Addio ai campi rom. A Roma il problema si nasconde sotto il tappeto

Addio ai campi rom. A Roma il problema si nasconde sotto il tappeto

Antonia Ferri
Francesca Polizzi
Arianna Egle Ventre

Nino è un cittadino italiano di origine montenegrina, lo incontriamo a casa della sorella dove ora vive. Ci sta aspettando all’ingresso di un grande cancello, noi siamo dalla parte opposta della strada e ci fa segno di attraversare. «Qui è pericoloso, le macchine vanno veloci e siamo su una strada vuota». Ci guida attraverso il cortile dove ci sono varie abitazioni, poi a passo deciso si dirige verso un’entrata piena di vasi di piante e fiori. Il cortile è il regno dei bambini che corrono, urlano e si arrampicano dentro i camion del magazzino delle spedizioni che c’è lì accanto. In casa ci accomodiamo su un divano, davanti c’è il piano cottura. Accanto a noi, ripiegati con cura, ci sono coperte e lenzuola. Durante la notte, il divano diventa un letto per uno degli otto abitanti della casa. Lì vicino, un altro divano dove dorme la mamma di Nino, che ha un tumore da svariati anni. Entrambi vivevano nel campo rom di via della Monachina dal 1996, ma adesso quel luogo non esiste più: «Il primo luglio sono venuti e ci hanno detto: “dovete uscire fuori dalle vostre case”».

Il campo era nato un paio di anni prima che Nino ci si trasferisse e nel 2002 era diventato tollerato – ovvero, le autorità ne conoscevano l’esistenza e la accettavano. Era abitato da 64 persone di provenienze diverse, tra cui tutti i membri della famiglia di Nino. Accanto a lui ha una lettera di sgombero datata 1° luglio 2021.

La sua storia è comune a tantissimi altri cittadini romani di origine rom. A Roma sono cinque i campi chiusi tra il 2019 e il 2021: Camping River, Foro Italico, Area F di Castel Romano, Monachina e Barbuta.

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La geolocalizzazione dei campi all’interno della Città metropolitana di Roma

Il 31 maggio 2017 l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi annunciava il progetto per “superare i campi rom”. Il lavoro della giunta era coerente con gli obiettivi della Strategia nazionale per l’inclusione della popolazione rom, sinti e caminanti. Il primo passo è stato la stesura del Piano di inclusione di Rom Sinti e Caminanti, approvato il 26 maggio dello stesso anno. L’idea alla base era di responsabilizzare chi viveva nel campo, prendendo le distanze dalle politiche assistenzialiste delle giunte precedenti che, secondo gli autori del piano, avevano reso i rom ancor più marginalizzati.

Questa idea di responsabilità si è espressa con un documento, che è stato presentato alle famiglie residenti nei campi che lo avrebbero dovuto firmare e sottoscrivere, e che stabiliva gli impegni dei firmatari e dell’amministrazione. Questo “Patto di Responsabilità Solidale” richiedeva infatti da un lato ai firmatari di impegnarsi in tirocini per l’inserimento al lavoro e nella ricerca di una casa, dall’altra prometteva da parte del Comune un sostegno per l’affitto, della durata limitata di due anni, per trovare un lavoro stabile che gli garantisse l’indipendenza.

I pilastri teorici del patto erano: casa, lavoro, salute e scuola. Ma a giudicare dalle azioni effettivamente intraprese dall’amministrazione della città il principale obiettivo è stato quello di far fuoriuscire le persone dai campi per chiuderli, senza una concreta azione che ne favorisse l’inclusione nel tessuto urbano.

Il Patto che veniva sottoposto agli abitanti dei campi nella fase preliminare agli sgomberi (pag. 37-49)

«Sono arrivate le lettere. E in nove giorni dovevamo trovare le case. Nove giorni. Era un incubo quello che abbiamo vissuto». Arianna è una donna di mezz’età e madre single, da quando è uscita dal campo fa pulizie e altri lavoretti saltuari e in nero: viveva in via della Monachina come Nino. Nei mesi precedenti, così come gli altri abitanti del campo, le era stato chiesto di firmare il Patto.

«Il Piano di superamento prevedeva che le famiglie si affidassero all’associazione che aveva vinto il bando del Comune perché li aiutasse con i problemi di lavoro, di documenti, di casa», spiega Marco Brazzoduro, presidente dell’associazione Cittadinanza e minoranze. «Una serie di famiglie per diffidenza ha deciso di non firmare. Altre invece, non hanno firmato perché erano senza documenti e senza documenti non entravi sotto l’ombrello della protezione».

Ad oggi, così come durante gli anni degli sgomberi, c’è quindi chi ha scelto di non firmare, ma anche chi non ha potuto farlo ed, escluso dal piano, è stato lasciato consapevolmente in mezzo alla strada. In tutto il Piano ha coinvolto 1.029 persone fuoriuscite dai campi. Il primo a essere sgomberato è stato Camping River nel 2018. Il campo della Monachina è stato l’ultimo sgombero della giunta Raggi.

Le politiche di sgombero dell’amministrazione della Capitale hanno comportato un impiego di denaro proveniente in parte da fondi europei e in parte, anche se molto minore, dalle casse del Comune. Le fonti ufficiali delle istituzioni parlano di un finanziamento totale di circa tre milioni e mezzo per il Piano, di cui più di tre milioni provenivano dal Programma operativo nazionale (Pon) “Città metropolitane”, adottato dalla Commissione europea.

Camping River e il ricorso alla Corte europea dei diritti umani

Era il 26 luglio 2018 quando Camping River, uno dei campi tollerati della Capitale, è stato sgomberato. L’ordinanza dell’ex Sindaca fissava al 31 dicembre 2018 il conseguimento degli obiettivi del Piano. A pochi mesi dalla scadenza ci si ritrova a dover dare dei segnali di attività, così, approfittando della situazione particolare di Camping River, vengono introdotte misure di sostegno all’inclusione lavorativa, per l’iscrizione anagrafica, di regolarizzazione documentale oppure viene proposto il rientro assistito volontario nel proprio paese d’origine.

Camping River costituisce un unicum nel panorama dei campi rom romani perché è il solo campo a sorgere su un suolo privato e la cui gestione dei servizi è affidata a una cooperativa. Il 30 giugno la giunta decide di sospendere i servizi al campo: gli abitanti si ritrovano senza elettricità, acqua potabile e fogne. La situazione al campo viene definita emergenza igienico-sanitaria. Un chiaro pretesto per mandar via le persone.
Arriva poi un’ordinanza della Raggi del 13 luglio che ordina l’allontanamento dall’area dove sorge Camping River di tutte le persone «entro il termine perentorio di 48 ore».
Ma arriva un punto di svolta in questa vicenda: su sollecito degli abitanti del campo, aiutati da associazioni e avvocati, interviene la Corte europea dei diritti dell’uomo.

La decisione della Cedu è di sospendere lo sgombero dell’insediamento rom fino a venerdì 27 luglio; sospensione che aveva l’obiettivo di monitorare la situazione del campo e garantire che non venissero violati i diritti umani fondamentali delle circa 300 persone che risiedevano nell’insediamento dal 2005.

