Di vita e di guerra: le vittime invisibili

14 Luglio 2023 | di Eleonora Vio

Aoltre 500 giorni dall’inizio dell’aggressione russa su larga scala la fine della guerra è ancora un’incognita lontana. Per noi è arrivato, però, il momento di guardarsi indietro, per provare a capire le cause, e le conseguenze a lungo termine, di un conflitto mondiale che, in alcune aree dell’Ucraina, si protrae ormai da nove anni.

Cos’hanno in comune la distruzione e il saccheggio del patrimonio artistico e gli irreparabili danni ambientali commessi dall’esercito russo? Chi sono i difensori dell’identità culturale e territoriale ucraina trascurata per troppo tempo?

Anche se apparentemente lontani, gli attacchi deliberati contro l’arte e contro l’ambiente rientrano tra i crimini di guerra puniti internazionalmente e – sebbene la strada da fare sia ancora lunga – in tanti si stanno adoperando per difenderli e documentarli.

Di vita e di guerra: le vittime invisibili è un podcast di reportage e analisi, ma anche un viaggio intimo e personale intrapreso dalla giornalista Eleonora Vio che, muovendosi lentamente a bordo di un treno da est a ovest, presenta i lati poco raccontati della guerra più mediatica di sempre. Così facendo, si sofferma sulle storie e i punti di vista dei protagonisti di quella che è, a tutti gli effetti, una duplice lotta per la giustizia.

Ep. 1 – Il risveglio dell’identità ucraina

L’invasione del 24 febbraio 2022 è stata innescata da una premessa fondamentale: secondo Putin l’identità culturale ucraina non esiste, se non come parte integrante di quella russa. Ma il giorno che avrebbe dovuto segnare il tracollo dell’Ucraina ha finito per coincidere con il suo improvviso risveglio culturale. Chi da anni sta spingendo e lavorando per questo cambio di narrativa sono persone come Yulia Vaganova e Tetyana Pylypchuk, le direttrici, rispettivamente, del Museo Khanenko di Kyiv e del Museo Letterario di Kharkiv.

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Ep. 2 – Storie di coraggio

Nonostante la guerra nell’est dell’Ucraina continuasse da otto anni e l’allarme di un’aggressione su larga scala fosse stato lanciato da tempo, il ministero della Cultura si è trovato impreparato di fronte alla brutalità e all’efferatezza dell’esercito russo. Per evitare la catastrofe, nella creazione di una vasta rete emergenziale per l’evacuazione e la salvaguardia del patrimonio artistico del Paese è stato fondamentale il ruolo di attori informali, come Milena Chornyi e Ihor Poshyvailo.

Ma se tante collezioni non sono andate perse o distrutte, il merito è anche di personaggi meno noti, come Marina Rhizenko, la guardiana del caveau del Museo regionale di Chernihiv, e Serhii Layevski, direttore del vicino Museo artistico.

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Ep. 3 – La guerra contro l’ambiente

Non c’è dubbio che la guerra contro l’Ucraina prima di tutto sia una catastrofe umanitaria, ma – al pari di tante altre – si sta anche rivelando un disastro irreparabile per l’ambiente. Se, da un lato, l’ecosistema ucraino rischia di non essere più adatto alla vita di milioni di persone, dall’altro, la sua distruzione altro non è che l’ennesimo furto, e crimine, nei confronti di questo popolo. I terreni agricoli ucraini si sono trasformati in campi della morte; le foreste, se non sono state date alle fiamme, sono diventate nascondigli per le fosse comuni, e gli specchi d’acqua contaminati dal primo all’ultimo. Per non parlare della minaccia costante proveniente dalla Centrale nucleare di Energodar, fuori Zaporizhzhya.

Ne parliamo insieme a Kateryna Polyanska, giovane ricercatrice dell’organizzazione Environment People Law, a Viktor Karamuschka, capo del dipartimento di studi ambientali dell’Università nazionale of Kyiv-Mohyla Academy, e a Mycle Schneider, esperto di politiche nucleari.

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Ep. 4 – Un disastro difficile da misurare

Calcolare i danni ambientali sull’intero territorio ucraino con la guerra ancora in corso è già di per sé una missione impossibile. Se poi si considera che larga parte dei territori occupati, e poi liberati dall’esercito ucraino, sono stati minati dai russi prima di andarsene, ci potrebbero volere anni prima di avere un’idea precisa del disastro reale.

Per il momento, dei 50 miliardi di euro di danni stimati, i più evidenti sono quelli che interessano la contaminazione del suolo per via dei continui bombardamenti e dell’impressionante volume di scarti industriali e di mezzi militari distrutti e abbandonati ovunque. In questa puntata viaggeremo nella regione di Kharkiv, per seguire sul campo le analisi e i rilevamenti condotti dall’Ispettorato statale dell’ambiente.

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Ep. 5 – Il Donbass che non ti aspetti

Fabbriche e conflitto: la fama del Donbass è quella di un’estesa area industriale inquinata, devastata dalle divisioni etniche, dalla povertà e dalle violenze di una guerra che dura da oltre nove anni. Ma in pochi sanno che il Donbass racchiude anche una sua scena culturale ed è in questo episodio, grazie a tre personaggi diversissimi tra loro, che approfondiremo quest’altro mondo sommerso. Arif Bagirov è un ex media manager e coordinatore di tante evacuazioni da Severodonetsk; Rita Nikolaeva è la direttrice del Museo regionale di Kostantinovka, vicino a Bakhmut; e Vyacheslav Gutyrya è un artista eccezionale e un personaggio bizzarro, del tutto fuori dall’ordinario.

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Ep. 6 – La guerra dell’acqua e delle Montagne Sacre

Il viaggio attraverso il Donbass continua. Lasciate temporaneamente da parte l’arte e la cultura, stavolta affrontiamo come l’ambiente e la natura di questa regione martoriata siano in gravissimo pericolo a causa della guerra. Enormi danni sono già avvenuti e altri rischiano di avvenire, con conseguenze che già ora si estendono ben oltre l’area del Donbass.I tanti siti industriali, miniere e industrie chimiche disseminati per la regione erano già sull’orlo del collasso ecologico prima dei bombardamenti. Oggi è quasi impossibile sapere quanto profondo sia il danno aggiuntivo portato dalla guerra su vasta scala. Certo è che tonnellate di acque inquinate sono uscite dai siti di stoccaggio e le antiche foreste primordiali che erano l’unico polmone verde del Donbass sono state date alle fiamme e poi disseminate di mine.

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Ep. 7 – A caccia di opere trafugate

La protezione del patrimonio culturale e artistico dell’Ucraina passa inevitabilmente anche per la lotta al saccheggio e al traffico illecito di reperti archeologici e opere d’arte, un mercato sommerso e oscuro che è molto florido sia in Russia sia in Occidente.Gli oggetti preziosi saccheggiati durante l’invasione, infatti, stanno venendo trafugati sia verso est che verso ovest, e seguirne le tracce, in un ambiente che ha sempre protetto e favorito il riciclaggio di denaro sporco, non è per niente semplice. In questa puntata ne parliamo con Sam Hardy, criminologo inglese esperto di conflict antiquities, che racconta di come forze di invasione, criminalità organizzata e protezioni politiche si mescolino per favorire collezionisti senza scrupoli in tutto il mondo.

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Ep. 8 – Crimini di guerra

«C’è poco da dire: questa è una guerra culturale. È una guerra per distruggere la nostra identità». Sono parole di Mariia Zadorozhna, di HERI (Heritage Emergency Response Initiative), organizzazione che, affianco ai Monuments Men del sergente-avvocato Vitaliy Tytych, sta cercando di raccogliere le prove che possano inchiodare la Russia ai crimini che sta compiendo in questa guerra di fronte a un tribunale internazionale.

Nell’ultimo episodio di questa stagione di Di Vita e Di Guerra cerchiamo di fare il punto di tutto quello che abbiamo ascoltato fino a qui. Tanto i crimini contro l’ambiente quanto quelli contro la cultura e l’identità ucraina sono molto difficili da quantificare però, e nonostante lo straordinario lavoro di Olga Zabramma, Mariia, Vitalii e tanti altri sarà molto difficile non solo fare in modo che tali crimini vengano riconosciuti, ma soprattutto far sì che la Russia ripaghi l’Ucraina dei danni causati dall’invasione.

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Di vita e di guerra è un podcast di IrpiMedia
Diretto da Angelo Miotto
Cura editoriale: Giulio Rubino
Prodotto, montato e sonorizzato da Riccardo Cocozza
Doppiaggio: Stefano Starna, Vanina Marini, Emily Moretti, Claudia Gatti
Musiche: Riccardo Cocozza, Yurii Gurzhy
Fotografie: Patrick Tombola
Local producer/Fixer: Illya Lukash, Yurii Larin, Tymofii Yefimov
Traduzioni: Caterina Dell’Asta Zakharova, Iryna Kolomychuk

 

Boris, il lord e la spia russa

Boris, il lord e la spia russa

Cecilia Anesi
Ludovico Tallarita

La brezza di fine di aprile iniziava a farsi sentire anche tra i tavolini e gli ombrelloni bianchi, disposti ordinatamente sul pratino all’inglese. Tirava dal bosco, che avvolge la magione in una buia morsa ovattante. Dalla lontana strada in fondo alla vallata, a guardare lungo quell’imbuto naturale, si distinguevano le lucine di una festa, il clamore degli ospiti mischiato ai bassi della musica. Un mondo distante in tutti i sensi, quello contenuto da Palazzo Terranova, rispetto alla manciata di edifici che sorgono nella frazione di Ronti, quaranta anime appena, strette tra i campi e i boschi a dieci chilometri dal comune umbro di Città di Castello. Nella lussuosa residenza invece, un palazzo di tre piani ispirato alle ricche tenute medicee, l’elegante cena aveva ormai lasciato posto a una festa, anzi un festino. Escort tra le più belle al mondo, vassoi di sostanze stupefacenti e travestimenti – almeno così riferiscono a IrpiMedia persone presenti all’evento. Dietro le maschere, vip del mondo dello spettacolo e del cinema inglese, ma anche un politico di peso: l’allora ministro degli Esteri del Regno Unito, Boris Johnson.

Qui, all’ombra del monte di Santa Maria Tiberina, tra le isolate campagne umbre di Ronti dove nulla fa presagire la presenza di sfarzo e potere, i servizi segreti italiani hanno monitorato per anni ogni movimento. È il 28 aprile 2018, ed è la data che dà inizio a uno scandalo internazionale. Quella mattina, l’allora Ministro degli Esteri inglese Boris Johnson stava partecipando a un summit della Nato a Bruxelles. All’ordine del giorno c’era l’avvelenamento di due cittadini russi sul suolo britannico: uno di loro è una ex spia doppiogiochista al servizio degli inglesi. Johnson, però, abbandona la riunione Nato prima del termine e, senza scorta, raggiunge palazzo Terranova per il party organizzato dai padroni di casa: una famiglia di oligarchi russi, i Lebedev. 

È già qualche anno che a Palazzo Terranova vengono ospitate quelle che l’intelligence italiana definisce «feste a luci rosse». Ma attenzione a classificarle come frivoli eventi goderecci: secondo il Copasir – il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica – il pater familias, Alexander Lebedev, è in Italia per partecipare a «operazioni di spionaggio e interferenza» volte ad acquisire influenza e avviare affari nel settore immobiliare, finanziario ed energetico.

Adesso, una collaborazione internazionale di IrpiMedia, Occrp e Channel4 – coordinata dalla casa di produzione cinematografica True North e andata in onda con il documentario “Boris, the Lord and the Russian Spy” su Channel4 – svela i retroscena dell’ingerenza russa in Inghilterra, portata avanti da Alexander Lebedev e arrivata fino ai vertici del potere. IrpiMedia ha ricostruito inoltre come le relazioni intessute in Umbria siano servite a curare interessi anche in Italia, compresi quelli rivolti al settore energetico.

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L'inchiesta in breve
  • Nel 2018 a Palazzo Terranova, in Umbria, ha origine uno scandalo internazionale. L’allora ministro degli Esteri inglese Boris Johnson lascia un summit NATO dove si discute delle crescenti ostilità russe e, senza scorta, raggiunge un party organizzato da una famiglia di oligarchi russi, i Lebedev. 
  • I Lebedev in Inghilterra sono imprenditori rispettati, ma non tutti credono alle dimissioni di Alexander dal Kgb nel 1992. Tra chi solleva dubbi c’è l’intelligence italiana, che monitora i Lebedev da quando acquistano proprietà in Umbria. Per gli 007, Alexander è in Italia per partecipare a «operazioni di spionaggio e interferenza».
  • Tra le attività imprenditoriali dei Lebedev c’è l’acquisto di giornali: Novaya Gazeta, The Independent e Evening Standard. È con quest’ultimo, sopravvissuto soltanto grazie alle donazioni dell’ex spia del Kgb, che i Lebedev sostengono la scalata politica di Boris Johnson.
  • Johnson ha visitato frequentemente le ville umbre dei Lebedev, dove secondo l’intelligence italiana avvenivano «feste a luci rosse» e dove si teme che i russi abbiano raccolto materiale compromettente e spiato le conversazioni degli ospiti. 
  • Una collaborazione tra Channel4, True North, OCCRP e IrpiMedia è in grado di svelare la portata dell’operazione di ingerenza russa dei Lebedev. 
  • IrpiMedia ha inoltre ricostruito come l’Umbria abbia ospitato relazioni fondamentali per la gestione di interessi commerciali che includono il settore energetico e l’allora Console onorario di Grecia a Perugia.

