Svizzera, archiviata l’inchiesta sul caso Magnitsky

17 Agosto 2021 | di Lorenzo Bodrero, Federico Franchini

Dieci anni di indagine e un nulla di fatto. Lo scorso 27 luglio, la Procura generale svizzera ha annunciato l’archiviazione del procedimento penale sul “caso Magnitsky” in Svizzera, filone processuale dell’inchiesta internazionale sul riciclaggio di denaro operato dalla Russia. La procura elvetica ha stabilito che «non sono emerse prove che giustifichino accuse da muovere contro nessuno», si legge nel comunicato stampa. L’inchiesta era nata nel 2011 con l’obiettivo di fare luce su un presunto schema di società di comodo che dalla Russia aveva dirottato verso l’Europa almeno 230 milioni di euro, di cui la fetta più importante in Svizzera. Scopo delle movimentazioni di denaro, secondo le ipotesi delle diverse procure che indagano: riciclare denaro sporco e rimetterlo in circolo nell’economia legale.

Alla base dell’indagine internazionale ci sono le denunce portate da William Browder, uomo d’affari britannico a capo di Hermitage Capital Management, allora il fondo straniero più importante su territorio russo. In pratica, Mosca ha accusato il fondo di Browder di evasione fiscale e ha redistribuito almeno una parte di quelle che in realtà erano le tasse pagate da Hermitage a un giro di società offshore vicine ai vertici del Cremlino le quali a loro volta hanno investito questi soldi per spese di ogni genere (da beni di lusso a rette universitarie) in diversi Paesi europei, tra cui l’Italia.

Le società offshore del primo anello del sistema negli anni sono state beneficiarie di moltissimi altri bonifici la cui origine è totalmente ignota.

Il processo sul presunto riciclaggio russo fatica a ottenere risultati sul piano giudiziario in Europa, ma l’archiviazione in Svizzera getta un’ulteriore ombra sul principale organo investigativo elvetico, crocevia di importanti indagini su corruzione e riciclaggio internazionale. Nello specifico, la procura svizzera – già bersaglio da due anni di pesanti critiche interne per l’inconcludenza delle sue inchieste e per gli scandali che hanno travolto l’ex procuratore generale – non è stata in grado di individuare nomi e cognomi di cittadini svizzeri o di altre nazionalità che avrebbero preso parte al presunto sistema di riciclaggio. Ha però «potuto dimostrare un legame tra una parte dei valori patrimoniali sotto sequestro in Svizzera e il reato preliminare commesso in Russia». Tradotto, il riciclaggio ci sarebbe anche stato ma è avvenuto al di fuori dei confini elvetici, ragion per cui i magistrati svizzeri hanno chiuso le indagini.

Dei 18 milioni di franchi svizzeri congelati durante l’inchiesta, la procura ha però deciso la confisca definitiva di 4 milioni come «risarcimento a favore della Confederazione».

Browder, da pupillo ad antagonista del Cremlino

Concludere le indagini senza un rinvio a giudizio «è una macchia indelebile per la Svizzera», ha dichiarato William Browder, che ha fatto della vicenda un affare personale. Il finanziere americano con passaporto britannico era tra gli uomini d’affari stranieri più in vista nella capitale russa nei primi anni Duemila. All’apice del successo, il suo fondo Hermitage Capital Management gestiva un patrimonio di 4,5 miliardi di dollari. Una buona fetta di questi era in mano a investitori russi, molti dei quali avevano accumulato una fortuna nei primi anni ’90 durante la privatizzazione dei colossi ex sovietici dell’energia.

Browder «contribuiva a rendere ancor più ricchi i suoi già ricchi clienti», con un obiettivo in più, però: «Rendere pubbliche le attività illecite delle società in cui i suoi clienti investivano, nella speranza di migliorarne il comportamente nonché il valore delle loro quotazioni», scriveva l’Economist. Nel 2005, però, qualcosa si è guastato ed è stato indicato come una minaccia per la sicurezza del Paese ed espulso dalla Russia. Pochi mesi più tardi gli uomini del Cremlino hanno fatto irruzione negli uffici russi di Hermitage, in quelli delle sue holding e dello studio legale, confiscando documenti e computer. Secondo Browder e i suoi legali, la documentazione confiscata è stata manipolata e poi utilizzata per muovere accuse pre-fabbricate contro le sue società.

Secondo i suoi legali, tra il 2008 e 2010 ignoti avrebbero «perpetrato una frode a danno delle autorità fiscali russe, la quale avrebbe condotto a un rimborso illecito di imposte per un importo equivalente a 230 milioni di dollari», scrive la procura elvetica. L’aveva scoperta Sergei Magnitsky, allora avvocato dell’hedge fund, che da Browder era stato incaricato di venire a capo del meccanismo di riciclaggio. Per le sue indagini, che indicavano diversi funzionari russi come i responsabili del colossale raggiro, Magnitsky fu arrestato e morì di incuria nel 2009 in un carcere moscovita. La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) nel 2019 ha stabilito che «privando Magnitsky di cure mediche adeguate» durante la detenzione «le autorità locali (russe, ndr) hanno messo a repentaglio la sua vita irragionevolmente».

Quella truffa, conosciuta oggi alle cronache come il Laundromat, e la conseguente campagna di sensibilizzazione portata avanti da William Browder a livello internazionale, hanno portato l’amministrazione Obama a emanare nel 2012 il Magnitsky Act, la prima serie di sanzioni economiche contro società e persone «che sono state responsabili o hanno beneficiato finanziariamente della detenzione, abuso o morte di Sergei Magnitsky; sono state coinvolte nell’attività criminale scoperta da Sergei Magnitsky; sono stati responsabili di esecuzioni extragiudiziali, tortura o altre gravi violazioni dei diritti umani commessi contro individui che cercavano di denunciare attività illegali svolte da funzionari del governo della Federazione Russa o di ottenere, esercitare, difendere o promuovere i diritti umani e le libertà internazionalmente riconosciuti in qualsiasi parte nel mondo».

Dalla Russia al Fifagate passando per la Trump Tower

Circa la metà dei fondi sequestrati dalla procura elvetica, depositati presso la banca Credit Suisse di Zurigo, appartengono a Vladen Stepanov, fino al 2010 marito di Olga Stepanova. Quest’ultima ha guidato l’ufficio 28 dell’Agenzia delle Entrate di Mosca ed è colei che avrebbe approvato i rimborsi fiscali attraverso cui l’erario russo ha camuffato la presunta redistribuzione dei soldi di Browder tra le società del “primo anello” del sistema Magnitsky. Il Tesoro americano ha inserito Stepanova nella lista dei bersagli di sanzioni dall’aprile 2013.

Altri nove milioni sono legati a Denis Katsyv e Dmitry Klyuev. Quest’ultimo, ex proprietario della banca Universal, è considerato una delle menti della presunta frode ed è uno dei personaggi più vicini ai coniugi Stepanov, con i quali ha trascorso del tempo in prossimità di alcuni importanti “rimborsi fiscali” sia a Ginevra sia a Dubai. Denis Katsyv, figlio dell’ex vicepresidente del governo regionale di Mosca, è invece il patron della cipriota Prevezon Holdings, una delle società ritenute destinatarie dei proventi della frode.

Nel 2017 la società ha pagato una transazione per riciclaggio e confisca di denaro civile al Dipartimento della Giustizia americana – un patteggiamento – dal valore di circa 6 milioni di dollari. Era stata accusata di aver riciclato nel mercato immobiliare di Manhattan il denaro proveniente dalla truffa svelata da Magnitsky. Come ha rivelato Occrp nell’ambito dell’inchiesta Fincen Files, tra le società che hanno pagato Prevezon Holdings ce n’è anche una segnalata per attività sospette dall’unità antiriciclaggio americana. Prevezon in Svizzera aveva due conti, presso le banche Edmond de Rothschild e UBS.

A difendere le sorti giuridiche della Prevezon Holdings a New York c’era Natalya Veselnitskaya, avvocata dalla carriera lampo balzata alle cronache nel giugno 2016. Erano gli ultimi frenetici mesi prima del voto che avrebbe portato gli americani a scegliere tra Donald Trump e Hillary Clinton quale inquilino della Casa Bianca. Una mail inviata a Donald Trump Jr, figlio dell’ex presidente, da un vecchio socio d’affari del padre prometteva documenti che «incriminerebbero Hillary (Clinton, ndr) e i suoi rapporti con la Russia e sarebbero molto utili per tuo padre». Pochi giorni dopo lo stesso collaboratore ha proposto un incontro con un misterioso «avvocato del governo russo».

Per approfondire

Natalya Veselnitskaya, l’avvocatessa russa contro il Magnitsky Act

Tra Svizzera e Stati Uniti, le vicende della legale che vuole l’abolizione delle sanzioni contro la Russia. Il suo nome compare nei principali procedimenti dei due Paesi: dal Russiagate fino allo scandalo Fifa all’inchiesta sul Laundromat

L’incontro ha avuto luogo il 9 giugno presso la Trump Tower e l’oscuro avvocato si scopre essere proprio la Veselnitskaya. La legale, però, era lì per tutt’altro motivo, le accuse contro la candidata Democratica sono state infatti deboli e la sua attenzione si concentra invece sul fare pressioni verso lo staff di Trump per alleggerire le sanzioni del Magnitsky Act. Un anno più tardi, le vere intenzioni di Veselnitskaya sono emerse grazie a uno scoop di Foreign Policy e per sua stessa ammissione: il suo intento era screditare William Browder per conto del Cremlino.

