La sanità italiana ha un problema con i conflitti d’interesse

La sanità italiana ha un problema con i conflitti d’interesse

Francesco Paolo Savatteri
Edoardo Anziano

Euros for Docs è un’associazione francese che si occupa di trasparenza nella sanità. Da qualche anno raccoglie a livello europeo dati sui pagamenti delle maggiori case farmaceutiche verso singoli medici, società private o organizzazioni pubbliche come le Università. IrpiMedia ha già raccontato come le principali aziende farmaceutiche abbiano effettuato donazioni, coperto spese di viaggio, pagato consulenze ed eventi a medici, presidi ospedalieri e centri di ricerca. Un vero e proprio sistema di pressione che ha distribuito oltre 333 milioni di euro solo nel 2019.

Una più approfondita analisi dei dati di Euros For Docs sull’Italia, in collaborazione con la testata Scomodo, fa emergere due nuovi elementi. Il primo è la presenza di numerosi pagamenti nei confronti di diversi membri del Consiglio superiore di sanità e dell’ex Comitato tecnico-scientifico, ormai sciolto a seguito della fine dell’emergenza Covid. Per quanto i pagamenti non siano illegali, la nostra inchiesta suggerisce una gestione opaca dei conflitti di interesse interni ai due organi.

A volte però, il confine della legalità è stato superato, almeno secondo i magistrati. Il secondo elemento infatti è la presenza, nel registro, dei nomi di alcune persone finite al centro di indagini per corruzione, per dazioni di denaro da parte delle aziende farmaceutiche a dirigenti ospedalieri e professori universitari.

Perchè un database come Euros For Docs

In tutti gli Stati membri dell’Unione europea, la pubblicazione delle spese delle aziende farmaceutiche avviene solo su base volontaria. Inoltre, non esiste un database unico che permetta di comparare questi dati.

Per colmare questo vuoto, il collettivo di ricercatori Euros for Docs, guidato da Luc Martinon, ha raccolto queste informazioni in dodici Paesi dell’Unione, fra cui l’Italia. Dal primo giugno 2021 i dati sono pubblici e accessibili a tutti. Euros For Docs è un’associazione francese di volontari che si occupa di trasparenza nel settore della sanità, con il supporto di donazioni individuali.

Il processo di costruzione del database, come viene spiegato sul sito dell’associazione, ha richiesto diversi passi. Degli undici Paesi selezionati, solo sette avevano un registro pubblico centralizzato. Per gli altri, inclusa l’Italia, i ricercatori hanno dovuto compilare una lista delle maggiori case farmaceutiche, raccogliere le tabelle in Pdf pubblicate da ciascuna, riportandole a uno standard unico (ciascuna azienda infatti usa una propria formattazione per indicare i pagamenti) per poi inserirle tutte in un unico database, sulla piattaforma open-source Metabase.

Per minimizzare la presenza di errori nel database, Euros For Docs ha preso 100 pagamenti a caso e ne ha controllato l’esattezza rispetto alla fonte originale. Anche i pagamenti di più alto valore e le cifre aggregate per le 20 aziende più grandi in ciascun Paese sono state controllate manualmente.

Il processo con cui Euros For Docs ha creato il database dei pagamenti da parte delle case farmaceutiche – Fonte: eurosfordocs.eu

Questioni di incompatibilità

Il Consiglio superiore di sanità (Css) è un «organo di consulenza tecnico scientifica del Ministero della salute». Porta avanti indagini e studi scientifici ed esprime pareri su diverse questioni di salute pubblica per consigliare il Ministero e suggerire provvedimenti adeguati. È composto da trenta membri di diritto – tra cui dirigenti del Ministero e di altre istituzioni sanitarie, come l’Agenzia italiana del farmaco – e trenta membri scelti dal Ministero con un mandato di tre anni. L’ultimo giro di nomine di questi ultimi risale a febbraio 2022, quando il ministro della Salute era Roberto Speranza. Dai dati di Euros For Docs emerge che almeno otto dei membri scelti dal Ministero hanno ricevuto pagamenti dalle case farmaceutiche fino a poco prima di essere eletti. Sei di queste otto persone hanno ricevuto pagamenti fino al 2019, cioè tre anni prima della formazione dell’ultimo Css. Tre di loro – Giuseppe Curigliano, Franco Locatelli e Marco Montorsi – però, facevano parte anche del Css precedente, nominato a febbraio 2019: ciò vuol dire che hanno ricevuto pagamenti a meno di un mese dalla nomina, nella migliore delle ipotesi, oppure addirittura mentre erano già membri del Css. Le cifre a cui ammontano i pagamenti variano molto da persona a persona. In alcuni casi sono cifre relativamente piccole: Anna Odone, attuale membro del Css, ad esempio ha ricevuto circa 2.500 euro tra il 2018 e il 2019, principalmente sotto forma di rimborsi spese di viaggi di lavoro. In altri casi, invece, le cifre si alzano vistosamente. Luca Richeldi, membro del Css e professore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, tra il 2017 e il 2019 ha ricevuto circa 134.000 euro da diverse società farmaceutiche tra cui Boehringer-ingelheim e Sanofi. La maggior parte dei pagamenti riguarda compensi per «servizi di consulenza». Il presidente del Css, Franco Locatelli, ha ricevuto 24.000 euro tra il 2016 e il 2019, anche lui principalmente per consulenze.

Fornire servizi a pagamento ad aziende farmaceutiche è legale, lo ribadiamo. E tuttavia, pone seri dubbi sulla gestione di possibili conflitti d’interesse all’interno del Css. Secondo quanto ci è stato assicurato da un attuale membro del Css di cui tuteliamo l’anonimato, al momento della nomina chi entra a far parte del Consiglio deve comunicare al Ministero le proprie collaborazioni, presenti e passate, con enti pubblici o privati del settore, in modo che eventuali conflitti di interessi siano già chiari in partenza. Questi documenti però non vengono pubblicati online. Abbiamo mandato una richiesta FOIA al Ministero della salute per ottenerli, senza ricevere risposta. Non è poi chiaro se la comunicazione di un conflitto di interesse abbia mai portato all’esclusione di un membro del Consiglio.

Online, invece, sono disponibili le «dichiarazioni di assenza di conflitto di interesse» del Comitato tecnico-scientifico (Cts), un organo creato nel febbraio del 2020 per far fronte all’emergenza Covid e sciolto a fine marzo dell’anno scorso. Tra il Cts e il Css esistono anche delle sovrapposizioni. Alcuni membri attuali del Css, infatti, hanno anche fatto parte del Cts, come ad esempio Sergio Abrignani, e i già citati Locatelli e Richeldi. Incrociando i dati sui pagamenti e la documentazione disponibile online, ciò che emerge è una gestione poco trasparente dei conflitti d’interesse dentro al Cts. Nella sua dichiarazione di conflitto di interessi, risalente al 28 settembre 2020, Luca Richeldi indica che continua a fare attività di consulenza per alcune società farmaceutiche – tra cui appunto Boehringer-ingelheim, che nel 2017 ha effettuato 76.521,78 euro di pagamenti nei suoi confronti.

La dichiarazione di conflitto di interessi del professor Luca Richeldi risalente al 2020

I conflitti di interesse vengono, almeno sulla carta, valutati per l’impatto che potrebbero potenzialmente avere sulle decisioni dei membri del Comitato. A questo serve la griglia di valutazione dei Conflitti d’interesse, che classifica la gravità dei possibili conflitti d’interesse con un numero da 1 a 3, dal meno grave al più grave.

Al primo livello è «ammesso il coinvolgimento senza restrizioni nelle attività del Cts», al secondo invece c’è la «possibilità di applicare restrizioni». Il terzo livello, invece, viene definito con una sola parola: «incompatibilità». Secondo questa tabella, fornire servizi di consulenza mentre si è membri del Cts corrisponde al livello 3, il conflitto massimo. Non si può essere allo stesso tempo consulenti di Big Pharma e consulenti del Ministero della salute, i due ruoli sono, semplicemente, incompatibili. Nonostante ciò, Richeldi ha continuato a far parte del Cts fino all’insediamento di Draghi, per poi essere chiamato da Speranza per entrare nel Css.

Griglia per la valutazione dei conflitti di interesse utilizzata dal Ministero della salute

Richeldi non è l’unico. Lo stesso Locatelli, presidente del Css dal 2019 e anche coordinatore del Cts per qualche settimana nella primavera del 2021, secondo i dati di Euros For Docs ha ricevuto pagamenti per servizi di consulenza fino al 2019, da diverse aziende tra cui Sanofi, Novartis e Gilead. Nella sua dichiarazione di interessi al Cts del 23 settembre 2020 ha infatti indicato di aver lavorato come consulente per società farmaceutiche in un range di tempo «da 0 a 3 anni precedenti». Questo secondo la griglia di valutazione dei conflitti d’interesse del Comitato corrisponde al livello 2. In teoria, quindi, a Locatelli potevano essere imposte restrizioni sulla partecipazione alle attività dell’organo di cui era coordinatore.