Nonostante lo stop di Strasburgo, il Comune di Roma ha iniziato le operazioni di sgombero forzato di Camping River il giorno prima del pronunciamento della Corte.
Delle persone che vivevano a Camping River, soltanto una minoranza ha avuto accesso a delle soluzioni abitative. Camping River costituisce il progetto pilota che poi darà avvio agli sgomberi degli insediamenti di La Barbuta e Monachina.

Quel che è certo è che, insieme agli assistenti parte dell’Ufficio speciale rom, sinti e caminanti di Roma capitale, c’erano altri enti di mediazione, vincitori dei bandi indetti dal Comune. Ogni campo presentava una situazione diversa da quella dell’altro, ma i due principali enti occupati nell’accompagnamento delle persone all’inclusione erano la Croce rossa e Arci solidarietà onlus. Gli enti vincitori dei bandi si occupavano di garantire la realizzazione del Piano, introducendo le persone al lavoro regolare, occupandosi dell’aiuto nella compilazione dei fogli per la regolarizzazione dei documenti, assicurando le soluzioni abitative e stabilendo quindi il supporto economico alle famiglie, fino a un massimo di 10.000 euro per nucleo. I contributi economici venivano (e vengono) erogati per due anni.

I fondi per superare i campi rom

I fondi programmati dal progetto Pon Metro, quelli ammessi a finanziamento (comprovati da fatture) e quelli erogati
[in EUR]

Al termine di questi due anni, con o senza lavoro regolare – necessario per poter firmare un contratto d’affitto -, privi di qualsivoglia monitoraggio a posteriori in merito all’integrazione nel territorio, ognuno è stato (e verrà) lasciato a se stesso.

Inoltre, nella bozza del Piano, i criteri per l’assegnazione del supporto economico risultano fortemente meritocratici. Ciò significa che i componenti dei campi con figli scolarizzati e con un lavoro, ottenevano di più. Una dinamica che porta, in modo inevitabile, a escludere chi già versa in condizioni di maggiore disagio.

Tra chi non ha potuto firmare ci sono stati interi nuclei familiari che non possedevano documenti regolari, come il permesso di soggiorno o la cittadinanza italiana. O chi, come Arianna, che poi ha potuto firmare, stava facendo le pratiche per l’apolidia – condizione riconosciuta per cui nessuno Stato considera quella persona propria cittadina.

I criteri di accesso alle misure di sostegno venivano stabiliti valutando requisiti a vantaggio di coloro che avevano già intrapreso percorsi di integrazione

Quando abbiamo chiesto a Monica Rossi, ideatrice del Piano per il Comune, di chi fosse la responsabilità per le persone irregolari lasciate in strada, non ha saputo rispondere e ha insistito sul fatto che la responsabilità per certi versi potesse ricadere sulle persone stesse: «Dovrebbero prendersi la responsabilità della loro vita e dire: “perché sto qui dopo tutte le sanatorie e non mi sono mai regolarizzato?”, per cui mi dispiace, il Piano parte da un’assunzione di responsabilità, questi sono cittadini, non sono dei bambini».

Nonostante la severità delle sue parole, la stessa Monica Rossi ha però ammesso che, quando i rom irregolari vanno al comune a portare le documentazioni per la regolarizzazione, a seconda dell’impiegato che incontrano, a volte riescono a far partire la loro pratica, altre volte si sentono rispondere che non c’è possibilità di procedere.

Nino, come altri, aveva in un primo momento deciso di non firmare ma, quando poi ha cambiato idea spinto dal bisogno di non restare per strada, era troppo tardi a causa della scadenza già fissata. «Ti fanno firmare un Patto per far cosa? Non c’è scelta, perché comunque verrai cacciato dalla tua abitazione attuale», commenta l’avvocato Salvatore Fachile, sottolineando quelli che secondo lui potrebbero essere i caratteri illeciti del Patto, e continua: «In mancanza di alternativa si tratta di un patto che è un incontro di due volontà libere, o si tratta di un’imposizione?».

Lo stesso avvocato evidenzia che anche i nuclei familiari assegnatari di nuove soluzioni abitative si sono poi trovati di fronte a problemi sia pratici sia di integrazione: fenomeni di prevaricazione, case popolari già occupate, atti discriminatori e intimidazioni. Le soluzioni proposte dal Piano erano: cohousing – una soluzione instabile dove più famiglie sono costrette a convivere -, edilizia residenziale pubblica e aiuto all’affitto indipendente – che dà diritto a un sostegno economico per due anni.

I numeri esatti in merito alle assegnazioni delle abitazioni vengono riportati dalla società Digivis, ente terzo incaricato dal comune di valutare i risultati del Piano.

La discriminazione specifica nei confronti della popolazione rom si chiama antiziganismo. È un sentimento pervasivo della società italiana, che si traduce anche in episodi discriminatori nei quartieri. In più le persone, per ammissione di Monica Rossi, sono state volutamente sparpagliate per la città, separando parenti che prima vivevano nello stesso campo. Questo, secondo l’ideatrice del Piano, per favorire l’inclusione e «non affliggere i cittadini romani con una presenza eccessiva (di rom, ndr)». Come se la vicinanza ai cittadini rom sia una “maledizione” da cui dover difendere i “veri romani”. Nonostante sia stata data una casa a 295 famiglie, è quindi rimasta intatta la struttura discriminatoria sottostante.

La dichiarata volontà di “superamento dei campi” poi, non è sostenuta da nessuna reale politica a lungo termine. C’è stata infatti una pressoché totale assenza di monitoraggio nei mesi successivi all’assegnazione delle abitazioni, per cui si pone ora il problema di capire dove andranno le famiglie allo scadere dei due anni. Come potranno mantenere l’affitto senza lavoro e con serie difficoltà nel trovarlo?

Inserimento nel tessuto urbano: tra inclusione e aggressioni razziste

«Quando una famiglia rom del campo riceve una casa popolare cerca di non far sapere che arriva dal campo perché sa che c’è questo pregiudizio». Questo un estratto delle parole di Carlo Stasolla presidente dell’associazione 21 luglio. Rinunciare alla propria identità per farsi accettare, è questo il paradosso dell’inclusione. Le parole di Stasolla possono essere meglio contestualizzate facendo riferimento a una serie di episodi razzisti avvenuti nei confronti di persone rom. Sono due i casi di violenza che si sono imposti nelle cronache romane per la matrice xenofoba e sessista.

È l’aprile 2019 quando 70 famiglie, di cui 30 bambini, vengono sgomberate dai campi nell’ambito delle politiche di attuazione del Piano per essere assegnate al centro di via Codirossoni, a Torre Maura nella zona sud-est della città. Un gruppo di manifestanti di CasaPound e Forza Nuova per giorni ha protestato contro il trasferimento dei rom nel centro di accoglienza. Alle prime proteste e rivolte da parte degli abitanti del quartiere che sostenevano di voler «cacciare gli zingari», l’amministrazione risponde con l’annuncio di una ricollocazione delle persone in altre soluzioni abitative. L’aspetto peculiare di questa violenza è la strategia messa in atto dai gruppi neofascisti: impedire l’approvvigionamento di cibo in favore delle persone che avrebbero dovuto essere ospitate nella struttura.