Vizi di famiglia: la ex spia e il barone degli Hampton e della Siberia

Il 63enne moscovita Alexander Lebedev è stato a lungo incluso nella lista dei 400 uomini più ricchi al mondo stilata dalla rivista statunitense Forbes, anche se dal 2008 in poi la sua fortuna ha subito un forte ridimensionamento. D’altronde Lebedev raramente perde l’occasione per rimarcare come in Russia venga trattato alla stregua di un dissidente politico. È vero, detiene un quantitativo importante di asset strategici disseminati tra Aeroflot, Gazprom e Sberbank, ma insegue una passione apparentemente scomoda, legata al mondo dell’editoria: insieme all’ex presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbaciov aveva rilevato metà della proprietà del quotidiano Novaya Gazeta – la testata giornalistica nota per aver pubblicato le inchieste anti-Putin della giornalista Anna Politkovskaja, assassinata nell’ascensore del suo condominio nel 2006. Lebedev ha smesso di finanziare attivamente la testata nel 2015 ma viene ricordato come un buon editore dai giornalisti della Gazeta, che durante la sua permanenza non hanno segnalato ingerenze riguardanti la linea editoriale. 

Il suo approccio alla stampa in Inghilterra, invece, è stato diverso. Insieme a suo figlio Evgeny, Alexander Lebedev ha rilevato la proprietà di due quotidiani: l’Independent e l’Evening Standard. Di quest’ultimo, in particolare, ha stralciato il prezzo di vendita, provvedendo a distribuirlo gratuitamente nei pressi delle fermate della metro di Londra e aumentando vertiginosamente la circolazione del quotidiano in breve tempo. I Lebedev nel Regno Unito sono talmente rispettati che Evgeny prende parte regolarmente a eventi di beneficenza insieme a profili politici di spessore, come quando nel 2015 ha dormito in sacco a pelo insieme all’allora sindaco di Londra Boris Johnson per raccogliere fondi destinati ai veterani di guerra senza fissa dimora. Proprio per i suoi meriti filantropici, qualche anno più tardi, Evgeny verrà nominato membro a vita della Camera dei Lord inglese con il titolo di Barone degli Hampton e della Siberia. 

L’ingresso nella società inglese dei Lebedev, tuttavia, è stato accompagnato sin dall’inizio da critiche. Per sua stessa ammissione, Alexander ha lavorato come spia del Kgb – i servizi segreti sovietici – sfruttando un impiego fittizio come terzo segretario dell’ambasciata sovietica a Londra tra il 1988 e il 1992, anno in cui sarebbe stato obbligato a rassegnare le dimissioni dai servizi segreti russi dopo aver avviato un percorso imprenditoriale indipendente. 

È allora che inizia la sua scalata nella finanza russa che lo porterà a diventare uno degli uomini più ricchi al mondo. Insieme a collaboratori provenienti, come lui, dal mondo dello spionaggio russo in Inghilterra, apre la Russian Investment Finance Company (Rifc) e nel ‘95 rileva la National Reserve Bank (Neb), all’epoca un piccolo istituto bancario in grave difficoltà e oggi annoverata dal Copasir «tra le principali banche russe e che nel tempo avrebbe avuto consolidati rapporti con l’Fsb» – il nome acquisito dai servizi segreti dopo la proclamazione della Federazione Russa. 

L’ascesa di Lebedev ben rappresenta un fenomeno tipico degli anni ‘90, quando in Russia gli asset strategici della nuova economia privatizzata erano un boccone appetitoso per le ex spie del Kgb e sono stati depredati: gli ex sodali dell’intelligence sovietica erano legati tra loro a doppio filo e insieme puntavano all’alta finanza. 

Alexander Lebedev, editore dell’Evening Standard e dell’Independent, parla alla cerimonia Journalists Memorial Rededication al Newseum, Washington D.C. – Foto: AFP PHOTO/MIKE THEILER (Photo credit should read MIKE THEILER/AFP via Getty Images)

Quelle dimissioni “Poco chiare” dal Kgb

Tra le istituzioni che sollevano dubbi sul fatto che Alexander Lebedev abbia dismesso del tutto i panni da spia nel 1992 c’è anche l’intelligence italiana, che monitora la sua presenza in Italia a partire dal 2008, anno in cui compie operazioni immobiliari in Umbria per decine di milioni di euro

Secondo i nostri apparati di sicurezza, Lebedev avrebbe preso parte a «operazioni di spionaggio e di ingerenza» volte a «condizionare le scelte societarie e governative» dei Paesi in cui l’oligarca svolge affari, tra cui anche l’Italia. Una valutazione che avrebbe dovuto preoccupare non solo il governo italiano, ma anche gli apparati di sicurezza inglesi, visto che gli immobili dei Lebedev in Umbria sono stati visitati da figure di spicco della politica britannica, tra cui due ex primi ministri come Tony Blair e il già citato Boris Johnson.

Il rapporto stilato dagli 007 è parte di un resoconto più ampio sulle ingerenze russe in Italia. La deputata parlamentare e vicepresidente della Commissione Esteri Lia Quartapelle, che ha potuto consultare il rapporto, ritiene che le proprietà umbre dei Lebedev possano essere «parte integrante di una rete di contatti» e di una «strategia di influenza» attiva in Italia. Motivo per cui la nostra intelligence monitorava con attenzione sia le personalità presenti nelle dimore umbre che la frequenza delle visite, ha riferito la parlamentare.

Stando al dossier, che nel 2019 è arrivato fin sulla scrivania dell’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il percorso imprenditoriale avviato da Lebedev nel 1992 non fu motivo di conflitto con il Kgb, anzi: l’ex tenente colonnello avrebbe avviato la sua carriera «sfruttando le entrature acquisite grazie al lavoro da agente».

Secondo il Copasir, Lebedev sarebbe ancora oggi un asset del governo russo e godrebbe «del favore dell’amicizia di Vladimir Putin». L’amicizia è sicuramente di lunga data, e abbastanza stretta da permettere a Lebedev padre di cercare un ruolo di primo piano. Nel corso di questa inchiesta sono state infatti rinvenute diverse lettere scritte da Lebedev senior e indirizzate a Vladislav Surkov, uno dei consiglieri più fidati di Vladimir Putin e una delle menti dietro l’occupazione della Crimea. Si tratta di lettere scritte poche settimane dopo l’invasione del 2014, in cui Lebedev invita i leader mondiali a prendere parte a una conferenza di pace in una struttura di sua proprietà in Crimea. 

E mentre Lebedev padre cercava di ritagliarsi uno spazio come mediatore in ambito internazionale, suo figlio Evgeny partecipava a un talk-show televisivo inglese, spiegando agli spettatori che «la Crimea è da molti, molti anni, molti secoli, parte della Russia e soltanto recentemente è diventata Ucraina».

Evgeny Lebedev ha dichiarato a IrpiMedia che «le accuse mosse ad Alexander Lebedev, che lo descrivono come coinvolto in attività di spionaggio e interferenza negli affari italiani, sono insensate».

Alexander Lebedev e Evgeny Lebedev all’Animal Ball 2016 presentato dalla Elephant Family a Victoria House, November 22, 2016 a London, Inghilterra – Foto: David M. Benett/Dave Benett/Getty Images per la Elephant Family

Amicizie consolari e accordi energetici

Dalla diplomazia all’energia, il passo è breve. Secondo il rapporto del Copasir Lebedev sarebbe stato coinvolto anche «in tentativi di Gazprom (e del governo russo, suo principale azionista) di acquisire una posizione di controllo sulla filiera mondiale della distribuzione delle risorse energetiche». L’oligarca avrebbe lavorato per aprire nuove relazioni energetiche in Italia, in particolar modo per quanto riguarda il progetto – ormai abbandonato – del gasdotto South Stream.

Nello specifico, per perpetrare gli interessi russi in Italia, Lebedev si sarebbe avvalso dell’allora console onorario di Grecia, Nikolaos Christoyannis, all’epoca di stanza a Perugia. Un uomo che conosce bene il panorama italiano: la sua attività consolare in Italia è attestata sin dal 1986. Secondo il Copasir, Christoyannis avrebbe accompagnato Alexander Lebedev in molti dei suoi viaggi italiani e sarebbe stato «all’uopo indottrinato» dai russi. Ma c’è di più: la nostra intelligence pone in diretta relazione l’arrivo dei Lebedev in Umbria nel 2008 con la nomina di Christoyannis a direttore del ramo aziendale greco della Ghizzoni Spa, una società con sede a Ferrandina, in provincia di Matera, specializzata nella produzione di condotti ad alta pressione per il trasporto di petrolio e gas naturale liquefatto oltre che nella costruzione di stazioni di pompaggio e compressione del gas stesso.  

La Ghizzoni avrebbe dovuto contribuire alla realizzazione del gasdotto South Stream, un progetto controverso anche perché prevedeva una joint-venture tra Eni e Gazprom. L’avvicinamento tra il gigante energetico italiano e il suo omologo russo non veniva visto di buon occhio dai partner internazionali. In quegli anni, infatti, era in corso un braccio di ferro tra l’Unione Europea e la Russia per la realizzazione di un gasdotto che permettesse al Vecchio Continente di far fronte al suo crescente fabbisogno energetico. I due progetti in competizione erano il Nabucco, sostenuto da diversi Paesi UE, e il South Stream, sponsorizzato da Gazprom, e che avrebbe coinvolto diverse multinazionali europee tra Eni, Wintershall, Edf.

La preferenza di Eni accordata a Gazprom e al South Stream preoccupava anche i funzionari dell’Ambasciata statunitense a Roma. In seguito a un incontro avvenuto il 18 marzo del 2008 tra il consigliere economico dell’Ambasciata e Marco Alverà, all’epoca Head of Gas Supply & Portfolio Development, l’Ambasciata Usa mandò il seguente cablogramma a Washington, emerso grazie a Wikileaks: «Il briefing di Eni ricordava il linguaggio ambiguo di tipico stampo sovietico. Secondo Eni, la sicurezza energetica europea verrebbe rafforzata – non indebolita – attraverso nuovi gasdotti verso la Russia. Secondo Eni, nel confronto energetico tra Russia e Ucraina, i cattivi sono gli Ucraini – non i Russi. Parlando con Eni a volte si ha l’impressione di parlare con Gazprom».

In questo complesso scacchiere internazionale, Christoyannis agiva come responsabile legale del ramo d’azienda greco della Ghizzoni SpA, come ha potuto verificare IrpiMedia. È un ruolo importante, poiché il ramo basso del South Stream sarebbe dovuto passare proprio dalla Grecia prima di arrivare in Puglia. Gli investimenti non trovarono mai un riscontro effettivo in quanto il progetto South Stream non venne realizzato. La Nuova Ghizzoni SpA (nuova forma della società) non ha risposto alle domande di IrpiMedia, ma i suoi vertici manageriali sono comunque risultati del tutto estranei ai rapporti, sui quali si è concentrata l’attenzione dei nostri apparati di intelligence, autonomamente coltivati da Christoyannis con i propri referenti russi. 

Ad oggi la Ghizzoni SpA Greek Branch risulta essere chiusa, ma dall’elenco incarichi della Ghizzoni Spa emerge un compenso di 50mila euro a Nikolaos Christoyannis in virtù di un contratto stipulato nel 2017 come consulente legale per aiutare il ramo aziendale greco della Ghizzoni a smaltire le pratiche con clienti e fornitori.

Il legame tra la Russia e la famiglia Christoyannis coinvolge anche Konstantinos, figlio di Nikolaos, succeduto al padre come console onorario di Grecia a Perugia nel 2013. Konstantinos, oltre a partecipare a eventi in Umbria che promuovevano interessi convergenti tra Italia, Grecia e Russia, è stato supervisor legale delle elezioni presidenziali in Russia nel 2018, oltre che della privatizzazione del porto di Salonicco, acquistato dall’oligarca greco-russo Ivan Savvidis.

Contattato per un commento, Konstantinos Christoyannis ha detto: «Né io né mio padre abbiamo informazioni alcune né tantomeno conosciamo direttamente o indirettamente la famiglia Lebedev, o persone riconducibili alla stessa». Non è stato invece possibile raggiungere il padre, Nikolaos Christoyannis.   

Oggi a Perugia, il Consolato di Grecia è chiuso. Nikolaos Christoyannis sembra aver lasciato l’Italia, mentre Konstantinos Christoyannis si è trasferito a Roma per lavorare nel settore della governance ambientale, sociale e aziendale.

La montagna dei russi nel cuore d’Italia

I Lebedev arrivano in Italia in punta di piedi. Entrano a Palazzo Terranova prima come turisti di lusso, e poi fanno un’offerta irrinunciabile. I vecchi proprietari inglesi – che avevano costruito il palazzo sopra i resti di una vecchia porcilaia – vengono convinti dall’affabilità di Alexander, e nel 2006 vendono l’attività ricettiva di country house, compresi i contratti con il personale, l’arredamento, macchinari agricoli e parco auto per 729 mila euro. Poco meno di un milione, a cui poi si aggiunge un pagamento aggiuntivo per l’immobile. 