Quella riunione è poi finita al centro delle attenzioni dell’allora procuratore speciale Robert Muller incaricato negli Stati Uniti sui rapporti tra lo staff di Trump ed emissari del Cremlino, rapporti che avrebbero condizionato l’esito delle elezioni del 2016. Nel 2019 il Distretto meridionale di Manhattan, la stessa Corte presso la quale Prevezon Holdings ha patteggiato la sua transazione, ha imputato l’avvocato per ostruzione alla giustizia.

Le pressioni dell’avvocata contro il sistema di sanzioni alla Russia non si limitavano, però, ai soli Stati Uniti. È emerso infatti che insieme all’allora vice procuratore generale russo, Saak Karapetyan (deceduto in un incidente in elicottero nell’ottobre 2018), i due avevano messo in piedi una strategia per reclutare Vinzenz Schnell, un poliziotto svizzero di primo piano coinvolto nelle indagini di riciclaggio, le stesse archiviate lo scorso 27 luglio. L’investigatore elvetico, poi licenziato per comportamento «non autorizzato», era tra i più esperti investigatori nelle indagini legate alla Russia e ai Paesi dell’Est. Il duo Karapetyan-Veselnitskaya era riuscito a incontrarlo in Svizzera in almeno due occasioni e in Russia nel dicembre 2016 dove aveva partecipato a una battuta di caccia all’orso, una gita che gli era poi costata una condanna penale. Era uno dei più stretti collaboratori di Michael Lauber, allora alla guida della Procura generale elvetica e anche lui travolto da inchieste e scandali.

Come il suo collaboratore, Lauber aveva causato una crisi diplomatica a seguito della pubblicazione di una fotografia che lo immortalava – in ginocchio – insieme a Saak Karapetyan durante un’escursione sul lago Baikal, in Siberia. Dopo un anno di pressioni e un procedimento di impeachment, Lauber ha presentato le proprie dimissioni da Procuratore generale un anno fa a causa di due incontri segreti tra lui e l’attuale presidente della Fifa, Gianni Infantino, durante le indagini sulla corruzione nella stessa Fifa che Lauber coordinava.

Da sinistra: con la maglia numero 87, Patrick Lamon, ex procuratore svizzero andato da poco in pensione. Si è occupato dell’inchiesta Magnitsky ma non è stato lui ad archiviarla. Accanto, con il viso oscurato, il poliziotto Vinzenz Schnell, in seguito allontanato dalle forze dell’ordine elvetiche per comportamento scorretto. In giacca scura, alla destra di Schnell, c’è Saak Karapateyan, ex vicedirettore della procura generale russa, morto in un incidente con l’elicottero nel 2018. Secondo le autorità svizzere, avrebbe incontrato gli inquirenti elvetici più volte a Ginevra e Zurigo ed era in stretto contatto con Schnell. Il suo scopo sarebbe stato bloccare l’indagine sul riciclaggio russo in Svizzera. A terra, in ginocchio, Michael Lauber, ex procuratore generale della Svizzera, costretto nel luglio del 2020 a dimettersi a causa di altri incontri segreti, questa volta riconducibili all’inchiesta che stava conducendo sulla corruzione nella Fifa.

A un anno dall’allontanamento di Lauber, la sua posizione è ancora vacante e le critiche verso quello che in Svizzera è l’organo di indagine più importante del Paese non si placano, al punto che la Commissione giustizia del parlamento elvetico ha commissionato due report per una riforma sostanziale del sistema giudiziario.

Il meccanismo dei Laundromat

Il piacere proibito di Tizio è entrare nella proprietà privata di Caio per correre spensierato sul suo prato. Un giorno Tizio scivola malamente sui pantaloni. Una strisciata di verde evidente. Il prato, per altro, mostra i segni dell’incidente. Tizio lascia in fretta e furia la proprietà di Caio e cerca una lavanderia dove pulire i vestiti.

Viste le tracce sul prato, Caio si è messo in cerca del colpevole. Va alla lavanderia del paese per sapere chi ha portato dei pantaloni chiari e sporchi di erba. Sempronio, il gestore, collabora, ma la lista dei clienti di quel genere è lunga. Caio chiede per ognuno di loro di vedere il vestito sporco. Ma Tizio – e altri come lui – ha chiesto a Sempronio di portare il proprio vestito in un’altra lavanderia, con prodotti più forti per togliere le macchie. Tutto giustificato, quindi, anche se Sempronio, in cuor suo, sa che alcuni di quei vestiti in realtà erano già puliti. L’operazione, alla fine, serve solo a sviare le ricerche di Caio: il numero di lavanderie da visitare per trovare quei pantaloni diventa ingestibile. A ogni candeggio, per altro, diventa più difficile scovare segni della scivolata sul prato. Il sistema si compie quando i pantaloni tornano a Tizio, il proprietario, che può ricominciare a usarli come se niente fosse.

Sostituite i vestiti bianchi con i soldi, la macchia d’erba con un reato qualunque e la lavanderia con un fornitore di servizi bancari. Pensate che Tizio sia un criminale, Caio le forze dell’ordine e Sempronio un qualunque professionista. I Sempronio che si prestano a questi servizi sono consapevoli di come l’operazione sia finalizzata all’occultamento di soldi “macchiati”. I passaggi dei vestiti tra lavanderie sono le transazioni: legittime sulle carta, nelle ipotesi degli inquirenti servono solo a riutilizzare per l’acquisto di altro i soldi sporchi iniziali.

I paradossi della Procura svizzera

Per quanto archiviata, l’indagine sul presunto riciclaggio russo in Svizzera ha prodotto qualche risultato. Sui 18 milioni di franchi svizzeri inizialmente congelati, la procura generale ha annunciato la confisca di quattro come «risarcimento a favore della Confederazione». È ragionevole pensare che i rimanenti 14 milioni, che secondo diverse fonti apparterrebbero nella quasi totalità a Vladem Stepanov, saranno restituiti ai protagonisti della vicenda. Un dettaglio che la Procura elvetica si è guardata bene dal comunicare e che pone la questione su quali criteri la Svizzera abbia utilizzato per decidere quanti soldi erano da confiscare e quanti invece da liberare.

La spiegazione della parte da non sequestrare è legata a un problema di giurisdizione: prima di entrare in Svizzera, infatti, i soldi della presunta frode sono passati attraverso vari conti esteri, dove sono stati mescolati ad altri fondi, la cui origine non è chiara. Le modalità di confisca di questo tipo di denaro parzialmente contaminato non sono ancora state chiarite dalla giurisprudenza.

Per stimare le somme attribuibili alla presunta frode e quindi da confiscare, invece, la Procura federale ha applicato il cosiddetto metodo del calcolo proporzionale, una modalità controversa. Diversi esperti ritengono che tenda a favorire i riciclatori che dispongono di strutture capaci di diluire decine di volte il provento illecito. Tanto più che, in questo caso, i beni derivanti dalla frode sono transitati attraverso una moltitudine di società offshore non coinvolte in nessuna attività commerciale concreta. Inoltre, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, entrata in vigore in Svizzera nel novembre 2006, stabilisce che «se i proventi del crimine sono stati mescolati con beni acquisiti da una fonte legittima, tali beni possono, senza pregiudizio dei poteri di congelamento o di sequestro, essere confiscati fino al valore stimato dei proventi del crimine».

Insomma, la Svizzera ha utilizzato l’opzione più morbida e meno severa. Una scelta contro la quale Browder tenterà di opporsi. Anche se non si sa ancora se sarà possibile: i procuratori elvetici hanno infatti deciso di togliere a Hermitage lo statuto di «accusatore privato», cioè lo status di chi in Svizzera può rivalersi su un altro privato autore di una presunta infrazione nei suoi confronti. Una scelta che, se confermata dai giudici (un ricorso è già stato inoltrato), gli vieterebbe di ricorrere contro questa archiviazione.

Foto: William Browder/Wikipedia | Editing: Lorenzo Bagnoli

Super-agenti, i veri padroni del calcio mondiale

23 Febbraio 2021 | di Lorenzo Bodrero

L’onnipotenza dei procuratori nel calcio professionistico internazionale è tale da renderli insostituibili. Venticinque anni fa erano semplici agenti dei giocatori mentre oggi sono i veri artefici di compravendite multi milionarie, padroni di un settore in cui nessuno è in grado di bilanciarne il potere. Il tutto con il beneplacito, e spesso la connivenza, di club, dirigenti e calciatori. È una di quelle verità che tutti conoscono ma nessuno vuole ammettere, men che meno mettere per iscritto. Lo ha fatto, invece, il Centro studi internazionale sullo sport (Cies) – pensatoio sportivo di base in Svizzera in cui un dipartimento è interamente dedicato all’analisi dell’economia del pallone – quando nel 2018 scriveva che «i pagamenti destinati agli agenti e agli intermediari sono spesso al centro di complessi schemi di evasione fiscale» e di riciclaggio di denaro e che questi schemi coinvolgono non solo gli agenti «ma anche i proprietari e i dirigenti dei club con cui collaborano».

Lo studio è stato commissionato dalla Uefa nel 2018 e consegnato all’associazione del calcio professionistico europeo un anno e mezzo più tardi. Non è mai stato reso pubblico integralmente e ha circolato pochissimo. Tra le conclusioni del report, di cui IrpiMedia ha ottenuto una sintesi, si legge che il conflitto di interessi rappresenta il modus operandi nel calcio europeo e che la «collusione tra agenti, intermediari e club» solleva «molti interrogativi dal punto di vista penale».

