Battitore libero, geloso di fonti e del suo metodo d’inchiesta, il giornalista de L’Ora non è mai stato ritrovato. La campagna contro L’Ora e le piste che portano ai suoi nemici
La leggenda dell’aiuto mafioso allo sbarco degli Alleati in Sicilia
#ArchiviCriminali
Il mito della collaborazione della mafia allo sbarco in Sicilia tra il 9 e il 10 luglio 1943 domina a tutt’oggi la discussione pubblica, benché ampiamente confutato dagli storici. L’origine e la destituzione di questo mito nascono entrambe dalle pagine de L’Ora, il quotidiano di Palermo uscito tra il 1900 e il 1992. La sua genesi e le conseguenti polemiche, a tanti anni di distanza, restano indicative di modi diversi di declinare l’argomento mafia e di inquadrarlo nei grandi tornanti della storia nazionale.
Stando alla leggenda, a favorire (se non a rendere possibile) l’occupazione del primo pezzo d’Europa da parte delle forze anglo-americane sarebbe stato un accordo segreto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi. Nel 1942 l’apparato dell’esercito americano avrebbe infatti ottenuto dal boss mafioso siculo-americano Lucky Luciano, allora detenuto in un carcere di massima sicurezza, di adoperarsi affinché la mafia siciliana, a partire dal caporione di Villalba (provincia di Caltanissetta) Calogero Vizzini, contribuisse alacremente alle operazioni.
La storia non manca di dettagli spettacolari: dai foulard gialli con la «L» di Luciano lanciati dai bombardieri alleati prima dell’invasione a carri armati con la stessa lettera, ai messaggi in codice spediti da Vizzini in tutta l’isola per mobilitare le cosche.
Qualcosa di vero (e documentato) nella vicenda c’è, ma non ha nulla a che fare con lo sbarco. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, in effetti, corse voce che il porto newyorkese brulicasse di spie e sabotatori nemici, che pescherecci rifornissero al largo sottomarini tedeschi. Il culmine del panico si ebbe nel febbraio 1942, allorché il transatlantico Normandie andò misteriosamente a fuoco. Consapevole del controllo di Luciano sugli affari del porto, l’intelligence della Marina chiese il suo aiuto. Sicché il grande boss assicurò che l’Ila (International longshoreman association – Associazione internazionale portuali, in italiano), il sindacato a lui fedele, e la sua organizzazione avrebbero garantito l’ordine. Lo stesso Luciano avrebbe più tardi rivelato di aver compiuto «sabotaggi», compreso l’incendio del Normandie, nell’intento di ingraziarsi le autorità americane (nella classica logica mafiosa per cui si crea il danno per offrire protezione).
Probabilmente, il suo intervento servì più che altro a evitare che in una fase critica per la nazione i portuali (tra cui molti erano gli italiani) s’impegnassero in scioperi e agitazioni. Nel 1946, Luciano venne scarcerato e rispedito in Italia.
Gli archivi de L’Ora
La serie è curata da Ciro Dovizio, storico dell’Italia contemporanea (mafie e antimafia, politica, giornalismo, cultura) presso l’Università Statale di Milano.
1958: l’inchiesta de L’Ora su Vizzini a Villalba
La leggenda dello sbarco degli Alleati grazie all’aiuto della mafia siculo-americana, come nella migliore tradizione delle false notizie, nacque a guerra in corso come spiegazione fascista del cedimento dell’esercito davanti alle armate nemiche. Nonostante la schiacciante superiorità anglo-americana, infatti, negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale ancora forte restava nel Paese la presunzione d’invincibilità del regime, frutto di tanti anni di martellante propaganda. Di qui l’idea che la sconfitta fosse l’effetto non del crollo del fascismo e dei suoi contrasti con la monarchia, ma del tradimento di generali, ammiragli, funzionari, oltre che di quel male oscuro dell’isola contro cui il regime si era battuto: la mafia.