Il secondo episodio, poche settimane dopo, coinvolge un’altra zona di Roma, Casal Bruciato. Una donna con la sua famiglia, legittima assegnataria di una casa popolare, al momento del suo trasferimento nell’appartamento, viene aggredita da un gruppo di militanti di CasaPound, che le hanno gridato: «Troia, puttana, fai schifo». Si è arrivati alle minacce di stupro.

Andando oltre le strumentalizzazioni politiche da parte dei gruppi dell’estrema destra romana, che sono molto frequenti e ricordano casi simili come le proteste contro il centro per richiedenti asilo minorenni a Tor Sapienza nel 2015, emerge che a Roma la presenza delle famiglie rom nei quartieri continua a generare tensione e non porta all’inclusione e all’inserimento nel tessuto sociale perché si portano avanti politiche di ghettizzazione e di esclusione dei rom.

Molti, come Nino, dopo essere stati sgomberati dal campo, hanno perso il lavoro. Venuta a sapere della sua provenienza dal campo, la sua datrice di lavoro lo ha licenziato. Per far fronte a situazioni simili il Piano prevedeva in teoria un accompagnamento al lavoro mediante tirocini e supporto economico a piccole imprese. Ma molte famiglie continuano ancora oggi a lavorare nei mercatini irregolari dove vendono ciò che recuperano dalla spazzatura e materiali rubati.

Arianna, che ha firmato il patto, racconta di aver svolto un tirocinio che non le ha in alcun modo assicurato la possibilità di trovare un lavoro regolare. Arianna lavora da un parrucchiere, due ore la domenica, mentre in settimana va a fare la spesa e altre commissioni per una persona anziana. Ora è in attesa e forse comincerà ad andare a fare le pulizie in un’altra casa il sabato e la domenica. Una condizione lavorativa insufficiente per fornire le garanzie pretese dal mercato immobiliare. Messa di fronte all’inadeguatezza del lavoro svolto dalle istituzioni, la delegata della Sindaca, Monica Rossi risponde così: «Domani mattina alle cinque, prendete la macchina e andate in via Palmiro Togliatti: troverete una fila di moldavi con un cartello al collo con scritto “30, 40 euro”, se uno vuole lavorare al nero qui a Roma, lavora subito», senza tener conto del fatto che per poter pagare un affitto regolare, un lavoro in nero non basta.

Un altro dei pilastri del Piano era la scolarizzazione, aspetto questo che più degli altri ha risentito dell’assenza di monitoraggio. Lo spostamento delle famiglie in luoghi distanti da dove abitavano prima ha portato il Comune a mobilitarsi per introdurre i bambini in nuove scuole, ma non sempre le famiglie rom invogliano i figli a frequentare. L’insieme di questi fattori si unisce a un contesto già di estrema gravità per la scolarizzazione dei bambini rom. Inoltre, la stessa Monica Rossi aggiunge: «Io non mi sono proprio interessata della scolarizzazione, ritenendo che sia un obbligo da parte dei genitori di interessarsi alla scolarizzazione dei figli».

Seduto alla sua scrivania, Mauro Di Giacomo riassume le modalità con cui ha raccolto i dati e monitorato gli andamenti del Piano. È presidente della società Digivis, l’ente imparziale incaricato di redigere un report finale in grado di dare un quadro complessivo dei risultati del Piano. Lo stesso report necessario a dimostrare che i fondi europei erano stati spesi per le finalità a cui erano destinati. Ma è lo stesso Di Giacomo ad ammettere che il monitoraggio, e quindi il report conclusivo, sono parziali. «Dopo gli sgomberi in realtà non sappiamo più niente. Perché gli sgomberi sono avvenuti tra il 2020 e il 2021. Nel 2021, poi, c’è stato il passaggio di giunta, per cui già a settembre… adesso sarebbe in realtà il momento in cui ricominciare il monitoraggio di tutti i fenomeni», spiega Mauro Di Giacomo.

Nel 2021 è finito qualsiasi lavoro di controllo. Da quel momento non si hanno più aggiornamenti sull’andamento del progetto. Ad oggi la nuova giunta Gualtieri si posiziona sulla stessa linea della giunta Raggi, proseguendo nell’intento di responsabilizzare le persone chiudendo volutamente gli occhi sul livello di antiziganismo strutturale che marginalizza i rom e che porta ancora una volta Monica Rossi a dichiarare con convinzione: «Io credo di aver inaugurato una fase di assunzione di responsabilità da parte dei rom».

Invece tra chi non ha voluto firmare, chi non ha potuto firmare, chi, come una mamma sola e senza più i parenti intorno che badano ai bambini piccoli come nel campo, non può più lavorare e dovrà presto lasciare la sua casa e chi, infine, non trovandosi d’accordo o subendo la prepotenza di un’altra famiglia, ha dovuto abbandonare la soluzione di cohousing. Sono in molti che non hanno saputo e non sanno più dove andare. Così dallo sgombero dei grandi campi sono semplicemente nati nuovi insediamenti, più piccoli, campi informali e occupazioni in giro per la città.

Soluzioni abitative

Le soluzioni abitative assegnate o trovate autonomamente dai nuclei famigliari sgomberati dai campi

Una degli abitanti di questi nuovi piccoli insediamenti è Miriana che vive con il suo cane Bella in una baracca che si è costruita da sola tra il vecchio campo sgomberato di Foro Italico e le rive del Tevere. Miriana trasporta una damigiana d’acqua e spinge un carrello pieno di bigiotteria, ferro e vestiti. «Tu pensi che così mi piace a me? No, no credimi. Sono zingara, ma voglio essere pulita, voglio avere l’acqua». Miriana ha 56 anni, è serba, ma vive fin da giovanissima in Italia. Non ha mai firmato il patto perché non sapeva dove sarebbe finita né che cosa avrebbe fatto allo scadere dei due anni. Ha la sindrome del tunnel carpale e le mani le fanno male, dice che si dovrebbe operare, ma non può stare dei giorni senza andare al mercatino e procurarsi i pochi soldi che le servono per vivere.

Nino che ci accompagna al suo vecchio campo e ci mostra dov’era la sua baracca, è spaventato: «Due mesi, tre mesi, un anno. È finito il progetto. Il progetto finisce e finiamo anche noi in mezzo alla strada».

Nino dice che la gente tornerà nel campo. Miriana si sta già attrezzando per farlo.