I procuratori ricoprono ormai diversi ruoli. Il primo è quello di “agente”, ossia il professionista a cui il calciatore si affida per la gestione della propria carriera, dei propri diritti di immagine, degli sponsor e che fanno le veci del calciatore in fase di contrattazione di un nuovo contratto; il secondo è quello dell’“intermediario”, coinvolto esclusivamente in quest’ultima fase, colma cioè le distanze tra il club che vende, il calciatore e il club acquirente. Da quando negli ultimi anni le due figure si sono sovrapposte, si è materializzata una distorsione del mestiere, nota oggi agli addetti ai lavori con il termine di “super-agenti”. Questi non solo fanno gli interessi dei calciatori ma anche dei club, percependo commissioni dagli uni e dagli altri e dando così vita a doppie o triple rappresentanze e a evidenti conflitti di interesse.

Il report del Cies non fa nomi ma è evidente il riferimento a quel ristrettissimo circolo a cui sono iscritti i più importanti agenti sportivi al mondo. Nell’intero settore, secondo il centro studi svizzero, la mancanza di regole ha creato «una situazione da far-west nei segmenti più bassi del calciomercato e un alto livello di concentrazione nei segmenti più remunerativi».

Il potere esercitato dai super-agenti nel calcio moderno è cosa nota tra gli addetti ai lavori, ma non era mai stato ammesso da un’istituzione sportiva.

Secondo il Cies, tra il 2014 e il 2017 le commissioni pagate agli agenti hanno raggiunto i 4,75 miliardi di euro e nel solo 2022 raggiungeranno i 3 miliardi. Con il crescere del loro potere è coincisa una esplosione dei prezzi dei diritti economici dei calciatori e allo stesso tempo è cresciuta esponenzialmente la loro mobilità, ossia il numero di scambi, di calciatori tra un club e l’altro.

Al centro del controllo esercitato dai super-agenti ci sono gli “accordi per terze parti” (third-party ownership, Tpo) che, sebbene resi illegali dalla Fifa nel 2015, «sono una realtà ancora ben radicata», scrive il Cies, e «consentono agli agenti più influenti un sostanziale controllo sulla carriera dei calciatori e un potere decisionale maggiore rispetto a quello esercitato dai club». E così, mentre il potere dei super-agenti non accenna a diminuire, nel calcio da un lato aumenta la forbice economica tra i club che possono permettersi o meno di collaborare con i super-agenti e, dall’altro, lo sport più popolare al mondo diventa strumento per la criminalità economica.

Cosa sono i Tpo

Con Third-party Ownership si intende un accordo stipulato da un soggetto terzo rispetto all’ordinamento sportivo (fondi di investimento, società, soggetti privati, ecc.) con il quale questo acquisisce tutto o una parte dei diritti economici di uno sportivo o, in gergo, il “cartellino”. L’abuso dei Tpo porta il detentore a influenzare le decisioni e l’indipendenza del club in materia di trasferimenti.

Grazie alle rivelazioni di Football Leaks – la piattaforma di whistleblowing fondata dal portoghese Rui Pinto che tra il 2015 e il 2018 ha reso pubblici centinaia di contratti tra calciatori, club, procuratori e fondi di investimento – si è inoltre appreso che in molti contratti che legano un calciatore al club sono presenti clausole di rivendita secondo le quali il Tpo beneficia di una percentuale sulla futura rivendita del calciatore. Questa prassi ha sollevato polemiche circa la “dignità umana” violata del calciatore oltre a violazioni del diritto del lavoratore e a interferenze esterne al calcio. Il Tpo, infatti, antepone l’interesse economico a quello del giocatore e del club.

Super-agenti, uomini della provvidenza

L’allarme sui conti in rosso è scattato la scorsa estate. Tra campionati slittati, azzeramento degli introiti da ticketing e diritti tv in calo, in piena pandemia la serie A si è trovata a fare i conti con una crisi senza precedenti. Per l’esercizio 2019-2020 sono previste perdite per 770 milioni di euro mentre la stagione in corso rischia un’emorragia ancora peggiore. E il problema non riguarda solo l’Italia. La Uefa ha stimato mancati introiti per 4 miliardi di euro per l’intero calcio europeo.

Ma nelle crisi giacciono opportunità. Tra coloro pronti a coglierle c’è Jorge Mendes, il super-agente portoghese vincitore per dieci anni di fila del Globe Soccer Awards come miglior procuratore. L’ex gestore di nightclub ha dato il meglio di sé nella finestra di calciomercato della scorsa estate, quando tutte le società facevano i conti con le ristrettezze della pandemia. Con la sua Gestifute, l’agenzia nonché il braccio destro per le sue operazioni di calciomercato fondata nel 1996, ha lavorato sia con i club che faticavano a far tornare i conti sia con quelli più ricchi che speravano di approfittare delle difficoltà altrui. Nel farlo, in molti casi ha rappresentato tutte le parti coinvolte: il club venditore, quello acquirente e il calciatore. Ha portato Ruben Dias, suo cliente, dal Benfica al Manchester City per 80 milioni di dollari, mentre Nicolas Otamendi, un altro suo assistito, ha fatto il percorso inverso per 15 milioni di euro.

Secondo Forbes, la Gestifute è la seconda agenzia di intermediazione al mondo per la gestione di calciatori e allenatori, con un pacchetto di contratti che supera il miliardo di dollari.

La scorsa estate Mendes ha agevolato altri due accordi che hanno interessato il club inglese Wolverhampton: da un lato ha reso possibile il trasferimento dell’attaccante Diogo Jota al Liverpool per 44 milioni di euro e, dall’altro, quello del difensore irlandese Matt Doherty al Tottenham per 17 milioni di euro. Ma i “Wolves” per Mendes non sono un club qualsiasi. Sono di proprietà del conglomerato cinese Fosun International, lo stesso che detiene quote di minoranza proprio in Gestifute. Il trasferimento di Doherty ha inoltre interessato il club attualmente allenato dal primo storico cliente di Mendes, Nuno Espirito Santo, e quello allenato da uno dei suoi clienti più celebri, José Mourinho. Entrambi portoghesi.

Con il Portogallo, infatti, Mendes è legato a doppio filo. Non solo perché suo Paese natìo e per la nazionalità lusitana della maggior parte dei suoi 137 clienti, ma soprattutto perché i suoi affari molto spesso coinvolgono club portoghesi.

Uno di questi è il Porto, particolarmente afflitto dai debiti e dalla crisi economica calcistica. Così il celebre club portoghese si è rivolto a Mendes ad agosto per fare cassa. Il super-agente ha persuaso il “suo” Wolverhampton ad acquistare due giovani, e presunti, talenti dal Porto per 60 milioni di euro. Un’iniezione di contanti sull’asse Inghilterra-Portogallo che desta, quantomeno, qualche dubbio dal punto di vista meramente sportivo per la qualità ancora tutta da dimostrare dei due giovani calciatori: l’attaccante diciottenne Fabio Silva e il centrocampista ventenne Vitor Ferreira. Nella scorsa stagione, il primo aveva collezionato 180 minuti di presenze nel massimo campionato portoghese, contro i mille minuti del secondo nella serie B lusitana. Due curricula non esattamente da top player. Ferreira è cliente della Gestifute, mentre dei 40 milioni sborsati dal Wolverhampton per Silva, 7 sono andati all’agenzia di Jorge Mendes.

A fare compagnia a Jorge Mendes tra gli agenti più influenti c’è l’italo-olandese Mino Raiola. È probabilmente suo il trasferimento che più di tutti offre la misura del potere in mano ai super-agenti. Quello che nel 2016 ha portato Paul Pogba dalla Juventus al Manchester United. Un affare da 105 milioni di euro per accaparrarsi il diritto alle prestazioni sportive del centrocampista francese. Oggi, l’agente originario di Nocera Inferiore cresciuto in Olanda, conta tra i suoi clienti giocatori del calibro di Zlatan Ibrahimovic, Gigi Donnarumma, Matthijs de Ligt, Erling Haaland e Marco Verratti. Nell’affare Pogba ha rappresentato tutte le parti in causa – la cosiddetta “tripla rappresentanza” – incassando così 27 milioni di euro dalla Juventus, 19,4 milioni dal Manchester United e ulteriori 2,6 milioni di euro dal suo assistito. In totale, 49 milioni, quasi la metà dell’intero importo della transazione.

“Fora de jogo”, l’indagine portoghese per riciclaggio ed evasione fiscale

Due sono le indagini attualmente in corso che provano a fare luce sul lato oscuro del calcio europeo. La prima è l’operazione “Fora de jogo” (“fuorigioco”) condotta dagli investigatori portoghesi. A marzo 2020 la polizia fiscale lusitana ha effettuato 76 perquisizioni in tutto il Paese, inclusi i due uffici della Gestifute a Porto e Lisbona e nelle sedi dei club più importanti della Liga, tra cui Porto, Benfica, Sporting e Braga. Come portata, l’indagine non ha precedenti in Europa. Gli inquirenti ipotizzano i reati di riciclaggio di denaro ed evasione fiscale nella compravendita di almeno 49 calciatori facilitata da 14 procuratori attraverso operazioni sia nazionali sia verso l’estero tramite «un crocevia di società» basate in paradisi fiscali. L’importo totale delle transazioni sotto indagine ha raggiunto i 500 milioni di euro, secondo le dichiarazioni dell’avvocato della Gestifute, nonché di Cristiano Ronaldo, riportate lo scorso 11 gennaio dal quotidiano Jornal de Notícias.