In nome della discrezione i Lebedev acquistano anche le proprietà intorno al Palazzo: boschi, terreni, dei ruderi che tagliano la strada e un casale sul versante opposto, proteggendo la proprietà con telecamere e filo spinato. Tutto sembra voler scoraggiare le incursioni dei curiosi: in auto ci si arriva inerpicandosi sul crinale, sempre più scosceso, costeggiando una valle a imbuto, fino al cancello della villa. La strada lì si blocca, prosegue sulla destra ma diventa inagibile. La riservatezza è totale, e a raccontare cosa avvenisse davvero nel Palazzo, non si trova nessuno. «I dipendenti ed ex dipendenti hanno degli accordi di riservatezza (Nda) pazzeschi, con richieste di danni milionari in caso di rivelazioni», ha spiegato a IrpiMedia un giornalista della zona. Anche lui non è stato autorizzato a rilasciare commenti ufficiali da parte del direttore della testata per cui lavora. Ma qualcosa ha visto: c’era «un servizio d’ordine pubblico rafforzato in certe date estive, con numerosi agenti di polizia dispiegati. Come si fa quando viaggiano i primi ministri. Dubito che sia stato ordinato dal commissariato di Città di Castello, è chiaro che gli ordini arrivavano da più in alto», spiega il giornalista. Per le istituzioni della zona, la presenza è stata «invisibile». Il sindaco dell’epoca (2018), Luciano Bacchetta, sostiene di non avere mai incontrato né i Lebedev, né Boris Johnson. «Se la loro presenza c’è stata, è stata una presenza fantasma».

Una veduta di Palazzo Terranova – Foto: True North

E un fantasma, si sa, non può che trovarsi un castello. Lord Lebedev lo troverà a 40 chilometri da Palazzo Terranova, più a sud, appena dietro Perugia. Due anni dopo l’acquisto di Palazzo Terranova, nel 2008, Lebedev acquista anche il castello di Procopio: un rudere sulla cima del Monte Tezio, uno dei monti più mistici dell’Umbria, avvolto da foreste millenarie e da una vista mozzafiato sui Sibillini. 

Il rudere era stato acquistato a marzo 2008 da un piccolo imprenditore di Gubbio che ha uno dei più grandi negozi fantasy del centro Italia e un sogno: a Procopio voleva costruire il primo villaggio medievale dell’Umbria, castello e ponte levatoio inclusi, dove organizzare giochi di ruolo e vita secondo lo stile dell’epoca. Quello che non aveva calcolato è che di lì a poco «un ricco imprenditore inglese» gli avrebbe fatto un’offerta irrinunciabile: due milioni di euro per un rudere che lui aveva pagato meno di un terzo.

«Il mio vicino mi ha detto che c’era un suo amico interessato, che era una persona seria. Io non volevo vendere, volevo costruire il mio sogno. Ma chi può permettersi di rifiutare una tale offerta?», spiega l’uomo circondato da antiche spade e con la certezza di essersi fatto soffiare il castello dei sogni. Lebedev non lo guarderà mai negli occhi. A firmare per la Santa Eurasia srl (la società con cui l’oligarca possiede entrambi gli immobili in Umbria) è Roger Ingold, un intermediario svizzero di fiducia.

«Il vicino di casa», invece, sarebbe stato Alessio Carabba Tettamanti, un avvocato italiano di nobili origini. Tramite una società di famiglia, i Carabba Tettamanti posseggono una gigantesca porzione del Monte Tezio: tenute, borghi, un castello e una strada attraversa il monte fino al versante opposto. 

I media inglesi chiamano il Monte Tezio la “Montagna dei russi” perché sulle sue pendici oltre alla dimora dei Lebedev, c’è anche la tenuta di un’altra ricchissima famiglia russa, gli Yakunin. Si tratta di un golf club, l’Antognolla Golf, che contiene anche un castello in ristrutturazione: è di proprietà di Andrei Yakunin, figlio anche lui di un ex agente del Kgb, Vladimir Yakunin, che è stato anche presidente delle ferrovie russe dal 2005 al 2015. 

«Non ho mai incontrato Yakunin», ha dichiarato Evgeny Lebedev a IrpiMedia. I due, che non risulta abbiano investimenti assieme in Umbria, si sono affidati a un comune contatto: sempre Alessio Carabba Tettamanti. Quest’ultimo è infatti azionista di minoranza sia in Santa Eurasia, società di Evgeny Lebedev, sia in Antognolla spa, di Andrei Yakunin.

Come riferisce lui stesso a IrpiMedia, conosce Lebedev da oltre 15 anni e Yakunin dal 2013 «quando ha investito nella Antognolla SpA e nel suo progetto turistico», del quale Carabba Tettamanti è socio «sin dal 2010». Per quanto riguarda il suo coinvolgimento nella Santa Eurasia Srl – la compagnia di Evgeny Lebedev – Carabba Tettamanti afferma: «L’1% è a me intestato in via esclusivamente fiduciaria, quale avvocato di Evgeny Lebedev, al fine di mantenere la pluralità formale dei soci».

È una legale del suo studio, e amministratrice unica della Santa Eurasia, a firmare l’opposizione alla richiesta di accesso agli atti inviata da IrpiMedia ai comuni di Città di Castello e di Perugia per poter visionare le pratiche edilizie del Castello di Procopio e di Palazzo Terranova. Arrecano pregiudizio alla tutela dei dati personali e all’attività economica, scrive l’avvocata. La pubblica amministrazione, dal canto suo, ha scelto di privilegiare l’interesse commerciale di un oligarca russo, invece che assicurare trasparenza, negando l’accesso ai documenti.

Una veduta del Castello di Procopio – Foto: True North

Londongrad e il Kompromat

Il viavai di politici di spessore, tra cui Tony Blair e Boris Johnson, che caratterizza le proprietà umbre dei Lebedev è un dato che desta preoccupazione all’interno degli apparati di sicurezza oltremanica. Matthew Dunn, ex agente dell’Mi6 – l’equivalente inglese dell’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna – ha ricordato che «i politici non sono addestrati a gestire situazioni del genere. Si mettono immediatamente in una posizione estremamente vulnerabile – ha affermato Dunn – approcciarsi in modo ingenuo o indifferente significa mostrare il fianco alla possibilità di diventare vittima di ricatto». 

È anche per questo che i servizi di intelligence inglesi erano particolarmente preoccupati dalle visite di Johnson a Palazzo Terranova quando ricopriva la carica di ministro degli Esteri. Sia perché viaggiava senza scorta, e non aveva avvisato il gabinetto, sia perché le conversazioni dei presenti erano di fatto vulnerabili. «A quelle feste poteva succedere qualsiasi cosa. Anche i numeri di telefono e il traffico telefonico dei presenti potevano essere intercettati facilmente», ha dichiarato l’ex capo del dipartimento russo dell’Mi6 Christopher Steele. 

La totale rottura di protocollo da parte di Boris Johnson nel 2018 sancì l’inizio dei lavori di una Commissione parlamentare inglese a causa del timore che il politico fosse stato vittima di un vero e proprio Kompromat. All’epoca Johnson tentò di affermare che Lebedev padre non fosse presente all’evento che si è tenuto il 28 aprile 2018, salvo essere smentito dallo stesso Alexander qualche mese dopo.

Boris Johnson, Evgeny Lebedev e Rachel Johnson alla celebrazione dell’evento “Evening Standard’s 1000 Most Influential Londoners” ospitato dal giornale inglese al Burberry Regent Street il sette novembre 2012 a Londra, Inghilterra – Foto: Dave M. Benett/Getty Images

Tra Johnson e i Lebedev c’è un’amicizia di lunga data, frutto anche del sostegno alle sue campagne politiche sposate dai quotidiani inglesi dei Lebedev. Grazie all’inchiesta di IrpiMedia, True North e OCCRP è stato possibile dimostrare come la gestione di entrambi i giornali inglesi Evening Standard e Independent, generasse una continua emorragia di denaro. Inoltre, i conti della società attraverso cui i Lebedev controllavano i quotidiani – la Lebedev Holdings Limited – dimostrano come la sopravvivenza delle testate dipendesse esclusivamente dalla generosità dell’ex spia Alexander, che tra il 2009 e il 2015 ha prestato almeno 115 milioni di sterline al progetto editoriale. In altre parole, i Lebedev hanno finanziato una gestione aziendale a perdere sostenendo, tra le altre cose, le battaglie politiche di Johnson

La vicinanza di Boris Johnson a un oligarca, tuttavia, non è l’unico elemento attenzionato dagli apparati di sicurezza inglesi, che da anni monitorano la crescente presenza russa a Londra e in tutta la Gran Bretagna. Nel novembre 2017 ha inizio un’indagine formale, il cui risultato è contenuto in un dossier – il cosiddetto “Russia Report” – che arriva sulla scrivania del primo ministro inglese il 17 ottobre 2019. La carica è già ricoperta da Boris Johnson, subentrato a fine luglio alla premier dimissionaria Theresa May, grazie al sostegno del partito conservatore. Per legittimare la sua posizione nei confronti dell’elettorato vengono indette nuove elezioni per il 12 dicembre 2019. Johnson, in attesa del voto, non ritiene opportuno pubblicare il dossier sulle ingerenze russe.

Quando Johnson viene confermato primo ministro, decide di festeggiare la vittoria proprio a casa dei Lebedev, a Londra. Tra le personalità di spicco presenti per l’occasione ci sono altri esponenti di punta del partito conservatore, come George Osborne, all’epoca redattore dell’Evening Standard di proprietà di Lebedev ed ex ministro delle finanze.

Non passa molto tempo prima che Boris Johnson ripaghi i Lebedev per il sostegno ricevuto durante la sua carriera politica. A marzo 2020, poco più di tre mesi dopo aver vinto le elezioni, Johnson propone Evgeny come membro a vita della House of Lords, rigettando il parere del comitato per la selezione dei lord (Holac) e addirittura ignorando quello dell’Mi6. Stando alle testimonianze raccolte a margine dell’inchiesta, due agenti dei servizi segreti inglesi si sarebbero recati di persona a Downing Street per illustrare al neo primo ministro le ragioni che rendevano Evgeny Lebedev inadatto alla nomina. Ma Johnson, furioso, avrebbe definito la richiesta «russofobica», proseguendo per la sua strada. 

Secondo Christopher Steele, ex capo del dipartimento russo dell’Mi6, si trattò del primo caso nella storia inglese in cui una nomina al parlamento ha costituito un rischio per la sicurezza nazionale. In quei giorni poi – riferiscono fonti informate sui fatti – ha avuto luogo un evento senza precedenti: alcune cariche istituzionali, seriamente preoccupate dalla possibilità che Evgeny Lebedev diventasse Barone, si rivolsero direttamente alla Regina Elisabetta, l’unica persona con il potere formale di bloccare la nomina. Buckingham Palace, però, rifiutò di intervenire per paura di politicizzare la figura della monarca. 

Boris Johnson ha dichiarato a Channel4 di rimanere un sostenitore della nomina di Evgeny Lebedev alla House of Lords e che è stata rispettata la normale procedura, negando di avere ignorato i consigli dei reparti di sicurezza. Mentre Evgeny Lebedev ha dichiarato che «Johnson è cosciente del consiglio dei reparti di sicurezza, e non ritiene che alcun tentativo sia stato fatto dai reparti per persuadere il primo ministro a ritirare la candidatura». 

Il famigerato Russia Report venne diffuso soltanto il 20 luglio del 2020. Ovvero, una decina di giorni prima che Evgeny diventasse Barone. In uno dei passaggi divenuti più noti afferma che la «penetrazione russa è la nuova normalità».

Oggi a Palazzo Terranova fervono i preparativi per la nuova stagione estiva. D’altronde, la ricca tenuta non è congelata perché né Alexander né Evgeny sono stati toccati dalle sanzioni europee contro gli oligarchi russi considerati vicini a Putin. Sono solo due i Paesi che la pensano diversamente, l’Ucraina e il Canada.

Dennis Molinaro, ex analista dei servizi segreti canadesi, ritiene preoccupante come a livello politico, sia in Inghilterra che in Europa, non si sia fatto nulla per limitare l’influenza di Lebedev. «Il rischio è che lui sia nelle condizioni di porre fine alla carriera politica di alcuni personaggi – ha spiegato l’analista – non credo sia possibile per una persona come Alexander, in passato così legato al Kgb, semplicemente terminare quella carriera. In particolar modo se il governo russo riconosce la sua rete di contatti all’infuori del Kgb come potenzialmente utile. Ritengo che il rapporto con le agenzie di intelligence dello Stato russo sia ancora attivo».

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Cecilia Anesi
Ludovico Tallarita

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Giulio Rubino

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OCCRP

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Gli agenti della propaganda russa

#OperazioneMatrioska

Gli agenti della propaganda russa

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Martin Lane

«Non so a che ora sia la cena», scrive Marina. «Non importa, gli italiani amano mangiare e bere – sempre!!», replica Robert. «Dimenticavo. I regali sono importanti per i giornalisti, visto che ce ne sarà una folla. Molti fotografi», ricorda Marina. «Certamente. Porteremo un sacco di bei regali e i vini migliori, vetri di Murano, dobbiamo solo sapere per quante persone», replica Robert entusiasta. “Marina” è Marina Klebanovich, attivista russo-polacca con un’ampia rete di contatti nell’ambiente delle destre europee. Si sta scambiando messaggi con Robert Stelzl, noto attivista pro Russia austriaco. Nonostante il tono molto informale, la comunicazione ha uno scopo ufficiale: Klebanovich è la segretaria di Sargis Mirzakhanian, un lobbista russo esperto di comunicazione che ha superato da poco la trentina, dal volto pulito e paffuto, spesso sorridente nelle foto che appaiono sui social.

Lavorando per Mirzakhanian, Marina da due mesi è impegnatissima nell’organizzazione, a ottobre 2016, di una visita di una delegazione di politici e imprenditori italiani in Crimea, all’epoca già sotto sanzioni. Obiettivo ufficiale del viaggio era aumentare gli scambi commerciali, nonostante le disposizioni europee. Non è l’unico evento del genere a cui lavora Klebanovich: ce n’era stato in precedenza uno a maggio 2016 e ce ne sarà un altro ad aprile 2017. Gli italiani sono spesso presenti: politici per lo più di Consigli regionali accompagnano delegazioni di imprenditori.