Il mito, però, cominciò a delinearsi compiutamente nel 1958, quando Michele Pantaleone, esponente socialista di punta di Villalba, pubblicò sul quotidiano palermitano L’Ora una biografia di don Calò, Calogero Vizzini. Il contributo di Pantaleone s’inseriva in una più vasta campagna antimafia ideata dal direttore, il giornalista calabrese Vittorio Nisticò. Quest’ultimo dirigeva la testata dal 1954, cioè da quando l’editore era diventato il Partito comunista italiano (Pci). Il suo mandato era quello di allargare un’opinione di sinistra che a Palermo, come nelle altre città isolane, era molto ristretta. Perciò portò il giornale su una linea fortemente regionalista, atta a promuovere larghe intese in nome dell’autonomia siciliana, ad avversare le industrie settentrionali e la rivale Democrazia cristiana.
Nisticò fece però di più: rinnovò il nucleo redazionale attingendo al capitale sociale delle lotte contadine post-belliche: si trattava di quadri di partito, sindacalisti e intellettuali di sinistra accomunati dal fatto di essere passati dagli alvei conservatori delle loro famiglie al fuoco delle mobilitazioni social-comuniste.
Medesima estrazione aveva Pantaleone, rampollo di una famiglia di notabili villalbesi da sempre avversa a quella di don Calò Vizzini. Nel 1944 era al fianco del segretario regionale del Pci Girolamo Li Causi quando il boss ordinò di sparare verso il comizio social-comunista. Fu eletto poi deputato regionale per il Psi. Questi suoi trascorsi indussero Nisticò a reclutarlo nel gruppo di cronisti incaricati di seguire le inchieste sulla mafia, coordinati da un giornalista di cui parleremo ancora, Felice Chilanti.
Pantaleone si concentrò appunto su Vizzini e Villalba, anticipando i temi di Mafia e politica, in un suo saggio sulle origini di Cosa nostra diventato, negli anni, un best-seller. Pantaleone fece di Vizzini il super-capo della mafia e di Villalba la sua capitale mondiale. Scrisse della scalata del boss nel settore dei latifondi e delle zolfare, delle sue parentele con alti prelati, quindi del suo contributo allo sbarco. Raccontò poi di come gli americani lo avessero eletto sindaco del paese, della sua militanza separatista che durò «finché gli convenne: poi, quando il movimento fu liquidato passò alla Democrazia cristiana e – sempre a modo suo – vi rimase finché visse».
Vizzini in realtà aveva aderito al Partito popolare e, sotto il regime, a un effimero Partito agrario. In seguito, si era fatto separatista mantenendo però una relazione con la Dc, segretario della quale era, a Villalba, suo nipote. Passò quindi alla Democrazia cristiana. La sua carriera politica segue uno schema ricorrente: il passaggio dei capi-mafia dal separatismo alla Dc. È la sopravvivenza del vecchio mondo delle classi dominanti (e dei loro codazzi mafiosi) in quello nuovo della politica e dei partiti di massa. Difficile, insomma, trovare miglior modo d’inchiodare i democristiani alle proprie responsabilità. Il discorso, peraltro, esasperò la crisi politica in corso alla Regione favorendo l’ascesa di Silvio Milazzo, notabile Dc di Caltagirone (in provincia di Catania), alla presidenza col sostegno di monarchici, missini, cattolici dissidenti e (dall’esterno) social-comunisti, e l’estromissione della Dc dal governo.
Com’è noto, le fortune del mito e di Pantaleone decollarono col suo Mafia e politica, libro edito (grazie all’aiuto di Carlo Levi) nel 1962 da Einaudi, più volte tradotto e ristampato, che diede al problema-mafia rilievo nazionale, sia pure sovrastimando il peso e di Vizzini e di Villalba nella vicenda mafiosa.
Pantaleone fu percepito sempre di più come l’«esperto» di mafia per eccellenza. Se non che, il suo racconto molto inclinava alla mitologia, e non solo in relazione allo sbarco.
Prendiamo l’immagine di Vizzini come capo-mafia tradizionale (e tradizionalista): essa strideva col suo profilo di imprenditore zolfifero, già esponente di un cartello internazionale dell’acido solforico, e col suo reiterato utilizzo delle cooperative contadine – elemento per eccellenza «moderno» dalla prospettiva di sinistra – nel proprio interesse. Negli anni caldi del Dopoguerra era stato sì un personaggio importante, al confine tra mafia, affari e mondo politico, tra separatismo e Democrazia cristiana; non era stato però il capo della mafia. In effetti, testimonianze successive di pentiti ne hanno molto ridimensionato il ruolo nelle gerarchie mafiose.
La versione di Nick Gentile
Non passò molto perché nella redazione de L’Ora prendesse forma una versione sullo sbarco antitetica a quella di Pantaleone. Fu il risultato delle indagini di Felice Chilanti, grande cronista investigativo, già coordinatore dell’inchiesta del 1958. Originario di Ceneselli (in provincia di Rovigo), il giovane Chilanti si era distinto nella stampa di regime come fascista radicale e antisemita. Successivamente si era fatto prima cospiratore (tramando contro Galeazzo Ciano, il genero del Duce), finendo in carcere e al confino, poi antifascista militando in un gruppo partigiano irregolare, Bandiera Rossa. Dopo la guerra, infine, si era avvicinato al Pci concorrendo alla fondazione del quotidiano Paese Sera e specializzandosi nel giornalismo d’inchiesta.
Nel 1963 il vecchio mafioso italo-americano Nick Gentile propose a Chilanti un grande scoop: raccontare la propria vita. Le dichiarazioni del boss furono pubblicate su L’Ora e Paese Sera in novembre, per andare a formare in seguito un volume rimasto prezioso, Vita di Capomafia (Editori Riuniti). Veramente Gentile aveva già steso un testo autobiografico nel corso di una collaborazione confidenziale con agenti del Narcotic Bureau, che avevano intercettato una sua lettera a un altro mafioso americano. Quel testo passò a Chilanti, il quale lo pubblicò com’era aggiungendovi un’introduzione e alcuni brani dell’intervista uscita su L’Ora. Diversi altri, compreso quello sull’aiuto della mafia allo sbarco, restarono però fuori dal libro.
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La prima autobiografia di un mafioso
di Lorenzo Bagnoli
Agrigentino di Siculiana, Nicola Gentile – noto come zu Cola oppure Nick – ha vissuto gli anni del proibizionismo ed è stato uno stretto collaboratore di Lucky Luciano nei primi anni Trenta, quando oltreoceano si combatteva la “guerra castellamarese” (1930-31) tra boss originari di Castellammare del Golfo. Nel 1937, a seguito di un rilascio su cauzione, è fuggito in Sicilia, dove ha stretto nuovi rapporti con mafiosi come Calogero Vizzini. Dagli archivi desecretati dell’FBI in merito all’inchiesta sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, si scopre che l’ambasciata americana di Roma nel 1963 stava cercando di sapere se ci fossero nuove rivelazioni del boss negli articoli de L’Ora. Si legge anche che Aristide Manopulo, della polizia di Roma, stava cercando di localizzare dove si trovasse il boss, senza però riuscirci. John Dickie, nel libro Cosa Nostra, racconta che quando Gentile si confessò «viveva una vita da pensionato» a Roma, che cercava di giustificare la sua esperienza all’interno dell’organizzazione criminale.
Gentile è stato il primo “uomo d’onore” a raccontarsi in un’autobiografia, a ottant’anni. Al netto di errori di prospettiva, in particolare rispetto agli equilibri di potere criminale tra Palermo e l’agrigentino, è stato uno spaccato importante per comprendere alcune dinamiche di cosa nostra. Già nel 1949, racconta Dickie, aveva passato un intero pomeriggio a parlare con un «duttureddu». Leggenda vuole – mai dimostrata indipendentemente – che si trattasse di Andrea Camilleri, il futuro inventore del commissario Montalbano.