Non è la prima volta che il super-agente portoghese finisce nel mirino delle autorità. Nel 2019 i suoi due più celebri clienti, Cristiano Ronaldo e José Mourinho, sono stati condannati al pagamento di, rispettivamente, 18,8 e 2,2 milioni di multa per aver evaso il fisco spagnolo durante gli anni della loro militanza al Real Madrid. Un destino simile ha coinvolto altri celebri assistiti di Mendes che, pur non sedendo mai al banco degli imputati, è considerato la mente dietro l’ingegnoso sistema anti-tasse di cui hanno beneficiato i suoi clienti.

L’altra indagine è quella che lo scorso febbraio ha portato la Guardia Civil spagnola a fare irruzione in due lussuose ville situate a Calvià, sull’isola di Maiorca. Una delle due è la residenza di Abdilgafar Fali Ramadani, tra i più influenti procuratori del calcio professionistico. Gli investigatori spagnoli accusano lui e i suoi soci di aver riciclato almeno 10 milioni di euro utilizzati per acquistare i due immobili e diversi yacht attraverso un complesso schema di scatole societarie, così da mascherarne i beneficiari ultimi.

Ramadani è titolare della Lian Sports, definita da Forbes la terza agenzia calcistica più importante al mondo, con un portfolio che sfiora gli 800 milioni di dollari. Dai loro uffici passano pezzi da novanta del calcio europeo: da Federico Chiesa (Juventus) a Leroy Sané (Bayern Monaco), da Samir Handanovic (Inter) a Miralem Pjanic (Barcellona). Ma anche una miriade di perfetti sconosciuti.

Proprio questi ultimi erano funzionali alle operazioni di riciclaggio. Secondo gli inquirenti spagnoli, gli agenti utilizzavano club di seconda e terza divisione in Serbia, Belgio e Cipro come “scalo” dove parcheggiare i giocatori per poi rivenderli a terzi club a prezzi lievitati. Le indagini hanno preso spunto dalle rivelazioni di Football Leaks, riprese e pubblicate nel 2016 dall’European Investigative Collaborations il quale aveva scoperto che i calciatori non erano mai scesi in campo per conto delle società “ponte” e venivano rivenduti pochi giorni dopo il loro acquisto.

Le autorità spagnole sostengono che il denaro frutto di riciclaggio derivava dalle commissioni ricevute dagli agenti in questa girandola di società calcistiche.

In questo scenario, società come Gestifute e Lian Sports cessano di essere delle mere agenzie sportive per diventare delle società di consulenza. Rappresentano il punto di incontro necessario tra investitori e club (almeno per quelli che possono permettersele) e giocano un ruolo cruciale nelle strategie delle società che controllano il calcio globale. Ne è cosciente la stessa Fifa, che proprio un anno fa ha annunciato nuove regole in arrivo per gli agenti così da provare a mettere dei paletti in un sistema, scrive la stessa Fifa, basato sulla «legge della giungla, con diffusi conflitti di interesse e commissioni esorbitanti incassate a destra e a sinistra [dai super-agenti]». Ma, come vedremo, la soluzione è peggio del problema.

Foto: lo stadio Giuseppe Meazza – Paolo Bona/Shutterstock | Editing: Lorenzo Bagnoli

Visti d’oro in Italia: ecco chi li sta utilizzando

#GoldenVisa

Visti d’oro in Italia: ecco chi li sta utilizzando

Lorenzo Bagnoli
Matteo Civillini

Nella puntata precedente abbiamo raccontato dell’approdo dei cosiddetti “visti d’oro” in Italia, osservando come si sia passati dalle diciassette candidature in due anni (2018-metà 2020) al boom nella seconda parte dell’anno appena passato, in cui un singolo studio legale che si occupa di queste pratiche ha rivelato a IrpiMedia di averne trattate oltre quaranta. In questo arco temporale, complici i decreti Rilancio e Semplificazione, un singolo studio che si occupa di tali pratiche, sentito da IrpiMedia, ha rivelato di aver istruito almeno quaranta pratiche per l’accesso alla cittadinanza per investimento. Siamo oggi in grado di aggiungere un ulteriore tassello, rivelando le società in cui i nuovi cittadini/investitori hanno investito per acquisire la cittadinanza.

Chi ha ricevuto i “golden investments”

Nel vecchio corso del golden visa, tra il 2018 e la prima metà del 2020, quattro domande andate a buon fine hanno portato al versamento di un milione di euro ciascuna in S.p.A. italiane. Per la prima volta IrpiMedia è in grado di indicare alcune delle aziende beneficiarie.

A ricevere un investimento è stata Prysmian, leader mondiale nell’industria dei cavi per la trasmissione di energia e per sistemi di telecomunicazioni. Una goccia nel mare per un colosso da 7,5 miliardi di euro di capitalizzazione. Più pesante in termini relativi, invece, la somma finita dentro Valsoia, altro beneficiario dell’Investor Visa. L’azienda specializzata in produzione di alimenti vegetali ha una capitalizzazione azionaria di circa 140 milioni di euro.

Chi siano le altre due S.p.A. ad aver incassato il milione di euro a testa non è dato sapersi. Il Ministero per lo sviluppo economico ha omesso i nomi facendo leva su un’eccezione della normativa che regola l’accesso agli atti. Unico dato certo è che si tratta di società quotate a partecipazione pubblica. Potrebbe essere una delle sei aziende controllate a maggioranza dal Tesoro: Banca Monte dei Paschi, Enav, Enel, Eni, Leonardo e Poste Italiane.

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Estratto della risposta alla richiesta di acceso agli atti di IrpiMedia presso il Ministero dello sviluppo economico

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Storia del processo che ha portato alla sbarra uno dei responsabili dei sistematici omicidi dei detenuti politici siriani. Celebrato in Germania, è stato reso possibile dal lavoro di vittime e difensori dei diritti umani. E dalla giurisdizione universale

Fino al giugno scorso sono stati solo due gli investitori che hanno barrato la casella dell’investimento in una startup innovativa. Ed entrambe hanno indicato lo stesso beneficiario: Its Energy Srl. Fondata nel 2017 a Milano, ma realmente operativa solo dall’aprile 2019, l’azienda sembra avvolta nel mistero. Online si trova solo un sito web di una pagina nella quale Its Energy promette di realizzare “la rivoluzione nel trading”. Come? Attraverso una piattaforma digitale che avrebbe lo scopo di facilitare la compravendita di crediti immobiliari, in particolare nella categoria dei cosiddetti non-performing loans (Npl). Ovvero prestiti in sofferenza che i debitori non sono sono in grado di rimborsare e che hanno un immobile come patrimonio a garanzia. Un mercato molto delicato e ad alto rischio dove, normalmente, ad acquistare portafogli di crediti deteriorati dalla banche sono fondi d’investimento specializzati. Operatori finanziari di grandi dimensioni che spesso fanno a loro volta fatica a gestire gli Npl accaparrati in fretta e furia negli ultimi anni.

L’ambizione di Its Energy sarebbe invece quella di spalancare le porte del mercato ai privati cittadini. Come si legge nel prospetto della startup, attraverso la piattaforma i singoli risparmiatori potrebbero trattare direttamente con le banche l’acquisto di crediti. Agli investitori verrebbero inoltre messi a disposizione «strumenti di realtà aumentata» allo scopo di effettuare perizie dei crediti offerti. Seppur innovativa, l’idea potrebbe attirare risparmiatori inesperti non in grado di valutare il reale grado di rischio degli investimenti.

Ad oggi, quale sia lo stato dell’arte delle attività di Its Energy non è chiaro. Nel bilancio del 2019 (l’ultimo depositato) l’azienda riportava un valore della produzione pari a zero, costi per circa mille euro e poco più di 5mila euro in disponibilità liquide. Un quadro generale molto diverso da quello di una startup di successo. Nel febbraio 2020, però, sarebbero entrati i capitali di due cittadini cinesi, che grazie all’investimento in Its Energy hanno ottenuto il golden visa.

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Il golden visa del mattone

All’inizio fu Confedilizia, il segmento di Confindustria legato all’industria immobiliare, e la Fiabci, la federazione internazionale degli immobiliaristi. Già nel 2013 le due organizzazioni di categoria chiedevano all’Italia di adottare misure per attrezzarsi con un proprio golden visa. «L’Italia – scriveva il presidente italiano di Fiabci Giancarlo Bracco in una lettera aperta rivolta all’allora primo ministro, Enrico Letta – secondo le statistiche è ai primi posti nella lista di gradimento dei Paesi preferiti da questa tipologia di investitori, i quali non sono unicamente grandi società o realtà istituzionali, ma famiglie che, investendo nell’acquisto di immobili, producono un grande beneficio per tutto il territorio».

Paradossalmente, nonostante il mondo dell’immobiliare sia quello che più si è speso per aprire l’Italia alla cittadinanza per investimento, ad oggi quello sul mattone non è uno degli investimenti possibili per ottenere l’Investor Visa. Durante un convegno organizzato a Roma nel dicembre 2017, il direttore del portale Investor Visa Italy Raffaele Miele ha precisato che «gli investimenti immobiliari possono “facilitare” il rilascio di un visto d’ingresso, sia esso per “residenza elettiva” o per “turismo”; ma, in entrambi i casi, non è “matematicamente” certo che all’investimento immobiliare corrisponda il rilascio del visto, non è consentito svolgere attività lavorativa».

