Senza consenso
Francesca D’Amato
Marco Lopetuso
Chiara Sammito
Filippo Zingone
Nella cucina della sua piccola casa di Milano, Dalia gioca nervosamente con le mani sul tavolo, mentre cerca le parole per raccontare la sua storia. Ha 22 anni, e studia fashion design da tre, dopo essersi trasferita da Cosenza. Non è la prima volta che ripercorre gli eventi che hanno indelebilmente alterato il corso della sua vita e nonostante la sicurezza che traspare dalle sue parole, le si legge negli occhi la fatica del raccontare.
Natasha, 40 anni, parla della sua esperienza seduta alla scrivania del suo ufficio. Lo sguardo fisso, che si perde nei dolorosi ricordi, si alterna a occhi pieni di forza quando dice «io oggi mi sento una survivor», una sopravvissuta. Natasha e Dalia sono due donne molto diverse, ma accomunate da una violenza invisibile che ha cambiato per sempre le loro vite: il reato cosiddetto di revenge porn, vendetta porno.
Questo consiste nella creazione e condivisione non consensuale di materiale sessualmente esplicito, pubblicato su internet a scopo di rivalsa su un ex-partner. Il reato è contemporaneamente “nuovo”, perché nasce con i social network, e antico perché legato a una concezione patriarcale e violenta che ancora oggi giudica e umilia la donna per la pubblicazione di un atto intimo. D’altra parte, per l’uomo lo stesso video condiviso con conoscenti ed estranei, è visto quasi come un trofeo.
Fino a tempi piuttosto recenti, questo reato non esisteva in quanto tale nel nostro ordinamento penale. È stato introdotto solo nel luglio del 2019. Eppure il fenomeno, che colpisce in maggioranza le donne, non è nuovo. Il caso più famoso in Italia, che ha fatto nascere il dibattito sul tema è quello di Tiziana Cantone nel 2016. I video sessualmente espliciti fatti da lei con il partner sono finiti in rete senza il suo consenso. Dalle condivisioni su Facebook e Whatsapp, il materiale è presto arrivato ai maggiori siti pornografici. Lo scherno, il pregiudizio e la notorietà tossica hanno portato la ragazza a isolarsi sempre di più, lasciando il lavoro, la casa e arrivando al gesto estremo di impiccarsi, meno di un anno dopo, togliendosi la vita.
Dopo questa tragedia, per la prima volta in Italia, si è iniziato a parlare di una legge che punisse questo preciso reato. Prima di arrivare all’approvazione di quello che verrà chiamato Codice Rosso, la legge sulla violenza di genere che comprende il reato di condivisione non consensuale, anche una parlamentare del Movimento cinque stelle (M5s), Giulia Sarti, ha visto le sue foto intime girare, senza consenso, in rete.
Codice Rosso, nome in codice della legge 69/2019, è il risultato del lavoro della commissione parlamentare sulla violenza di genere, istituita nel febbraio del 2019 durante il governo giallo-verde. All’articolo 10 della legge è stata introdotta la nuova fattispecie di reato: la condivisione non consensuale di materiale sessualmente esplicito, conosciuto come revenge porn, viene punito con un massimo di sei anni di reclusione e con una multa dai 5.000 ai 15.000 euro. La nuova legge ha anche reso più efficace e tempestivo l’intervento delle forze dell’ordine e delle procure riducendo in maniera sostanziale i tempi con cui le forze dell’ordine, avvenuta la denuncia, devono produrre un fascicolo e presentarlo al pubblico ministero che si occuperà delle indagini.
Prima del 2019, la condivisione non consensuale poteva essere perseguita con il reato di diffamazione o, in alcuni di casi, con quello di stalking, definizioni che poco si adattano alle specifiche del revenge porn, e che prevedono pene molto meno gravi. Dall’approvazione della legge, come dice la senatrice Cinzia Leone del M5s «c’è stata un’impennata di denunce. Le donne si sentono più tutelate». Ma anche se le denunce sono aumentate, il fenomeno non accenna a diminuire. Questo perché la legge non può agire direttamente sulle piattaforme e i social network dove il materiale pornografico non consensuale viene condiviso, prima fra tutte l’applicazione di messaggistica Telegram, né tantomeno sulla cultura che produce questo particolare tipo di violenza.