Il racconto di Gentile uscì appena prima che il super-pentito Joe Valachi testimoniasse davanti alla Commissione McClellan. «La più straordinaria avventura della nostra vita di giornalista»: così Chilanti avrebbe definito i suoi colloqui col boss.
Gentile dichiarò di appartenere a un’organizzazione criminale a base etnica, siculo o italo-americana, nota come «onorata società», articolata in Famiglie o borgate e a livello elementare in «decine», dotata di una struttura di coordinamento chiamata Commissione. Raccontò di essersi mosso sempre tra i due versanti dell’Atlantico, collegandosi volta a volta a gruppi di consociati, connazionali, compaesani, tra New York, Pittsburgh, Kansas City, Philadelphia, New Orleans, Palermo, Raffadali (Agrigento).
Tra l’altro, l’intervista avrebbe inaugurato un genere di grande fortuna: quello della «vita di mafia», del racconto «dall’interno» in forma di libro. Va detto che l’esame critico a cui Chilanti sottopose le parole di Gentile restarono un unicum in questo campo. Al cronista premeva capire perché il capo-mafia decidesse di esporsi in pubblico, rivelando un passato denso di misfatti. Che volesse difendere prima di tutto sé stesso?
«Forse vuole ottenere anche questo – scrisse Chilanti – ma fin dal primo colloquio, durato alcune ore, ho ricavato la sensazione che Nicola Gentile fosse mosso da ragioni più complesse: un miscuglio di astuzie, secondi, terzi fini, non disgiunti dallo stato fondamentale della sua esistenza: la vecchiaia coi suoi ripensamenti e bilanci, e principalmente con la sua solitudine».
Ne venne fuori un confronto serrato del cronista con l’ideologia mafiosa. «Era molto difficile capirsi, Gentile e io. Gentile chiamava “giustizia” atti che per me erano delitti, chiamava “onore” proprio quel modo di comportarsi che per un normale cittadino è il malaffare, la malavita».
Chiese il cronista: «Nelle sue memorie lei parla di “amicizia”; erano amici o avevano paura?». «Conoscevano la mia forza, sapevano», rispose il boss. «Ma allora la famosa amicizia degli amici non conta niente?», ribatté Chilanti. «Conta la forza», fu la risposta lapidaria di Gentile.
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I misteri intorno alla scomparsa di Mauro De Mauro
Confessioni di un medico mafioso, storia del memoriale Allegra
Sepolto dal 1937 tra i faldoni di un archivio pubblico, De Mauro ne pubblicò degli estratti nel 1962. È il primo documento che racconta la mafia “dall’interno” e ha segnato il destino di mafia e antimafia
La leggenda dell’aiuto mafioso allo sbarco degli Alleati in Sicilia
Il mito è nato sulle colonne de L’Ora, lo stesso quotidiano che l’ha smontato cinque anni dopo. La prima puntata de #GliArchiviDelOra
Ma torniamo allo sbarco. A un certo punto, Chilanti chiese al vecchio boss se fosse vero che Luciano, Vizzini e un altro capo-mafia di rango come Vito Genovese avessero svolto funzioni di agenti segreti per conto dei servizi di sicurezza della Marina americana. «Non è vero niente. Questa è una favola inventata di sana pianta e che ha avuto fortuna per diverse ragioni – fu la risposta di Gentile -. I comandi alleati disponevano di ben altri servizi di informazione, e la favola di questi gangster e capimafia diventati improvvisamente combattenti al servizio della Marina americana o della democrazia venne convalidata, tacitamente anche da chi svolse effettivamente quelle attività, ma preferì attribuirne il merito a “mafiosi” ed ex-gangster. E naturalmente certi capi-mafia si presero ben volentieri quei meriti, pensando di ricavarci qualcosa di buono. Posso senz’altro affermare che la storiella del carro armato americano che giunge a Villalba con un drappo inviato da Lucky Luciano al capomafia Calogero Vizzini è una fantasiosa invenzione».
