Guerra al segreto bancario svizzero
#SuisseSecrets
Lorenzo Bagnoli
Prendere tempo è stata la principale strategia adottata dalla Svizzera per consolidare e preservare il proprio segreto bancario. La “riservatezza” degli istituti di credito non è infatti una legge, bensì una prassi: è stata appresa e praticata dai banchieri della Confederazione a partire dagli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, fino a farla diventare una sorta di religione di Stato. Spiega Sebastien Guex – professore di storia contemporanea all’Università di Losanna, tra i pochi intellettuali svizzeri che abbia mai scritto dell’origine del segreto bancario – che già all’alba del Ventesimo secolo i banchieri elvetici dispensavano ai clienti più importanti la massima discrezione.
La Svizzera diventò anche per questo un polo attrattivo per i ricchi borghesi di Francia, Germania e Austria (pochi gli italiani, al tempo). «Tra il 1906 e il 1907 il governo francese aveva già intrapreso delle azioni per ottenere dai governi di Svizzera, Belgio e Gran Bretagna quello che oggi si chiama Scambio automatico d’informazioni fiscali», racconta Guex. Il Common Reporting Standard (Crs), questa la sigla del sistema odierno condiviso all’interno della comunità dei Paesi Ocse, è stato introdotto in Svizzera solo nel 2018. Permette alle autorità fiscali dei Paesi aderenti di scambiarsi i dati standardizzati dei contribuenti, in modo che possano condurre verifiche patrimoniali. Di fatto è il mezzo che abolisce il segreto bancario. Almeno per i contribuenti residenti all’estero.
È stato un percorso lungo e accidentato per la Svizzera arrivare fino a questo punto: «Se si dovesse insegnare all’università il combattimento ritardatore, bisognerebbe prendere come modello la diplomazia svizzera», commenta Paolo Bernasconi, avvocato, ex magistrato, padre della legge svizzera sul riciclaggio degli anni Novanta. Il combattimento ritardatore è una tecnica difensiva: significa reagire agli attacchi per non perdere posizioni. Per cent’anni la diplomazia svizzera ha resistito agli assalti al suo segreto bancario. Gli Stati Uniti pensavano di aver vinto nel 1996, quando firmarono il primo accordo di collaborazione. Prevedeva lo scambio dei rapporti ma non dei conti correnti: un’informazione inutile ai fini di un procedimento penale. La guerra non era nemmeno cominciata.
Punire i delatori
Le prime schermaglie giudiziarie contro le banche svizzere cominciarono negli anni Trenta. Non era ancora una guerra, ma la cronaca di allora ricalca quello che si vede anche oggi, sia da parte della Svizzera, sia dei suoi aggressori.
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Il 27 ottobre 1932, per rompere la segretezza svizzera il ministero delle Finanze francese ha mosso persino la magistratura. La Banca commerciale di Basilea, un istituto di credito tra i più importanti dell’epoca, aveva un’agenzia clandestina a Parigi, nascosta nelle stanze del lussuoso hotel La Trémoille, a due isolati di distanza dall’Eliseo. Le fece perquisire il Commissario della sicurezza generale Roger Barthelet, una sorta di superpoliziotto alle dipendenze di un dipartimento del ministero dell’Interno, il quale interrogò poi sia gli impiegati della banca – il direttore e i suoi due vice, svizzeri – sia la clientela francese. Tra i documenti trovò una lista di conti correnti depositati nella sede centrale della banca, a Basilea. Nessun accenno a chi fossero i proprietari: erano conti cifrati. Sepolta in mezzo alle pagine di un quaderno, però, c’era una lista con un migliaio di nomi: la prima nella lunga storia degli scandali bancari della Svizzera. Era la chiave per decrittare i proprietari dei conti.