Oltre alla ricerca di nuovi business, si creano anche alleanze politiche che mirano a ostacolare il piano europeo di sanzionare la Russia. La regia unica di questi incontri è rimasta un segreto fino a quando un gruppo di attivisti ucraini ha hackerato la casella di posta di Sargis Mirzakhanian.

L’inchiesta
L’inchiesta – che IrpiMedia pubblica insieme a Eesti Ekspress (Estonia), Occrp, iStories (Russia) e Profil (Austria) – analizza la campagna di propaganda del think tank russo diretto da Sargis Mirzakhanian, l’International Agency for Current Policy (IACP). Bersaglio delle attività dell’organizzazione non è stata solo l’Italia, ma anche l’Austria, la Germania, la Bulgaria, la Grecia, Cipro, la Lettonia, la Romania e la Turchia.

Le informazioni di cui diamo conto provengono da un corpo di circa 20 mila email hackerate da attivisti ucraini, risalenti al periodo tra il 2007 e il 2017. Alcune di queste comunicazioni, sono già apparse su alcuni media internazionali.

Qui l’inchiesta in inglese su Occrp e il capitolo in inglese sui politici italiani.

Sargis Mirzakhanian, il megafono della propaganda

Le e-mail – oltre 20 mila – dimostrano che Mirzakhanian era in contatto con diversi alti papaveri del Cremlino. L’organizzazione del lobbista, che non risulta sul registro imprese russo, si chiama International Agency for Current Policy, IACP. Non si conoscono le sue fonti di finanziamento, eppure, come scrive Marina Klebanovich nella mail, il think tank si è prodigato per finanziare incontri, conferenze, viaggi di osservatori internazionali. In alcune presentazioni interne, si legge che l’organizzazione si definisce «un ristretto gruppo di professionisti» che si riunisce con lo scopo di «cooperare con i principali partiti e politici europei».

A partire da dicembre 2020, alcune email di Mirzakhanian sono apparse in diverse testate in lingua russa e ucraina. Ukraïns’ka pravda, giornale ucraino filo-europeista, in un articolo di Tatiana Popova – ex vice ministra dell’Informazione tra il 2015 e il 2016 – parla di campagne d’informazione tese a fomentare i movimenti di separatisti russi in città come Odessa o Dnipro, due delle città oggi fortemente coinvolte nel conflitto in Ucraina. Il portale di notizie My.Ua riferisce di contatti tra Mirzakhanian e Aram Petrosyan, uno dei principali leader della controrivoluzione che ha fatto seguito a piazza Maidan (vedi il box L’annessione della Crimea e la guerra in Donbass) negli anni più caldi, tra il 2014 e il 2015.

Sargis Mirzakhanian, fino al 2021, è stato una sorta di agente della propaganda russa, che ha iniziato la gavetta facendo l’assistente parlamentare di Igor Zotov. Sul curriculum si descrive come esperto di media e di relazioni internazionali, oltre che nell’organizzazione di eventi. Oggi, stando al profilo di VKontante, il Facebook russo, si dedica ad altro.

Tra le email si trovano circa un migliaio di messaggi scambiati con Inal Arnzinba, classe 1990, che nel 2021 è stato nominato ministro degli Esteri del governo della Repubblica autonoma filo-russa dell’Abkhazia, regione della Georgia invasa nel 2008 da Vladimir Putin. All’inizio della carriera, nel 2014, è stato assistente di Vladislav Surkov, l’uomo che nei primi del Duemila ha creato il partito di Putin, Russia Unita. Surkov ancora oggi è considerato uno dei consiglieri di Vladimir Putin che più ha influito nella decisione di invadere l’Ucraina.

A conferma del coinvolgimento di politici di primo piano nei piani di Mirzakhanian, nel leak si trova un inoltro di email in cui sono coinvolti Zotov, Mirzakhanian, Arnzinba e Petrosyan: attivisti filorussi scrivono di avere bisogno di «supporto informativo, organizzativo e finanziario» per poter ricostituire una formazione politica. Questo è stato il lavoro dello IACP.

Obiettivo Ucraina

L’inizio della guerra di Vladimir Putin all’Ucraina, come abbiamo già scritto, scatta con la destituzione – promossa dal movimento di piazza Maidan – di Viktor Yanukovich, presidente vicino allo stesso Putin. Era il febbraio del 2014. Un mese dopo, a seguito di un finto referendum imposto da Mosca, la Crimea si è dichiarata indipendente dall’Ucraina e ha dichiarato la volontà di annettersi alla Russia con lo status di “Repubblica autonoma”. Nessuno, a parte gli alleati di Vladimir Putin, l’ha mai riconosciuta come tale.

A seguito dell’annessione, l’Unione europea ha cominciato a mettere sotto sanzione persone fisiche e persone giuridiche che hanno favorito l’annessione della Crimea. Accadrà lo stesso a partire dal febbraio 2022, all’inizio dell’invasione dell’Ucraina: da allora la lista dei sanzionati si è molto allungata. Ancora oggi gli effetti reali delle sanzioni sulla Russia sono molto discussi, però fin da subito diverse associazioni di imprenditori che hanno relazioni con Mosca e diversi politici hanno lamentato gli effetti economici interni della scelta dell’Europa. Alcune formazioni di estrema destra – identitarie e sovraniste, contrarie all’idea di un’Europa sempre più unita e integrata – hanno sfruttato questa tensione per costruire consenso, facendo propria la campagna anti-sanzioni.

La definizione: Guerra ibrida

Con “guerra ibrida” s’intende quella strategia militare che unisce alla guerra convenzionale anche attacchi hacker, strumenti di disinformazione, condizionamento politico nel Paese avversario. La Russia è tra i Paesi più noti per adottare questa serie di tecniche.

Le attività di IACP si sono concentrate nel promuovere un atteggiamento più morbido sulle sanzioni, uno dei principali obiettivi diplomatici della Russia in questi anni. Sono andate molto al di là di organizzare i viaggi per convegni e pagare le spese dei partecipanti. Il think tank ha anche reclutato osservatori internazionali per le elezioni amministrative locali del 2017 in Russia insieme alla Fondazione russa per la pace, organizzazione di Leonid Slutsky, a lungo deputato di primo piano della Duma.

Il codice di condotta degli osservatori internazionali prevede che non «accettino finanziamenti o supporto logistico dal governo di cui osservano le elezioni, dato che questo potrebbe far sorgere un conflitto di interessi e minare la credibilità e la qualità dei risultati della missione». Nel database invece c’è un elenco di undici osservatori europei – tra cui gli eurodeputati Jaromir Kohlicek della Repubblica ceca, Dominique Bilde (Francia) e Andre Elissen (Paesi Bassi), insieme al deputato belga Aldo Carcaci – in una tabella con in calce la voce «Stima: 68 mila euro», presumibilmente riferibile al costo del loro viaggio.

«Le false missioni di osservazione elettorale sono spesso la porta d’ingresso per altre attività che potrebbero concludersi in relazioni di tipo economico o corruzione», afferma in un’intervista a Occrp Stefanie Schiffer, presidentessa del board della European Platform for Democratic Elections (EDPE), organizzazione che monitora le attività degli osservatori elettorali internazionali. Un articolo dell’Economist del 2017 riprende una stima secondo cui oggi circa l’80% delle elezioni mondiali è monitorata, contro il 30% degli anni Ottanta. La figura dell’osservatore è stata istituita dai Paesi europei nel 1857 per osservare le condizioni in cui votavano gli elettori di due regioni dell’odierna Romania. In pratica, quindi, farne uso significa adattarsi a uno standard internazionale.

Le inchieste di IrpiMedia sulla propaganda russa

#OperazioneMatrioska è l’inchiesta che IrpiMedia ha condotto tra il 2019 e il 2022 sul modo in cui la Russia ha cercato di condizionare l’opinione pubblica europea e su come i partiti di estrema destra in Europa abbiano cercato di costruirsi una nuova narrazione attraverso l’immagine della Russia come paladini dei valori tradizionali contro l’Unione europea “mondialista”. L’abbiamo definita Operazione Matrioska perché i suoi protagonisti, come delle matrioske, appaiono in un modo all’esterno, ma all’interno contengono altri legami, altri interessi.

#DisegnoNero è l’inchiesta che IrpiMedia ha condotto nel 2022 insieme alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli sulle nuove destre europee. È stato un viaggio tra Italia, Francia, Germania e Polonia alla ricerca degli elementi che hanno contraddistinto la crescita nei consensi delle destre europee, tanto alleate quanto difformi le une dalle altre.

Vladegamberi, l’uomo di IACP in Veneto

In Italia, l’uomo di IACP è Stefano Valdegamberi. Consigliere regionale del Veneto, nel 2020 è stato eletto nella lista a sostegno del presidente leghista Luca Zaia, seppur non tesserato con la Lega. Quando il 28 ottobre 2020 si sono costituiti i gruppi consiliari, Valdegamberi ha scelto di presiedere il Gruppo Misto.

Se la Lega dopo l’invasione russa ha cercato di minimizzare le sue attuali relazioni con la Russia, Valdegamberi invece non ha mai fatto nulla per nasconderle: «La Risoluzione che indica la Russia come stato terroristico è un grave errore dell’Unione europea che fomenta il conflitto, falsando la verità storica. L’Europa ha perso una grande occasione per promuovere la pace», scriveva pochi giorni dopo che il Parlamento europeo ha votato quel provvedimento. Le dichiarazioni sono state ospitate dal sito dell’associazione Amici della Crimea, di cui Valdegamberi fa parte.

Ad Amici della Crimea appartengono anche osservatori internazionali che hanno partecipato a referendum promossi dalla Russia in regioni poi annesse con la forza: in Donbass, l’ultimo in ordine di tempo, Crimea, Ossezia del Sud e Abkhazia. Osservatori quindi che hanno certificato annessioni mai riconosciute dalla comunità internazionale. Lo stesso Valdegamberi è stato osservatore internazionale in Catalogna nel 2014, (IrpiMedia e Occrp hanno raccontato una strana operazione con cui degli emissari russi hanno cercato di rifornire di armi e criptovalute gli indipendentisti catalani), in Crimea nel 2018 e in Russia nel 2021. Ma torniamo al 2016, per capire quanto Valdegamberi sia vicino a IACP.

Il 19 aprile tra i collaboratori di Mirzakhanian circola la bozza del testo di una mozione in un file chiamato, in italiano, “risoluzione embargo”. È la bozza della mozione che verrà presentata da Valdegamberi e altri consiglieri leghisti al Consiglio regionale del Veneto il giorno dopo, per essere poi votata il mese successivo. «È una bomba! – è il commento che si legge in uno scambio di mail tra persone dell’entourage dello IACP che avviene il 24 aprile – Nella risoluzione: 1) riconoscimento della Crimea; 2) revoca delle sanzioni; 3) colpire Mogherini! (inteso come Federica, allora Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ndr)», sintetizza il messaggio. «Dal punto di vista dei media – conclude – questo sarà molto probabilmente il nostro lancio di informazioni più rumoroso!». Il giorno dopo sarà presentata da Valdegamberi al Consiglio regionale e messa in agenda per la sua approvazione dopo un mese.

La risoluzione è un atto di indirizzo politico, indica cioè un impegno della Giunta ad affrontare un certo argomento. In questo caso, erano previsti due modi concreti di farlo: da un lato, spingere il governo nazionale a più miti consigli sul piano delle sanzioni; dall’altro, istituire un comitato che si occupasse degli effetti economici delle sanzioni.

Il cerchio magico dello IACP

Il 18 maggio 2016, con una deliberazione, la Giunta regionale del Veneto recepisce la mozione. Il testo impegna il Consiglio regionale veneto a: primo, fare pressioni sul Governo nazionale al fine di ottenere «la revisione dei rapporti tra l’Unione europea e la Federazione Russa, evidenziando i danni irreversibili alla nostra economia provocati dalle loro scelte scellerate ed irresponsabili anche alla luce della sicurezza internazionale»; secondo, «promuovere la costituzione di un comitato allo scopo di raccogliere le sottoscrizioni al fine di revocare le sanzioni alla Russia». In più, la mozione chiedeva al governo di Roma di «condannare la politica internazionale dell’Unione europea nei confronti della Crimea, fortemente discriminante ed ingiusta sotto il profilo dei principi del Diritto internazionale, chiedendo di riconoscere la volontà espressa dal Parlamento di Crimea e dal popolo mediante un referendum». Il Comitato si è poi insediato a settembre 2016 ma non ci sono documenti disponibili sul lavoro che avrebbe svolto.

Il giorno del voto al Consiglio regionale, quando la notizia è stata riportata su tutti i media nazionali, Valdegamberi ha invitato anche la stampa russa a seguire l’evento. “Vladegamberi” lo ha chiamato un collega consigliere sui social: il soprannome è diventato subito virale e da allora tutti lo conoscono come un politico vicino alla Russia. «Stop alle sanzioni contro la Russia dalla Regione Veneto – scrive il consigliere in un comunicato in inglese -. L’Europa ha sbagliato!».

«È molto importante per la Russia infiltrarsi in Paesi stranieri a qualunque livello, comprese le amministrazioni locali – ragiona Olga Lautman, ricercatrice del Center for European Policy Analysis (CEPA) specializzata in campagne di disinformazione e tecniche di guerra ibrida del Cremlino -. La Russia usa queste risoluzioni per propaganda domestica e per infiltrarsi in amministrazioni locali allo scopo di condizionare l’opinione pubblica e reclutare politici locali».

Risoluzioni simili sono state adottate anche in Liguria, Toscana e Lombardia. Veneto, Lombardia e Liguria hanno poi fatto un passo indietro istituzionale dopo l’invasione dell’Ucraina, riporta Italia Oggi ad aprile 2022.