Survivor
Natasha e Dalia però, non sono delle vittime, ma delle “sopravvissute”, al reato di revenge porn. Natasha, nel 2011, aveva iniziato una relazione sui social network che si è protratta in maniera discontinua fino al 2016. «Aveva 20 anni più di me. Al tempo il mio matrimonio viveva un momento di difficoltà e questo “uomo” si è mostrato fin da subito dolce e accogliente – dice Natasha nel parco proprio sotto il suo ufficio a Genova – ma mi sbagliavo: non riesco neanche più a definirlo uomo, mi ha rovinato la vita». Quando Natasha decide di mettere fine a questa frequentazione, l’uomo non la prende bene, non accetta di essere lasciato e inizia a tempestarla di minacce diffondendo sul web immagini intime di lei che sarebbero dovute rimanere private.
«Era il 2018. Mi ha chiamato una mia vecchia amica, una persona che non sentivo da anni. Mi ha chiesto se fosse veramente mio il profilo Facebook che l’aveva appena contattata». I contatti di Natasha iniziano a ricevere diverse richieste di amicizia da innumerevoli profili falsi in cui compaiono le sue immagini intime e i suoi dati personali: nome, cognome, indirizzo di casa e di lavoro. La bacheca Facebook di Natasha viene invasa da messaggi di conoscenti, preoccupati per il contenuto dei profili a suo nome. L’uomo, prima di passare dalle minacce ai fatti, aveva avvertito Natasha di «aver già calcolato tutto: ne esco pulito, tanto sono incensurato, al massimo mi fanno una multa». Natasha decide di agire e sporge la sua prima denuncia nel 2018.
Quattro anni dopo, il processo ancora non è iniziato. L’imputato, rinviato a giudizio, è accusato di stalking ai danni di Natasha e della sua famiglia e di diffamazione aggravata. A seguito dei fatti, la survivor trova sollievo psicologico nel centro antiviolenza (Cav) la Mascherona di Genova, grazie al supporto della dottoressa Silvia Cristiani: «La violenza sessuale fisica, come il maltrattamento, lascia segni visibili, concreti – spiega la dottoressa Cristiani – Ma il revenge porn è una violenza sessuale più subdula, lascia dei segni irrriversibili nella psiche della vittima, che rivive constantemente e all’infinito quell’abuso, ogni volta che il video o le foto vengono condivise di nuovo, su altre piattaforme».
Il trauma lascia segni e può portare le vittime a pensieri suicidi come unica possibile via di fuga, come il caso della giovane Tiziana Cantone. Natasha, dopo quattro anni passati cercando di ottenere giustizia, è cosciente del fatto che le tempistiche giudiziarie sono lunghissime e le garanzie per le vittime insufficienti. «Dopo quasi quattro anni [l’uomo che ha diffuso le mie foto intime nel 2018] continua a cercare di contattare me e le persone a me vicine», spiega Natasha. «Continua a pubblicare contenuti a me riconducibili».
L’ultima ricerca campionaria del 2021 sul revenge porn in Italia fatta da Permesso Negato prende in considerazione duemila casi rappresentativi della popolazione e mostra diverse sfaccettature del fenomeno. Anzitutto, il 4% degli italiani (due milioni di persone) è stato vittima di revenge porn, mentre il 9% conosce una vittima; l’età media è di ventisette anni con il 70% di donne, il restante uomini e il 13% del totale facente parte della comunità LGBTQ+. Ciò che colpisce maggiormente di questa analisi è la percezione che si ha del fenomeno: in Italia, infatti, una vittima su tre crede che il revenge porn non sia un reato. Nonostante il 75% degli italiani abbia sentito parlare di questo fenomeno, il 17% è convinto non sia reato e l’1% non lo considera un “fatto grave”.