Gli inquirenti francesi scoprirono così che almeno dal 1927, a loro insaputa, all’hotel La Trémoille c’era un via vai di clienti francesi che venivano a riscuotere cedole, obbligazioni, dividendi, interessi maturati sui conti accesi in Svizzera. Il meccanismo permetteva ai clienti francesi di evadere circa il 20% delle tasse. Al fisco francese erano stati strappati così tra l’uno e i due miliardi di franchi svizzeri. Nella lista degli evasori c’erano alcune della famiglie francesi più ricche dell’epoca (tra cui gli industriali Peugeot e gli editori di Le Figaro, i Coty), politici di primo piano di diverse estrazioni, ex ministri, una dozzina di generali, due vescovi e due giudici della Corte d’appello. All’interno della banca ci fu una discussione se collaborare o meno con le autorità francesi. Alla fine la linea della tutela del segreto bancario prevalse.
Nella lista degli evasori c’erano alcune della famiglie francesi più ricche dell’epoca, politici di primo piano di diverse estrazioni, ex ministri, una dozzina di generali, due vescovi e due giudici della Corte d’appello
Dopo il caso della Banca commerciale di Basilea ne vennero altri, nei mesi seguenti. Banche minori che, memori del precedente, spostarono tutti i documenti in Svizzera prima dell’arrivo degli inquirenti. Qualche lista di clienti spuntò comunque. I magistrati francesi decisero di rendere pubblici i nomi di 130 correntisti con il patrimonio in Svizzera: la «classifica dei buoni francesi che evadono il fisco», scrisse il settimanale socialista Le Populaire.
Dopo il clamore iniziale, il caso si sgonfiò: i 38 magistrati che indagavano avevano infatti a disposizione solo quattro contabili per analizzare un migliaio di documenti; l’Ordine degli avvocati protestò al ministero della Giustizia contro i metodi d’indagine e qualche giornale conservatore, tra cui Le Figaro, cominciò una campagna contro il governo: «Verso la dittatura della delazione», titolava l’editoriale del 27 novembre 1932. Faceva il caso di monsieur Blum, «un distinto giurista»: «Per il solo essere nominato nei documenti della Banca di Basilea, viene incolpato e il suo nome rispettato, uno dei più antichi di Francia, viene messo alla pubblica gogna, il signor Blum!», s’indignava l’articolo. «Il vero scandalo – prosegue l’articolo – è il saccheggio fiscale d’ispirazione socialista e demagogica che rovina la Francia».
Cent’anni di liste dei correntisti segreti
Senza le liste clienti sequestrate o fuoriuscite dagli uffici delle banche che si trovano in Paesi che mantengono riservata l’identità dei clienti non sapremmo nulla di patrimoni all’estero. L’episodio di Parigi è stato solo il primo di una serie. In fondo, è stato una sorta di leak d’altri tempi. La lista più famosa riguardante clienti di una banca è quella procurata da Hervé Falciani nel 2008. L’ex dipendente della sede svizzera di Hsbc aveva girato circa duemila nomi di potenziali evasori fiscali all’allora ministro delle Finanze francese Christine Lagarde. La Lista Lagarde è un sottoinsieme della Lista Falciani, contenente 120 mila nomi. Da lì è nata l’inchiesta collaborativa di Icij SwissLeaks. Falciani è stato poi condannato a cinque anni per spionaggio industriali e violazione del segreto bancario nel 2015.
Sempre del 2008 è anche la Lista Vaduz, un cd-rom con 388 nomi di presunti evasori in Liechtenstein. In Italia, nel 2009, la Guardia di Finanza di Milano ha scoperto sul computer dell’avvocato svizzero Fabrizio Pessina una lista di clienti importanti con patrimoni nascosti all’estero. Aveva una società in Svizzera dalla quale ha costruito fiduciarie e società schermate in diversi paradisi fiscali.
Nel dicembre 2013 sempre la Guardia di Finanza milanese ha trovato la lista di circa 13mila clienti di Credit Suisse che hanno sottoscritto false polizze assicurative tra Liechtenstein e Bahamas. La banca ha patteggiato, però per tanti clienti la situazione è incerta, tanto che molte polizze nemmeno si trovano. Nel 2019 sempre le Fiamme Gialle hanno iniziato a setacciare i 4.500 nomi di clienti di Payopm, una piattaforma facente capo a un avvocato italiano residente a Panama che secondo un esposto sarebbe uno strumento per evadere il fisco.
Finché ci sarà l’articolo 47, il segreto bancario avrà il suo salvacondotto. Per quanto la Svizzera abbia stretto accordi di collaborazione con le autorità fiscali di oltre un centinaio di Paesi e abbia adottato lo standard comune nello scambio di informazioni, il suo passato non passa del tutto. Del resto il Dipartimento federale è conscio che «ogni grande centro finanziario – dice a IrpiMedia un portavoce – corre il rischio di essere sfruttato per transazioni illegali».
Per i cittadini svizzeri e per i residenti in Svizzera la riservatezza dei conti correnti è ancora tutelata. Dal punto di vista di Guex, il fatto che i correntisti delle banche svizzere con un patrimonio superiore ai 50 milioni di euro sia cresciuto dal 2015 dimostra che i servizi di gestione del patrimonio elvetici si rivolgono sempre di più a una fetta specifica del mercato.
L’articolo 47 della legge bancaria svizzera (1934) prevede che tutti gli impiegati, i direttori o i proprietari di una banca che trasmettono informazioni sulla clientela dell’istituto di credito commettono un delitto. Due anni più tardi fu introdotto nel codice penale il reato di spionaggio bancario
E questo va di pari passo con una maggiore possibilità di concedere residenza e cittadinanza: «Un primo modo per continuare a far funzionare il segreto bancario è trasformare i clienti più importanti in cittadini svizzeri». «Ciò che tiene insieme il popolo svizzero, così diverso per valori e lingue, è il franco. La ricchezza. E per mantenere lo status quo, è stato fatto credere agli svizzeri, serve il segreto bancario», conclude il professore.
«Una volta i clienti stranieri delle banche svizzere non fiscalizzati erano l’80%, se non il 90%. Oggi non è più così», dice Paolo Bernasconi, ex magistrato. Al di là del segreto bancario, infatti, il sistema penale svizzero si è dotato di nuovi reati per punire il riciclaggio anche da proventi di reati fiscali (introdotto nel 2016) e ha costretto i distretti finanziari svizzeri a preoccuparsi delle potenziali inchieste in casa propria.
Le prime reazioni a Suisse Secrets
Credit Suisse in una nuova nota di risposta a Suisse Secrets ribadisce di essere «pienamente consapevole delle proprie responsabilità, nei confronti dei clienti e del sistema finanziario nel suo complesso, relative al mantenimento dei massimi standard di condotta». «Queste dichiarazioni pubblicate sui media – aggiunge la banca – costituiscono un evidente tentativo di screditare non solo la banca ma anche la piazza finanziaria svizzera nel suo insieme, che ha attraversato un periodo di cambiamenti significativi nel corso degli ultimi anni». Nel Parlamento svizzero, però, la questione dell’articolo 47 sta diventando di natura politica: «Suisse Secrets mostra ancora una volta che le banche svizzere continuano a fare affari con dittatori, autocrati e criminali – è stato il commento del partito dei Verdi, che sono all’opposizione -. Sono inoltre tutelate da un inasprimento dell’articolo 47 della legge sulle banche, che risale a un’iniziativa parlamentare del PLR (Partito liberale radicale)». Il Partito liberale radicale è un gruppo politico di centrodestra tra i principali rappresentanti degli interessi del mondo economico e finanziario svizzero. Nel 2014 il PLR ha proposto l’inasprimento dell’articolo 47 della legge bancaria per punire la «violazione del segreto professionale», che poi è stato ratificato dal Parlamento. In questo modo i colpevoli del reato non sarebbero stati solo i dipendenti della banca ma anche chi ottiene questi dati o chi induce chi ne è in possesso a cederli. Su twitter, Samira Marti – deputata dei socialdemocratici, partito che fa parte del governo ma in minoranza – ha scritto che l’assenza di un media svizzero al consorzio Suisse Secrets per il timore di ripercussioni legali (carcere compreso) è la dimostrazione del livello di censura che le banche riescono a imporre. Aggiunge che il suo partito «presenterà una proposta nella sessione primaverile» par cambiare l’articolo 47 e chiede ai centristi di Die Mitte/Le Centre e alla sinistra dei Verdi Liberali di votare assieme . Julie Cantalou, dei Verdi Liberali, le ha risposto: «Il giornalismo svolge il suo ruolo essenziale quando svela pratiche illecite – si legge nel suo comunicato-. Vogliamo quindi sostenere la riforma dell’articolo 47 e non vediamo l’ora di collaborare con Samira Marti su questa importante materia».
Lo sbarco degli americani
Il combattimento ritardatore svizzero ha tenuto botta finché il conflitto fiscale si è combattuto in Europa. Poi, nel 2008, sono arrivati gli americani e si sono portati dietro la comunità internazionale.
La Pearl Harbour che ha trasformato in mondiale la guerra fiscale europea è stata la testimonianza di Bradley Birkenfeld, gestore del risparmio che lavorava all’epoca con Ubs e che, di fronte a un Tribunale della Florida, si è dichiarato colpevole di aver aiutato i suoi clienti a evadere milioni di dollari tra il 2001 e il 2006. Apriti cielo: il Dipartimento di Giustizia americano ha cominciato a usare in modo sistematico il concetto di «concorso nel reato» da parte dei professionisti residenti all’estero che hanno aiutato i contribuenti americani a evadere il fisco. «2008, anno nero dell’Ubs», titolava Swissinfo a dicembre 2008: l’Unione bancaria svizzera si apprestava a chiuedere un bilancio bucato dall’enorme esposizione sul mercato dei mutui americano (l’origine della crisi finanziaria) e una serie di controversie giudiziarie. L’istituto bancario è stato salvato dall’intervento del governo elvetico e della banca centrale.
L’anno successivo la War on tax è stata dichiarata tema centrale del G20. «È stata la prima volta che gli Stati hanno fatto sul serio. In materia fiscale di solito non era così», ricorda Bernasconi. È stata l’Ocse a decidere di stilare l’elenco dei Paesi non collaborativi: quelle banche avrebbero dovuto passare scrutini straordinari per ogni singola transazione. «L’asticella fissata per non essere in blacklist però era irraggiungibile per la Svizzera», ricostruisce l’avvocato: servivano dodici accordi in materia di doppia imposizione che prevedesse la possibilità di cooperare su richiesta nei casi non solo di frode fiscale, ma anche di evasione. Anche i pochi alleati europei della Svizzera – Austria e Lussemburgo – si sono adeguati al contesto internazionale. Era impossibile per la Svizzera andare avanti da sola. Anche Ubs, quindi, si è dovuta arrendere.
Il D-Day delle guerre fiscali, l’inizio della cavalcata contro il segreto fiscale svizzero, è cominciata il 12 agosto 2009, quando l’istituto elvetico ha accettato di consegnare i nomi di 250 clienti (su 4.500 richiesti) alle autorità americane. «Se vuole illegalmente, perché in violazione del segreto bancario», sottolinea Paolo Bernasconi. Questa concessione però è stata spiegata di fronte al Tribunale federale svizzero: la banca si trovava in «stato di necessità». Se non si fosse adeguata, non avrebbe più potuto fare compensazioni finanziarie (in pratica operazioni interbancarie per scambiarsi assegni o denaro) in dollari, rimanendo tagliata fuori completamente dal mercato internazionale. «La banca doveva evitare l’avvio di un procedimento penale formale, perché avrebbe fatto scattare una serie di misure che l’avrebbero messa al tappeto», prosegue Bernasconi. Sarebbero scattate sanzioni come quelle applicate alle banche russe dopo l’invasione della Crimea. Insomma, se non avesse ceduto, sarebbe fallita.
La definizione
Con evasione fiscale si definiscono i comportamenti illeciti che si adottano per non pagare o pagare meno le tasse. L’elusione fiscale è invece il modo attraverso cui, in modo lecito ma spregiudicato, si aggirano le regole tributarie per pagare meno di quanto dovuto. La frode fiscale è un reato che si commette emettendo fatture false e dichiarazioni dei redditi fasulle.
L’accordo Irs-Ubs è stato un precedente che ha condizionato per sempre le relazioni Svizzera-Stati Uniti. