in maniera grave a causa di una centrale geotermica presente nelle vicinanze. Le perforazioni avrebbero rigonfiato gli strati sotterranei di gesso e danneggiato le abitazioni, suscitando le reazioni dei cittadini che ora non vogliono nuove trivellazioni. In un’altra cittadina della zona, Achern, il consiglio comunale si è recentemente espresso contro il progetto della Vulcan Energy Resources sostenendo che in un’area sismica bisognerebbe evitare le perforazioni. Dalla fine del 2020, proprio ad Archen, si sono registrati numerosi eventi sismici prodotti probabilmente dalle attività della centrale Fonroch vicino a Vendenheim, a nord di Strasburgo. Nella stessa città, già nel 2018, la Vulcan aveva richiesto l’autorizzazione per la ricerca di litio, ma l’amministrazione comunale non concesse la ricerca della materia prima. 

Anche nelle aree di Gamshurst e Wagshurst si sta formando una resistenza al progetto, guidata dai sindaci Hans Jürgen Morgenstern e Gerd Boschert, che sostengono la necessità di trovare sedi europee per la produzione del litio, ma lontano dall’Alto Reno.

Marga Mediavilla professoressa di Ingegneria dei Sistemi all’Università di Valladolid e parte del Gruppo di Ricerca su Energia, Economia e Dinamica dei Sistemi della stessa università, ritiene che il concetto di transizione energetica utilizzato oggi sia miope, poiché punta solo verso le opportunità di business: «Cambiare le auto a combustione per le auto elettriche non è la soluzione», dice. Secondo i calcoli effettuati dal gruppo di ricerca in cui lavora, elettrificare il parco automobili mondiale – senza contare i mezzi pesanti –, significherebbe esaurire tutte le riserve di litio entro il 2050: «E questo tenendo conto che viene utilizzata la migliore tecnologia disponibile e che il il riciclo del materiale passa dall’attuale 15% al ​​30%. E anche così, lasceremmo le generazioni future senza litio».

Mediavilla sostiene che per fermare la crisi climatica non basta solo ridurre le emissioni di gas serra: «Il cambiamento climatico è un problema multidimensionale, legato ai cambiamenti nella biosfera. Il meglio che possiamo fare è prenderci cura della biosfera, cioè prenderci cura delle acque, dei mari, delle foreste. Se emettiamo meno ma distruggiamo tutto per aumentare l’estrazione mineraria, resteremo nella stessa situazione».

Elettrificare il parco automobili mondiale – senza contare i mezzi pesanti –, significherebbe esaurire tutte le riserve di litio entro il 2050

Un altro importante esempio di greenwashing è quello dei piani offerti nel progetto San José Valdeflórez per la ricostruzione dell’ambiente una volta terminata la vita utile della miniera. Le società coinvolte prevedono un investimento di 16 milioni di euro per la riabilitazione del terreno e tra le possibilità c’è la conversione dell’enorme cratere in «un serbatoio di acqua dolce che potrebbe essere utilizzato per attività ricreative». Per Montaña Chávez, questa opzione è irrealizzabile: «Solo le tonnellate di esplosivi ANFO (Nitrato di Ammonio – Olio Combustibile, ndr) già inquinano molto. Più i prodotti chimici da trattamento minerale». La portavoce del collettivo porta come esempio il lago tossico creato sui resti delle miniere di tungsteno sul monte Neme (Galizia). Le sue acque turchesi hanno attirato molti visitatori che hanno finito per soffrire di vomito, vertigini e irritazioni della pelle al contatto con le acque inquinate.

Martínez Orio, dell’IGME, assicura che i rischi di inquinamento connessi all’estrazione del litio dipendono dalla roccia che accompagna il minerale, cosa che deve essere valutata caso per caso. Quindi, se le rocce circostanti sono sulfuree, a contatto con l’acqua potrebbero provocarne l’acidificazione. Quanto ai rischi per salute, Martínez Orio sostiene che il litio «non ha particolari implicazioni» rispetto ad altri materiali. Riconosce che la «polvere sospesa» derivata dall estrazione a cielo aperto è un problema che deve essere controllato per evitare che raggiunga le città vicine. Tra le opzioni considerate nello spot di Valdeflórez c’è anche la potenziale conversione della cava esaurita in un anfiteatro, come è già stato fatto in Australia o Svezia. Ma questa possibilità è messa in dubbio anche dalla Giunta dell’Estremadura nei propri documenti ufficiali: «In generale, gli usi attuali degli spazi lasciati da miniere e cave abbandonate sono di natura marginale, poiché nella maggior parte dei casi l’alterazione dell’ambiente rende difficile renderlo compatibile con altri usi».