Confedilizia a margine degli Stati generali dell’Economia convocati dal governo di Giuseppe Conte a giugno del 2020 ribadiva la necessità di attrarre investimenti nel settore immobiliare attraverso i golden visa, citando gli investimenti esteri nel settore immobiliare attratti dal 2013 da Malta (250 milioni di euro), Spagna (3 miliardi), Portogallo (5 miliardi) e Grecia (3 miliardi). Ad altre latitudini, Dubai ha costruito il successo degli ultimi 20 anni calamitando investimenti immobiliari dei super ricchi del mondo. In più c’è tutto il tema della ricaduta degli investimenti nell’economia reale.

Dal punto di vista di chi analizza e indaga il crimine finanziario transnazionale, però, l’esclusione del settore immobiliare è una precauzione ragionevole, dato che non è tra i più alti in termini di produttività ed è un settore privilegiato per operazioni di riciclaggio (lo scrive, per esempio il centro di ricerche dell’Università Cattolica Transcrime). Per altro, per quanto il settore lamenti la scarsità di investimenti, alcuni dei più grandi progetti con fondi esteri sono già legati all’industria del mattone. Durante la presentazione del Tour italiano attrazione investimenti del 2018, ad esempio, il Comitato investimenti esteri ha presentato, tra gli altri, il progetto per la realizzazione del centro commerciale più grande d’Europa (155mila metri quadri), il Westfield Milano, finanziato dal gruppo australiano Westfield. L’inaugurazione prevista è per il 2022, ma la pandemia potrebbe far cambiare i programmi.

Le controversie sul programma

Seppur in Italia le residenze per investimento inizino a decollare solo adesso, il mondo dei golden visa in Europa gode di una reputazione sempre peggiore. La versione di “passaporto d’oro” che offre la cittadinanza e non il visto, a Malta e Cipro è costata un’infrazione mossa dall’Unione europea a ottobre 2020. Il mese successivo, Cipro ha chiuso il programma mentre Malta promette di andare avanti senza cambiare una virgola. Il problema connaturato a questo meccanismo per attrarre capitali, in realtà, varca di molto il perimetro dei golden visa in tutte le sue varianti. Riguarda le possibili forme di concorrenza sleale provocate delle politiche di certi Paesi, con il risultato, alla fine, di facilitare reati fiscali di vario genere.

Già nel 2014 l’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ha costruito un software, il Common reporting standard (Crs), per migliorare lo scambio di informazioni tra enti di vigilanza e contrastare l’evasione fiscale. I diversi governi adottano la procedura Crs su base volontaria (nell’Europa geografica, il Montenegro, in cui vige un sistema di golden visa, non ne fa parte) principalmente allo scopo di rintracciare i soldi all’estero di un cittadino del proprio Paese. Secondo l’Ocse, le varie forme di golden visa rischiano però di vanificare il Crs, rendendo più difficile la due diligence fiscale. A questo si aggiunge il fatto che ormai numerose inchieste hanno dimostrato come siano sfuggiti ai controlli diversi pregiudicati che hanno ottenuto il visto o la cittadinanza in un Paese europeo. Per questa serie di motivi, il Tax Secrecy Index, l’indice di opacità fiscale pubblicato ogni anno dalla ong Tax Justice network, considera il fattore come negativo.

Seppur in Italia le residenze per investimento inizino a decollare solo adesso, il mondo dei golden visa in Europa gode di una reputazione sempre peggiore

L’editoriale

Passaporti d’oro: così si alimenta l’industria della diseguaglianza

Passaporti comprati a fronte di investimenti fatti nel Paese da cui si acquista la cittadinanza. La commissione europea contro lo Ius Doni: a rischio equità e giustizia fiscale

Si possono poi fare altre valutazioni, di ordine più politico. Davvero gli investimenti esteri tramite golden visa possono essere il volano della ripresa economica in Italia? I visti d’oro hanno certo contribuito a Malta o Cipro a uscire da una crisi economica, ma lo scotto da pagare sono state pesanti crisi di governo dovute principalmente alla corruzione crescente. L’industria dei visti d’oro è un settore a rischio.

C’è poi un tema legato alla giustizia fiscale. La principale agevolazione del golden visa italiano, sul piano della tassazione, consiste in un’imposta unica sostitutiva sui redditi in ingresso provenienti dall’estero, che vale per tutti i neo residenti. È sempre pari a 100mila euro. Per ciascun familiare che si vuole ricongiungere, se ne aggiunge un’altra da 25 mila euro. Ci sono poi altri vantaggi meno immediati, come lo sconto dell’imposta di successione, quello sui trasferimenti di asset da Paesi terzi in Italia e l’esenzione sul valore dei prodotti finanziari, di conti correnti, di libretti di risparmio.

In Italia il gettito fiscale si raccoglie soprattutto attraverso la tassazione sui redditi delle persone fisiche. È pari quasi al 25% del totale, più del doppio della media dei Paesi Ocse. La tassazione sui profitti delle imprese pesa per il 1,94% del Pil, contro una media Ocse di 3,14%. Il sistema è complicato e oggetto degli strali di ogni categoria. Ma al di là della giustizia, della corruzione e della fiscalità, il passaporto d’oro per gli investitori sembra essere più che altro una abdicazione della politica ai businessmen in termini di politica economica.

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Lorenzo Bagnoli
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Il processo all’eredità di Modigliani

Il processo all’eredità di Modigliani

Lorenzo Bagnoli

A meno di nuovi rinvii, il 21 gennaio 2021 a Genova inizia un processo sui presunti falsi esposti durante Modigliani, mostra che si è tenuta a Palazzo Ducale tra il 16 marzo e il 13 luglio del 2017. La procura ritiene che 20 opere su 40 esposte fossero contraffatte: di queste, 14 sono di Amedeo Modigliani, il celebre pittore e scultore livornese, le altre di Moise Kisling, pittore coevo di origini polacche naturalizzato francese. Negli ultimi anni di vita Kisling completava i dipinti che Modigliani non riusciva a terminare a causa delle condizioni fisiche precarie in cui versava. Da questa circostanza sono nati i primi storici problemi di attribuzione per Modigliani. Vissuto sempre ai limiti della povertà, l’artista livornese – detto Modì – è famoso in tutto il mondo per i ritratti con i colli allungati e le forme sinuose, essenziali ed eleganti. Apprezzato dai collezionisti e dagli storici d’arte solo dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1920, ha lasciato una grande quantità di opere che oggi valgono molto nel mercato dell’arte.

Gli inquirenti ipotizzano per la mostra di Genova i reati di ricettazione, messa in circolazione di opere contraffatte, falso materiale, falso ideologico e truffa aggravata. Le opere sono state sequestrate dal Nucleo tutela patrimonio dei Carabinieri tre giorni prima della chiusura programmata della mostra a seguito dei risultati delle analisi condotte dalla squadra di tecnici chiamata dall’esperta Isabella Quattrocchi, secondo la quale l’esposizione dei falsi è stata organizzata di proposito. Le analisi scientifiche svolte dal suo team hanno dimostrato che quattro dipinti tra quelli esposti hanno un bianco realizzato con un materiale che circola solo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, decenni dopo la morte di Modigliani.

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Il processo è l’ennesimo atto di una disputa infinita che si consuma intorno all’eredità di Modigliani. La contesa è complessa anche perché Modì è morto giovane e la figlia Jeanne è deceduta in circostanze poco chiare mentre ancora stava cercando di ultimare gli archivi del padre. Fin da quando era in vita, Modigliani è stato amato dai falsari, tanto che oggi sono 1.200 le opere che gli vengono attribuite. Quattro volte di più il numero dei pezzi censiti dal catalogo ad oggi ritenuto più affidabile, redatto dal critico Ambrogio Ceroni nel 1972. Queste 337 tele e sculture sono battute dalle case d’asta anche a centinaia di milioni di euro l’una: il sito Exhibart scrive che solo nel 2015 Modigliani «è fruttato in totale 251 milioni di dollari, incassati grazie al Nudo Disteso venduto per 170,4 milioni».

La locandina della mostra da cui è scaturito il processo di Genova

È acquisito nell’ambiente della critica che il catalogo di Ceroni sia parziale, come accade di frequente con artisti prolifici. Sono sorti diversi gruppi di studiosi ed esperti che promettono nuovi cataloghi ragionati da anni. In palio, per chi saprà accreditarsi più degli altri nella comunità scientifica, c’è un posto dentro l’istituzione che sarà custode della memoria di Modigliani. Le questioni che l’organizzazione dovrà affrontare sono due: una rivolta al passato, l’altra al futuro. La prima consiste nel distinguere le opere vere dai falsi, la seconda riguarda in prima persona la nipote, ultima erede dell’artista, Laure Nechtschein Modigliani, che per la legge francese è la persona che detiene – in pratica – il diritto d’autore su Modigliani. Sarà lei a disporre del nome del nonno come fosse un marchio.

L’affaire Modigliani

Gli inquirenti italiani, che nel corso dell’indagine hanno avuto supporto anche dall’Fbi, ritengono in sostanza che un gruppo criminale attivo tra New York, Lugano e l’Italia abbia esposto per oltre 20 anni in piena coscienza opere d’arte contraffatte allo scopo di alzarne il valore e rivenderle come dei Modigliani autentici a collezionisti poco esperti.