Tra le email si trova anche una tabella in cui si indicano diversi parlamentari e consiglieri regionali tra Austria e Italia che avrebbero dovuto portare avanti mozioni simili. Per l’Italia si legge il nome di Paolo Tosato, senatore leghista veneto, come sponsor della mozione. È segnato anche un prezziario: avrebbe ricevuto 20 mila euro per proporre la mozione, altri 15 mila euro nel caso in cui fosse in grado di farla passare. La mozione, purtroppo per Tosato, è stata bocciata a fine giugno 2016. Il senatore ha dichiarato di voler querelare l’Espresso, il giornale che lo scorso marzo ha dato per primo la notizia che mozioni “su ordinazione” potevano essere comprate a poche decine di migliaia di euro.

Italiani di Crimea

Alla fine la delegazione di politici e imprenditori italiani di cui discutevano a settembre 2016 Marina Klebanovich e Robert Stelzl si è effettivamente recata in Crimea per tre giorni, dal 14 al 16 ottobre 2016. I media russi ne hanno parlato come di un possibile rilancio turistico ed economico della Crimea. A Sebastopoli, il presidente del Consiglio regionale veneto Roberto Ciambetti, tutt’oggi in carica, ha firmato un accordo di collaborazione con il presidente del Consiglio statale della Crimea, Vladimir Andreyevich Konstantinov.

Stefano Valdegamberi in una foto del 15 ottobre 2016 in cui mostra un certificato bilingue che lo indica quale proprietario di un appartamento nell’Italian Village, resort esclusivo da poco inaugurato a Chernomorskaya, in Crimea – Foto: Ria Novosti

Valdegamberi è stato la guida della delegazione. In una foto del 15 ottobre 2016, lo si vede tenere in mano un certificato in cirillico e in italiano, in piedi in una piazza con dietro degli edifici in mattoncini rossi appena costruiti. Il documento attesta che è diventato proprietario di un appartamento nell’Italian Village, resort esclusivo appena inaugurato – seppur tutt’oggi incompleto – a Chernomorskaya, sulla costa della Crimea. All’evento di inaugurazione ha partecipato anche la Scandiuzzi Steel Construction Spa, società veneta che produce materiali per costruzioni in acciaio. Dalla bozza del programma della tre giorni si legge: «Visita in elicottero sul sito dell’Italian Village per Flavio Scandiuzzi».

«È stato un viaggio che ha avuto un intento promozionale, almeno per il sottoscritto», ricorda il diretto interessato in una risposta via email fornita a IrpiMedia.

Tra i documenti, c’è anche una bozza di contratto preparato da Scandiuzzi per vendere materiali in Crimea e Russia tramite un agente crimeo che sarebbe stato presentato dal gruppo di Mirzakhanian. Scandiuzzi però precisa che di fatto quel piano «non si è mai sviluppato» e che «pertanto ahimè, nessun beneficio ottenuto dalla ns. azienda, nonostante l’impegno degli organizzatori». «Probabilmente – chiosa l’imprenditore – la visita della delegazione è servita più ai locali per pubblicizzare le loro attività che alle società italiane che vi hanno partecipato». Tra il 2019 e il 2020, il principale azionista della società russa incaricata dello sviluppo immobiliare dell’Italian Village, Nikolai Shalimov, è stato arrestato con l’accusa di aver frodato gli investitori. Come abbiamo già scritto, in Russia non è raro che a seguito di un cambio di orientamento, qualche uomo d’affari un tempo anche molto vicino a Putin venga arrestato.

Oltre a Scandiuzzi, alla visita ha preso parte anche la Veronesi Spa, famosa azienda che produce wurstel e altri prodotti a base di carne a marchio Aia e Negroni. Uno scambio di email tra Stelzl e la Klebanovich porta in luce l’intenzione di Veronesi Spa di ottenere una cancellazione delle restrizioni doganali russe rispettivamente ai propri prodotti a base di carne. Il 7 ottobre 2016, pochi giorni prima di partire per la Crimea con la delegazione di italiani, l’amministratore delegato Marcello Veronesi manda una mail a Valdegamberi con una cospicua lista di prodotti a base di carne di pollo e maiale da inoltrare al gruppo di Mirzakhanian come richiesta da girare alle dogane russe per avere le «restrizioni temporanee» revocate.

Non è chiaro se il risultato sia stato ottenuto o meno. Dalle mail si legge anche di altri progetti che Veronesi aveva intenzione di lanciare, che non si sono mai concretizzati. L’azienda non ha risposto alle nostre richieste di commento.

Per Veronesi e Scandiuzzi, quindi, il viaggio in Crimea sarebbe stato un buco nell’acqua. In un’email scritta il 25 ottobre 2016 a Sargis Mirzakhanian, Marina Klebanovich ha riportato che «Stefano», ossia Stefano Valdegamberi, «ha tenuto a bada le preoccupazioni», riferendosi probabilmente alle lagnanze dei rappresentanti delle imprese, per i quali il business sperato non si era poi concretizzato. Invece, per il consigliere regionale, «il risultato del viaggio non consiste solo nelle pubbliche relazioni, ma nell’organizzazione di promettenti contatti per affari finalizzati a pagare le sue campagne elettorali e a sostenere la sua attività politica». «È stato avvicinato – prosegue la missiva – da persone di Russia Today, legate all’organizzazione Forum Euroasiatico di Verona, l’Eurasian Communication Center, con la proposta di stabilire relazioni commerciali», fa presente la segretaria di IACP a Mirzakhanian.

Il Forum euroasiatico di Verona è l’evento che ogni anno l’associazione Conoscere Eurasia – di cui IrpiMedia si è già occupata in passato – organizza con alcune delle principali aziende italiane e russe a Verona e a San Pietroburgo (con la guerra, ora la sede si è spostata a Baku e gli affari non sono più direttamente con Mosca ma con l’Azerbaijan). L’Eurasian Communication Center è una struttura che fino al 2021 ha organizzato l’altra grande opportunità di interscambio con i Paesi euroasiatici, l’Eurasian Economic Congress, con il contributo del Dipartimento per le attività economiche e gli affari esteri della Città di Mosca.

Il crinale tra business e sostegno politico

Per chiunque voglia fare affari all’estero, i forum sono i principali appuntamenti da frequentare. Il più importante in Crimea è lo Yalta International Economic Forum (YIEF), che fino a prima della guerra si teneva ogni anno presso il resort di lusso Mriya Resort and Spa, progettato a Yalta dall’archistar Norman Foster, di proprietà di una società controllata dalla più grande banca russa, Sberbank, che lo ha finanziato con 300 milioni di dollari. La struttura è stata messa sotto sanzione dagli Stati Uniti nel 2018.

C’è una stretta connessione tra le attività dello IACP e il Forum di Yalta: a pagare le spese di viaggio alle varie delegazioni italiane è Granel, conglomerato russo che si occupa di costruzioni di cui è presidente Andrey Nazarov, il quale è anche vice presidente dello YIEF.

Le regioni con minoranze filo-russe. Sono le aree attraversate anche dal conflitto e dove campagne come quelle di IACP hanno avuto effetti più importanti
Le città della Crimea frequentate dalle delegazioni italiane

Alla delegazione che ha partecipato al Forum nell’aprile 2017 c’era anche Luis Durnwalder, dal 1989 al 2014 presidente della provincia autonoma di Bolzano, in Alto Adige. Esponente del partito di destra Volkspartei, nel 2012 è stato accusato dalla Corte dei conti di appropriazione indebita di oltre un milione di euro di denaro pubblico per viaggi privati. Nel 2018 è stato condannato a pagare oltre 400 mila euro di penale per aver approvato una legge locale che consente la caccia alle specie protette e nel 2022 è stato nuovamente condannato per appropriazione indebita e ha dovuto scontare la pena svolgendo servizi sociali per aiutare i migranti.

A Yalta è stato invitato a parlare come relatore all’evento dal titolo Esperienza di singolare autonomia politica e ripresa dell’espansione economica della provincia di Bolzano (Alto Adige). Insieme al presidente Durnwalder, ha partecipato alla missione anche Andrey Pruss, direttore del centro russo Borodina di Bolzano, aperto nel 2009 dalla Provincia Autonoma di Bolzano. Il centro Borodina è stato finanziato da enti pubblici, come il Comune di Merano e la Camera di Commercio di Bolzano, ma anche da finanziatori russi come il Consolato Generale della Russia a Milano e da un gruppo di associazioni tra cui il Centro della gloria nazionale, guidato da Vladimir Ivanovich Yakunin, ex ministro delle Ferrovie in Russia e promotore del Congresso Mondiale della Famiglia in Russia, altro evento chiave nella campagna di reclutamento di politici pro Russia. Nessuno dei politici citati ha risposto alle nostre richieste di commento inviate via email.

Sono tanti gli esponenti di organizzazioni italiane pro Russia che hanno partecipato all’evento dell’aprile del 2017. La più famosa è l’Associazione Lombardia-Russia, una delle tante associazioni regionali, nate con il sostegno di politici, molti dei quali di area leghista, per promuovere attività culturali e imprenditoriali a favore della Russia. Presidente di Lombardia-Russia è Gianluca Savoini, ex capo ufficio stampa di Matteo Salvini e da sempre tra i fedelissimi del leader della Lega. A gennaio 2023 la procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dell’indagine a suo carico nell’ambito del caso dell’hotel Metropol.

L’episodio risale al 18 ottobre 2018: Savoini si trovava a Mosca insieme a due uomini d’affari, Gianluca Meranda e il suo assistente Francesco Vannucci. Dovevano incontrare tre delegati russi per discutere della vendita tra Eni e Rosneft di prodotti petroliferi. Una percentuale del pagamento, secondo quanto ricostruiscono le indagini, sarebbe dovuto andare alla Lega per finanziare la campagna elettorale. I magistrati scrivono di non avere abbastanza elementi per poter identificare dei pubblici ufficiali russi coinvolti nella corruzione e questo rende impossibile perseguire il reato. L’affare, inoltre, secondo loro è saltato solo perché due giornalisti, Stefano Vergine e Giovanni Tizian, ne hanno dato notizia su l’Espresso.

Scrivono anche che Matteo Salvini ne era al corrente e che lo stesso vale per Dmitry Kozak, vice primo ministro della Russia. La fondazione statunitense Jamestown (nata in piena Guerra fredda per dare sostegno ai disertori sovietici) nel 2020 scriveva di Kozak come l’uomo che negli ultimi anni avrebbe sostituito Vladislav Surkov nel cerchio magico dei consiglieri di Putin sull’Ucraina. Sono cambiati i nomi, ma almeno fino a prima dell’invasione la strategia di intromissione negli affari europei è sempre rimasta la stessa.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Martin Lane

Ha collaborato

Rita Martone

In partnership con

Occrp
Eesti Ekspress (Estonia)
iStories (Russia)
Profil (Austria)

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Lorenzo Bodrero

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

James O’Brien/Occrp

Petrolio russo, prove di contrabbando tra Baltico e Mar Nero

Petrolio russo, prove di contrabbando tra Baltico e Mar Nero

Lorenzo Bagnoli
Giulio Rubino

L’incerta guerra delle sanzioni passa, inevitabilmente, dal mare. A giugno 2022 l’Unione europea ha introdotto il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia, quello che vieterà l’importazione via mare di prodotti petroliferi russi. La misura entrerà pienamente in vigore dopo una fase transitoria: l’import di greggio sarà bloccato completamente da gennaio 2023, quello dei prodotti raffinati da marzo. Intanto, però, lungo le rotte che dai porti russi conducono ai terminal europei si vedono già in atto strategie per nascondere la provenienza del prodotto. Sono le prime mosse del manuale del contrabbando: operazioni che ancora non sono necessarie a coprire un illecito, ma che potrebbero prestarsi allo scopo dal momento in cui le sanzioni diventeranno pienamente effettive.

Nel grande gioco dei traffici marittimi ci sono meccanismi e manovre diversive note agli analisti – che abbiamo per esempio già tracciato tra Libia, Italia e Malta, nella secca di Hurd’s Bank, a limitare delle acque contigue maltesi – che permettono ai commerci di prosperare nonostante il quadro geopolitico incerto. Né la Russia, né i Paesi europei infatti vogliono fare davvero a meno del commercio di greggio e gasolio. È ancora da scrivere la fine della dipendenza europea dalle forniture russe. E gli spedizionieri d’Europa che trasportano i prodotti continuano a trarre benefici dal mercato, a dispetto della scadenza stabilita dal Consiglio europeo, l’organismo presieduto da Charles Michel che decide in materia di sanzioni.

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Dato che un carico su quattro di prodotti petroliferi in partenza dalla Russia via mare arriva in Ue, stimano a Bruxelles, le restrizioni «copriranno quasi il 90% delle importazioni di petrolio russo in Europa entro la fine dell’anno. Ciò consentirà una significativa riduzione dei profitti commerciali della Russia». L’efficacia o meno della misura è legata anche ai tempi: il conflitto in Ucraina vive di successi alterni, le perdite economiche alla Russia andrebbero inflitte il più presto possibile. Invece dopo le delibere europee, servono sempre lunghe fasi di assestamento e di transizione perché, oltre agli interessi nazionali, ci sono commesse pregresse, stipulate dai grossi gruppi energetici del continente prima che la guerra scoppiasse. Mettere in atto la strategia richiede tempo.