Cartelli “no alla miniera” sui resti del vecchio giacimento di Valdofloresm dove dovrebbe partire lo sfruttamento di litio – Foto: Dani Domìnguez

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Il ricatto occupazionale

«Sogno un Estremadura che abbia bisogno di manodopera, dove altri vengano da fuori per cercare occupazione». Durante il Dibattito sullo stato della regione nel 2021, il presidente Guillermo Fernández Vara ha espresso i suoi desideri per questa terra e ha anche indicato la strada per realizzarli: «Nei prossimi 4 anni, arriveranno investimenti privati per 6.594 milioni di euro», che creeranno 20.000 posti di lavoro.
Mesi prima, le aziende dietro il progetto di San José Valdeflórez avevano già scelto la stessa retorica, e nei loro enormi cartelloni verdi in diversi punti della città di Cáceres promettevano «Più di 1.000 posti di lavoro diretti e indiretti», senza neanche però nominare la parola “miniera”.

L’Estremadura ha una delle più alte percentuali di disoccupazione giovanile in tutta la Spagna, vicina al 50% e superata solo dalle Isole Canarie, dall’Andalusia e dalle due città autonome di Ceuta e Melilla. A questo si aggiungono il più alto tasso di povertà del paese e il reddito medio più basso, secondo i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica (INE) e l’Agenzia delle Entrate.

La mancanza di opportunità di lavoro da cui deriva l’esodo giovanile è uno dei principali problemi dell’Estremadura. In 30 anni, tra il 1950 e il 1980, la regione ha perso più di 710.000 abitanti. In particolare, nel quinquennio 1961-1965, 46.173 persone hanno lasciato la regione ogni anno. Lo stesso fenomeno, in misura minore, sembra ripetersi.

«L’emigrazione giovanile è massiccia», lamenta Olga Tostado, presidente del Consiglio dei giovani dell’Estremadura. Dall’inizio della crisi del 2008, ogni anno 4.400 persone sotto i 30 anni se ne sono andate. Secondo Tostado, la fuga dei giovani è legata alle poche opportunità di lavoro che la regione offre ai giovani con un’istruzione superiore. «Normalmente, se decidono di studiare all’estero, finiscono per tornare con l’aspettativa di trovare un lavoro e, non trovandolo, finiscono per ripartire», conclude.

La mancanza di opportunità di lavoro da cui deriva l’esodo giovanile è uno dei principali problemi dell’Estremadura. In 30 anni, tra il 1950 e il 1980, la regione ha perso più di 710.000 abitanti

In questo contesto, l’occupazione è diventato l’asso nella manica più importante dell’industria mineraria per cercare di avvicinare l’opinione pubblica ai suoi desiderata. In realtà, la tattica è sempre la stessa da anni. Già nel 2012 il quotidiano El Economista titolava: «Una società mineraria canadese creerà 1.000 posti di lavoro in Estremadura». L’articolo faceva riferimento alla riapertura della miniera di stagno Pedroso de Acim da parte della multinazionale Eurotin per farne «uno dei più importanti giacimenti al mondo di questo minerale».

A quel tempo era il Partito Popolare (destra politica) a governare la regione, e la vicepresidente della giunta regionale dell’epoca, Cristina Teniente, assicurò che il progetto era «un esempio di ciò di cui l’Estremadura ha bisogno», e sottolineò alcuni dati di produzione: «20 milioni di tonnellate all’anno, per un totale di 1.000 milioni di tonnellate», tenendo conto che la “vita utile” sarebbe di circa 50 anni. Così, il governo locale ha accolto il rpogetto «a braccia aperte» poiché avrebbe creato tra 700 e 1.000 posti di lavoro diretti e tra 2.000 e 3.000 posti di lavoro indiretti.

Quattro anni dopo però, il prezzo dello stagno era diminuito e l’estrazione non era più così redditizia. Oltre 14.000 curriculum erano pervenuti al consiglio comunale, ma la proposta di Eurotin era solo per l’avvio di un impianto pilota con una quarantina di addetti, cifre che poco avevano a che fare con quelle promesse qualche anno prima. Alla fine il progetto non è mai partito. L’azienda non ha risposto alle domande poste da Irpimedia.

Il progetto della miniera di litio San Jose de Valdeflores a cielo aperto – Fonte: Salvemos La Montaña

Anche i progetti associati all’apertura di miniere sono serviti a sostenere la narrativa dell’occupazione: «la fabbrica di batterie al litio da costruire a Badajoz creerà 500 posti di lavoro», dichiarava la stazione radio COPE nel giugno 2020. Ancora una volta, solo un anno dopo la cifra è praticamente triplicata: «La fabbrica di batterie creerà 1.300 posti di lavoro in Estremadura» titolava a marzo il giornale MarcaEmpleo. 

Oltre a questa fabbrica a Badajoz, la società Phi4tech intende aprire anche un impianto di trattamento del litio a Cañaveral e una fabbrica di catodi in provincia di Cáceres. La società ha un accordo “commerciale e strategico” con Lithium Iberia, quella che conta di sfruttare il giacimento di Cañaveral. Nel caso in cui la miniera non dovesse andare avanti, non verranno costruiti né l’impianto di trattamento del litio né lo stabilimento di Cáceres, sebbene la Phi4tech abbia detto a Irpimedia che la fabbrica di batterie di Badajoz partirà comunque.