In una dichiarazione di conflitto di interessi successiva, risalente ad aprile 2021, i conflitti d’interesse di Locatelli diventano ancora più evidenti. Infatti indica di fornire «attualmente» servizi di consulenza ad alcune società. Questo, come già visto con Richeldi, rappresenta il livello di conflitto massimo, l’incompatibilità. In più, l’attuale presidente del Css dichiara anche di essere titolare di un brevetto dal 2019 – cosa che, secondo la griglia, corrisponde anch’essa al più alto grado di conflitto. In aggiunta, vengono evidenziati altri potenziali conflitti minori, che nella tabella di valutazione corrispondono al livello 2, a proposito del suo ruolo di sperimentatore in alcuni progetti.

Esistono buone ragioni per credere che la griglia di valutazione utilizzata dal Css non sia troppo diversa da quella del Cts, nonostante il Consiglio superiore di sanità non abbia risposto alla nostra richiesta di accesso al documento. Innanzitutto perché le aree di competenza dei due organi sono molto vicine – entrambe si occupano di salute pubblica – tant’è vero che nel marzo 2021 l’ex ministro Speranza, in una conferenza stampa in cui viene annunciata la fine imminente del Cts e dello stato d’emergenza Covid, dice che «il Governo nel suo complesso potrà ancora contare su due strutture fondamentali che restano in piedi, il Consiglio superiore di sanità e l’Istituto superiore di sanità».

In più, da quanto ci è stato riferito da uno dei membri del Css, questi al momento della nomina devono comunicare «i rapporti di collaborazione, diretti o indiretti, con soggetti privati, in qualunque modo retribuiti avuti negli ultimi tre anni», cioè qualcosa di non molto diverso da ciò che deve essere indicato nelle dichiarazioni d’interesse del Cts. A tale comunicazione, riferisce il membro del Css, segue l’impegno «ad astenersi dal partecipare alle discussioni e alle deliberazioni in merito ad argomenti per i quali sussista una situazione di conflitto, anche potenziale, di interessi, di qualsiasi natura».

Abbiamo chiesto alla fonte anche se nell’esperienza di questa persona fosse mai capitato che lei stessa o un collega del Css si sia astenuto da una discussione per potenziali interessi. Ci è stato risposto che, almeno nella sua sezione di competenza, questo non si è mai verificato.

Per approfondire

Conflitto d’interessi e sanità: i dati in Europa

Per la prima volta un database mette a disposizione i numeri dei rapporti economici tra case farmaceutiche e operatori sanitari

Il quadro che emerge è senza dubbio opaco. La mancanza di trasparenza impedisce di valutare con precisione se la legge venga applicata o meno. Non è chiaro infatti se alle dichiarazioni di effettivi conflitti d’interesse potenziali, anche gravi, seguano provvedimenti o astensioni particolari su determinati argomenti.

Se, da un lato, il Cts nel suo periodo di attività ha comunque reso pubbliche e accessibili alcune informazioni – sia le dichiarazioni d’interesse dei propri membri, sia tutti i verbali delle riunioni – il Css invece è molto meno trasparente. Ciò che è sicuro, dai dati di Euros For Docs, è che nel 2019 alcuni dei suoi membri hanno ricevuto pagamenti da case farmaceutiche – per servizi di consulenza o per rimborsi spese – fino a poche settimane prima di essere nominati, se non addirittura mentre erano in carica. E dalle dichiarazioni d’interesse del Cts viene confermato anche che alcuni membri attuali del Css hanno continuato a fornire consulenze per società farmaceutiche fino almeno al 2020 o al 2021. I dati e i documenti disponibili attualmente non permettono di sapere se questi pagamenti e servizi di consulenza siano continuati successivamente.

Con quali denari

Il secondo grande tema che emerge dal database di Euros For Docs riguarda una serie di arresti e procedimenti che si sono tenuti negli scorsi anni. Il 3 ottobre 2018 viene arrestato Franco Aversa, esperto di ematologia e professore ordinario dell’Università di Parma con più di 200 pubblicazioni all’attivo. Secondo le accuse, era al vertice di un’organizzazione di medici, manager e imprenditori che assicurava favori ad alcune case farmaceutiche – come ad esempio report negativi o positivi per un certo medicinale – in cambio di sponsorizzazioni di convegni o pagamenti veri e propri. L’inchiesta ha escluso la possibilità di rischi per la salute dei pazienti, ma i dialoghi che escono fuori dalle intercettazioni, riportati da varie testate, sono molto chiari.

«Ci sono delle aziende che hanno contribuito in maniera sostanziale e altre che non hanno nemmeno risposto, quindi è chiaro che devo fare la lista dei buoni e dei cattivi», avrebbe detto Aversa. «Lo dico francamente… questi nuovi prodotti che voi dovete lanciare, qui praticamente non entreranno mai!».

Lo stesso giorno, nella stessa operazione dei Nas, denominata Conquibus, viene arrestata anche Paola Gagliardini. È l’amministratrice delegata di Csc srl, una società di organizzazione congressi di Perugia. Per gli inquirenti era lei a occuparsi di mettere in piedi gli eventi sponsorizzati dalle case farmaceutiche grazie ai favori ottenuti da Aversa.

Questi nomi ritornano nel database di Euros For Docs. Secondo i dati, Aversa ha ricevuto quasi 19.000 euro tra il 2017 e il 2018. Sono soprattutto pagamenti per servizi di consulenza e provengono da aziende come Astellas, Gilead, Novartis e Janssen. Per la società di Gagliardini, invece, le cifre sono molto maggiori. Tra il 2016 e il 2019 (anche se nel 2019 ha ricevuto un solo pagamento), la Csc ha ricevuto quasi 320.000 euro. Le case farmaceutiche che hanno elargito più denaro sono Gilead, Novartis e Pfizer. La maggior parte dei pagamenti è registrata, prevedibilmente, come sponsorizzazioni di eventi.

A luglio dell’anno scorso Aversa ha patteggiato un risarcimento di 80.000 euro. I capi di imputazione erano corruzione, tentata corruzione, induzione indebita, truffa e falso. Secondo quanto riportato dalla stampa, anche Paola Gagliardini era vicina al raggiungimento di un accordo ma ci sono stati problemi nella definizione del risarcimento, quindi la sua posizione è stata stralciata. Dovrà quindi affrontare un processo separato.

Questi sono solo i due imputati principali, ma all’inizio dell’inchiesta in totale erano 33 le persone messe sotto accusa nell’operazione Conquibus, insieme a varie case farmaceutiche tra cui Celgene e Gilead, verso le quali, alla fine, è stato disposto il non luogo a procedere. Parte di questi nomi, tutti inizialmente coinvolti nell’inchiesta Conquibus, spuntano nei dati di Euros For Docs. Le cifre in questione variano molto: da chi ha ricevuto circa 38.000 euro tra il 2016 al 2019 per servizi di consulenza, a chi le case farmaceutiche hanno versato 2.500 più o meno nello stesso arco di tempo sotto forma di rimborsi per spese di viaggio. Delle 33 persone indagate inizialmente, 15 sono state rinviate a giudizio, 10 sono state assolte, quattro hanno patteggiato e due sono state condannate con rito abbreviato. In attesa del processo, i pagamenti erogati da parte delle case farmaceutiche sono da considerarsi del tutto legittimi.

In conclusione, la gestione dei potenziali conflitti d’interesse dentro al Css e al Cts, insieme ai procedimenti giudiziari degli scorsi mesi, mostrano la necessità di una maggiore trasparenza dei rapporti economici tra le grandi case farmaceutiche e organizzazioni, aziende e professionisti della sanità. Necessità che è stata anche riconosciuta dal precedente Parlamento, il quale ha approvato definitivamente a giugno del 2022 una legge «in materia di trasparenza dei rapporti tra le imprese produttrici, i soggetti che operano nel settore della salute e le organizzazioni sanitarie».

L’elemento cardine consiste nella creazione di un registro pubblico dei pagamenti erogati dalle case farmaceutiche, accessibile dal sito del Ministero della salute. I tempi di implementazione sono molto chiari: «entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge», recita il quinto articolo. Al momento, sono da poco passati sei mesi e sul sito del Ministero della salute il registro non è disponibile.

Nessuno dei membri del Css interpellati, né il Ministero della salute, hanno risposto alle nostre domande.

CREDITI

Autori

Francesco Paolo Savatteri
Edoardo Anziano

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

Foto di copertina

Il primo ministro Mario Draghi, il ministro della salute Roberto Speranza e il coordinatore del Comitato tecnico scientifico Franco Locatelli durante una conferenza stampa a gennaio 2022
(Alessandra Benedetti/Getty)

Le mancate forniture che hanno dato avvio all’inchiesta che coinvolge Fontana

7 Agosto 2020 | di Matteo Civillini, Luca Rinaldi

Sono 25 mila camici sanitari il “corpo del reato” dell’inchiesta che ha messo nel mirino Attilio Fontana, presidente di Regione Lombardia. La parte mancante della fornitura da 513 mila euro affidata senza gara da Aria, la stazione appaltante della Lombarda, a Dama Spa, azienda guidata da Andrea Dini, cognato di Fontana. Un accordo formalizzato il 16 aprile scorso, e poi mai pienamento rispettato, facendo scattare l’ipotesi di frode in pubbliche forniture: per gli inquirenti Dini avrebbe tentato di vendere la parte della fornitura non consegnata a una Onlus di Varese a un prezzo superiore (da 6 a 9 euro). Alla stampa l’avvocato di Andrea Dini, Giuseppe Innaccone, puntualizza che nei messaggi scambiati tra l’imprenditore e chi avrebbe dovuto acquisire i camici «non si parla di camici ma di tessuti da vendere». Tuttavia nei giorni scorsi i 25 mila camici sono stati sequestrati dalla Guardia di finanza nei magazzini della Dama Spa. Nel mezzo, il tentativo di trasformare l’ordine oneroso in donazione, bonifici sospetti dalla Svizzera e una lunga serie di mezze verità e dietrofront sciorinate dal governatore lombardo.

Seppur la più scottante politicamente, quella di Dama spa è solo una delle numerose partite di dispositivi di protezione individuale gestite da Aria e poi mai arrivate nei magazzini della Regione. Come Irpimedia ha già raccontato, per le sole mascherine il 72% degli ordini effettuati da Aria è stato successivamente annullato. Ma se la maggior parte delle cancellazioni sono dovute perlopiù alla non idoneità dei prodotti o a ritardi nelle consegne, il caso della Dama spa è ben diverso. Al centro infatti c’è un macroscopico conflitto di interessi: soldi pubblici sarebbero dovuti finire nelle tasche dell’azienda di famiglia (Roberta Dini, moglie di Fontana, detiene una quota di minoranza di Dama Spa). La patata bollente rivelata da Report che ha fatto partire la corsa a trasformare in corso d’opera la vendita in una semplice donazione. Tentativo mai realmente riuscito visto che la proposta, inviata da Dini via email, non è mai stata formalizzata da Aria.  

A quel punto (eravamo a metà maggio) Dama blocca le forniture dopo aver già consegnato 49mila camici, come previsto dal contratto. Per risarcire il cognato dai mancati introiti Fontana fa partire un bonifico da 250mila euro a favore di Dama Spa da un suo conto personale in Svizzera. A gestire l’operazione sarebbe stato Fontana in prima persona, stando a quanto dichiarato dal suo avvocato: «Quando è venuto a sapere della fornitura, per evitare equivoci gli ha detto di trasformarla in donazione e lo scrupolo di aver danneggiato suo cognato lo ha indotto in coscienza a fare un gesto risarcitorio».

A predisporre il versamento è l’Unione Fiduciaria, la società milanese che cura il patrimonio di Fontana. Il bonifico però non arriverà mai a destinazione: un funzionario della fiduciaria, insospettito da importo e causale, fa una segnalazione di operazione sospetta di riciclaggio all’UIF di Banca d’Italia, l’unità di Palazzo Koch che si occupa delle operazioni sospette. L’11 giugno Fontana fa retromarcia e chiede all’Unione Fiduciaria di ritirare il bonifico. Ma, ormai, è troppo tardi: la segnalazione è arrivata sulla scrivania dei magistrati milanesi che istruiscono la Guardia di Finanza ad approfondire il caso.

Ulteriore elemento che gli inquirenti stanno approfondendo è la domiciliazione del Diva Trust, il soggetto che tramite la Credit Suisse Servizi Fiduciari controlla il 90% di Diva Spa che a sua volta detiene il 90% della Dama: Diva Trust è domiciliato allo stesso indirizzo di Unione Fiduciaria, la stessa sede da cui è partito il bonifico segnalato all’autorità antiriclaggio. «Una coincidenza», puntualizzano le difese, ma che sta portando la procura a verificare che non ci siano interessi incrociati tra il presidente della Regione e i Dini.

L’assetto proprietario di Dama Spa

Il triangolo Svizzera-Bahamas-Liechtenstein

Le indagini fanno venire a galla la complessa ingegneria finanziaria usata da Fontana e famiglia per la gestione dei propri risparmi. Un patrimonio da 5 milioni di euro custodito a partire dal 1997 dalla UBS di Lugano in un conto inizialmente intestato alla madre del governatore. Passano otto anni e i risparmi della famiglia Fontana prendono la via dei Caraibi. Il 1 giugno 2005, infatti, la UBS Trustees delle Bahamas registra il Montmellon Valley, un trust con lo scopo di schermare la reale proprietà del conto svizzero. Come scrive L’Espresso, la data dell’operazione sembra essere curiosa: un mese più tardi, il 1 luglio, entra in vigore la cosiddetta Euroritenuta, ovvero la tassazione alla fonte dei conti detenuti da cittadini europei nelle banche elvetiche.

Ovviamente, i nomi di Fontana e della madre non compaiono nei documenti del trust Montmellon Valley. Ad amministrarlo sono tre soggetti: Corpboard Ltd, una fiduciaria di UBS alle Isole Vergini Britanniche, il Dr. Herbert Oberhuber, avvocato del Liechtenstein il cui nome compare in una miriade di società presenti nei leak Paradise e Panama Papers e la Domar Board Services Anstalt, con sede a Vaduz. Quest’ultima una tipologia di soggetto giuridico peculiare del Liechtenstein paragonabile ad una fondazione. Nell’ottobre del 2010 tra gli amministratori del trust subentra Peter Marxer Jr., socio di Marxer and Partners, il più antico studio legale di Vaduz. A fondarlo era stato il padre omonimo, personaggio politico di primo piano in Liechtenstein negli anni ‘80.

I documenti che provano la costituzione e la chiusura del trust alle Bahamas / Scorri le immagini

Il tesoretto della famiglia Fontana sparisce in questo triangolo tra Svizzera,Bahamas e Liechtenstein fino al 2015 quando l’attuale presidente di Regione Lombardia, allora sindaco di Varese, eredita il patrimonio da 5 milioni di euro dopo il decesso della madre. Pochi mesi dopo regolarizza la sua posizione sfruttando la voluntary disclosure voluta dal governo Renzi, ma i soldi restano in Svizzera nelle casse di Ubs. L’operazione si chiude con la definitiva chiusura del trust Montmellon Valley nel gennaio 2016.

Investimenti scivolosi

Come tutte le famiglie benestanti del varesotto anche dei Dini non si legge granché. Per chi bazzica gli ambienti degli industriali della zona una situazione da «Capitale Umano», per citare il famoso film di Paolo Virzì. Non a caso anche in questa occasione l’attenzione si è gioco forza spostata su Attilio Fontana, ma anche i Dini in passato sono stati protagonisti di operazioni finanziarie non proprio riuscite.

Nei primi anni ‘70 Paolo Dini, padre di Andrea, titolare del maglificio Daco di Varese lancia un proprio marchio di proprietà, Paul & Shark, oggi controllato dalla Dama Spa. Il business regge e nel tempo la famiglia diversifica, incappando in qualche inciampo, come la truffa messa in piedi da Bernard Madoff, banker di New York capace di montare uno “schema Ponzi” da 50 miliardi di dollari. Paolo Dini è uno dei quattro italiani che compaiono nella lista dei clienti truffati da Madoff rimettendoci, stando ai documenti del processo, circa un milione di dollari che tuttavia non hanno impattato sulle attività di famiglia.

A metà degli anni 2000 l’avvicinamento tra Fontana e la famiglia Dini con il matrimonio tra l’attuale presidente della Regione e Roberta Dini. Nel 2010 i Dini si imbarcano, insieme a Davide Bizzi, nel progetto di recupero dell’area ex Falck di Sesto San Giovanni: un investimento da 405 milioni di euro, a tutt’oggi arenato tra bonifiche infinite e progetti faraonici mai attuati. Nel frattempo Dini senior muore nel 2017, ma l’area ex Falck rimane ancora oggi una grande incompiuta ora in mano ai re di denari dell’immobiliare milanese Hines e Prelios dopo la cessione del gruppo Bizzi.

Covid19: la zona grigia del mercato dei rapid test

#Covid-19

Covid19: la zona grigia del mercato dei rapid test

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli

Per quattro giorni interi Rodzer Zekirovski ha avuto tutti i sintomi da Covid-19: febbre alta, dolore muscolare, tosse secca. Era marzo nel nord della Macedonia e il quarantaquattrenne Zekirovski era preoccupato. Ma per quanto abbia insistito, non è riuscito a farsi accettare per un tampone in un ospedale pubblico.

Ha allora deciso di perseguire quella che gli sembrava una valida alternativa: andare in una clinica privata e sottoporsi ad un rapid-test sierologico con pungidito. Un esame banalissimo: gli operatori sanitari dovevano solo prelevare, attraverso una puntura, una gocciolina del suo sangue e appoggiarla sulla cassettina di plastica che rileva una reazione anticorpale all’infezione da coronavirus e in pochi minuti avrebbe avuto una risposta, simile a quella di un test di gravidanza: sì o no. Costo dell’operazione: 20 dollari. E con la promessa di affidabilità certa poiché il test era prodotto in Olanda. O almeno questo era ciò a cui aveva creduto il signor Zekirovski quando, risposta negativa alla mano, è tornato a casa sollevato.

Tre giorni dopo l’uomo è deceduto. L’autopsia ha confermato che Zekirovski era positivo alla SARS-CoV-2, il virus che causa la malattia Covid-19. Convinta che non avesse contratto il virus, l’intera famiglia Zekirovski non ha preso precauzioni quando l’uomo è tornato a casa sventolando il suo certificato. «Ci siamo abbracciati e baciati tra noi due e con i bambini – racconta la moglie Gjultena – come potevamo immaginare?».