La prima mossa

Durante l’attesa, il mercato prende le sue contromisure per fare in modo che perduri il business as usual. Secondo i dati di Refinitiv, agenzia anglo-americana di analisi dei mercati finanziari, rielaborati dal giornale giapponese Asia Nikkei, tra febbraio e agosto 2022 a largo delle coste del Peloponneso ci sono stati 175 trasferimenti di prodotti petroliferi da tanker provenienti dalla Russia – operazioni ship-to-ship (STS) – per un volume di circa 23,86 milioni di barili (un barile equivale a poco più di 119 litri, ndr). Nello stesso periodo di tempo, lo scorso anno, il valore era circa un quinto, 4,34 milioni. Le agenzie di intelligence indicano che hub di questo genere ne sono nati anche a largo di Ceuta, di Malta e di fronte al piccolo porto di Kavkaz, nella Russia meridionale.

I trasferimenti di merci STS sono operazioni piuttosto complesse anche quando vengono effettuate nei porti. Affiancare migliaia di tonnellate di ferro galleggiante sull’instabile superficie del mare per tutto il tempo necessario al trasferimento (spesso diverse ore) è una manovra che in genere si avvale di rimorchiatori d’appoggio – giganteschi parabordo costellati di copertoni – e tantissima attenzione. Anche quando viene effettuata nelle calme acque dei porti o delle rade richiede un preciso protocollo di sicurezza, e in mare aperto i rischi sono moltiplicati dal fattore meteorologico.

È per questo che l’improvviso e grande aumento di operazioni di questo tipo condotte da petroliere e navi cisterna che trasportano prodotti di origine russa preoccupa gli analisti. In altre occasioni infatti, i passaggi da nave a nave sono stati utilizzati per nascondere la provenienza del prodotto, come elemento fondamentale delle operazioni di contrabbando, come accadeva per esempio vicino Malta negli anni del boom del contrabbando di gasolio libico.

L’hub a 860 miglia a ovest del Portogallo

A partire dall’inizio di giugno, Lloyd’s List, il più antico e importante giornale di informazioni e intelligence marittima, ha identificato almeno una dozzina di petroliere, del tipo VLCC e Suezmax (le più grandi che possano passare per il canale di Suez), impegnate in trasferimenti ship-to-ship nel cuore dell’Atlantico, vicino alle isole Azzorre.

Molte delle navi tracciate, in particolare delle vecchie VLCC (acronimo per Very Large Crude Carrier, portagreggio molto grandi) cinesi, erano state comprate la scorsa primavera dallo stesso acquirente, anonimo.

La maggior parte delle petroliere di questo tipo in partenza dalla Russia erano state affittate da Gazprom e da Lukoil. Gli analisti di Lloyd’s sospettano che molte altre petroliere abbiano preso parte a queste operazioni, ma è difficile esserne certi, visto che molto spesso tali navi spengono i loro sistemi di tracciamento satellitare quando devono compiere operazioni illegali.

Operazioni STS nel cuore dell’oceano sono decisamente una novità. Alex Glykas, dell’azienda di consulenza marittima Dynamarine, ha detto a Lloyd’s che «armatori che sono disposti a correre grossi rischi in questo momento possono fare grossi profitti, e ci sono trader pronti ad aiutarli», sottolineando che non ci sono aziende specializzate ad assistere con operazioni STS che operino nella zona delle Azzorre.

Secondo l’analisi di Lloyd’s, queste operazioni ad alto rischio in mare aperto sono principalmente a favore del mercato cinese.

Non è ancora chiara l’importanza di queste operazioni. Ad oggi infatti, e ancora per alcuni mesi, i prodotti petroliferi russi possono entrare in Europa senza nessun bisogno di occultarne l’origine. Eppure le operazioni sospette si moltiplicano. È possibile ricavare il dato analizzando i risultati forniti da un bot di Twitter, un programma che pubblica automaticamente informazioni ogni volta che si verificano delle specifiche condizioni, costruito da Greenpeace UK. Il bot segnala ogni volta che parte una petroliera da uno dei porti russi di esportazione di petrolio, e indica il porto previsto di destinazione, spesso europeo, ma ormai anche cinese, indiano o egiziano, latitudini finora sconosciute per questi prodotti.

Le rotte del petrolio russo verso l’Europa sono sostanzialmente due.

La prima comincia dai porti russi a nord della Georgia, in particolare da quello di Novorossiysk, e dal Mar Nero conduce alla Grecia e all’Italia attraverso il Bosforo. Secondo BlackSeaNews e il Black Sea Institute of Strategic Studies, tra aprile e luglio 2022 la Grecia è stata la principale destinazione di prodotti petroliferi russi (nel conteggio è escluso il greggio) provenienti dal Mar Nero (42,8%), seguita dalla Turchia (30,9%) e, a molta distanza, dall’Italia (4,1%).

La seconda rotta invece, più lunga e sconveniente per il mercato italiano, parte dai porti russi sul Baltico – da San Pietroburgo a Ust-Luga – oltrepassa la Danimarca e scende verso le acque tempestose del Golfo di Biscaglia, e da lì prende due possibili vie, o verso l’Atlantico aperto, le Americhe e l’hub di trasferimenti da nave a nave 860 miglia a largo del Portogallo (vedi box), oppure verso Gibilterra e da lì di nuovo dentro il Mediterraneo, diretta a uno qualsiasi dei grandi porti del sud-europa. Per l’Italia i principali porti d’arrivo più rilevanti sono Augusta e Trieste.

Come si alimenta la raffineria Isab di Augusta

Proprio ad Augusta, lo scorso 24 luglio, è arrivata in porto la RN Tuapse, nave cisterna di prodotti petroliferi (e quindi fatta per trasportare prodotti già raffinati) battente bandiera russa. La Tuapse è di proprietà del gruppo SVL Maritime, un gruppo di aziende russe raccolte sotto l’ombrello di una holding cipriota, la Sommet Finance Limited, a sua volta controllata da interessi russi. Il socio di maggioranza, con il 51%, è Leonid Ivanovych Shcherbatyuk, un imprenditore con altri interessi in Europa, visto che è anche direttore del SVL Group GMBH, un’altra holding questa volta dedita alla gestione di capitali, di base a Vienna, in Austria. La SVL group è a sua volta proprietaria di un’azienda di trading di prodotti chimici (la TransChemie GmbH) e di un’azienda immobiliare (la SVL Hausbesitz GmbH).

La Tuapse era partita, il 15 luglio, da Kavkaz, un piccolo porto sullo stretto di Kerč’, che separa il Mare di Azov dal Mar Nero.

L’area è sotto il controllo russo fin dal 2014, quando la Crimea è stata annessa da Putin alla fine della prima invasione dell’Ucraina. Oggi il piccolo porto, che nonostante fosse al centro di piani di sviluppo firmati da Dmitry Medvedev nel 2014, ancora non ha significative strutture industriali, è recentemente apparso in un’inchiesta di Associated Press e del programma Frontline della PBS come punto di “riciclaggio” di cereali sottratti illegalmente all’Ucraina. Diecimila tonnellate di farina di grano e orzo per un valore di almeno 530 milioni di dollari erano infatti state portate via dalla città occupata di Melitopol, e poi trasportate in Libano via nave, con un manifesto di carico apparentemente falsificato che dichiarava Kavkaz come punto d’origine del carico di «orzo e farina russi».

La RN Tuapse, una “giovane” nave di appena 11 anni, lunga 140 metri e con una capacità di carico di oltre settemila tonnellate, non aveva certo caricato a Kavkaz il suo carico di prodotti petroliferi, dato che non ci sono strutture adatte né raffinerie lì, eppure non fa soste intermedie prima di arrivare ad Augusta.

Due giorni dopo però, la notte fra il 16 e il 17 luglio, la Tuapse rallenta di colpo in mare aperto, 120 chilometri a sud-est di Yalta. Si trova in acque contese, i database marittimi le definiscono «acque russe e ucraine del Mar Nero», una zona in cui opera la marina militare russa, che tiene sotto assedio la costa ucraina.

Per tutto il giorno aveva tirato vento forte, ma con la sera il mare si era riappacificato, condizioni perfette per l’incontro che l’aspettava. Dal porto di Novorossiysk infatti, alcuni giorni prima (l’11 luglio, per la precisione) era partita la “gemella” della Tuapse, una nave identica, con la stessa età, e di proprietà dello stesso gruppo: la SVL Pride.

La petroliera SVL Pride - Foto: Viacheslav/MarineTraffic
La petroliera SVL Pride – Foto: Viacheslav/MarineTraffic
Via del Rimessaggio nel comune di Arzachena - Foto: IrpiMedia
La petroliera RN Tuapse – Foto: Yevgeniy B./MarineTraffic

La Pride era stata per alcuni giorni al terminal petrolifero di Sheskharis, nel porto di Novorossiysk, dove secondo le informazioni di database navali aveva caricato le sue stive fino ad aumentare il suo pescaggio (la parte di nave che rimane sott’acqua, ndr) da 3,3 a 4,5 metri. A mezzanotte e mezza del 17 luglio le due navi si affiancano, iniziano subito le operazioni di trasbordo del carico. Tutto avviene molto rapidamente, dopo solo 57 minuti si separano: la Tuapse si riavvia per il Bosforo, e la SVL Pride torna a Novorossiysk, a caricare nuovi prodotti petroliferi.

La RN Tuapse non ha tempo da perdere, passa lo stretto del Bosforo e costeggia la Grecia diretta verso la Sicilia. Alle 15:25 del 24 luglio arriva al porto di Augusta, si ormeggia al molo della Maxcom, dove scarica più o meno, a giudicare dai dati di Marinetraffic, la stessa quantità di prodotto che la Pride aveva caricato a Novorossiysk. Il suo pescaggio infatti passa da 4,6 a 3,4 metri: trattandosi di navi gemelle è facile stimare che le quantità siano le stesse.

La Tuapse poi lascerà Augusta la mattina del 27 luglio, per avviarsi di nuovo verso il Mar Nero. Da allora né lei, né la SVL Pride hanno più visitato il Mediterraneo, continuando a navigare fra i porti russi e quello bulgaro di Burgas.

La Maxcom, che ha ricevuto il carico della Tuapse, è un azienda già nota ai lettori di IrpiMedia. Si trattava infatti del principale acquirente di gasolio di contrabbando proveniente dalla Libia gestito dai trafficanti maltesi Darren Debono e Gordon Debono. L’inchiesta, era uscita in collaborazione con Repubblica nell’ambito del Daphne Project, coordinato da Forbidden Stories.

A ricevere il petrolio russo al porto di Augusta però non c’è solo Maxcom. Nella baia di Augusta si trova infatti anche la raffineria della Isab, di proprietà della russa Lukoil. Dall’inizio dell’estate in Sicilia si vocifera di un rischio chiusura dell’impianto, a causa delle sanzioni che stanno condizionando la presenza sul mercato dell’azienda russa. L’ex parlamentare di Forza Italia Stefania Prestigiacomo, rimasta fuori dalle ultime elezioni, lo scorso luglio ha depositato un emendamento al DL Aiuti, poi approvato in aula, che è stato soprannominato “salva-Isab” con il quale è stato aperto un tavolo di trattative al Ministero dello Sviluppo economico per impedire la chiusura dello stabilimento.

«A seguito delle sanzioni scattate per l’aggressione all’Ucraina – scrive l’ex parlamentare in una nota riportata da Siracusa Oggi – gli istituti di credito hanno rifiutato l’emissione delle lettere di credito all’Isab del gruppo Lukoil costringendo l’azienda a raffinare solo il petrolio che giunge via mare dalla Russia». La Isab cioè, senza il sostegno delle banche, non può che affidarsi a forniture “interne” al suo stesso gruppo, provenienti quindi dalla Lukoil stessa, infatti quest’anno le navi russe in arrivo alla raffineria sono aumentate moltissimo, più 622% rispetto allo scorso anno.

L’emendamento prevede una garanzia pubblica fino al massimo di 1,2 miliardi di euro con la quale Isab dovrebbe poter fare acquisti da altri fornitori, per continuare a lavorare. Scrive Prestigiacomo che grazie alla garanzia pubblica «potrebbe tornare a operare sul mercato libero del greggio e assicurare la produzione e i livelli occupazionali diretti, dell’indotto e delle imprese a vario titolo collegate alla raffineria».

Le strane morti della Lukoil

La Lukoil è la seconda società petrolifera e primo gruppo privato della Russia. Il suo consiglio di amministrazione, a pochi giorni dall’invasione russa dell’Ucraina, aveva espresso «profonde preoccupazioni per i tragici eventi in Ucraina». In seguito ci sono stati dei misteriosi decessi fra i top manager dell’azienda che alimentano i sospetti di una vendetta del Cremlino nei confronti di Lukoil.

Il primo settembre, il presidente di Lukoil Ravil Maganov è caduto dalla finestra di un ospedale, secondo quanto ricostruito da diversi media (il sito della compagnia riporta il decesso «a causa di una grave malattia»). Il 9 maggio un altro ex manager, Aleksandr Subbotin, è stato trovato morto nella sua casa di Mytishchi, nei sobborghi di Mosca. Il fratello Valery è a tutt’oggi un manager di primo piano dell’azienda. Diversi giornali italiani hanno indicato Valery Subbotin come uno dei possibili successori di Vagit Alekperov, per trent’anni capo di Lukoil, poi costretto alle dimissioni in aprile a seguito delle sanzioni imposte a suo carico dal Regno Unito, dove Lukoil è quotata in Borsa.

Gli affari dell’oligarca e l’armatore nemico per l’Ucraina

A largo dell’area di ancoraggio di Skagen, nella parte settentrionale della penisola dello Jutland (Danimarca), il 19 agosto alle 14:36 la petroliera Rina inizia a scaricare greggio sulla Minerva Baltica. L’operazione terminerà dopo oltre tre ore. Minerva Baltica prosegue poi il viaggio fino al terminal del porto di Trieste acquistato nel dicembre 2020 dalla Seastock, società del gruppo Walter Tosto Spa. Il conglomerato con sede a Chieti si occupa di tutta la filiera dell’oil&gas oltre che di componentistica per impianti del nucleare. Da azienda familiare, si è trasformata in sessant’anni in una multinazionale a cui anche la politica, specialmente in Abruzzo, dà una certa attenzione.