Oltre 14.000 curriculum erano pervenuti al consiglio comunale, ma la proposta di Eurotin era solo per l’avvio di un impianto pilota con una quarantina di addetti, cifre che poco avevano a che fare con quelle promesse qualche anno prima. Alla fine il progetto non è mai partito

Anche in questo caso, questo piano ha l’approvazione e il sostegno della Giunta dell’Estremadura. Alla sua presentazione, a marzo 2021, hanno partecipato il presidente della Regione, il consigliere per la transizione ecologica e la sostenibilità, Olga García, e il segretario generale dell’Industria Raúl Blanco Díaz. Durante l’evento, il presidente regionale ha assicurato che sta per iniziare «una nuova era» che permetterà all’Estremadura di competere «nella lega industriale». Blanco, a nome del Ministero dell’Industria, ha descritto il progetto come «un’ottima notizia per l’Estremadura e per il nostro Paese».

Per Anxo Pirés, del gruppo “Alconchel y comarca de Olivenza sin minas” si tratta di «un progetto megalomane» il cui unico obiettivo è attrarre fondi europei. Non ne fa mistero lo stesso governo dell’Estremadura, che ha voluto inserire la fabbrica nella prima proposta che verrà portata a Bruxelles per cercare di ottenere un finanziamento dal Next Generation EU fund.

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Soldi pubblici

Secondo il rapporto di Ecologistas en Acción “Minería especulativa en España”, spesso «i governi locali e regionali, sperando di creare posti di lavoro, forniscono a queste aziende sovvenzioni e fondi». Il favore della Giunta dell’Estremadura verso l’industria mineraria, in breve, non si manifesta solo a parole.

Il 30 aprile di quest’anno si è aperta la possibilità di richiedere sussidi alla Direzione generale dell’Industria, dell’Energia e delle Miniere “per la promozione e il sostegno della sicurezza mineraria in Estremadura”. Attraverso questi contributi, PMI, liberi professionisti, cooperative e grandi aziende potranno ottenere fino al 40% dei loro investimenti come sovvenzioni, fino a un limite massimo di 40.000 euro per beneficiario.

Tuttavia, è stata la narrativa della sovranità tecnologica e mineraria che ha fatto scommettere l’Unione Europea sui progetti di miniere in Estremadura, principalmente quelli che centrati sul litio. EIT InnoEnergy è un organismo che convoglia fondi dall’Unione Europea (UE) e gestisce la European Battery Alliance (EBA), alla quale partecipa la stessa Commissione Europea, la Banca Europea per gli Investimenti e altri importanti attori industriali come produttori di automobili o di batterie. L’EBA è una delle principali lobby che sostengono l’idea di una sovranità europea su questa filiera industriale: «L’obiettivo dell’EBA è creare una catena di produzione di batterie competitiva e completamente integrata in Europa ed evitare una dipendenza tecnologica dall’Asia».

«I governi locali e regionali, sperando di creare posti di lavoro, forniscono a queste aziende sovvenzioni e fondi»

Ecologistas en Acción

Dal report “Minería especulativa en España”

Per questo motivo, i promotori della miniera di San José Valdeflórez, a Cáceres, hanno firmato un accordo con EIT InnoEnergy lo scorso anno: «La parte iniziale del pacchetto è un investimento in Infinity Lithium di 800.000 euro, con un premio del 66 % sull’ultimo prezzo negoziato del titolo», spiegano in un comunicato. Con questo finanziamento si dovrebbe coprire la fase uno del processo di lavorazione del litio. Allo stesso modo, EIT InnoEnergy si occuperebbe anche di cercare investimenti per la fase due, il cui costo è stimato tra 1,6 e 2,4 milioni di euro. Infine, «l’accordo prevede il supporto per ottenere investimenti fino a 300 milioni di euro per finanziare lo sviluppo del progetto». Sebbene la miniera sia un progetto ancora da approvare, da San José Valdeflórez assicurano che «l’accordo è ancora in vigore» e che consentirà «di installare questa industria unica a Cáceres».

EIT InnoEnergy guida anche il consorzio spagnolo Battchain, creato all’inizio dell’anno per sviluppare l’industria delle batterie per auto elettriche in Spagna. La sua intenzione è quella di richiedere fondi europei per 1.200 milioni, grazie ai quali, promettono, si potranno creare più di 1.700 posti di lavoro diretti e 12.000 indiretti. Ciò includerebbe la miniera di San José Valdeflórez, di proprietà di Infinity Lithium e Sacyr. Phi4tech, la società trainante nel progetto della fabbrica di batterie di Badajoz, cercherà anche lei di ottenere una quota del fondo Next Generation EU.

Secondo Anxo Pirés queste aziende hanno trovato nella transizione ecologica un ottimo sistema per ottenere denaro pubblico: «Le grandi lobby hanno i loro uffici davanti a quelli dei consiglieri europei. Sono un gruppo di pressione molto importante, che fa si che che i finanziamenti non vengono concessi in base alle necessità ma in base alle opportunità di business», un sistema che rischia di far fallire tutti gli sforzi per un futuro davvero più sostenibile.

CREDITI

Autori

Dani Domìnguez

In partnership con

Editing

Giulio Rubino

Con il sostegno di