Il gruppo sarebbe composto dagli imputati nel processo di Genova: il curatore della mostra, Rudy Chiappini, uno storico d’arte piacentino trapiantato in Svizzera prossimo alla pensione come capo dei servizi culturali della città di Locarno; il mercante ungherese di passaporto statunitense Joseph Guttmann, proprietario di undici dei 20 quadri contestati, che guida la Global Art Exhibitions di New York; Pedro Pedrazzini, scultore e collezionista svizzero, che all’esposizione genovese ha prestato il ritratto di Chaïm Soutine, e Massimo Vitta Zelman, l’organizzatore dell’evento, che è presidente del principale gruppo editoriale specializzato in Italia, MondoMostre Skira, per il quale lavorano anche altri due imputati, Nicolò Ponzilli e Rosa Fasan.

Gli inquirenti ritengono che un gruppo criminale attivo tra New York, Lugano e l’Italia abbia esposto per oltre 20 anni in piena coscienza opere d’arte contraffatte

Fin da quando è scattato il sequestro, i protagonisti hanno dichiarato di essere al centro di un regolamento di conti interno al mondo dei professionisti, tutti ex consulenti o frequentatori del circolo di critici che girava intorno agli Archivi Legali Modigliani. Quest’ultimo è l’organismo che dagli anni Settanta si candida a tutelare la memoria dell’artista. È costituito da una raccolta di cataloghi, documenti ed expertise – le perizie utili per stabilire l’autenticità di un quadro – raccolti nel corso di una vita da Jeanne Modigliani, la figlia dell’artista scomparsa dopo una sospetta caduta dalle scale nel 1984.

I falsi e l’aumento “fittizio” del valore di un’opera

Ci sono diversi modi attraverso cui è possibile creare distorsioni nel mercato dell’arte. Uno è la diffusione di falsi. Non si commette un illecito quando si “copia” un artista, ma quando si guadagna da un pezzo “copiato” che si spaccia come originale. Di conseguenza, il reato non sta nel “falso” in sé, ma nella “contraffazione”. La separazione tra falsi “leciti” e falsi “illeciti” è un concetto giuridico ancora recente e che muterà con il tempo. Il tema pone interrogativi che vanno al di là della giustizia, ad esempio cosa sia l’arte, di chi sia la sua proprietà e quale sia il suo valore, in termini economici e non solo. In merito a quest’ultimo punto, stando stretti sul versante monetario, ci sono diversi elementi che concorrono al prezzo, di cui uno dei più importanti è il curriculum dell’opera d’arte. Semplificando, più un’opera ha viaggiato per esposizioni, più il suo valore aumenta. Nell’ipotesi dell’inchiesta genovese, il gruppo di imputati sapeva che i quadri erano falsi e li esponeva per dare spolvero al curriculum dei dipinti e venderli a collezionisti sprovveduti.

Secondo le testimonianze raccolte dalla procura genovese, la mente del sistema era Guttmann, il quale – in combutta con Chiappini – avrebbe fatto pressioni insieme al curatore per rendere i dipinti della sua collezione il cuore della mostra. Lo scopo sarebbe stato accrescerne il valore in ottica di rivenderli a collezionisti poco esperti. Attraverso pressioni su Skira – non ritenute sospette in quanto assecondate senza titubanze da Chiappini – il mercante d’arte avrebbe poi cercato di ottenere una forma di immunità per le proprie opere dal Ministero dei Beni Culturali, che però non ha accettato. L’autenticità di alcune delle opere esposte risulta a diversi critici d’arte che fosse già stata messa in discussione da decenni, ma il circolo dietro alla mostra di Genova ha ignorato le diatribe precedenti. La difesa di Guttmann sostiene che da parte del collezionista ci sia sempre stata buona fede e smentisce categoricamente l’esistenza di qualunque accordo tra curatori, espositori e collezionisti che hanno prestato le opere. Dubbi sulla modalità e i tempi del sequestro sono stati sollevati anche dai proprietari delle opere sequestrate non appartenenti a Guttmann, che al New York Times, a gennaio 2018, hanno sottolineato come nulla nel pedigree delle opere in loro possesso potesse far pensare che fossero dei falsi clamorosi, come invece dicevano gli esperti della procura. Una delle proprietarie, Giuseppina Antognoni, è riuscita a ottenere nel 2019 l’affidamento giudiziale del suo dipinto, un ritratto di quella che i critici ritengono essere Hanka Zborowska, aristocratica polacca ritratta da Modigliani. L’opera, tra le ventuno sequestrate, tramite l’affidamento giudiziale, può restare in custodia dalla proprietaria, ma non può essere esposta. Un altro disegno è stato restituito dopo un’analisi del Reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri di Roma che aveva dimostrato la compatibilità tra i materiali pittorici dei dipinti con quelli in uso ai tempi di Modigliani.

Fin da quando è scattato il sequestro, i protagonisti hanno dichiarato di essere al centro di un regolamento di conti interno al mondo dei professionisti, tutti ex consulenti o frequentatori del circolo di critici che girava intorno agli Archivi Legali Modigliani

La giornalista Rai Dania Mondini e l’ex ispettore della polizia di Stato e sociologo Claudio Loiodice hanno indagato la saga dell’eredità dell’artista in un libro pubblicato nel 2019 con Chiarelettere, L’affare Modigliani, di cui ora è disponibile anche la versione inglese The Modigliani Racket. Nel corso della loro inchiesta, i due autori portano ulteriori elementi a sostegno dell’ipotesi dell’esistenza di un gruppo criminale, aggiungendo un nome fondamentale all’ipotetico gruppo. Lo deducono da due mail ricevute dal curatore Rudy Chiappini pochi giorni prima del sequestro, a mostra ancora in corso. «… tutto deve tornare immediatamente, e spero che Lei provveda con molta diligenza», si legge in uno. «Non ha seguito i consigli… La sua posizione è molto compromessa a livello d’immagine…», dice l’altro.

L’autore di queste comunicazioni è Christian Parisot, un esperto d’arte piemontese che dal 1982 al 2015 si è dichiarato unico proprietario degli Archivi Legali Modigliani. Parisot non è stato nemmeno indagato, per quanto invece sia la persona su cui convergono le testimonianze anche di altre persone informate sui fatti. Mondini e Loiodice sostengono che anche il documento con cui Jeanne Modigliani cede gli archivi del padre sia pasticciato e, ipotizzano, forse frutto di un raggiro. Riepilogano la chiacchierata relazione tra Parisot, all’epoca studente dell’Università Sorbona, e l’erede di Modì, sua professoressa di Letteratura italiana. Parisot ha sempre negato, si è dichiarato estraneo alla vicenda di Genova e ha minacciato di querelare i due autori del libro.

Dopo la pubblicazione di L’affare Modigliani

Il 18 dicembre 2020 gli autori di L’affare Modigliani sono stati rinviati a giudizio davanti al tribunale di Trento in un procedimento per diffamazione sporto dal gallerista Fabrizio Quiriti. La procura di competenza è stata scelta sulla base del luogo dove è stato stampato il libro. Notifica della querela al tribunale, rinvio a giudizio e convocazione della prima udienza sono avvenuti in gran fretta, tanto da sollevare dubbi nei querelati. L’associazione Articolo21 si è schierata a loro favore, denunciando il caso come l’ennesimo esempio di querela temeraria. Fabrizio Quiriti è stato citato nel libro in quanto autore di quadri di Modigliani falsi, come confermato da diverse fonti – tra cui Pepi e Restellini – sentite dagli autori. Il collezionista è finito già in passato in diverse vicenda giudiziarie.

Nel 2018 è stato assolto per sopraggiunta prescrizione del reato per appropriazione indebita e la Cassazione ha comunque confermato i risarcimenti in sede civile. La vicenda riguarda fatti del 2009: all’epoca Quiriti era il gestore di fatto di una galleria di proprietà dell’ex calciatore Jonathan Zebina, grande collezionista e amante dell’arte, che all’epoca non aveva abbastanza tempo per stare dietro alla sua attività. Quiriti ha venduto cinque quadri di Mimmo Rotella a Flavio Briatore, cuneese come lui, «senza poi versare gli importi nelle casse societarie». La provvisionale del danno per Zebina è calcolata dalla Corte d’Appello di Milano in 200 mila euro, confermati in Cassazione. Uno dei veri protagonisti del libro, Christian Parisot, ha promesso azioni legali su varie testate, ma agli autori al momento non risulta alcuna querela depositata.

«Ho avuto la disgrazia di vedere il catalogo della mostra del povero bistrattato Modigliani a Genova e come temevo, rarissime sono le opere di sua mano».
Carlo Pepi

L’archivio impossibile

Lo scandalo dei falsi esposti a Genova è scoppiato prima su Facebook, tra aprile e maggio 2017, a seguito della denuncia di un appassionato con la fama di esperto. Carlo Pepi, ultra ottantenne collezionista d’arte di Crespina, nel pisano, se l’è guadagnata nel 1984, quando è stato l’unico a dichiarare false le teste di donna ritrovate a Livorno a seguito di un dragaggio dei canali. Lo scavo era stato organizzato in contemporanea allo svolgimento della mostra per il centennale della nascita, dando credito alla leggenda popolare secondo cui un frustrato Modì nel 1909 avesse gettato alcune sculture nei canali di Livorno, nei pressi di piazza Cavour. Con un incredibile colpo di scena, sul finire dell’esposizione la draga aveva riportato alla luce tre manufatti. I tre pezzi recuperati dall’escavatore, però, erano stati scolpiti da tre studenti che si sono autodenunciati in seguito alla stampa. Era stato solo uno scherzo, insomma, nel quale però erano casacati alcuni dei più importanti storici d’arte d’Italia.