Nel luglio 2014, quattro mesi dopo l’invasione russa della Crimea, la Walter Tosto ha fondato una sua controllata a San Pietroburgo e nel 2017 ha lavorato per completare alcuni componenti di un impianto della Gazprom. Nel 2021 l’azienda si è aggiudicata due commesse per un totale di 61 milioni di euro per realizzare dieci apparecchi per il trattamento del gas naturale e un impianto chimico nella zona di Ust-Luga, regione di Leningrado, nel golfo di Finlandia. Quattro giorni dopo l’inizio della guerra l’amministratore delegato dell’azienda Luca Tosto aveva spiegato al quotidiano abruzzese il Centro che le commesse in Russia «vanno avanti» ma «la situazione che viviamo è complessa» a causa del rischio sanzioni.

Uno yacht al largo della Costa Smeralda - Foto: IrpiMedia
La petroliera Rina – Foto: Stuart Fenty/MarineTraffic
Via del Rimessaggio nel comune di Arzachena - Foto: IrpiMedia
La petroliera Minerva Baltica – Foto: Krisztian Balla/MarineTraffic

Almeno nel caso dell’operazione tra la Rina e la Minerva Baltica, il prodotto arrivato a Trieste è stato fornito da un’azienda navale nota in Estonia per lavorare con Nikolay Vorobey (traslitterato a volte Mikalai Varabei), un oligarca bielorusso dal dicembre 2020 sotto sanzione nell’Unione europea e in altri Paesi per i suoi legami con Aleksandr Lukashenko, il dittatore bilorusso alleato di Vladimir Putin. Il Dipartimento del Tesoro americano ha soprannominato Vorobey «il portafoglio dell’energia di Lukashenko»: in Bielorussia ha infatti ottenuto il monopolio sul trasporto del carbone, è a capo del più grosso gruppo petrolifero del Paese, detiene l’unica concessione privata per esportare prodotti petroliferi provenienti dalle raffinerie pubbliche ed è il gestore, per decreto presidenziale di una zona economica speciale.

Secondo un’inchiesta di Re:Baltica, centro di giornalismo che appartiene al network di Occrp, l’anno dopo le sanzioni dell’Ue l’Estonia ha triplicato le importazioni di petrolio dalla Bielorussia. È accaduto grazie a un trucco per catalogare con un codice di esportazione diverso alcuni prodotti, rendendoli immuni al bando europeo. Per gestire l’operazione, l’oligarca bielorusso si è appoggiato a due imprenditori dei Paesi baltici che gestivano la catena dell’import. Uno di questi, Aleksei Tšulets, è anche l’armatore di Baltic Sea Bunkering, gruppo di società al quale appartengono sia l’azienda proprietaria, sia l’azienda operatrice della nave Rina.

Minerva Baltica, invece, appartiene alla Minerva Marine Inc dell’armatore greco Andreas Martinos. Come hanno analizzato i colleghi di Reporters United, la famiglia Martinos è fra le più importanti coinvolte nelle operazioni per portare in Europa prodotti petroliferi russi. Tutti i membri della famiglia sono armatori, e sono tre gli imprenditori della famiglia che lavorano molto con il prodotto russo.

L’Agenzia nazionale per la prevenzione della corruzione in Ucraina ha incluso la Minerva Marine Inc nella lista dei «sostenitori internazionali della guerra», una lista di enti compilata dall’agenzia per tenere traccia chi continua a importare risorse provenienti dalla Russia.

Della famiglia Martinos ha parlato anche il deputato ucraino Dmytro Natalukha in una thread su Twitter. Riporta Natalukha che il fratello di Andreas, Thanasis Martinos, che al summit economico di Delfi si è apertamente schierato contro le sanzioni alla Russia, oltre che armatore (terzo nella classifica familiare per importazioni di prodotti dalla Russia) dal 2019 è anche governatore della Regione del Monte Athos, zona sacra per la chiesa Ortodossa. Martinos avrebbe ospitato al Monte Athos diversi alti ufficiali russi, incluso il patriarca (sotto sanzione) Kirill e la fidanzata di Putin Alina Kabaeka (con un visto falso, secondo media russi). «Questi pellegrinaggi religiosi sarebbero una copertura per mantenere le comunicazioni tra ufficiali corrotti russi, ucraini ed europei che sostengono la guerra o ne traggono profitto», scrive Natalukha.

Il costo delle sanzioni

Petrolio, gas e carbone acquistati dall’Unione europea hanno portato alla Russia introiti per circa 400 miliardi di euro nel 2021. Dopo i Paesi Bassi, che hanno importato 20,71 milioni di tonnellate di prodotti, l’Italia è stata il maggiore contributore. Italia, Grecia e Danimarca – riporta l’inchiesta collaborativa dei colleghi di Investigate Europe e Reporters United – sono gli unici tre Paesi europei che hanno aumentato gli ingressi di prodotti petroliferi dall’inizio del 2022, anche dopo l’invasione.

I dati che si leggono in merito alla fotografia degli acquisti di prodotti petroliferi dalla Russia sono però contraddittori. Un esempio è la fotografia scattata da Unione Energie per la Mobilità (Unem), l’associazione di Confindustria a cui appartengono i principali attori del mercato dell’energia. La tipologia di greggio che è arrivata maggiormente in Italia nel primo semestre del 2022 è stata l’Urals, una variante esportata dalla Russia: 3,89 milioni di tonnellate, con un aumento del 142,9% rispetto all’anno precedente. Unem specifica che il motivo è la condizione dell’Isab di Augusta, raffineria che si è trovata a dover importare solo greggio di sua proprietà. Però al decimo e al ventiquattresimo posto, per un totale di 1,47 milioni di tonnellate, ci sono altre due varianti russe, Variendej e Siberian Light. Entrambe, secondo i dati Unem sono in aumento, la prima del 142,8% sull’anno precedente, la seconda addirittura del 198,5%.

Eppure, commenta l’associazione appartenente a Confindustria, «il greggio russo arrivato in Italia sarebbe in forte calo rispetto allo stesso periodo 2021». Paradossi dei numeri, oppure del quadro internazionale, dove i prodotti possono diventare tossici all’improvviso.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Giulio Rubino

Editing

Lorenzo Bodrero

Mappe

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

L’incendio e il naufragio della petroliera Haven davanti a Genova l’11 aprile 1991 che ha causato un disastro ambientale e la morte di cinque membri dell’equipaggio
(Romano Cagnoni/Getty)

L’Ucraina, gli anarchici e la guerra

19 Agosto 2022 | di Dario Nincheri

Il primo marzo del 2022, un contatto straniero mi ha messo a conoscenza via Telegram dell’attivazione di una rete di reclutamento per anarchici europei disposti ad andare a combattere in Ucraina. L’ultima volta che degli anarchici presero parte a una guerra sul suolo europeo fu nel 1936: quell’estate i primi anarchici italiani arrivarono a Barcellona, per aiutare gli spagnoli a proteggere la Repubblica e i suoi valori dall’assalto dei fascisti di Franco. Quei volontari diedero vita a un’esperienza tanto importante quanto evocativa, a cui parteciparono personaggi iconici della cultura europea del Novecento, da George Orwell a Ernest Hemingway, passando per i fotografi Robert Capa e Gerda Taro (che durante quella guerra morì).

La storia non si fa attraverso paragoni azzardati, l’Ucraina del 2022 non è la Spagna del 1936. Ciononostante una componente antiautoritaria e dichiaratamente anarchica è indubbiamente presente nella vasta compagine dell’autodifesa del Paese (in inglese Territorial Defense Forces, Tdf, ndr). Per quanto non si conoscano esattamente i modi di reclutamento e le stime parlino di circa 150 volontari effettivamente partiti, il solo fatto che, nel cuore dell’Europa, ci sia qualcuno disposto ad arruolarsi sotto le insegne rosse e nere dell’anarchia, costituisce un fatto di indubbio interesse.

Di vita e di guerra, il podcast sulla guerra in Ucraina di IrpiMedia

Dal 12 agosto è disponibile il podcast di Eleonora Vio sul conflitto in Ucraina, Di vita e di guerra. Nelle due puntate del 19 agosto ci si concentra sulle forze territoriali di difesa, in particolare esplorando i loro collegamenti con l’estrema destra.

Gli anarchici alla guerra, una storia riluttante

Anarchismo e difesa dei confini e dello status quo democratico sono compatibili? Secondo il pensiero anarchico, il concetto di patria da difendere è inaccettabile, l’ordinamento democratico capitalista è indifendibile e l’antimilitarismo è una pratica fondante. Tuttavia la Guerra civile spagnola ha segnato un precedente nella storia dell’anarchismo, anche se novant’anni fa la situazione al di là dei Pirenei era decisamente inconsueta: «Sono stato settantacinque giorni in trincea con gli anarchici. Li ammiro. Gli anarchici catalani sono una delle avanguardie eroiche della rivoluzione occidentale. È nato con essi un nuovo mondo che è bello servire», scriveva Carlo Rosselli in una corrispondenza per Giustizia e Libertà il 6 novembre 1936, descrivendo una situazione politicamente inedita per l’Europa continentale.

Un bot (da robot, in questo contesto inteso come un programma che esegue azioni automatiche e ripetitive) su Telegram per il reclutamento di anarchici nel conflitto in Ucraina.

Un bot (da robot, in questo contesto inteso come un programma che esegue azioni automatiche e ripetitive) su Telegram per il reclutamento di anarchici nel conflitto in Ucraina

Dopo la temporanea sconfitta delle forze golpiste di Franco, infatti, la Confederazione nazionale del lavoro (l’organizzazione anarco-sindacalista, Cnt) e la Federazione anarchica iberica rifiutarono di assumere il potere che il presidente della Generalitat, il governo catalano, gli offrì, preferendo organizzare un fronte antifascista popolare incaricato di svolgere le funzioni di polizia ed esercito. I lavoratori, inoltre, requisirono spontaneamente le imprese e, influenzati dalle idee libertarie, procedettero alla collettivizzazione e alla gestione diretta delle fabbriche, dando vita a quello che George Orwell definì «uno stato di cose che mi appariva di colpo come qualcosa per cui valesse la pena combattere».

Fu per difendere quel sogno che partirono molti degli anarchici europei, un sogno lontano nel tempo e nello spazio che, al giorno d’oggi, non pare materializzarsi in nessun luogo d’Europa.

Il contributo anarchico alla guerra civile spagnola

Durante le prime fasi della guerra civile spagnola, a Barcellona, furono i militanti anarchici ad avere ragione della ribellione militare franchista. Organizzati nel loro sindacato, la Cnt (Confederacion National del Trabajo), diedero in quel frangente vita a un vasto movimento tendente alla collettivizzazione dei mezzi di produzione e all’edificazione, su quella base, di una nuova economia e di una nuova società.
Allo scoppio della guerra la Catalogna era una delle zone più industrializzate della Spagna e, tra i suoi lavoratori, erano forti le idee di ispirazione libertaria, trapiantate dai contadini dell’Andalusia e della Murcia che lì si erano spostati per lavorare, tanto che la stragrande maggioranza degli operai sindacalizzati aderiva alla Cnt.

Dopo aver cacciato i franchisti, forti della vittoria, gli anarchici occuparono in breve tempo la maggioranza delle fabbriche (18 mila in tutto il Paese di cui tremila solo a Barcellona), senza che le autorità fossero in grado di opporsi. Tra i loro obiettivi c’era anche quello di dimostrare l’efficienza e la funzionalità del sistema libertario di organizzazione del lavoro, perciò, anche per difendere ciò che avevano ottenuto, parteciparono al governo autonomo Catalano con una larga rappresentanza.

Nel frattempo, nelle campagne, la collettivizzazione delle terre procedeva a ritmo anche più serrato. Persino i contadini, che in massa si erano opposti al golpe sostenuto qui anche dalla Guardia civil, erano infatti per la maggioranza inquadrati nella Cnt.
In Catalogna era quindi in atto una vera e propria rivoluzione, calamita per gli anarchici di tutta Europa. Un’esperienza che però fallì e non soltanto per la vittoria finale della guerra civile che fu di Franco, ma anche, o forse soprattutto, per i contrasti interni al Fronte popolare spagnolo. I Repubblicani democratici e i comunisti, che erano appoggiati dall’Unione sovietica, si opponevano, infatti, all’unificazione tra la lotta di resistenza a Franco e una rivoluzione sociale che non volevano. Con il progredire della guerra, il governo e i comunisti furono in grado di fare leva sul loro accesso alle armi sovietiche per ripristinare il controllo politico e per tentare di obbligare le milizie anarchiche a inquadrarsi all’interno dell’esercito regolare. I contrasti esplosero durante le giornate di maggio del 1937, quando i comunisti cercano di conquistare militarmente il controllo degli edifici pubblici di Barcellona, difesi dagli anarchici, arrestandone e fucilandone i dirigenti.

Per questo la galassia antagonista europea si domanda come fanno gli anarchici a muoversi in un contesto dove ci sono altre milizie irregolari, anche con simpatie fasciste come il Battaglione di Azov. La domanda è frutto della tendenza contemporanea all’uniformazione del tutto a una sua parte, pratica tossica madre di ogni luogo comune. Per eluderla bisogna partire da alcuni fatti. Come in tutti gli Stati europei, gruppi di estrema destra sono presenti nel panorama politico ucraino e, nonostante una scarsa rappresentanza parlamentare, essi hanno avuto un ruolo importante durante le rivolte di Euromaidan.