CREDITI

Autori

Antonia Ferri
Francesca Polizzi
Arianna Egle Ventre

Editing

Giulio Rubino

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

In partnership con

Scuola di giornalismo Lelio Basso

Foto di copertina

Una foto d’archivio del campo nomadi di Via Salviati a Roma
(Simona Granati/Getty)

DigitalBits, chi è il criptosponsor di Roma e Inter

#FuoriGioco

DigitalBits, chi è il criptosponsor di Roma e Inter

Lorenzo Bodrero
Matteo Civillini

Il 5 febbraio scorso a San Siro si giocava un derby potenzialmente decisivo per le sorti della stagione. Sul campo, l’Inter si è fatta rimontare dal Milan che, così facendo, ha riaperto la lotta per lo Scudetto. Una delusione per i tifosi nerazzurri, che però prima della partita avevano ricevuto un insolito regalo: alcuni “gettoni” di una criptovaluta. Si tratta di DigitalBits (DB), moneta coniata dall’omonima fondazione creata alle Isole Cayman che dall’estate scorsa punta forte sul calcio italiano. Già main sponsor della Roma per la stagione in corso, il logo campeggerà anche al centro della maglia nerazzurra a partire dalla prossima annata.

Le due partnership, per un valore totale di oltre 110 milioni di euro, stanno portando notevole visibilità a DB, che ambisce a diventare “la blockchain per i brand”, cioè, in pratica, vuole applicare il modello delle “catene di blocchi” anche in settori che non sono quello tecnologico o finanziario. L’obiettivo, stando ai claim pubblicitari di DigitalBits, è cambiare il modo con cui consumatori e marchi interagiscono.

Il glossario delle criptovalute

Blockchain: immaginate una sequenza potenzialmente infinita di “blocchi” ciascuno dei quali contiene una serie di informazioni. L’acquisto di criptomoneta costituisce un blocco di informazioni, così come la vendita, l’aggiunta di un nuovo utente o di un wallet, la stessa cosa vale per una transazione economica. Chiunque può aggiungere nuove informazioni e a ciascun blocco, di default, è assegnato un codice univoco il quale “memorizza” e quindi verifica anche l’identità del blocco che lo precede. In questo modo è praticamente impossibile manomettere l’intera catena, motivo per il quale la blockchain è considerata sicura. In estrema sintesi, la blockchain è un enorme database controllato dai blocchi che lo compongono, immutabile, decentralizzato e altamente sicuro dal punto di vista informatico.

Criptovaluta: moneta virtuale, ossia che non esiste in forma fisica. Si genera e si scambia criptomoneta esclusivamente per via telematica e in modalità peer-to-peer, ovvero tra due dispositivi senza l’ausilio né l’intermediazione di autorità centralizzate. Le entità che danno vita allo scambio sono i “nodi”, nient’altro che dei computer gestiti da utenti all’interno dei quali sono continuamente all’opera software che svolgono la funzione di portamonete.

Fan Token: è un asset digitale creato sulla blockchain e collegato a una specifica squadra di calcio che permette ai detentori l’accesso di beni e servizi. Nel caso di Socios, principale emittente di questi prodotti, i fan token si appoggiano su Chiliz, una criptovaluta gestita da Socios stessa.

Meme coin: sono quelle criptovalute che nascono a seguito di fenomeni sociali, scherzi o contenuti diventati virali in rete. Il contenuto virale stesso diventa il volto, e spesso il logo, con cui è individuata la moneta. Il caso più celebre è Dogecoin, creata per scherzo nel 2013 e che si ispira all’ormai celebre cane Shiba Inu, razza giapponese dal pelo folto e di colore ocra. Simile è la genesi di Floki. Il nome del celebre personaggio della serie televisiva Vikings è quello con cui è stato battezzato il cane di Elon Musk. Floki Inu ha quindi raccolto l’eredità mediatica di due fenomeni diventati virali.

Non Fungible Token (NFT): sono dei certificati di proprietà di opere digitali ma non nella loro interezza. Un singolo NFT, infatti, corrisponde ad una frazione del bene/oggetto in questione il quale ha un valore determinato in base al valore dell’oggetto stesso. In sostanza, è come possedere una o più azioni di una società quotata.

Wallet: un portafoglio virtuale, simile a quelli più comuni associati, per esempio, alle app per i pagamenti in forma digitale. Sono necessari per immagazzinare e trasferire criptovalute.

Dietro alla scintillante campagna pubblicitaria, non è chiaro quanto sia davvero stabile DigitalBits. Negli Stati Uniti è in corso una causa civile in cui i vertici dell’azienda sono accusati da vecchi investitori di truffa e appropriazione indebita. Almeno due ex dipendenti lamentano di non essere stati pagati e denunciano presunte lacune tecniche del progetto. Insomma, a detta dell’accusa, DigitalBits sarebbe “un castello di carte”.

Uno dei primi investitori in DigitalBits, che ha portato in tribunale la fondazione, sostiene che il suo iniziale investimento di circa 200 mila dollari abbia finanziato il successo di DigitalBits senza che lui ne abbia poi potuto godere i frutti. Secondo l’accusa, il fondatore della società, il canadese Al Burgio, e il socio in affari Michael Gord, non avrebbero mai corrisposto l’oggetto dell’investimento, ovvero la criptovaluta coniata dall’azienda, arricchendosi invece personalmente. A detta dell’investitore, infatti, i vertici di DigitalBits avrebbero tenuto per sé le monete, dalla cui vendita avrebbero in seguito ottenuto profitti per centinaia di milioni di dollari. Soldi che sarebbero poi stati dirottati, oltre che sulle sponsorizzazioni dei club, su viaggi di lusso e investimenti immobiliari da parte di Burgio e Gord.

L’investitore della cripto-azienda nata nel 2017 chiede il risarcimento del corrispondente in criptovalute per 160 milioni di dollari. Alla lista dei creditori appartengono altri investitori, tra cui ex dipendenti dell’azienda.

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Una brutta notizia per il mondo del calcio, gravato da pesanti debiti e alla ricerca di un settore ricco di liquidità per finanziare le sponsorizzazioni, dopo il divieto imposto nel 2018 alle società di scommesse per effetto dell’allora “Decreto Dignità”. Il calcio, con la sua endemica emorragia finanziaria in corso da anni, dovrà prima o poi fare i conti con il settore delle criptovalute, al momento completamente deregolamentato e sul quale ha puntato forte per far quadrare i bilanci, oltremodo in rosso per le restrizioni imposte dalla pandemia. Come già riportato da IrpiMedia sono almeno 16 i club di Serie A che hanno stretto accordi di sponsorship con società del settore delle criptomonete, a cui si aggiungono la Figc e la stessa Serie A Tim.

Ma i dubbi superano le certezze, come nel caso del Napoli e di Floki Inu, cripto-società gestita da un team pressoché anonimo e registrata in uno sperduto paesino della Georgia il cui azionista è una donna definita da un’operatore della società una «testa di legno». Il meme coin ha investito massicciamente in operazioni di marketing e sponsorizzazioni ma la sua operatività è ancora tutta da dimostrare.

Tra le società monitorate c’è anche lo sponsor della Lazio. La Consob, l’ente preposto alla tutela dei consumatori, lo scorso luglio ha segnalato con un warning la società Binance, sponsor del club biancoceleste da ottobre 2021, precisando che le società del gruppo «non sono autorizzate a prestare servizi e attività di investimento in Italia».