Il 29 aprile 2017 lo stesso Carlo Pepi ha scritto sui social un post che ha fatto tornare alla memoria i giorni di quella beffa: «Ho avuto la disgrazia di vedere il catalogo della mostra del povero bistrattato Modigliani a Genova e come temevo, rarissime sono le opere di sua mano». È stata la prima presa di posizione pubblica, a cui ne hanno fatto seguito altre. Il mondo dell’arte, ancora una volta, si è spaccato su Modì e i suoi falsari. Per quanto osservatore ormai di fama, però, Pepi, non è un esperto in senso stretto. Non ha una bibliografia di pubblicazioni alle spalle. Non appartiene al circolo dei professionisti. Non guida una fondazione Modigliani “approvata” dai legittimi eredi. Ma ne ha fatto parte dalla prima metà degli anni ‘80 fino al 1990, sempre in contrasto con chi la guidava, cioè Christian Parisot.

Carlo Pepi, ultra ottantenne collezionista d’arte di Crespina, nel pisano, nel 1984, è stato l’unico a dichiarare false le teste di donna ritrovate a Livorno a seguito di un dragaggio dei canali

L’opera di Amedeo Modigliani Il venditore di fiori. Olio su tela, 1919 – Foto: Everett Collection/Shutterstock

La “facoltà autentica” – quindi la possibilità di assegnare a un’opera d’arte un “passaporto” che ne legittima la circolazione – è un tema molto delicato. Per gli artisti non viventi, non è una prerogativa esclusiva di un solo esperto. Il certificato è più o meno autorevole a seconda di chi l’ha redatto. I migliori sono quelli per mano degli eredi o delle fondazioni dedicate a un’artista. Queste ultime sono le istituzioni in cui si conservano gli archivi e le collezioni, che secondo il Testo Unico Sui Beni Culturali «non possono essere smembrati, a qualsiasi titolo, e devono essere conservati nella loro organicità». Questo rende i responsabili di archivi e i proprietari delle collezioni i custodi dell’eredità di un artista. Il titolo di esperto e l’appartenenza a una fondazione non implicano che l’autentica sia sempre esatta. Anche i più accreditati addetti ai lavori possono sbagliare in una scienza lontana anni luce dall’essere esatta. Capita inoltre che l’attribuzione di un’opera abbia pareri discordanti. Di solito in questi casi prevale l’esperto il cui curriculum è più accreditato per un certo artista.
Arte e riciclaggio

L’osservatorio economico ArtMarket calcola in 64 miliardi di dollari l’indotto del mercato dell’arte nel 2019. È un mercato esclusivo, molto ristretto, in cui la cerchia di collezionisti e addetti ai lavori si conosce e si frequenta. È un mercato che fa ancora molta attenzione alla tutela della privacy di chi acquista, dati i valori economici in ballo. Per questo le transazioni sono più difficili da tracciare rispetto ad altri settori. L’anonimato dei pagamenti rende l’arte un ambiente a rischio in termini di riciclaggio di denaro sporco. A conferma di una scarsa attenzione al problema, nonostante gli obblighi delle verifiche a cui sono tenuti per la normativa europea antiriciclaggio, gli addetti ai lavori della filiera dell’arte non hanno segnalato nemmeno un’operazione sospetta alla Banca d’Italia nel 2019. Lo ha rilevato Il Sole 24 Ore nel corso di un’intervista di giugno 2020 con il procuratore capo di Milano, Francesco Greco.

Quello che fa la differenza sul piano giudiziario è però l’intenzione: chi intenzionalmente trucca una perizia e dice il falso commette un illecito. Nel caso della mostra di Genova, gli inquirenti ritengono che gli imputati fossero consapevoli di quanto fosse contestata l’autenticità dei quadri esposti. Il problema, però, è che l’eredità è ancora sprovvista di un vero e proprio tutore: non esiste ad oggi un archivio Modigliani completo con un proprietario certo. È questo il cuore della battaglia su Modì. «Dire che la situazione del catalogo ragionato è un disastro è un eufemismo», è la sintesi del 2017 di Kenneth Wayne, direttore dal 2013 del Modigliani Project, uno dei tentativi di sistematizzare la raccolta delle opere dell’artista.

Le dispute sulla proprietà e il valore degli Archivi

L’Archivio Legale Modigliani conterebbe circa 6mila pezzi, tra appunti, schizzi e opere. La sua proprietà è ancora oggi contestata e, forse, ormai smembrata tra collezionisti in diverse parti del mondo. «Ma questa è solo un’ipotesi senza prove e va presa come tale», spiega a IrpiMedia Jean Olaniszyn, editore, artista e curatore ticinese che nel 2006 e 2007 ha organizzato mostre su Modì. Olaniszyn ha sollevato problemi sulle attribuzioni di Modigliani da sempre e si è schierato subito con chi ha bollato come falsi alcuni dei dipinti di Genova. Però, dice, «gli imputati possono cavarsela sul piano giudiziario», perché sarà difficile dimostrare la volontà di inquinare il mercato, visto che le opere già circolavano da tempo, e visti i dubbi sulla tenuta dell’impianto accusatorio che solleva l’assenza di Parisot tra gli imputati. Per districare la matassa di Modigliani, Olaniszyn ritiene si debba passare da un istituto da costruire intorno agli Archivi Legali e a Laure Nechtschein Modigliani, l’ultima erede.

Al contrario, il critico Marc Restellini, che insieme a Pepi ha fatto partire l’esposto alla procura genovese, sostiene che il valore scientifico degli Archivi Legali sia pressoché nullo. Studia Modì dal 1997, anno in cui ha cominciato a lavorare su un catalogo ragionato di 440 pezzi da attribuire all’artista livornese atteso già nel 2020. Nel 2015 ha creato l’Institute Restellini, organizzazione che si occupa della catalogazione e dell’analisi delle opere d’arte. «L’Istituto conosce queste opere perché sono dei falsi, noi disponiamo dell’insieme della documentazione anche scientifica per dimostrarlo – si legge in una nota pubblicata su Facebook il 24 maggio 2017 -. Si tratta di contraffazioni note per almeno un terzo dei dipinti esposti». Ha in corso una causa negli Stati Uniti per quanto riguarda la diffusione del suo studio su Modigliani, che a suo parere va trattato come un «segreto commerciale» e quindi non può essere divulgato.

Il critico Marc Restellini, che insieme a Pepi ha fatto partire l’esposto alla procura genovese, sostiene che il valore scientifico degli Archivi Legali sia pressoché nullo

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Nel novembre 2006 sembrava che i tenutari, tra cui Parisot, avessero donato gli Archivi Legali Modigliani all’Italia, fino allora tenuta fuori dall’eredità di Modì, da sempre parigina. Nel 2007 il Modigliani Institut Archives Legales, Paris-Rome, così si doveva chiamare la fondazione, aveva ottenuto la sua sede a Roma, a Palazzo Taverna. La senatrice del Movimento Cinque Stelle Margherita Corrado, autrice a giugno 2020 di un’interrogazione parlamentare in merito alla vicenda, ha scritto però che il Ministero «nega che la donazione sia mai avvenuta». Gli autori de L‘affare Modigliani sono però in possesso di documenti attraverso i quali lo stesso Parisot chiederebbe all’Italia il permesso all’esportazione temporanea di beni culturali. L’ennesimo mistero irrisolto intorno all’eredità di Modì.

Nel 2015 è subentrata come proprietaria una nuova collezionista, la italosvizzera Maria Stellina Marescalchi. Le versioni su come sia andata la compravendita anche questa volta divergono, a seconda delle parti in causa. Secondo Marescalchi (ed esponenti del mondo dell’arte come Olaniszyn) la collezionista sarebbe l’ultima legittima proprietaria, dopo l’acquisto per meno di 300mila euro da Christian Parisot. Il materiale sarebbe stato custodito e analizzato da Glenn Horowitz, importante archivista ed editore dagli Stati Uniti, che ne avrebbe in seguito stimato il valore a oltre 4 milioni di dollari. Parisot ha però contestato la ricostruzione. Attraverso il suo avvocato, ha dichiarato alla stampa svizzera a maggio 2020 di aver denunciato per appropriazione indebita Marescalchi, sostenendo che la sua intenzione era solo prestare e non vendere l’archivio, per valorizzarlo e farne una fondazione. La causa è ancora in corso. A maggio 2020 la Procura di Bellinzona ha intercettato gli Archivi nel porto franco di Ginevra e li ha sequestrati in attesa che si concludano i contenziosi giudiziari intorno alla proprietà.

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Sul giornale specializzato We Wealth, la storica dell’arte Sharon Hacker ha cercato di riportare tutta la querelle giudiziaria a una questione più profonda. Al di là di quando sarà completo il prossimo catalogo ragionato e della prossima fondazione (già ne esistono, per altro) a chi appartiene Modigliani? La guerra degli archivi può lasciar pensare che chi li detiene diventi automaticamente l’unico esperto “certificatore” di Modigliani. Invece la realtà non sarà mai così semplice, ci sarà sempre spazio per aggiornare, approfondire e colmare le lacune che ci sono sulla produzione artistica di Modigliani o chi per lui. Le divergenze tra punti di vista degli esperti dovrebbero essere un valore, almeno sul piano culturale. Al contrario, sono state tenute al di fuori del patrimonio di conoscenza pubblico e sono sempre emerse come contrasto tra “campioni” di Modigliani. È chiaro che l’interesse artistico per Modì sia l’ultimo dei problemi e che il confronto sia solo per evitare di deprezzare pezzi che circolano nel mercato dell’arte.

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Segretezza e scatole vuote: Londra prova a ripulire l’immagine del suo registro imprese

30 Ottobre 2020 | di Matteo Civillini

Immagina di essere un grande evasore fiscale, un truffatore o, meglio ancora, il boss di un’organizzazione criminale. Hai accumulato decine (o centinaia) di milioni di euro grazie a narcotraffico, estorsioni, corruzione. Soldi sporchi che devono essere necessariamente ripuliti, senza però lasciare una traccia indelebile che possa ricondurre alla loro origine.

Vuoi muoverli, immettendoli nei circuiti della finanza globale, ma sai che aprire un conto a tuo nome potrebbe essere un grave errore. Se sei scaltro, ti affidi a un professionista, il quale ti spiega l’importanza di mettere uno schermo (idealmente più di uno) tra il tuo nome e il tesoretto e ti illustra diverse strade.

Puoi chiedere a un prestanome di aprirti una società alle Isole Vergini Britanniche, per esempio, dove la famosa segretezza dovrebbe garantirti l’anonimato. Oppure, se preferisci rimanere vicino a casa e risparmiare qualche soldo, puoi semplicemente fare un salto Oltremanica: con una dozzina di sterline crei la tua società nel Regno Unito in pochi minuti senza che nessuno faccia domande. Il sistema si basa interamente sull’autocertificazione, e per mascherare la propria identità basta inserire dati falsi o parziali.

Dopo anni di pressioni da parte di società civile e giornalisti, oggi il governo riconosce che i casi di uso improprio del registro sono in costante aumento e sono strumentali all’esecuzione di reati finanziari.

Un gioco da ragazzi che, in un futuro non troppo prossimo, potrebbe però complicarsi. Almeno stando alle promesse fatte nell’ultimo mese da quei governi che, per oltre mezzo secolo, hanno chiuso un occhio su questi meccanismi arcinoti, ma redditizi.

Il primo annuncio è arrivato a metà settembre da Downing Street: una riforma senza precedenti di Companies House, il registro imprese britannico. Dopo anni di pressioni da parte di società civile e giornalisti, oggi il governo riconosce che i casi di uso improprio del registro sono in costante aumento e sono strumentali all’esecuzione di reati finanziari.

Nella serie Mafia in UK, IrpiMedia aveva raccontato come Antonio Righi, condannato per maxi-riciclaggio a favore della camorra, fosse comparso in società inglesi in compagnia di prestanome in carne e ossa e soggetti di fantasia. Come Ottavio «Detto Il Ladro di Galline», che nel registro imprese indica la professione di «truffatore». O ancora, la «Banda Bassotti Company Ltd», registrata in «Via Dei 40 Ladroni, Ali Babbà, Italy».

Non si tratta di un caso isolato. Uno studio di Transparency International dice che «scatole vuote» di diritto britannico sono stati utilizzate in almeno 89 casi di corruzione e riciclaggio, contribuendo a danni economici per circa 137 miliardi di sterline.

Mettiamolo subito in chiaro, l’iter di discussione e approvazione di una tale legge potrebbe essere lungo e travagliato, soprattutto durante un’emergenza sanitaria. Ma, se effettivamente attuata, la proposta di riforma andrebbe a toppare molte delle falle sfruttate dai criminali.

Un impianto che si basa sulla presunta buona fede degli utenti verrebbe rimpiazzato da un sistema di verifiche obbligatorie dell’identità di tutti gli amministratori e beneficiari ultimi delle società registrate nel Regno Unito. Una modifica basilare in teoria, ma che dovrebbe finalmente mettere fine ad assurdità clamorose. L’utilizzo di generalità fantasiose, come abbiamo visto, ma non solo. Una ricerca di Global Witness, per esempio, ha scovato 4mila beneficiari ultimi di aziende britanniche che dichiarano un età inferiore ai due anni.

Per approfondire

Mafie e Regno unito

Londra è diventata un’enorme zona grigia dove convergono i capitali sporchi di tutto il mondo. Una seconda casa per evasori fiscali e mafie. La nostra serie di inchieste esplora la vastità del problema

Altro punto chiave della riforma proposta è la regolamentazione più stringente degli agenti di formazione, ovvero quei soggetti che aprono aziende per conto terzi. Un mercato opaco dove spesso si annidano le illegalità più sofisticate. Nell’inchiesta 29Leaks, Irpimedia aveva raccontato gli affari sospetti di Formations House, una delle agenzie più note. Oltre 400mila aziende iscritte nel registro imprese di Sua Maestà per conto di clienti tra cui eredi della famiglia Riina, colletti bianchi al servizio di uomini della camorra, imprenditori iraniani sotto sanzione e motociclisti svedesi della gang Hell’s Angels. Nel nuovo regime di Companies House solo gli agenti di formazione «adeguatamente supervisionati» potrebbero depositare informazioni, e solo se in grado di fornire prove tangibili delle verifiche svolte sui clienti.

Terzo cardine della riforma è l’investitura a Companies House del potere di fare indagini proattive sulle informazioni inserite sul registro imprese, invece di accettare passivamente la loro validità. Un cambio di passo epocale, visto che ad oggi solo il 4% delle domande di inserimento nel registro vengono rigettate ogni anno, ed esclusivamente per errori formali di formattazione.

La proposta del governo di Johnson è stata salutata con soddisfazione da chi per anni si è battuto sull’argomento. Steve Goodrich, research manager di Transparency International UK, crede che «queste modifiche rappresentano un passo avanti significativo nel combattere il ruolo del Regno Unito come centro nevralgico del riciclaggio di denaro sporco».

Più cauta, seppur sempre favorevole alla riforma, è Helena Wood, membro del Royal United Services Institute. «Le riforme proposte sono significative, ma non hanno la portata e ambizione necessaria per ripulire l’immagine del registro delle imprese», scrive Wood in un editoriale. Il grande punto di domanda sollevato dalla ricercatrice riguarda il finanziamento dei costi aggiuntivi che tutte queste nuove prerogative comportano. La sua proposta è quella di aumentare la tariffa pagata dai clienti per aprire una nuova società, ora fissata a sole 12 sterline.

Le misure proposte dal governo devono ora affrontare il percorso parlamentare ed essere discusse nella Camera dei Comuni prima, e quella dei Lord poi, prima di essere approvate.

Nel frattempo, una settimana dopo l’annuncio del governo di Londra, un’altra apertura potenzialmente storica è stata fatta da un paese crocevia della finanza offshore e che dalla Corona inglese dipende: le Isole Vergini Britanniche (BVI).

«Le riforme proposte sono significative, ma non hanno la portata e ambizione necessaria per ripulire l’immagine del registro delle imprese»

Helena Wood, Royal United Services Institute

Il governo del territorio caraibico si è impegnato a introdurre entro il 2023 un registro pubblico dei beneficiari ultimi di tutte le società costituite nel noto paradiso fiscale. Ovvero, i nomi e cognomi di chi possiede una società sulle Isole diventerebbero accessibili. Anche qui il condizionale è d’obbligo, ma una nuova stagione votata alla trasparenza squarcerebbe quella cortina di fumo che oggi protegge, tra gli altri, mafiosi, dittatori, truffatori ed evasori fiscali.

Inchieste giornalistiche internazionali come Panama Papers o i recenti FinCen Files hanno dimostrato innumerevoli volte come le Isole Vergini Britanniche siano una delle destinazioni preferite di chi cerca di mascherare i movimenti di denaro illecito. Per Ava Lee di Global Witness si tratta di «un grande passo avanti nella lotta contro l’utilizzo dei paradisi fiscali legati al Regno Unito per fini di riciclaggio di denaro».

La decisione di aprirsi alla trasparenza non è il frutto di uno spassionato sforzo altruistico delle Isole Vergini Britanniche, che sull’industria delle segretezza hanno costruito una fortuna economica. A giocare un ruolo determinante è stata Londra, dove nel 2018 il Parlamento ha approvato una nuova legge antiriciclaggio che obbliga i Territori d’Oltremare a istituire un registro pubblico dei beneficiari. Prima delle BVI, anche altri paradisi fiscali della Corona come le isole di Jersey, Guernsey e Man avevano sottoscritto il proprio impegno a rendere pubblici i dati societari. Tuttavia, per vedere qualcosa di concreto ci vorrà tempo: bisogna aspettare fino al 2023 perché i governi presentino nei rispettivi Parlamenti misure atte a istituire registri pubblici.

C’è da notare anche che nell’annunciare la volontà’ del governo, il premier delle Isole Vergini Britanniche Andrew Fahie ha mantenuto delle riserve. «Ci deve essere prudenza ed equilibrio nel sistema, ha detto Fahie, misure sproporzionate rischiano di violare i diritti dei soggetti rispettosi della legge che sono molto più numerosi dei trasgressori».

Un tentativo, probabilmente, di addolcire la pillola per gli elettori locali, sottolineando la propria rassegnazione alle direttive della madre patria. É all’ombra del Big Ben, infatti, che bisogna cercare la determinazione politica di chiudere alcune di quelle porte lasciate aperte a riciclatori di ogni specie.

Editing: Luca Rinaldi | Foto: Deniz Fuchidzhiev/Unsplash

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