Dalia a soli 15 anni conosce un ragazzo su Instagram, che sembra essere la persona dolce e premurosa che ha sempre desiderato accanto. In un momento di passione, lui le propone di filmarsi mentre fanno l’amore e lei acconsente. Alcuni giorni dopo, lui sparisce dalla circolazione e divulga il video girato insieme tra gli amici della sua squadra di calcetto senza il consenso di Dalia. Da quel momento in poi la vita della ragazza cambia drasticamente, con pesanti ripercussioni psicologiche e sociali.
«Scopro di non essere l’unica ragazza ad essere stata filmata da lui, lo aveva fatto anche con tantissime altre ragazze di Cosenza, che però non ne erano consapevoli », afferma Dalia mentre prepara il caffè nella sua nuova casa a Milano. Dopo l’iniziale diffusione nella cerchia di Cosenza, il video travalica i confini nazionali divenendo virale. Dopo un anno e mezzo il materiale finisce anche su Telegram, arrivando a 50 mila visualizzazioni. Dalia scopre di essere finita in un gruppo pubblico della piattaforma con 70 mila utenti. La ragazza sporge la sua prima denuncia nel 2018 e nel marzo del 2019 denuncia i fatti per una seconda volta. Ad oggi, il processo è ancora in corso.
I video che ritraggono Dalia non potranno mai essere rimossi dalla rete e oggi la survivor, per tutelare la sua salute mentale, non vuole essere informata sulle nuove condivisioni. La ragazza, a seguito della violenza, si è avvalsa del supporto del Cav di Cosenza ed è stata affiancata da una psicologa e da una legale. Proprio grazie all’attivismo, Dalia ha scoperto l’esistenza di innumerevoli sportelli psicologici per le vittime di violenza. Ma al momento della diffusione del video si era sentita spaesata: «Non avendo ricevuto un’educazione sessuale nella scuola, affettiva e basata sul consenso, non eravamo a conoscenza dei mezzi di cui potevamo usufruire per contrastare la violenza», afferma la survivor.
Telegram
Nonostante l’approvazione della legge 69, il fenomeno del revenge porn non accenna a diminuire anzi, è in continuo aumento. La cultura che lo produce è ancora dominante e dà vita non solo al reato in sé, ma anche a un mercato in cui video e foto diventano fonte di guadagno.
Su Telegram in particolare questo mercato del porno illegale è in continua espansione. Fondata nel 2013 in Russia, Telegram è una creazione dei fratelli Pavel e Nikolaj Durov. L’intenzione della piattaforma di messaggistica è quella di fornire uno strumento per aggirare la repressione dei media e delle opinioni nei regimi autoritari del mondo, partendo proprio dal Paese natale dei fratelli Durov. Il punto focale di Telegram sta nel garantire il completo anonimato degli utenti e delle chat. Per iscriversi alla piattaforma l’unico dato richiesto è il numero di telefono, che l’utente può decidere di oscurare. Telegram è quindi in possesso dei dati che riconducono all’identità degli utenti, ma decide di non cederli quasi in nessun caso, neanche alle autorità.
Per questo Telegram è censurato in dodici Paesi, tra cui gli Stati uniti. Nel 2014, allo scoppio della guerra nel Donbass, i fratelli Durov lasciarono il Paese natale, dopo essersi rifiutati di cedere informazioni riguardanti alcuni utenti di un gruppo a sostegno del movimento di protesta ucraino Euromaidan. Oggi la sede legale di Telegram si trova a Dubai.
L’ anonimato, garantito dalla piattaforma, la rende anche un luogo non controllabile che inevitabilmente viene usato per attività illecite: truffe, spaccio e vendita di materiali illegali. Ci sono diversi gruppi e canali Telegram che vengono denominati di “media xxx”, dove i materiali sessualmente espliciti vengono condivisi e scambiati. Il video di Dalia ha avuto questo destino. Questi video assumono un valore di scambio in base alla loro rarità, che va di pari passo alla loro illegalità. Pornografia non consensuale, pedopornografia e video di stupri vengono scambiati con altri dallo stesso contenuto.