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Non è possibile stabilire se una diagnosi corretta avrebbe salvato la vita di Zekirovski, ma senza dubbio la sua morte è la dimostrazione che i test rapidi detti “point of care” non sono sufficienti per una diagnosi certa del Covid-19. Al contrario di quanto è stato detto alla famiglia dell’uomo e al contrario di quanto pensa chi vede in essi una soluzione miracolosa.

A differenza dei tamponi faringei analizzati in laboratorio che cercano le proteine del virus – un processo che può richiedere giorni – i test rapidi cercano gli anticorpi rilasciati da un organismo nella lotta al virus. E i risultati sono leggibili in una decina di minuti.

Test del genere, pungidito, esistono già di tutti i tipi: per HIV, per scoprire la presenza di alcool o droghe nel sangue, per il colesterolo e così via. Ma il SARS-CoV-2 è un virus nuovo e ancora poco compreso, per cui le speranze iniziali che si riponevano a livello internazionale su questi test rapidi sierologici Covid-19 sono state tradite dall’evidenza che molti di questi sono meno accurati di quanto dichiarato dalle aziende produttrici.

Test rapido, test sierologico tradizionale e tampone a confronto

Test rapido: con test rapido intendiamo i test “pungidito” con la gocciolina di sangue. Non sono test diagnostici in quanto non sono in grado di stabilire se chi si sottopone al test abbia o meno il Covid-19 ma rintracciano la presenza di eventuali anticorpi. L’Organizzazione mondiale della sanità ne sconsiglia l’utilizzo, così come da parte dell’Istituto Superiore di Sanità non c’è mai stato un pronunciamento a favore del loro utilizzo. I distributori dei kit che abbiamo intervistato lamentano però il fatto che in Italia non sia stato fatto nemmeno un tentativo di testarli seriamente. In questo stallo, diversi sindaci e presidenti di Regione ne hanno fatto ordini importanti.

Test sierologico tradizionale: è un altro test che serve alla rilevazione degli anticorpi che usa i sistemi definiti CLIA o ELISA. È lo strumento scelto dal Ministero della Salute e dal Comitato tecnico scientifico per fare lo screening della popolazione in Italia, in quanto ritenuto migliore e più accurato dei test rapidi, vista la letteratura scientifica al momento disponibile. Il Ministero il 17 aprile ha indetto una gara per la «fornitura di kit, reagenti e consumabili del medesimo tipo, per l’effettuazione di 150.000 test» allo scopo in particolare di trovare le immunoglobuline di tipo G. L’appalto è stato vinto dalla società americana Abbott. Il suo test è anch’esso inserito dall’Oms nella lista dei prodotti «non approvati».

Tampone: il tampone naso-faringeo è ad oggi l’unico strumento diagnostico disponibile, in grado di identificare acidi nucleici virali, spia della presenza del virus. I test per la ricerca degli anticorpi sono complementari al tampone. Dopo aver prelevato materiale biologico, il tampone prevede l’analisi in laboratorio, per trovare tracce di RNA virale nel campione. Per evitare errori umani, l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato a inizio aprile una guida con le raccomandazioni per effettuare il test nel modo corretto.

La stessa Organizzazione mondiale della sanità il 26 marzo, un po’ tardi rispetto alla commercializzazione dei rapid test, ha pubblicato una lista di test e rispettive aziende produttrici dicendo però «non ne incoraggiamo l’uso». In un aggiornamento del 4 maggio, compaiono anche nomi di spicco come Abbott, l’azienda americana che si è appena aggiudicata l’appalto italiano per 150mila test sierologici tradizionali con prelievo endovenoso (un sistema più complesso del pungidito). Eppure i singoli Paesi, soprattutto quando annunciano la “fase 2”, non possono fare affidamento solo su questo metodo per lo screening della popolazione. Il tampone costa molto, i traccianti chimici sono merce sempre più contesa e i laboratori, per analizzarne i campioni, rischierebbero di ingolfarsi in tutto il mondo.

La posizione pilatesca dell’Oms di fronte ai test rapidi ha così di fatto aperto a un far west in cui aziende private più e meno accreditate hanno cercato di vendere dei prodotti la cui affidabilità non è stata mai validata davvero. Se questa situazione era accettabile a febbraio, oggi ci dovrebbe essere un’analisi seria di quali siano i test rapidi affidabili e quali no. Circostanza che finora non si è verificata.

La posizione pilatesca dell’Oms di fronte ai test rapidi ha così di fatto aperto a un far west in cui aziende private più e meno accreditate hanno cercato di vendere dei prodotti la cui affidabilità non è stata mai validata davvero

Non c’è nulla di certo intorno alla diagnostica del Covid: gli stessi tamponi a volte hanno dato risultati sballati. Ma il rischio maggiore sembra rappresentato proprio dai test rapidi “pungidito” perché studi scientifici indipendenti hanno iniziato a smontare l’affidabilità certificata dai produttori.

«Se vogliamo determinare se una persona è infetta, allora un falso positivo non è un grande problema perché l’unica conseguenza è che la persona viene messa in quarantena per niente», ha spiegato a IrpiMedia Marien de Jonge, un ricercatore che si sta occupando di COVID-19 Radboud University Medical Center in Olanda. «Ma un falso negativo è un disastro. Perché, evitando di isolarsi, può mettere inconsapevolmente in pericolo le altre persone».

Resta però un fatto: i test rapidi, se incrociati all’uso del tampone, potrebbero essere la chiave per fare lo screening della popolazione che tutti stanno aspettando. «Testare, tracciare e trattare» è il cavallo di battaglia dell’epidemiologo Alessandro Vespignani. Secondo lo scienziato – con un passato da fisico e informatico, competenze che oggi unisce all’epidemiologia per realizzare complessi sistemi di analisi e predizione delle epidemie – è fondamentale fare tamponi e test (purché omologati) a tappeto, con «determinazione ossessiva e spietata» ha spiegato in un’intervista a The Post Internazionale.

Invece, al momento, regna solo il caos.

IrpiMedia ha partecipato ad un’inchiesta transnazionale coordinata da OCCRP su sei Paesi nel mondo, che fa luce su una serie di problematiche legate alla commercializzazione e all’uso di questi test a livello internazionale.

«Se vogliamo determinare se una persona è infetta, allora un falso positivo non è un grande problema perché l’unica conseguenza è che la persona viene messa in quarantena per niente. Ma un falso negativo è un disastro. Perché, evitando di isolarsi, può mettere inconsapevolmente in pericolo le altre persone»

Marien de Jonge

Radboud University Medical Center (Paesi Bassi)

È ormai chiaro che il paziente macedone sia stato ingannato. Non solo il test non era affidabile al 100%, ma non era nemmeno giusto indurre il signor Zekirovski a credere di aver fatto un test diagnostico di alta qualità solo perché “olandese”. Il test a cui è stato sottoposto Zekirovski, il Biozek, è prodotto dall’azienda olandese Inzek International Trading, stando alle dichiarazioni ufficiali. In realtà, le ricerche di OCCRP svelano come il kit Biozek sia prodotto della Hangzhou Alltest Biotech Co. Ltd, una grossa azienda cinese sul mercato da anni. Non solo Inzek, ma una moltitudine di fabbricanti europei e americani lo hanno commercializzato e reimpacchettato, cambiandogli il nome, per farlo sembrare di fabbricazione occidentale. Molti hanno fatto sparire del tutto dai loro siti e dai kit in commercio il nome del produttore originario, Alltest.

Come funzionano i test rapidi

I test rapidi sierologici “pungidito”, da non confondere con quelli molecolari, funzionano con il prelievo di una goccia di sangue da appoggiare in una cassettina di plastica al cui interno c’è un “cuore” di reagenti in grado di tracciare la presenza di anticorpi virali.

La maggior parte di questi test cercano due tipi di anticorpi: le immunoglobuline M (IgM), che solitamente compaiono all’inizio dell’infezione, e le immunoglobuline G (IgG), che sono anticorpi di lunga durata, di cui il corpo mantiene memoria. E che quindi in teoria potrebbero dimostrare l’immunità di un organismo al virus, anche se quest’ultima circostanza non è ancora stata del tutto verificata.

I test pungidito, sulla cui affidabilità c’è ancora molto dibattito e poca letteratura scientifica, sono i più economici e danno un risultato in circa 10-15 minuti, non sempre completamente attendibile.

Questa pratica si muove sul filo della legalità. Un prodotto, secondo la normativa europea, può dirsi “Made in Europe” se quella che viene definita “l’ultima lavorazione” avviene nello spazio Schengen, come spiegato a IrpiMedia da Confindustria Dispositivi Medici. Questa “lavorazione” può anche essere solo l’assemblaggio con un nuovo involucro, che di fatto ribattezza il prodotto. L’origine, però, deve sempre essere rintracciabile dagli organismi europei che certificano le aziende e dalle agenzie nazionali che approvano la commercializzazione dei prodotti. Questa pratica avviene in Italia con una autocertificazione mandata al Ministero della Salute, che poi registra aziende manifatturiere e mandatarie di un singolo dispositivo medico.