Come funzione una blockchain

Una blockchain è un registro contabile condiviso e distribuito che permette il tracciamento di transazioni. In questo sistema le informazioni vengono registrate in blocchi di dati che, una volta inseriti, si concatenano al blocco precedente. Da questo meccanismo deriva il nome blockchain, letteralmente catena di blocchi. La tecnologia blockchain viene impiegata in diversi campi, ma il suo utilizzo principale è legato al mondo delle criptovalute. Sulle blockchain (come Bitcoin o Ethereum) vengono infatti registrati gli scambi di moneta.

Una blockchain dovrebbe garantire trasparenza e sicurezza nell’esecuzione delle transazioni, poiché tutti i partecipanti hanno accesso al medesimo registro che non può essere modificato o manomesso. A fare da contraltare, tuttavia, c’è il significativo impiego di energia necessario per verificare le transazioni, creando un notevole impatto ambientale.

Fondata dal canadese Al Burgio nel 2017, DigitalBits propone di rivoluzionare in chiave crypto il mondo dei programmi fedeltà di hotel, ristoranti, compagnie aeree. In sintesi, marchi noti potrebbero utilizzare la blockchain gestita da DigitalBits per emettere dei propri gettoni (token, in gergo) da distribuire ai clienti più leali. Insomma, una versione digitale della vecchia raccolta punti a bollini. DigitalBits guadagnerebbe grazie alle commissioni che i marchi dovrebbero versare per l’utilizzo della blockchain. Un progetto che per ora però, a cinque anni dalla sua nascita, è rimasto soltanto sulla carta.

Nel variopinto mondo delle criptovalute Digitalbits ha avuto difficoltà a emergere, surclassata dalla popolarità di società ben più affermate. La notorietà arriva nell’estate 2021 quando, a fine luglio, l’azienda firma una partnership da 36 milioni di euro con la AS Roma diventandone il main sponsor e rimpiazzando così un colosso come Qatar Airways. Di questa cifra alla Roma è arrivata solo una prima tranche. La formula si ripete poche settimane dopo, a settembre. Questa volta è l’Inter ad annunciare DigitalBits quale “sleeve sponsor” (lo sponsor che compare sulle maniche delle squadre, ndr) per le successive quattro stagioni, intascando 85 milioni di euro dalla società cripto.

La doppia criptomoneta di DigitalBits

A gennaio Ephrat Livni insieme ad altri colleghi del New York Times ha intervistato l’avvocato Adam Ford, il quale rappresenta l’investitore che ha portato a processo DigitalBits negli Stati Uniti. Secondo quest’ultimo i grandi proclami di DigitalBits sarebbero solo fumo negli occhi: dopo anni di sviluppo, la blockchain non avrebbe ancora alcuna applicabilità concreta, né ci sarebbero grandi marchi che si sono affidati ad oggi ai servizi di DigitalBits. Tutto ciò mentre Al Burgio e il suo partner Michael Gord – i fondatori della società – vengono accusati di aver raccolto gli iniziali investimenti di soci della prima ora arricchendosi personalmente senza versare loro il corrispettivo in criptomonete.

Un momento dell'incontro di Coppa Italia tra Inter e Roma l'8 febbraio 2022 - Foto: Giuseppe Bellini/Getty

Un momento dell’incontro di Coppa Italia tra Inter e Roma l’8 febbraio 2022 – Foto: Giuseppe Bellini/Getty

Il contenzioso ruota attorna alle specifiche tecniche della criptomoneta XDB, coniata da DigitalBits.

A cavallo tra la fine del 2018 e i primi mesi del 2019, Mark Dorrell, imprenditore canadese e principale accusatore, ne aveva acquistati oltre 233 milioni per un controvalore di poco inferiore ai 200 mila dollari. Dorrell e gli altri investitori sostengono di aver accettato la proposta di investimento con la consapevolezza che sarebbe esistita una sola versione delle monete, chiamata, appunto, XDB.

Qualche mese dopo l’acquisto, tuttavia, Al Burgio avrebbe informato Dorrell dell’esistenza di una seconda variante della criptomoneta, cosiddetta XDB ERC-20, creata sulla blockchain di Ethereum (seconda piattaforma più rilevante nel mondo crypto, dopo Bitcoin), invece che su quella proprietaria di DigitalBits. Secondo Burgio, questa sarebbe stata una situazione temporanea, poiché in seguito i token XDB ERC-20 sarebbero stati tramutati in quelli ufficiali creati sulla blockchain di DigitalBits, i cosiddetti XDB MainNet.

La stessa informazione viene diffusa a partire dall’autunno 2019 sui social network di DigitalBits: l’azienda ha sempre avuto intenzione di lanciare due diversi asset (cioè le due versioni di XDB: ERC-20 e MainNet), dicono, e il Token Swap – l’evento attraverso cui una variante di criptomoneta è scambiata con un’altra – sarebbe stato annunciato a breve. Il problema è che «Dorrell mai prima era stato informato dell’esistenza di varianti differenti del token», si legge nella querela. L’esistenza di due token secondo l’investitore gli avrebbe causato un mancato guadagno potenziale di circa 160 milioni di dollari.

Ad aprile 2021, messo sotto pressione dalle insistenze dell’avvocato, Al Burgio dà il via libera per la consegna a Dorrell dei token dovuti: 200 milioni di XDB MainNet, la moneta “alternativa” a ERC-20. Questi token però non possono essere utilizzati né sulle piattaforme di scambio, né tantomeno possono essere integrati alle varie piattaforme di pagamento. In breve, non hanno alcuna funzionalità. Da anni – sostiene l’accusa – Burgio e i suoi soci annunciano che è ormai imminente il Token Swap ma, ad oggi, questo non è ancora avvenuto.

Al Burgio, creatore di blockchain

Cresciuto in una zona agricola dell’Ontario, in Canada, Al Burgio costruisce fin da giovanissimo una carriera imprenditoriale. Nel 1999, all’età di 22 anni, diventa presidente della Burgio Family Holding, cassaforte di famiglia che gestisce partecipazioni in diverse aziende. Tra di esse spicca la Loretta Foods, società che si occupa di produzione e vendita all’ingrosso di prodotti alimentari, di cui Burgio diventa amministratore delegato nel 2005. Successivamente, Burgio si tuffa nel settore tech fondando prima un fornitore di servizi di comunicazione VoIP e poi di un’azienda che facilita lo scambio di traffico internet. Dopo la cessione della società nel 2017, Burgio entra nel mondo di blockchain e criptovalute, lanciando poco dopo il progetto DigitalBits.

Il progetto DigitalBits è gestito attraverso una complessa rete di società dislocate tra paradisi offshore e giurisdizioni dalla scarsa trasparenza.

La capofila del gruppo è Fusechain XDB I Ltd, azienda con sede alle Isole Cayman, dove si trova anche la Digitalbits Foundation, suo braccio operativo. Scendendo di un livello, Fusechain XDB I risulta essere principale azionista di alcune filiali con sede nello stato americano del Wyoming, oggi uno dei principali paradisi fiscali al mondo. Tra di esse c’è Zytara, la società che ha stretto gli accordi di sponsorizzazione con Roma e Inter.