A fianco di questo mercato di scambio, dove più il materiale scambiato è illegale più è alto il suo valore, c’è un altro mercato, in questo caso basato sulla compravendita di materiali pornografici illegali. Gli amministratori dei gruppi o canali che si occupano di “media xxx”, nel tempo collezionano i materiali di maggiore valore, cioè quelli illegali o violenti, per poi creare degli archivi da centinaia di gigabyte che vengono venduti. I gruppi si dividono in due categorie: gruppi pubblici e privati.
Entrare nei gruppi pubblici è estremamente semplice, ma su questi il materiale che gira è per la maggior parte pornografia legale. Più ci si spinge in questo mondo virtuale, chiedendo l’accesso ai gruppi privati, più il materiale che gira diventa pesante: materiale pedopornografico, di revenge porn con nome e cognome delle vittime e video di stupri reali. Per entrare nei gruppi privati basta chiedere l’accesso, e in pochi istanti si diventa “membri”. Queste chat fungono come delle bacheche di annunci dove gli utenti propongono degli scambi di materiale chiedendo ciò che cercano o proponendo ciò che hanno. Il linguaggio è molto violento nei confronti delle ragazze ritratte nelle foto e nei video e, nella maggior parte dei casi, i materiali vengono condivisi su questi gruppi a completa insaputa delle vittime. Spesso le immagini vengono rubate dai profili social delle ragazze, per poi dar vita a una vera e propria violenza sessuale di gruppo tramite dei “tributi”, ovvero delle masturbazioni filmate in diretta sulle foto delle loro vittime.
Ma come si guadagna dalla diffusione di questi materiali illegali ? Anche qui la risposta sembra essere più semplice di ciò che ci si possa aspettare. Sui gruppi di “media xxx” compaiono spesso degli annunci pubblicati da bot (utenti artificiali di Telegram) nei quali si pubblicizzano archivi di materiali pornografici illegali, detti “premium”. Sugli annunci, oltre ad essere specificati i tipi di video disponibili, è anche indicato il metodo di pagamento per accedervi: Paypal, criptovalute o buoni amazon. Il prezzo può variare dai 20 fino ai 90 – 100 euro.
In Italia su Telegram sono attivi 17 milioni di utenti al giorno. I dati forniti da Permesso Negato (organizzazione no-profit di promozione sociale che si occupa del supporto tecnologico e di feedback legale alle vittime di pornografia non-consensuale) riportano che da novembre 2020 a novembre 2021, i gruppi e canali Telegram di “media xxx” in Italia sono raddoppiati: da 89 sono passati a 190. Gli utenti iscritti a questi canali sono aumentati di tre milioni arrivando a quasi 9 milioni di utenti, praticamente un uomo italiano su tre.
Revenge porn e Telegram
Il numero di utenti non unici iscritti a canali Telegram dai contenuti espliciti dall’inizio del 2020 alla fine del 2021
L’unico modo che esiste per rallentare l’espansione di questo mercato illegale è tramite le segnalazioni degli utenti a Telegram che può decidere di cancellare i gruppi o meno. Più di questo non è previsto nella policy di Telegram, che, come detto, non cede i dati dei suoi utenti nemmeno sotto richiesta delle autorità giudiziarie. Il problema però è che nel giro di pochi minuti dalla chiusura di un gruppo, ne vengono creati di nuovi con nomi diversi. Facebook e Instagram si comportano in modo diverso cancellando i materiali segnalati ma cedendo anche i dati degli utenti che hanno condiviso questi materiali alle forze dell’ordine del Paese in cui l’utente in questione vive.
Una volta che video o foto intime e private vanno a finire in rete e su Telegram è praticamente impossibile riuscire a eliminarli dal web.
Le forze dell’ordine
Per Dalia il rapporto con le forze dell’ordine non è stato positivo a causa delle tempistiche molto lunghe e per la mancanza di formazione del personale che si interfaccia con le vittime di violenza. «Uno dei momenti in cui mi sono sentita più colpevolizzata è stato quello in cui sono andata a denunciare», dice Dalia riferendosi in particolare ad un agente della polizia: «Mi continuava a dire che non mi sarei dovuta fare riprendere, come se fossi stata io a commettere un reato».