E così, oltre all’originale marchio Alltest, i test della Hangzhou Alltest Biotech Co. Ltd sono stati venduti sotto altri nomi a istituzioni governative, municipalità, Asl, ospedali e cliniche private in mezzo mondo, distribuiti in paesi tra cui Spagna, Italia, Inghilterra, Indonesia, Russia, Arabia Saudita e pure il Vaticano.

Le analisi del sangue per effettuare i test seriologici molecolari all’ospedale Bellaria di Bologna – Foto: Michele Lapini

Il kit pungidito Covid-19 di Alltest è affidabile?

Il test di validazione che presenta Alltest per accreditarsi sul mercato afferma una precisione dei test del 92.9% per gli IgM (quindi per gli anticorpi che l’organismo produce a infezione in corso) e un 98.6% per gli anticorpi di lunga memoria, gli IgG.

Studi indipendenti sul prodotto però riportano un’affidabilità molto più bassa.

Uno studio dell’Ospedale Universitario Principe di Asturia ha rilevato falsi negativi in più della metà dei casi. Hanno però anche scoperto che il test è sempre più sensibile col passare del tempo: se usato su pazienti oltre i 14 giorni dopo la comparsa dei primi sintomi, allora il test è in grado di trovare gli anticorpi e i falsi negativi appaiono solo un quarto delle volte.

«L’accuratezza (dettata dalle due S, specificità e sensibilità) dichiarata da Alltest, ovvero 92.6% e 98.6%, è spazzatura», spiega dal “Center for Global Health Science and Security” della Georgetown University la ricercatrice e professoressa Claire Standley.

Sullo studio rilasciato da Alltest mancano molte informazioni. «Non hanno specificato lo status clinico dei pazienti, non sappiamo – precisa Standley – se erano ricoverati, se erano pescati a caso dalla comunità, non sappiamo se avevano sintomi lievi, non sappiamo come siano stati scelti. E in più – conclude – non c’è alcuna specifica sugli standard etici utilizzati durante lo studio. Tutti aspetti fondamentali».

Uno studio dell’Ospedale Universitario Principe di Asturia ha rilevato falsi negativi in più della metà dei casi

Standley sostiene che gli esperimenti clinici dei rapid test dovrebbero essere comparati con quelli più accurati fatti in laboratorio (per esempio il tampone faringeo), ma nota come sullo studio rilasciato da Alltest tutto questo aspetto manchi del tutto.

Anche con un’affidabilità più bassa di quella dichiarata, i kit di Alltest potrebbero essere un utile mezzo di screening usato in tandem al tampone, sostiene Standley. D’altronde è proprio questa la corretta somministrazione del test indicata sul sito web di Alltest. Come precisato sul sito dopo la cancellazione dell’ordine da parte del governo inglese. Così oggi si legge che il test «non è adeguato per una prima diagnosi dell’infezione» e dovrebbe essere utilizzato come «metodo supplementare» ai test di laboratorio. L’azienda si è rifiutata di rispondere ad altre richieste di commento dei giornalisti di OCCRP.

Le consegne nel mondo dei rapid test marchiati Biozek

Le lacune attorno al prodotto Alltest hanno spinto ai primi di aprile diversi governi, come quello spagnolo oltre al già menzionato governo inglese, a fermare gli ordini. Un distributore italiano sentito da IrpiMedia sostiene che da quel momento i kit siano bloccati in Cina, in attesa di un’ulteriore verifica da parte della Repubblica Popolare, ma che ci siano ugualmente rivenditori europei e americani che offrono comunque i test a prezzi di mercato altissimi, esibendo una certificazione cinese contraffatta.

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«Forse c’è una parola sbagliata»

I test rapidi per Covid-19 prodotti da Alltest sono identificati da un codice: INCP-402, che può comparire anche nelle varianti 402s, 402b, 4011a o BNCP-402 e BNCP-402e. Questo codice è attribuito al prodotto dalla fabbrica di origine: Alltest riporta INCP nello studio clinico con cui ha immesso sul mercato il prodotto. Inzek nello studio lo riporta come BNCP, ma gli autori sono gli stessi del report di Alltest, così come il prodotto. Almeno altre tre aziende che si inquadrano come “fabbricanti”, tra Europa e USA, stanno rivendendo test INCP-402 e varianti con il proprio marchio. Prodotti che in realtà dovrebbero riportare da qualche parte la dicitura “Made in China” e semmai assemblati altrove.

Si ottiene un’ulteriore conferma che i test in commercio siano sempre di produzione Alltest incrociando i codici di prodotto che si trovano nei foglietti illustrativi con le esportazioni che Alltest da Huangzhou fa in tutto il mondo.

Il foglietto illustrativo del rapid test 

«Inzek di solito fa il proprio controllo di qualità in un laboratorio in Iraq, e poi assemblea i prodotti in Olanda, ma nessuno di questi due passi è stato possibile a causa delle misure di lockdown»

Mustafa Hamid

Manager controllo qualità Inzek

Così spunta la principale azienda importatrice dei kit di Alltest, l’olandese Inzek International Trading BV, l’azienda produttrice dei dispositivi medici Biozek. Fino al 29 aprile scorso, sul sito dell’azienda questi test erano pubblicizzati come “prodotti in Olanda”, e venduti a marchio CE. Chi li acquistava, specialmente a certe latitudini, presentava l’origine del prodotto come garanzia di qualità. L’azienda farmaceutica statale dell’Indonesia, PT Kimia Farma, l’8 aprile ha annunciato l’acquisto di 300 mila kit Biozek ritenuti ottimi poichè marcati CE.

«I test sono stati sviluppati e prodotti sotto le più severe regole dell’Unione Europea e olandesi. Queste regole non lasciano margine d’errore rendendo il nostro prodotto molto affidabile e sicuro», ha affermato nel corso di una conferenza stampa Mustafa Hamid, il manager per il controllo qualità di Inzek. Lo stesso Hamid ammette però in una intervsita con OCCRP che i test siano di fatto sviluppati e prodotti in Cina da Alltest. «Inzek – prosegue – di solito fa il proprio controllo di qualità in un laboratorio in Iraq, e poi assemblea i prodotti in Olanda, ma nessuno di questi due passi è stato possibile a causa delle misure di lockdown». A detta dello stesso importatore, quindi, a partire dal momento in cui sono entrate in vigore le misure restrittive in Olanda, non c’è stato più alcun passaggio produttivo o di controllo qualità in Europa. Ma il manager giura come l’azienda produttrice cinese sia assolutamente professionale e con certificati ufficiali.

I campioni per i test seriologici molecolari all’ospedale Bellaria di Bologna – Foto: Michele Lapini

Quando i giornalisti di OCCRP gli hanno fatto notare che i kit venduti in questi mesi da Inzek continuano ad avere la denominazione “prodotto in Olanda”, Hamid ha risposto: «Forse abbiamo sbagliato una parola. Forse dovremmo correggerla». Il giorno dopo l’intervista la dichiarazione è sparita dal sito.

Il direttore indonesiano della Kimia Farma, Andi Prazos, aveva creduto che i test fossero olandesi e aveva anche inviato il suo staff per un controllo presso la fabbrica di Inzek in Olanda. «Prima dell’acquisto, ci siamo accertati che Inzek fosse un’azienda credibile e che avesse la propria linea produttiva. Ci ha aiutato l’ambasciata indonesiana in Olanda», afferma Prazos.

Dichiarare la produzione in uno spazio che non sia quello corretto «è un atteggiamento scivoloso, chiaramente, e non molto trasparente verso il consumatore – commenta Claire Standley, ricercatrice di Georgetown – che sfrutta le pieghe di un sistema di norme che non si era mai posto davvero il problema, visto che finora non c’era un interesse in questo tipo di strumenti diagnostici».

«Dichiarare la produzione in uno spazio che non sia quello corretto è un atteggiamento scivoloso, chiaramente, e non molto trasparente verso il consumatore che sfrutta le pieghe di un sistema di norme che non si era mai posto davvero il problema, visto che finora non c’era un interesse in questo tipo di strumenti diagnostici»

Claire Standley

Ricercatrice, Georgetown

I test a marchio Biozek sono diventati molto popolari. L’amministratore delegato Zeki Hamid ha spiegato che l’azienda ha venduto e spedito finora ben 1,6 milioni di kits, contando tra i clienti più importanti Indonesia, Russia, Olanda, Kuwait, Arabia Saudita e Iraq. E un cliente d’eccellenza, il Vaticano.

Lo Stato della Chiesa ha ordinato 700 kit, come riportato da La Stampa, grazie all’intermediazione di Paolo Zampolli, ambasciatore dell’isola di Dominica presso le Nazioni Unite. Zampolli non è un imprenditore qualunque: è arrivato a New York a fine anni ‘80 per avviare un’agenzia di modelle di grandissimo successo. È così che ha conosciuto Melania Knauss, l’attuale first lady d’America, presentata all’amico Donald Trump durante un party nel 1998. I Trump restano ancora suoi grandi amici.

A suo dire, i buoni agganci in Vaticano sono invece dovuti alla parentela con Papa Paolo VI, morto nel ‘78. Sull’account Instagram Zampolli ha pubblicato una foto con i test Biozek, in cui scrive che i test rapidi sono «per l’FDA», l’agenzia federale del farmaco negli Stati Uniti. Alla domanda se i test fossero stati affidabili o meno, l’ufficio stampa del Vaticano non ha risposto.

Altri nomi, stesso cuore

Numero di serie alla mano, i giornalisti OCCRP sono riusciti a trovare almeno altri due prodotti ri-marchiati degli Alltest, venduti su ampia scala. Uno di questi è venduto a marchio ScreenItalia, un’azienda che produce e vende dispositivi medico-diagnostici in vitro (IDV) da Perugia, in Umbria. Sul proprio sito, la ScreenItalia ha dedicato un’intera pagina al test rapido Covid-19 presentando anche un documento di autodichiarazione di conformità CE e dichiarando l’iscrizione al registro dei dispositivi medici del Ministero della Salute. E infatti, lì la ScreenItalia appare come “fabbricante” di tre rapid test Covid-19, di cui due registrate come varianti del codice INCP-402, lo stesso kit rietichettato dalla Biozek olandese. Una delle varie aziende distributrici definisce questo atteggiamento «concorrenza sleale, visto che certi clienti preferiscono il made in Italy al prodotto cinese».

ScreenItalia si è però rifiutata di fornire informazioni rispetto all’origine del test e agli acquirenti, dicendo che «sono informazioni confidenziali». Non si sa quindi a quanti ospedali, ASL o laboratori diagnostici la ScreenItalia abbia fornito i test Alltest, ma stando a quanto riportato da La Nazione la Protezione Civile umbra ha acquistato 15mila rapid test “Screen Test”, ovvero i test INCP-402 della ScreenItalia. «Noi siamo distributori in esclusiva di questo prodotto». In realtà l’INCP-402 è della Alltest, prodotto in Cina, e distribuito in Italia da varie aziende.

Nel nostro Paese risulta infatti fabbricante di test INCP anche Acro Biotech, azienda di Rancho Cucamonga, California. Il prodotto è venduto con il marchio Acro o Juscheck, di fatto entrambe versioni dell’Alltest INCP-402. Acro Biotech è il maggior cliente di Alltest già da prima della pandemia, da cui acquista test in vitro per la diagnostica di altri virus o alcool e droghe. Acro Biotech ha rivenduto poi in India, Cile, Brasile, Spagna, Belgio, Finlandia e Italia. E sulla dichiarazione di conformità CE il produttore dichiarato è proprio l’azienda di Rancho Cucamonga. Nessuna traccia nei fogli illustrativi del nome Alltest. L’azienda californiana non ha risposto alle richieste di spiegazioni di OCCRP.

«Il Comitato Tecnico Scientifico (CTS), quindi Ministero della Salute e Istituto superiore di sanità (ISS) in testa, non riconoscono al momento i cosiddetti test rapidi sierologici come strumenti diagnostici validi. Noi ci atteniamo alle linee guida della comunità scientifica internazionale»

Cesare Buquicchio

Capo ufficio stampa del Ministero della sanità

La zona grigia

In Italia la “zona grigia” sulle normative commerciali si somma al fatto che, dopo l’avvio della fase 2, un po’ per disorganizzazione un po’ per mancanza di un piano comune, ogni Regione fa storia a sé.

«Il Comitato Tecnico Scientifico (CTS), quindi Ministero della Salute e Istituto superiore di sanità (ISS) in testa, non riconoscono al momento i cosiddetti test rapidi sierologici – quindi quelli che si basano su una goccia di sangue – come strumenti diagnostici validi. Noi ci atteniamo alle linee guida della comunità scientifica internazionale», spiega Cesare Buquicchio, capo ufficio stampa del Ministero.

«È vero – concorda Buquicchio – molte regioni hanno acquistato i test rapidi nonostante ci fossimo chiaramente pronunciati contrari. Ma le posso assicurare che alcune di queste li hanno addirittura dovuti buttare via perchè non funzionavano bene». IrpiMedia ha tracciato acquisti di test Acro Biotech fatti dalla Asl di Cagliari, dall’Ospedale dei Colli di Napoli e da un Comune di 1700 abitanti in Abruzzo, Cerchio.

Il sindaco Gianfranco Tedeschi, a fine marzo, ha acquistato da un’azienda di Bari 1.700 test Acro Biotech per i suoi cittadini, nonostante la polemica con la Regione Abruzzo. Ne ha già usati 650 con l’aiuto di un medico testando per tre volte circa 200 persone. «Siamo molto soddisfatti dei risultati, e dell’affidabilità dei test che abbiamo usato incrociandoli ai più classici tamponi laddove le persone risultavano positive al Covid-19, o che abbiamo usato per confermare gli anticorpi in persone che sapevamo avere già attraversato la malattia».

Non è stato possibile sapere dalla Asl di Cagliari e dall’ospedale di Napoli come siano stati usati i test e che risultati abbiano dato.

Ci si aspetta che l’Istituto Superiore di Sanità si pronunci questa settimana per mettere una parola definitiva in materia.

In piena pandemia, ci si poteva aspettare un maggiore coordinamento a livello nazionale. Invece la zona grigia ha prevalso con il rischio che i test finiscano nelle mani di privati che non saprebbero come utilizzarli correttamente.

Un broker di un’azienda di e-commerce veneta di prodotti medici che chiede di restare anonimo spiega di aver «venduto rapid test sierologici, anche del tipo INCP402, ad aziende private non in ambito medico. Ma abbiamo preteso un certificato dal medico del lavoro dell’azienda, che dichiarasse come lo screening sarebbe avvenuto sotto la propria responsabilità». Non tutti i rivenditori però sono così scrupolosi. Alcune aziende vendono online rapid test senza che avvenga alcuna valutazione sui compratori: basta un pagamento con Paypal.

«Al momento c’è un buco normativo, perché non c’è nessuna norma che vieti vendere alla “signora Maria” ma non c’è nemmeno alcuna norma che lo consenta. Noi abbiamo semplicemente deciso di non farlo perchè per politica aziendale non ci interessa», spiega a IrpiMedia il broker.

La Guardia di Finanza però si sta muovendo per impedire la vendita diretta al privato cittadino. Il Gruppo Tutela spesa Pubblica di Firenze il 4 maggio ha oscurato uno dei tanti siti web che vendeva illecitamente, tra vari prodotti medici, anche i sierologici pungidito. «L’azienda di e-commerce – spiega a IrpiMedia il comandante Marco Chetta – si era lanciata anche sui rapid test che adesso sono molto in voga. Chiedeva 59 euro a kit. I proprietari dichiaravano sul sito che la vendita era solo per operatori medici specializzati, ma in realtà non vi era il minimo controllo e li poteva acquistare chiunque».

Ci si aspetta che l’Istituto Superiore di Sanità si pronunci questa settimana per mettere una parola definitiva in materia. Il timore però è che le linee guida vengano lasciate vaghe per paura di infilarsi in un pantano. Lasciando così che viga ancora una “zona grigia”. Peccato, perché ciò che servirebbe è una risposta certa rispetto a quali strumenti usare, se questi stessi strumenti sono validi, e come incrociarli, per il monitoraggio dell’andamento epidemiologico e per la cosiddetta “fase 2”.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli

In partnership con

Editing

Luca Rinaldi

Foto

CDC/Unsplash
National Cancer Institute/Unsplash
Michele Lapini

Il modello Lombardia dalla grandeur sanitaria alla débâcle Covid-19

#Covid-19

Il modello Lombardia dalla grandeur sanitaria alla débâcle Covid-19

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

La Lombardia vanta un sistema sanitario definito, soprattutto dai suoi governanti, «eccellente». Compare sempre nei primi posti dell’Indice di performance sanitaria e nel 2019, secondo il report del think tank Demoskopika, 165 mila persone si sono spostate da altre regioni per farsi curare nei suoi ospedali. Eppure, dietro l’ “eccellenza”, ci sono anche dei problemi gestionali colossali, dovuti a precise scelte politiche. Da un lato, il sistema sanitario “alla lombarda” ha trasformato profondamente la sua rete di presidi sanitari di medicina generale a vantaggio dei grandi ospedali. Dall’altro, ha creato un sistema di accreditamento tra pubblico e privato che in passato ha dimostrato di essere permeabile a fenomeni corruttivi.

Non è possibile stabilire una causalità diretta tra la struttura del sistema sanitario e i numeri dell’emergenza Covid, più alti qui che nel resto d’Italia, ma si possono certamente indicare le responsabilità politiche che hanno prodotto il sistema odierno. Il processo ventennale è stato talmente pervasivo che, nonostante molte indagini e condanne, non è stato possibile scardinarlo. La trasformazione è cominciata nel 1997, quando la regione era governata da Roberto Formigoni, che al Pirellone, il grattacielo allora sede del governo regionale, ci è stato dal 1995 al 2013. Al suo regno è seguito quello della Lega, prima Roberto Maroni e ora Attilio Fontana, che hanno seguito pedissequamente il sentiero tracciato in passato.

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Il piano d’emergenza nel cassetto da dieci anni

Il governo regionale dal 2010, anno dell’esplosione del virus influenzale H1N1, meglio conosciuto come “influenza suina”, dovrebbe avere aggiornato un piano di emergenza per la gestione delle pandemie. Il piano però non è mai stato messo in atto, nonostante il 22 dicembre 2010, quasi dieci anni fa, una delibera regionale avesse indicato quali dovessero essere i suoi contenuti, dopo aver evidenziato tutte le criticità nella tenuta del sistema sanitario regionale durante l’emergenza H1N1.

La delibera aveva già individuato i punti deboli del sistema lombardo di fronte a una crisi, dalle mancate procedure per la gestione delle residenze sanitarie per anziani, che rappresentano una delle più importanti alternative all’ospedale che esistono in Lombardia, fino a stabilire quale dovesse essere il comportamento dei medici di medicina generale in una fase di pandemia acuta.

Tutto il sistema, per altro, non poteva prescindere dal coordinamento e dalla gestione dell’emergenza da parte delle Asl, le Aziende sanitarie locali, che oggi hanno cambiato pelle, diventando, di fatto, sportelli di accettazione e uffici amministrativi, più che presidi medici.

La delibera, infatti, indicava la mancata definizione di un «accordo-quadro con le residenze per anziani (Rsa) per l’aumento di assistenza medica e infermieristica» tra i principali nodi da sciogliere per realizzare un piano di emergenza lombardo. Oggi le Rsa sono i luoghi dove si sono verificati focolai sulle cui responsabilità la procura di Milano ha aperto otto inchieste, di cui la più importante riguarda il Pio Albergo Trivulzio, struttura che ospita circa 1.200 anziani.

Altro buco mai sanato è il capitolo riguardo la “Fase 6”, cioè il protocollo di comportamento da seguire quando ci si trova di fronte a una pandemia dilagata, che letto oggi è drammatico.

Era prevista infatti la definizione di accordi con i medici di medicina generale per «l’ampliamento dell’assistenza in fase 6». Anche qui la verifica è lapidaria: «Non sono stati siglati accordi». Come allora nei decenni successivi gli stessi medici sono rimasti senza linee guida su come trattare a domicilio i pazienti sospetti. Allo stesso modo nel documento si indica, proprio in virtù dell’isolamento dei casi, il necessario incremento dell’assistenza domiciliare. Risultato: «assenza di azioni».

«Il progressivo ridimensionamento del ruolo dei medici di famiglia ha portato a una progressiva perdita di cura del territorio»

Roberto Carlo Rossi

Presidente dell'Ordine dei medici di Milano

«Negli ultimi 15 anni in Lombardia – dice a IrpiMedia il presidente dell’Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi – si è di fatto depauperato il patrimonio della medicina generale sul territorio. I medici di famiglia hanno rivestito, purtroppo, un ruolo sempre più marginale. La messa al centro degli ospedali in quanto tali e il progressivo ridimensionamento del ruolo dei medici di famiglia – conclude Rossi – ha portato a una progressiva perdita di cura del territorio».

Proprio lo sviluppo della medicina del territorio avrebbe potuto essere uno strumento importante per l’isolamento dei casi e il trattamento a domicilio senza ricovero, come ha sottolineato l’8 aprile su RaiTre, ad Agorà, il dottor Massimo Galli, responsabile del reparto malattie infettive all’Ospedale Sacco di Milano: «C’è stato un clamoroso fallimento, e di questo ne dovremo prendere atto per il futuro, della medicina territoriale, ammettiamolo e riconosciamo questo aspetto».

L’inizio dello smantellamento combacia con la riforma formigoniana del 1997, completata 18 anni dopo con quella voluta dal governo regionale della Lega guidato da Roberto Maroni.

Il regno di Roberto Formigoni

Tra il 1995 e il 2013 Roberto Formigoni è stato presidente regionale e ha tirato le fila del potere in una delle regioni più produttive d’Europa. La sanità è sempre stata uno dei suoi cavalli di battaglia, grazie soprattutto ai legami con organizzazione religiose con la vocazione per la politica e gli affari come Comunione e Liberazione e il suo braccio economico, la Compagnia delle Opere.

Parola chiave: spoils system

Pratica politica secondo cui gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare del governo

Formigoni inizia da giovanissimo la sua attività politica nella Democrazia cristiana. Prima di sedere sullo scranno più alto della regione Lombardia passa dall’Europarlamento alle elezioni del 1984, diventando nel 1987 vice presidente del Parlamento europeo. Eletto deputato in Italia nel 1987, otto anni dopo arriva il primo mandato da presidente della regione Lombardia e la militanza nel progetto politico di Silvio Berlusconi.

Lo chiamavano il Celeste, al Pirellone. Rispetto agli “azzurri”, i neomilitanti della rampante Forza Italia, in maggioranza nuovi arrivati nel mondo della politica, Formigoni era un politico navigato, con anni di militanza democristiana. Il suo azzurro, perciò, era meno acceso: celeste, appunto.

È proprio nel corso di questi vent’anni che il sistema della sanità lombardo spinge l’acceleratore sul settore privato, con il contributo decisivo dei grossi gruppi imprenditoriali, che in Lombardia hanno visto un nuovo mercato, e le organizzazione religiose.

La sua riforma del 1997 è una rivoluzione copernicana nel sistema sanitario italiano: equipara sistema pubblico e sistema privato seguendo i modelli di privatizzazione dei Paesi anglosassoni. In un convegno del novembre 1997 diceva che il suo modello avrebbe permesso il «superamento della crisi del welfare, ovvero della solidarietà sociale di matrice statalista».

«E noi – si legge nel resoconto di AdnKronos Salute – crediamo che questo episodio possa contagiare le altre regioni e avviare un confronto che aiuti a trovare risposte adeguate alle grandi questioni dibattute anche in questo convegno». L’ambizione non gli è mai mancata. Non ha contagiato altre regioni, ma ha pervaso nel profondo la Lombardia: la stessa filosofia formigoniana è stata perseguita anche dalla giunta leghista che ha preso il suo posto, con un’ulteriore riforma promossa nel 2015.

L'unicità del sistema sanitario lombardo
Spiega Alberto Ricci, coordinatore dell’Osservatorio OASI dell’università Bocconi, che il servizio sanitario lombardo si differenzia principalmente in due aspetti da quello delle altre regioni italiane: il primo è il ruolo delle Asl, le Aziende sanitarie locali, le cui funzioni in Lombardia sono state attribuite a due diverse tipologie di enti, il secondo riguarda il peso nell’offerta sanitaria del settore privato.

Le Asl, da legge nazionale del 1992, «si occupano della committenza e dell’erogazione delle prestazioni sanitarie», spiega Ricci. In pratica, a seconda dell’esigenza del paziente, possono fornire direttamente un servizio da ambulatorio, prescrivere farmaci, oppure ricoverare il paziente nella struttura idonea per ricevere cure «ad alta intensità», fino a un ricovero; ma allo stesso tempo, le Asl hanno la possibilità di commissionare prestazioni sanitarie ad altre aziende pubbliche (come le aziende ospedaliere) o private accreditate. In Lombardia queste due funzioni sono divise tra Ats, Agenzie di tutela della salute (otto per le undici province lombarde) che «allocano le risorse e decidono le prestazioni sanitarie» e le Asst, Aziende socio sanitarie territoriali, che «hanno sostituito le precedenti aziende ospedaliere e inglobato i poli ambulatoriali» e si occupano di erogare materialmente le prestazioni. Le Asst, in larga parte, hanno sede in strutture ospedaliere. La nomenclatura nuova arriva nel 2015, ma il cambiamento era cominciato con il Celeste, con la riforma del 1997. Mentre in regioni come Emilia Romagna, Toscana e Veneto si investiva in «strutture intermedie» per la medicina generale, dei poliambulatori più attrezzati, in Lombardia non c’è stato grande coordinamento. «Una buona medicina del territorio è quella che è in grado di schermare l’ospedale, di scegliere chi può essere curato a domicilio e chi no. Dove questa rete non c’è, si va tutti al pronto soccorso», aggiunge Ricci. È quanto è successo in Lombardia e qui sta il suo fallimento.

Il forte ruolo delle strutture ospedaliere in Lombardia, aggiunge Ricci, è principalmente dovuta alla conformazione geografica e sociale della Lombardia, tra le regioni più densamente popolate d’Italia. La rilevante presenza del privato, si giustifica invece a partire dalla realtà economica della Lombardia, da sempre contraddistinta da una vivace imprenditoria, e con la seconda specificità del “modello Formigoni”: una visione favorevole all’integrazione tra sistema sanitario pubblico ed erogatori privati. Infatti la Regione spende circa il 30% del budget sanitario per accreditare ospedali e ambulatori privati nel sistema pubblico (contro una media nazionale del 20,3%). In pratica, un utente del servizio sanitario lombardo può ricevere una prestazione pagata in tutto o in parte dal pubblico anche nelle strutture private. Nell’ottica dei promotori del modello, lo scopo è promuovere un’assistenza di altissima qualità e ampliare l’offerta. Secondo i detrattori, invece, il sistema ha sì garantito una qualità alta delle prestazioni sanitaria ma arrivando a “privatizzarsi” nei fatti, mettendo in competizione per la stessa torta di risorse, circa 19 miliardi di euro all’anno, il sistema pubblico e privato. Questo slittamento può essere dannoso perché i sistemi, per quanto integrati sul piano teorico, non hanno sempre lo stesso obiettivo. I privati concentrano la loro offerta su reparti ad altissima specializzazione oppure su residenze assistenziali, perché rappresentano la fetta di mercato dove i margini sono più alti. Restano con maggiore frequenza sulle spalle del pubblico i servizi di base, come i pronto soccorso.

Il privato è un universo composito, dove ci sono diversi interessi: dalle fondazioni religiose, agli enti no profit fino al mondo del profit. a convivenza per essere positiva deve essere coordinata e programmata dal pubblico, sostiene Ricci: «La presenza del privato accreditato nella sanità pubblica ha spesso significato, come accaduto anche in Lombardia, maggiore disponibilità di investimenti e in definitiva di offerta di servizi per l’intero sistema pubblico. A patto che la regia regionale sia efficace nella programmazione e nel monitoraggio, i privati mettono a disposizione del Sistema sanitario nazionale alcune competenze altamente specialistiche: si pensi al ruolo di molti grandi ospedali privati accreditati nella ricerca, ma anche nel corso dell’emergenza Covid19».

Critici più radicali come Maria Elisa Sartor, docente a contratto di Programmazione, organizzazione, controllo nelle aziende sanitarie all’Università degli Studi di Milano, sostengono che la riforma di Formigoni abbia costruito uno spazio che definisce il “quasi-mercato”: le aziende ospedaliere vendono alla Regione dei servizi e competono tra loro, senza però offrire necessariamente quello che serve al sistema sanitario, ma quello che conviene di più all’azienda sanitaria. Se privato e pubblico fossero davvero paritari e complementari questo problema non si porrebbe. Invece, secondo Sartor, le differenze esistono. Lo dimostra, ad esempio, il caso dell’emergenza coronavirus. In un articolo pubblicato su Gli Asini, la professoressa ricorda che le prime strutture ospedaliere intervenute fino al 9 marzo sono state solo pubbliche.

Dopo la deliberazione regionale dell’8 marzo che seguiva il lockdown imposto dal governo nazionale, la Lombardia ha chiesto che i privati liberassero posti letto per l’emergenza. Ora strutture pubbliche e strutture private sono parimenti impegnate nel contrasto al coronavirus, ma il vantaggio “negoziale” delle strutture private ha permesso loro, in molti casi, di organizzarsi e prepararsi meglio, mentre il pubblico è andato immediatamente in affanno, senza possibilità di organizzarsi.

Il tramonto del “Celeste”

La Corte dei conti nel 2011 ha sottolineato come nel settore sanitario «si intrecciano con sorprendente facilità veri e propri episodi di malaffare con aspetti di cattiva gestione, talvolta favoriti dalla carenza dei sistemi di controllo». Casi di questo genere non sono di certo mancati nemmeno nell’eccellenza Lombardia: il colpo decisivo per Formigoni arriva proprio con le indagini sui fondi neri dell’ospedale San Raffaele di Milano e sulla Fondazione Maugeri di Pavia che gestisce l’omonimo ospedale, due aziende sanitarie private.

Gli inquirenti hanno ricostruito come dal 2002 al 2011 siano partiti dai conti del San Raffaele nove milioni di euro diretti all’imprenditore del settore sanitario Pierangelo Daccò, che informalmente curava gli interessi di Regione Lombardia e, all’interno della stessa fondazione, di don Luigi Verzè, il prelato ex vicepresidente della fondazione San Raffaele. Quei nove milioni sono un tesoretto frutto delle sovrafatturazioni imposte dal braccio destro di don Verzè ai fornitori: la “cresta” retrocessa in contanti è servita a corrompere i vertici di Regione Lombardia così da avere provvedimenti favorevoli alla fondazione. Da questo primo tassello l’inchiesta si è allargata fino a sbattere poi contro la Fondazione Maugeri di Pavia.

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Il mercato parallelo dei vaccini

Vero o presunto che sia, è oggetto di indagini in Italia ed Ue. Lo popolano truffatori ed esiste perché il sistema di distribuzione globale, soprattutto verso i Paesi poveri, arranca

Nell’aprile 2012, con l’accusa di aver distratto 56 milioni di euro alla fondazione, sono stati arrestati l’ex assessore Antonio Simone e il direttore amministrativo del polo sanitario Costantino Passerino. Il presidente della Fondazione Umberto Maugeri è finito ai domiciliari. Tra gli indagati compariva anche Pierangelo Daccò, accusato di riciclaggio, appropriazione indebita, associazione per delinquere, frode fiscale e false fatture. E poi c’era Formigoni in persona, indagato per corruzione aggravata transnazionale: per gli inquirenti avrebbe favorito con 15 delibere regionali la Fondazione Maugeri in cambio di alcune utilità, come vacanze pagate e cene in ristoranti di lusso.

Le indagini tra San Raffaele e Maugeri si sono concluse con una sentenza a quattordici anni per i protagonisti della vicenda, tra cui il segretario generale della regione e il direttore generale dell’assessorato alla sanità in Lombardia.

Quattro anni dopo l’accusa ha chiesto altri nove anni di carcere per Formigoni: «È stata una gravissima corruzione sistemica durata dieci anni che ha assunto le forme dell’associazione a delinquere con importi enormi messi in gioco», hanno spiegato in aula i pm. «Questo processo ha dimostrato quanto la corruzione possa essere devastante per il sistema economico: settanta milioni sono usciti dalle casse dello Stato per essere usati in una serie di benefit. Il modo di operare dei componenti dell’associazione a delinquere è stato un cancro».

«Questo processo – hanno sostenuto in aula i pm di Milano – ha dimostrato quanto la corruzione possa essere devastante per il sistema economico: settanta milioni sono usciti dalle casse dello Stato per essere usati in una serie di benefit. Il modo di operare dei componenti dell’associazione a delinquere è stato un cancro»

Il tribunale, alla fine, ha condannato il Celeste a 6 anni per corruzione. La condanna diventa definitiva nel 2019 con una condanna a 5 anni e 10 mesi.

Corruzione, mafia e politica, la sanità lombarda scricchiola anche dopo Formigoni

Già prima del caso San Raffaele e Maugeri la sanità lombarda aveva mostrato segni di malattia. In occasione dell’inchiesta Infinito che nel 2010 scoperchiò il vaso di Pandora sulle cosche della ‘ndrangheta al nord si sono potuti leggere i rapporti perversi tra mafia e sanità in Lombardia.

Agli arresti finì il direttore sanitario dell’azienda sanitaria locale di Pavia Carlo Chiriaco. Condannato in via definitiva a 12 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è ritenuto uno dei referenti della ‘ndrangheta a Pavia e in Lombardia.

In quegli stessi anni a Pavia accadono tra l’altro due fatti rilevanti: l’arresto di Ciccio Pelle detto Pakistan che da latitante viene ricoverato in una clinica pavese sotto falso nome e con una falsa cartella clinica, mentre una perizia oculistica sempre di un nosocomio pavese certificherà la quasi cecità del boss camorrista Giuseppe Setola, che sarà però in grado di lasciare gli arresti domiciliari e portare a compimento la strage di Castelvolturno.

Pochi giorni prima degli arresti dell’operazione Infinito all’ospedale San Paolo di Milano muore gettandosi dalla tromba delle scale Pasquale Libri, funzionario della divisione appalti dell’ospedale. Libri e lo stesso Chiriaco si conoscevano da tempo e se nel corso dell’inchiesta del 2010 è emersa l’influenza delle cosche sulla sanità, successivamente a venire a galla sarà il sistema di corruzione e tangenti tra la politica lombarda e i suoi colletti bianchi.

Partendo dal suicidio di Libri e dalle carte trovate all’interno del suo ufficio gli investigatori, quattro anni dopo, hanno ricostruito un sistema di nomine, voti e favori che ha determinato l’assegnazione di alcune gare d’appalto relative alle forniture elettromedicali. Il regno di Formigoni è finito ma l’avvicendamento con l’allora uomo forte della Lega Nord, Roberto Maroni, ha cambiato le tessere del puzzle, sempre legate al potere politico, ma non ha fermato il virus della corruzione. La Lega non è stata in grado di immunizzare il sistema dall’intreccio tra sanità, politica e corruzione. 

Lo dimostra una inchiesta della procura di Monza che ha portato in carcere Fabio Rizzi, fedelissimo dello stesso Maroni, che ha patteggiato una pena a 2 anni e 6 mesi per corruzione.

Rizzi è il padre della riforma del 2015 che ha riorganizzato per la seconda volta la sanità in Lombardia. Con Rizzi nei guai era finito un gruppo di imprenditori accusato di aver versato bustarelle ai funzionari ai quali erano affidate una serie di gare di appalto: le operazioni coinvolgevano anche appalti di società private accreditate con il sistema sanitario nazionale, tutte per la gestione esterna di servizi odontoiatrici. Dieci gli episodi di corruzione ricostruiti nel corso delle indagini che hanno permesso di scoprire che da oltre 10 anni numerose aziende ospedaliere avevano esternalizzato il servizio di odontoiatria ricorrendo a gare di appalto per circa 400 milioni. L’ennesimo spreco di denaro pubblico.

Così come è stato inutile – parola dello stesso assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera – la costruzione dell’ospedale di emergenza alla Fiera di Milano. Lo ha detto in una conferenza stampa via Facebook in cui ha dimostrato ancora una volte le difficoltà del governo regionale a gestire la crisi.

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CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi

Editing

Giulio Rubino

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