La struttura societaria del progetto DigitalBits

Quando il calcio affida le sponsorship a presunti truffatori

Secondo l’avvocato Adam Ford, la società avrebbe truffato i primissimi investitori – quando DB era ancora sconosciuta – raccogliendone gli investimenti senza corrispondere loro il controvalore in criptomoneta. I contratti stilati prevedevano che la criptovaluta da ricevere in cambio dovesse essere XDB, senza precisare di quale versione. Il capitale iniziale accumulato sarebbe poi servito, da un lato, per lanciare una diversa variante di XDB che sarebbe poi stata distribuita pubblicamente, e, dall’altro, creare altre società controllate così da dare all’azienda quella parvenza di legittimità con cui approcciare nuovi investitori.

«Ho personalmente tirato dentro alcune delle società più importanti al mondo, le quali erano pronte a firmare contratti di partnership con DB – ha spiegato un ex dipendente a IrpiMedia, – salvo poi venire bloccato da Al Burgio». Una sorte simile a quella toccata a Dorrell, laddove l’intenzione della società era «tenere per sé i token commerciabili e di più alto valore» – si legge nella denuncia. Con token commerciabili si intende la moneta ERC-20 scambiabile liberamente sul mercato, a differenza della MainNet. Secondo i querelanti, la società avrebbe venduto una parte dei token ERC-20 a una cerchia ristretta di clienti, tenendo l’altra per sé, allo scopo di condizionare l’andamento del valore della criptomoneta.

Mentre Dorrell altri investitori iniziali sono rimasti a mani vuote, il valore di quel token ha avuto una crescita vertiginosa, passando da circa 0,016 dollari nel settembre 2019 a un massimo di 0,81 dollari nel novembre 2021 (oggi vale 0,55 dollari). Gli investitori sostengono che se avessero ricevuto i propri token avrebbero potuto liberamente scambiarli sul mercato, realizzando un profitto potenzialmente enorme.

L’avvocato aggiunge che la conversione dei token XDB dalla variante ERC-20 a quella MainNet, nonostante i numerosi annunci pubblici, non è mai stata realizzata «intenzionalmente, così da impedire a Dorrell di convertire la criptomoneta e mantenere bassa la quota di moneta in circolazione e di conseguenza un prezzo più alto del token stesso».

IrpiMedia ha contattato più di una volta DigitalBits e il suo fondatore Al Burgio senza ricevere alcuna risposta.

Movimenti notevoli di moneta sono stati notati nelle settimane a cavallo degli accordi chiusi con Inter e Roma. In due occasioni, tra agosto e settembre 2021, (vedi grafico) gli scambi di XDB hanno registrato due salti improvvisi: rispettivamente per 85 e 110 milioni di token che hanno cambiato mano nel corso di una giornata. Difficile interpretare le ragioni dietro movimenti così massicci di criptomoneta. Successivamente, due mesi dopo gli accordi con le squadre italiane, il numero di monete in circolazione (circulating supply, in gergo) ha subito un’impennata improvvisa: da circa 770 milioni di unità a 880 milioni. Una circostanza su cui l’avvocato Adam Ford vuole vederci chiaro.

La AS Roma, interpellata da IrpiMedia, ha precisato che la sponsorship non prevede il pagamento in token: «Il corrispettivo del contratto è esclusivamente in euro […] ed è equivalente all’intero valore dell’accordo, come comunicato al mercato». Quel che è certo, continua l’avvocato, è che «nessuno degli investitori con cui sono entrato in contatto ha ricevuto un solo token».

Per società di questo tipo è comune organizzare eventi – online e dal vivo – attraverso cui non solo promuovere l’utilizzo della propria criptomoneta ma anche aumentarne la circolazione (supply, in gergo) e incentivarne, così, l’uso tra i propri utenti, in questo caso i fan. Nel gergo crypto, l’occasione prende il nome di airdrop.

Durante il derby di Milano dello scorso 5 febbraio, i tifosi nerazzurri presenti allo stadio Meazza hanno avuto la possibilità di ricevere dei DigitalBits gratuitamente. A questo tipo di iniziative si presta anche Francesco Totti, ex capitano e bandiera del club giallorosso, diventato ambasciatore di DigitalBits a dicembre 2021 con un compenso da – scrive Il Tempo – 5 milioni di euro. Alla prima della pellicola cinematografica Uncharted del 17 febbraio a Roma il pubblico ha potuto incontrare l’ex numero 10 del club capitolino, ma non prima di aver aperto un proprio account sulla piattaforma di DigitalBits.

Nella sua scia si è accodato David Beckham: l’ex capitano della nazionale inglese è infatti diventato global ambassador di DigitalBits lo scorso 24 marzo. Due mesi prima, a fine gennaio, l’Inter aveva ulteriormente rafforzato la sua partnership con l’azienda crypto. L’annuncio era arrivato in concomitanza con le dichiarazioni dell’amministratore delegato nerazzurro Giuseppe Marotta il quale, al Sole24Ore, dichiarava che «il calcio è un sistema sull’orlo del baratro»: dalla prossima stagione calcistica, il logo di DB passerà dalle maniche al petto, diventando così main shirt sponsor e scalzando l’altro colosso crypto, Socios.com.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bodrero
Matteo Civillini

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto di copertina

Lo sleev sponsor DigitalBits sulle maglie dell’Inter in occasione del match Inter – Bologna il 18 settembre 2021
(Jonathan Moscrop/Getty)

Usura: il Covid-19 non ha frenato il business

17 Settembre 2021 | di Maurizio Franco

«Ammetto: ho pensato di ricaderci» è la frase con cui Gianni – nome di fantasia per la tutela della privacy – intervalla il suo racconto. Un calvario di umiliazioni e frustrazioni, che prende avvio nel 2009 e pare esaurirsi nel 2015. Durante questo lasso di tempo, il cappio degli usurai aveva strangolato la sua attività, incastonata in una delle vie del centro storico di Roma. “Cravattari” – termine in uso nel gergo cittadino – che non si facevano scrupoli ad irrompere nel negozio, aprire il registratore di cassa e mettersi in tasca le banconote guadagnate durante la giornata di lavoro. Oltre 240 mila euro sborsati in poco più di sei anni. «Tutto è partito da un piccolo prestito per pagare un fornitore», racconta Gianni. Che ha dovuto cedere la casa e traslocare in un locale dove l’affitto era meno oneroso.

Quando la moglie ha deciso di denunciare alle forze dell’ordine l’insostenibile violenza a cui erano sottoposti, gli usurai si sono volatilizzati. L’esercente ritiene che non fossero schegge solitarie. «Credo che ci fosse qualcuno dietro a queste persone senza scrupoli».

Gianni, alla fine, si è rivolto allo sportello dell’Ambulatorio Antiusura ed ha ottenuto dalla Regione Lazio 20 mila euro per ripartire da zero. Il Covid-19, però, ha offuscato la serenità conquistata. Il suo timore è ripiombare negli abissi del circuito usuraio. O abbassare definitivamente le saracinesche del negozio. Un bivio che, ultimamente, in molti sono costretti ad affrontare. «In questi mesi ho ricevuto proposte di vendita. A prezzi irrisori. Trattativa in contanti e senza intermediari. La liquidità immediata fa gola e ti prendono sulla stanchezza», dice. A Gianni hanno offerto tra i 20 mila e i 30 mila euro per comprare l’attività che, stando alle parole dell’esercente, vale circa 200 mila euro. E millantano di essere commercianti, avvezzi alle fatiche del mestiere. Ma Gianni è scettico. «Anche in questo caso, credo ci sia un’organizzazione che gestisce questi affari», sottolinea.

Secondo i dati forniti da Confcommercio, pubblicati il 20 aprile 2021, 300 mila imprese del commercio in Italia rischiano la chiusura. L’80 per cento (circa 240 mila attività) serreranno i battenti per via della pandemia e delle conseguenze che il virus ha imposto sul tessuto economico. Riduzione del volume degli affari, mancanza di liquidità, difficoltà di accesso al credito legale e problemi di tipo burocratico sono le stimmate che i negozianti mostrano all’associazione di categoria. Che non ha dubbi sulla traversa che le imprese potrebbero imboccare: rispetto al 2019, è più che raddoppiata la quota di imprenditori che ritiene incrementato il fenomeno dell’usura. Dal 12,7 per cento al 27 per cento. Nonostante le misure finanziarie messe in campo dalle istituzioni, urgono soldi e le organizzazioni criminali ne hanno in abbondanza.

Oltre 40 mila attività, sempre stando alle stime elaborate da Confcommercio, guardano concretamente al baratro scavato dai cravattari, mentre gli altri reati (rapine, contraffazione e furti), nella percezione del comparto, diminuiscono di intensità. Dello stesso avviso è l’Organismo permanente di monitoraggio ed analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso. Ente creato ad aprile 2020 dal Ministero degli Interni e presieduto dal prefetto Vittorio Rizzi, raccoglie tutte le forze di polizia italiane e si prefigge il compito di comprendere come le organizzazioni criminali abbiano rimodulato il proprio operato ed intervenire di conseguenza.

Il quinto report, pubblicato il 5 maggio scorso, vede un aumento del 16,2 per cento, nel biennio 2019/2020, dei casi di usura segnalati (stime che decrescono sensibilmente nel 2021).

Gli strumenti istituzionali di contrasto all’usura

Nel corso del 2020, le istituzioni hanno potenziato gli interventi per contrastare l’usura. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) ha rifinanziato il Fondo per la prevenzione del fenomeno: circa 32,7 milioni di euro da distribuire a 113 “enti gestori” – associazioni, consorzi per l’accesso al credito e fondazioni – che a loro volta avranno il compito di impiegare tali risorse nei territori. Dal 1998 ad oggi, il Mef ha stanziato circa 670 milioni di euro.

La Regione Lazio, invece, ha varato un fondo da 4,4 milioni di euro che prevede molteplici destinazioni. Circa 900 mila euro per le vittime di usura e per soggetti sovra-indebitati: fino a 5 mila euro a fondo perduto per ogni richiesta; garanzie per prestiti bancari fino a 50 mila euro da restituire in 10 anni: il tesoretto è da 1,6 milioni ed è funzionale a prevenire il ricorso al prestito usuraio. Su questo versante, ulteriori 650 mila euro sono messi a disposizione per consulenze legali e contabili; 770 mila euro, invece, per lenire i danni subiti dall’oppressione dei cravattari: per ogni domanda, un contributo fino a 20 mila euro a fondo perduto; 30 mila euro sono per il sostegno psicologico alle vittime; e, infine, 450 mila euro sono previsti per supportare il lavoro delle associazioni che operano nei contesti locali. Sono le stesse organizzazioni – iscritte all’albo regionale degli enti antiusura e a quello del Mef – a fare da tramite tra le istituzioni e le vittime per l’erogazione dei finanziamenti.

Per rintracciare segni delle infiltrazioni criminali nell’economia, il report si è focalizzato sulle variazioni societarie avvenute nel periodo della pandemia (marzo 2020 – febbraio 2021), utilizzando e intersecando alcune categorie come il turn-over di cariche e di partecipazioni o i trasferimenti di quote.

Guardando al 2019, l’Organismo evidenzia una leggera flessione del numero delle variazioni, meno 6,3 per cento, “riconducibile, verosimilmente, alla repentina stagnazione economica […]”. Parallelamente, però, lo studio porta alla luce una crescita del 7 per cento delle segnalazioni per operazioni sospette e un aumento del 9,7 per cento delle società colpite da provvedimenti interdittivi antimafia. Di queste, il 47 per cento, stando alle attività di monitoraggio, hanno registrato una variazione societaria.

Tali dati, sottolinea l’Organismo, sono da interpretare in relazione ai maggiori controlli effettuati dalle forze dell’ordine. Ma sono anche esemplificazione di come i cambiamenti societari siano i possibili sintomi di un’infezione criminale: le organizzazioni mafiose, infatti, investono i loro capitali in società e aziende allo stremo, accaparrandosi, a costi irrisori, porzioni sempre più consistenti di mondo produttivo. L’ente, inoltre, precisa che il periodo preso in esame «non costituisce un lasso temporale statisticamente significativo, in assoluto e, ancor più, in relazione al momento storico di riferimento».

L’usura a Roma durante il lockdown

A Roma, prestare soldi “a strozzo” è pratica ancestrale, antica come le guglie e i capitelli che attorniano il cuore monumentale della città. Luigi Ciatti, presidente dell’Ambulatorio Antiusura Onlus ne è consapevole. Dal 1996, la sua associazione si spende per tutelare chi è fragile davanti agli smottamenti del sistema economico.

«Il nostro termometro sono le richieste di aiuto che giungono allo sportello. Nel 2020 abbiamo registrato un incremento del 30 per cento, con picchi del 50 per cento durante il periodo estivo. Numeri, però, che non fotografano adeguatamente la realtà, perché troppo bassi rispetto alla portata della crisi che stiamo vivendo. Sono pochi quelli che denunciano e portano in superficie la propria situazione», dice Ciatti, convinto che l’onda lunga della recessione debba ancora abbattersi sul contesto sociale.

Le operazioni della Squadra Mobile e della Guardia di Finanza, hanno rilevato la pervasività del fenomeno e l’eterogeneità degli attori che pescano nel mare magnum della disperazione. Ad agire, sono sia consorzi criminali ben collaudati, come ad esempio il clan Casamonica, quanto gruppi “informali” che setacciano il territorio alla scoperta di una papabile preda.

Con il lockdown nuove strategie sono state messe in campo per foraggiare il calderone dell’abuso finanziario. L’operazione Sportello (anti)usura è emblematica a questo proposito. La sede di un Caf nel quartiere Portuense, quadrante sud-ovest di Roma, era infatti diventato il luogo designato per accogliere i “clienti”, fissare gli appuntamenti e concedere prestiti. Lì avveniva anche la riscossione del denaro e degli interessi pattuiti: tra il 20 e il 40 per cento a cadenza mensile. Un luogo difficile da individuare ma estremamente efficace per gli usurai. Un serbatoio di umanità e dichiarazioni Isee a cui attingere per ingrossare il portafoglio. Stando alle fonti investigative, il gruppo – composto da ottuagenari con trascorsi criminali e da V.P., 40 anni, incensurato, conducente di scuolabus e da 15 anni impegnato nel settore degli strozzini – ha proseguito i propri traffici senza tentennamenti durante le prime bordate della pandemia.

L’operazione Money Box, invece, ha acceso i riflettori su un box di autoricambi, sempre nel quartiere Portuense: era la base da cui elargire denaro con interessi esorbitanti, pari, in alcuni casi, al 240 per cento su base annua del debito contratto. Con lo scoppio della pandemia, il garage è stato chiuso ma il business ha continuato a fruttare quattrini. Le intercettazioni della Squadra Mobile mostrano come gli usurai organizzassero da casa gli appuntamenti, orario e posto, e mandassero persone fidate a prelevare il pegno, per strada, in pieno giorno. Altre volte – anche prima che il Covid-19 entrasse in gioco – intascavano il denaro tramite bonifici per servizi mai erogati. Ed emettevano fatture con cui occultare il giogo usuraio. Una filiera che puntava al riciclaggio dei proventi illeciti attraverso una società collegata a uno degli indagati, così da schermare il profitto illegale.

Per coloro che subivano il peso dei cravattari, l’unico modo per sciogliere il cordone criminale era versare in un’unica tranche l’intero importo. Intimidazioni e minacce sono state perpetrate per riscuotere la somma che di mese in mese lievitava sotto gli occhi attoniti delle vittime. Alcune delle quali, soverchiate dalla mole di soldi, sprofondavano nel vortice di ulteriori rincari.

«Gli usurai, con grande astuzia e approfittando delle evidenti difficoltà economico-finanziarie delle vittime, dapprima ricorrono ad un’erogazione di denaro gravata da un tasso di interesse piuttosto contenuto (pur sempre al tasso effettivo globale medio), al fine di cooptare un ampio ventaglio di clienti persuasi della bontà dell’operazione, poi proseguono nel rapporto di finanziamento con erogazioni sempre più onerose, tanto da ‘strozzare’ le vittime […]», si legge nelle premesse dell’ordinanza di custodia cautelare. L’adescamento e poi l’affondo. A far scattare le indagini – nate nel 2019 e inoltratesi fino ai primi mesi del 2020 -, il tentato suicidio di una delle vittime.

Il welfare mafioso di prossimità

Quel che è cambiato con la pandemia è soprattutto il contatto iniziale tra gli usurai e le loro prede. Una volta infatti erano queste ultime a rivolgersi al “cravattaro”, oggi invece sono loro ad andare in cerca di “clienti”. Stando alle evidenze degli inquirenti, oggi gli usurai si informano, sanno dove colpire, si propongono al commerciante o al ristoratore, mostrando comprensione. Si presentano e offrono denaro o palesano la possibilità di rilevare l’attività (o parte di essa), prima che il loro bersaglio si rivolga alle istituzioni bancarie. Anticipano le esigenze.

Come per Massimiliano Pugi*, un ristoratore del quartiere San Lorenzo, che ha visto materializzarsi 10 mila euro nelle parole affabili di due signori «eleganti e distinti», apparsi sulla soglia del suo locale. Un finanziamento da restituire a rate mensili con interessi del 30 per cento. Uno sconto, a loro dire, per andare in contro alle esigenze dell’esercente. Pugi ha declinato l’offerta e il duo è scomparso.

La storia di Massimiliano Pugi è stata raccolta da Maurizio Franco, Youssef Hassan Holgado, Frank Hornig, Antonella Mautone, Ilaria Meli e Filippo Poltronieri, nell’inchiesta “Mafia in Italien: Kampf um Rom” pubblicata il 16 gennaio 2021 sul settimanale tedesco Der Spiegel.

«Agli esordi della nostra esperienza, le richieste che arrivavano erano principalmente di aziende in difficoltà. Nel 2008 c’è stato il primo capovolgimento: le famiglie hanno conquistato il primato nei nostri sportelli. Nel 2019 erano il 52 per cento delle domande», dice Luigi Ciatti. «Con l’avvento della pandemia le percentuali sono cambiate nuovamente. Oggi il 65 per cento delle segnalazioni è fatto da commercianti». Piccoli dettaglianti e l’universo caotico delle partite Iva: secondo le ultime rilevazioni di Confcommercio Roma, 120 mila posti di lavoro potrebbero sfumare.

Il timore che preoccupa il presidente dell’Ambulatorio Antiusura Onlus è che, nel prossimo autunno, la situazione possa mutare ancora. «Gli effetti dello sblocco dei licenziamenti, della mancata moratoria sugli sfratti, e il ricorso delle aziende alla cassa integrazione porteranno migliaia di persone, se non assistite dallo Stato, nelle maglie della rete usuraia». Ad attenderle, quindi, il “welfare mafioso di prossimità”. Queste organizzazioni criminali utilizzano il denaro guadagnato anche come strumento di consenso nel territorio in cui operano. Cifre irrisorie, poche centinaia di euro, dispensate a famiglie povere, dissanguate dalla condizione di inequivocabile precarietà esistenziale. Soldi con cui irreggimentare nelle proprie fila un esercito e fare proseliti tra le macerie della crisi.

Fabio ha assaporato il tepore fulmineo dello stato sociale criminale. Pretende l’anonimato perché la vergogna lo perseguita. Ha una famiglia ed è un imprenditore di se stesso. Il Covid-19 ha dilapidato i suoi risparmi. «Nel 2020, a metà aprile, avevo 20 centesimi sul conto» racconta. «Dovevo scegliere: andare a rubare o andare dagli strozzini». Un giro di telefonate è stato sufficiente per contattarli, subito pronti ad ovviare alle carenze dello Stato. Perché Fabio non ha potuto usufruire del bonus per le partite Iva. Ha chiesto 600 euro per tamponare l’emergenza e dare da mangiare ai figli. Non ha mai visto dal vivo i suoi carnefici. Entità eteree che traevano forze dalle relazioni di vicinato. Ma le pendenze erano concrete: rimpinguare la somma corrisposta con l’aggravante, ogni settimana, del 10 per cento del capitale versato. «A dirmi le cose erano ragazzi, credo minorenni, che facevano la spola tra me e lui», dice.

Poi il coraggio di denunciare dopo le tribolazioni quotidiane. Grazie al sostegno delle reti antiusura, Fabio ha avuto accesso al credito regionale. Adesso si barcamena tra i marosi della crisi economica. Il lavoro langue. La serenità è una condizione che non gli appartiene. Dice di aver chiuso con il mondo dei cravattari. «Preferisco infilarmi una pistola in bocca», afferma. «Sto cercando di mettermi alle spalle questa situazione. Ad oggi, però non so che fare e non ho occhi per il futuro».

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