Alcuni di questi gruppi si sono trasformati in milizie paramilitari più o meno tollerate dalle istituzioni, con tutto il bagaglio di responsabilità politiche che questo comporta. Sono responsabilità che ricadono sul governo e sulla contingenza, non sulla generalità del Paese: combattere in Ucraina non vuol dire combattere a fianco dei fascisti. Inoltre, l’eco sproporzionato che si continua a dare a queste bande rischia di essere niente di più che una grossa cassa di risonanza per gruppi marginali che, solitamente, fanno della propria sovra rappresentazione un cardine importante di propaganda.

Il legame storico tra gli anarchici e l’Ucraina

Quando si affronta l’importanza del passato nella formazione di parte del moderno pensiero politico ucraino – sia in patria che all’estero – si fa un gran parlare di Stepan Bandera e dei suoi partigiani filonazisti. Pochi però ricordano che Huljajpole’, cittadina non lontano da Mariupol, è il luogo del mondo che, nel 1889, ha dato i natali a Nestor Makhno, figura storica dell’anarchismo mondiale e padre della Machnovščina, primo tentativo d’applicazione su larga scala dei principi dell’autogoverno anarchico.

L’Ucraina era allora un Paese a maggioranza contadina, con una abnorme sproporzione nella concentrazione del potere. In quel contesto Makhno espropriò i latifondi ai grandi proprietari terrieri e li diede in autogestione ai braccianti, organizzandoli secondo i principi dell’anarco-comunismo. Il sistema, avverso a qualsiasi forma di autorità costituita, ebbe una forte eco internazionale, prima di essere percepito come una minaccia dai bolscevichi che ebbero un ruolo importante nella sua distruzione.

La storia della Machnovščina, la storia di Stepan Bandera

L’area controllata dalle bande rivoluzionarie anarchiche della Machnovščina tra il 1918 e il 1921 copriva una regione popolata da sette milioni di abitanti in un’area di 280 km di profondità per 250 di larghezza. L’estremità meridionale toccava il mare di Azov, raggiungendo il porto di Berdiansk e la sua capitale era Gulyai-Polyé, un grosso borgo di 20-30 mila abitanti.

Per la prima volta nella storia, in Ucraina, i principi del comunismo libertario furono applicati sul terreno. Le terre disputate agli antichi proprietari terrieri furono coltivate in comune dai contadini, raggruppati in comuni o liberi soviet di lavoro dove i principi di fratellanza e di uguaglianza dovevano essere rispettati. Tutti, uomini e donne, dovevano lavorare secondo le loro forze e i cittadini eletti alle funzioni di gestione amministrativa agivano a titolo temporaneo e poi riprendevano il loro lavoro abituale a fianco degli altri membri della comunità.

Quando i partigiani machnovisti penetravano in una località, affiggevano dei manifesti, in cui si poteva leggere: «La libertà dei contadini e degli operai appartiene a loro stessi e non può subire restrizione alcuna. Tocca ai contadini e agli operai stessi agire, organizzarsi, intendersi fra di loro, in tutti i campi della loro vita, come essi stessi ritengono e desiderano (…). I machnovisti possono solo aiutarli dando loro questo o quel parere o consiglio (…). Ma non possono, e non vogliono, in nessun caso, governarli».

Machno rifiutò sempre di porre la sua armata sotto il comando supremo di Lev Trotsky, capo dell’Armata Rossa, dopo la fusione in quest’ultima delle unità di guardie rosse. I contrasti con i sovietici aumentarono fino a che, alla fine di novembre del 1920, gli ufficiali dell’esercito machnovista di Crimea furono invitati dai bolscevichi a partecipare a un consiglio militare che, in realtà, era un agguato. Mentre loro venivano arrestati dalla polizia politica e fucilati un’offensiva in piena regola veniva lanciata contro Gulyai-Polyé, che cadde dopo nove mesi.

Stepan Bandera è considerato in Ucraina un patriota della Seconda guerra mondiale, ma è anche un criminale di guerra accusato di essere filonazista e corresponsabile dello sterminio di polacchi ed ebrei.

A capo del movimento nazionalista ucraino Oun, Bandera combatté prima contro i polacchi, poi contro l’Armata rossa al fianco dei nazisti e, alla fine, contro gli stessi tedeschi finendo anche nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Ma come poteva combattere contro i tedeschi se era un filonazista? chiedono in maniera retorica i suoi difensori a oltranza.

Il personaggio, in realtà, era più che controverso. Il nazionalismo fu il suo faro più potente, alleato con i tedeschi per combattere l’Armata rossa non esitò a rivoltarsi contro i nazisti quando questi divennero un ostacolo per l’indipendenza della nazione, così come i suoi uomini non esitarono a portare avanti una pianificata pulizia etnica in Galizia e Volinia uccidendo più di 50 mila polacchi. Accecati dall’unico obiettivo della causa nazionale lui e i suoi partigiani non ebbero remore ad accondiscendere l’alleato di turno, tanto che sono accusati di aver contribuito allo sterminio della popolazione ebraica di quelle zone durante la loro alleanza con i nazisti.

Liberato dai tedeschi nel 1944 perché conducesse azioni di sabotaggio contro l’Armata rossa, Stepan Bandera, a guerra finita, riparò in Germania Ovest e morì assassinato a Monaco di Baviera nel 1959 in circostanze mai del tutto chiarite.

All’interno dell’esperienza makhnovista si trovavano, però, già alcune delle criticità ascrivibili all’interventismo anarchico odierno. Quando un secolo fa l’impero Austro-ungarico e la Germania invasero l’Ucraina, infatti, Makhno e i suoi si lanciarono in un’accanita guerriglia per opporsi all’invasione, ma la loro organizzazione militare continuò ad avere una natura gerarchica che, in quanto tale, era difficile da conciliare con gli ideali anarchici. Inoltre, allora come oggi, rivendicazioni etniche e culturali giocarono un ruolo importante accendendo, nel campo libertario, accesi dibattiti sulla loro opportunità.

L’internazionalismo moderno

Ai giorni nostri le cose sono ancora meno chiare, per il contesto politico che è anni luce lontano da un orizzonte rivoluzionario ma, soprattutto, per via dell’indeterminatezza che si accompagna all’approcciarsi alle problematiche degli uomini attraverso canali virtuali. Un bot di Telegram, infatti, non è un compagno che condivide informazioni ed esperienze, ma uno strumento freddo e dalla limitata attendibilità. Seguendo un link presente nel messaggio che avevo ricevuto, infatti, sono stato catapultato in un mondo parallelo dove ragazzi da tutto il mondo chiedono informazioni su come arruolarsi e su come raggiungere il teatro di guerra. A rispondergli ci sono più voci – supposte dal campo – che non mancano di fornire tutti i dettagli, assieme a manuali di guerriglia. Secondo la Croce nera di Dresda, un collettivo anarchico tedesco, sono oltre 150 i combattenti internazionali sul fronte ucraino riconducibili all’area anarchica o genericamente antiautoritaria.

Un gruppo di anarchici in una foto recuperata su un canale Telegram
Un gruppo di anarchici in una foto recuperata su un canale Telegram

Il Black head quarter è l’aggregativo on line delle iniziative del Resistance Committee, che in rete si presenta così: «Il Comitato di resistenza è uno spazio di dialogo e di coordinamento per iniziative anarchiche, libertarie e antiautoritarie. Crediamo che l’Ucraina e tutta l’Europa orientale debbano essere libere dalla dittatura». L’obiettivo dichiarato è chiaro ed esplicito: «Il nostro compito è quello di unire gli sforzi dei combattenti contro l’autoritarismo. Aspiriamo a influenzare il futuro dell’Ucraina e dell’intera regione, a proteggere le libertà già esistenti e a contribuire alla loro estensione. Siamo nemici del dominio imperialista, che è adesso presente nel paese per tramite del brutale esercito putinista». È manifesta anche la loro discontinuità con l’apparato statale: «Se lo stato ucraino oggi partecipa a questa lotta non significa che noi siamo diventati dei suoi sostenitori», viene più volte ribadito.

Secondo il Black head quarter oggi, in Ucraina, varie componenti antiautoritarie partecipano attivamente alle principali sfere di resistenza contro l’aggressione, sia nel teatro della guerra che nell’ambito del volontariato civile e dei media. Uno dei compiti principali del Comitato di resistenza è assicurare la comunicazione e il coordinamento fra i diversi gruppi e gli individui coinvolti nel conflitto. Tra le molteplici funzioni che mettono a disposizione c’è il loro canale Telegram, attraverso il quale utenti anonimi si sono occupati (soprattutto nelle fasi iniziali dell’invasione) anche del reclutamento e della formazione di nuovi volontari.

Il libro che mi viene inviato quando chiedo chiarimenti sulla preparazione è un volume di 300 pagine piene zeppe di tattica militare e tecniche di guerriglia urbana. Proviene dall’esercito americano, è ben fatto e chiaro in ogni sua parte. Un po’ meno chiari sono invece gli obiettivi politici di chi me lo manda, per questo forse sono così tante le domande degli utenti. «Non vogliamo difendere nessuno stato. Siamo anarchici e siamo contrari a qualsiasi confine tra nazioni. Ma siamo contrari a questa annessione, perché stabilisce solo nuovi confini e la decisione in merito è presa esclusivamente dal leader autoritario Vladimir Putin», scrive Bohdan, un anarchico ucraino impegnato sul fronte.

Le perplessità tra chi si approccia alla questione non sono poche e, a fronte degli intenti politici dichiarati e delle azioni rivendicate dai gruppi, che mappano i loro interventi e i loro sabotaggi con tanto di immagini geolocalizzate, la risposta dei comitati anarchici europei è poco compatta, se non addirittura critica. Nonostante raccolte di fondi da destinare alle brigate anarchiche appaiono un po’ dappertutto nel network libertario europeo (217.400 euro raccolti soltanto dalla Anarchist Black Cross Dresden), non manca, infatti, chi solleva dubbi circa l’opportunità di tutta quanta l’operazione.

La copertina del libro, di produzione americana, di tattica militare e guerriglia urbana inviato su uno dei canali Telegram
La copertina del libro, di produzione americana, di tattica militare e guerriglia urbana inviato su uno dei canali Telegram
Una pagina del libro, di produzione americana, di tattica militare e guerriglia urbana inviato su uno dei canali Telegram
Una pagina del libro, di produzione americana, di tattica militare e guerriglia urbana inviato su uno dei canali Telegram

La Federazione anarchica italiana (Fai), per esempio, ha una posizione ben precisa a riguardo: «Manteniamo ferma la nostra posizione di rifiuto della guerra e ci riconosciamo nell’idea di disfattismo rivoluzionario, intendendo per disfattismo una posizione rivoluzionaria di fronte alla guerra, quella di coloro che lottano per la disfatta del governo e della classe dominante del proprio paese», recita il manifesto antimilitarista che mi mandano dal comitato centrale quando chiedo di commentare la scelta dei compagni volontari in Ucraina. La dirigenza della Fai si sente poi di precisare che «nonostante da alcuni singoli e gruppi che si dichiarano antiautoritari, libertari o anarchici giunge, già da prima dell’invasione russa dell’Ucraina, una forte critica al nostro tradizionale antimilitarismo, noi restiamo fermi sulle nostre posizioni e facciamo nostro l’International Anarchist Manifesto against the War del 1915: dobbiamo dichiarare ai soldati di tutti i Paesi, che credono di stare combattendo per libertà e giustizia, che il loro eroismo e il loro valore non serviranno che a perpetuare l’odio, la tirannia e la miseria».

Punti di contatto tra la Fai e gli anarchici ucraini si ravvisano nei giudizi sul governo Zelensky, anche se le conclusioni raggiunte sono diverse: «Rifiutiamo la narrazione di una guerra fra libertà e dittatura. Da questo punto di vista, l’Ucraina di Zelensky è veramente una piccola Russia, con un governo autoritario, una cerchia di oligarchi che saccheggia il paese, una repressione verso tutte le forme di protesta e verso le minoranze che la guerra ha reso più dura», dice la Federazione anarchica italiana, mentre una voce libertaria combattente sul fronte ha dichiarato alla stampa francese: «Lo stato ucraino è totalmente corrotto e potremmo stare qui a elencare i suoi fallimenti per giorni, ma al suo interno ci sono aree di libertà, perché gli oligarchi che si contendono il potere non possono controllare tutto».

Un gruppo di combattenti anarchici in una foto recuperata su un canale Telegram
Un gruppo di combattenti anarchici in una foto recuperata su un canale Telegram

Anche nell’area di movimento italiana il dibattito è serrato: «Qui la Fai non c’è – mi dice un amico vicino ad ambienti libertari del nord-est -, però ti posso dire che, per i compagni, la guerra in Ucraina è un argomento tanto divisivo quanto lo è stata la gestione della pandemia».

A prescindere dalle opportunità ideologiche, in questo contesto una domanda sembra essere la più stringente di tutte quante, e la pone un ragazzo tedesco in calce alle decine di commenti che accompagnano una foto con dei ragazzi armati sotto la bandiera rossa e nera: «Chi ci dice che siete davvero anarchici? O che siete davvero voi quelli della foto? Potrei stare parlando con chiunque, anche con un bot o con dei mercenari russi».

Una domanda questa a cui, purtroppo, si può rispondere solo con un atto di fede, pratica che, a quanto pare, è poco compatibile con l’anarchia.

Foto: Un gruppo di combattenti anarchici in una foto recuperata su un canale Telegram
Editing: Lorenzo Bagnoli