La legge Codice Rosso del 2019 prevede un incremento della formazione specifica, del personale e della strumentazione per perseguire il reato di revenge porn. Ma a oggi, il pubblico ministero del tribunale minorile di Roma Anna Di Stasio dice di incorrere spesso in problemi dovuti alla mancanza di mezzi a disposizione, durante le indagini. L’insufficienza dei mezzi e della tecnologia a disposizione della polizia postale e degli organi giudiziari, sono stati anche percepiti da Dalia e Natasha.
Le ripercussioni sociali e psicologiche
«Uscivo solo per necessità, come per tornare a casa da scuola», racconta Dalia a più di quattro anni di distanza dall’inizio della sua vicenda. «Sul viale del ritorno, che a fine lezione era molto frequentato, ho perso il conto delle persone che si sono sporte dall’auto per darmi della puttana». Quella che Dalia ha vissuto è solo una delle tante ritorsioni sociali che una vittima di revenge porn può subire. Nel secolo della digitalizzazione, infatti, i fondamenti dei nostri paradigmi culturali si spostano in rete. La semplicità di condivisione attraverso i social ha amplificato a dismisura l’effetto farfalla che si verifica normalmente, rendendo la diffusione virtuale dei materiali capillare. La colpevolizzazione della vittima, ancor di più se donna, lo scherno e l’umiliazione, con il mezzo del web hanno quindi trovato un modo pervasivo e totalizzante di esprimersi. L’impossibilità per la polizia postale di interrompere la diffusione del materiale su Telegram porta le vittime ad essere costantemente violate per periodi di tempo indeterminati, esponendole al giudizio di sconosciuti, e ad una forte pressione psicologica, con l’avanzamento nella loro mente di idee persecutorie, ansia, fobia sociale, idee e atti suicidari.
«Quello che accade immediatamente nelle vittime è un senso di smarrimento, di perdita dei confini del sé – spiega Silvia Cristiani, psicologa che ha seguito Natasha nel centro antiviolenza La Mascherona di Genova – finiscono per percepirsi in un costante pericolo che non ha però una concretezza, una visibilità fisica come nel maltrattamento».
L’indagine dell’associazione Permesso Negato rivela che soltanto il 50% delle persone abusate denunciano l’accaduto. Le motivazioni vanno dall’imbarazzo (soprattutto tra gli uomini) e paura che diventi di dominio pubblico (32%), alla sfiducia nel sistema giudiziario (7%), fino alla paura di ripercussioni da parte della persona denunciata (10%). Spesso chi ha ricondiviso contenuti sessuali altrui senza consenso non si pente: solo il 13% dichiara di aver sbagliato, il 10% si giustifica dicendo di non essere a conoscenza che il contenuto non fosse consensuale, ma la maggioranza lo ritiene un fatto divertente o comunque non offensivo.
Cosa può esserci alla base di un fenomeno così diffuso eppure così trascurato dalla società?
Per interpretare meglio questi dati, la scrittrice e giornalista esperta in violenza di genere, Cristina Obber, offre una spiegazione culturale del fenomeno. «Ci si concentra sempre sulle abitudini della vittima, su chi fosse prima, e non ci si chiede mai invece nulla di lui, sul perché un uomo si senta in diritto di condividere una foto privata» e continua: «Sta qui il nocciolo della questione, è il maschile che si deve interrogare, dobbiamo sollecitare soprattutto il maschile e quella cultura, assorbita anche dal femminile, che va a legittimare questi comportamenti».
«La società è permeata da questa pornografia del dolore e ti chiede di dimostrare costantemente che hai sofferto, ma a me non va», dice Dalia, aggiungendo poi con la sicurezza di chi non vuole accettare altre ingiustizie: «È molto più produttivo dimostrare che dalla violenza si esce. È questo il punto focale, mostrare alle eventuali vittime di violenza non che hai sofferto, ma che dalla violenza si può uscire, qualunque tipo di violenza sia».
CREDITI
Autori
Francesca D’Amato
Marco Lopetuso
Chiara Sammito
Filippo Zingone
Editing
Giulio Rubino
Infografiche
Lorenzo Bodrero
In collaborazione con
Scuola di giornalismo Lelio Basso