Ciò che resta del mito
In realtà Gentile non escluse che ufficiali americani si fossero collegati a mafiosi più o meno illustri, dopo lo sbarco. Quei contatti, tenne però a specificare, non servirono tanto alla guerra quanto a «certi traffici, certi commerci, certi affari che potremmo definire di sottogoverno militare alleato. E niente altro». Chilanti, particolarmente prudente verso le parole del boss, in questo caso si disse d’accordo, presentando la gestione degli affari illeciti come l’effettivo «servizio reso dai capimafia tornati in patria ai funzionari americani». «Siamo lieti – aggiunse – che questa faticosa inchiesta ci abbia dato anche la possibilità di smentire nettamente e con una testimonianza non contestabile, la brutta storia della partecipazione degli ex-gangster e dei capimafia alla guerra in Sicilia, al servizio degli alleati».
Naturale che l’intervista provocasse la reazione di Pantaleone, che scrisse una lettera di protesta al direttore de L’Ora, Nisticò, presto pubblicata. In quell’occasione l’autore di Mafia e politica scoprì le sue fonti: oltreoceano, gli accenni della Commissione d’inchiesta del Senato degli Stati Uniti del 1950 presieduta da Estes Kefauver alla trattativa con Luciano (che però riguardano i sabotaggi nel porto di New York, non lo sbarco) e, sul versante siciliano, la testimonianza dei Carabinieri locali e di alcune famiglie di sfollati.
Questa la replica di Chilanti: «I famosi accordi segreti […] in base ai quali il gangster [Luciano] avrebbe diretto misteriose operazioni spionistiche in Sicilia stando in prigione (c’è rimasto fino al Dopoguerra) sanno molto di fiaba». Certo, Gentile non era il Vangelo, lasciò intendere, eppure la storia del grande complotto non lo convinceva. Se il boss, aggiunse, «mi avesse raccontato che Vizzini e Genco Russo (un altro mafioso di Cosa nostra originario del nisseno, ndr) o lui stesso avevano diretto le operazioni degli anglo-americani in Sicilia, predisponendo gli sbarchi e guidando le truppe dall’uno all’altro capo del vallone, lungo le trazzere, alla liberazione delle città, non gli avrei dato credito». Molto più probabile, oltre che congeniale al profilo dei mafiosi, che il tutto riguardasse la borsa nera più che la collaborazione allo sforzo bellico. Pungente la nota conclusiva: «Del resto Pantaleone sa che mi sono sempre occupato, di preferenza, di mafiosi viventi. Sono più scomodi di quelli morti, ma più interessanti».
Insomma, la versione di Pantaleone restava sproporzionata (e tale resta quella dei suoi epigoni), ancorché mossa da intenzioni lodevoli. Si fondava, certo, su un nucleo di verità, visto che gli alleati e la mafia si incontrarono veramente dopo lo sbarco. Il punto era (ed è) un altro: che in qualunque sede, e a maggior ragione in quella giornalistica e storica, non si può affermare alcunché prescindendo dalle prove; e nessuna evidenza attesta il grande complotto. Molti documenti, invece, compresi quelli desecretati dell’Oss (Office of strategic services, il servizio segreto del tempo di guerra), testimoniano che non vi furono accordi segreti tra la mafia e l’intelligence americana, che le autorità di occupazione misero a segno anche operazioni repressive. Non per questo però – ne siamo certi – il mito cesserà di avere fortuna.
CREDITI
Autori
Ciro Dovizio
Editing
Lorenzo Bagnoli
Foto di copertina
IrpiMedia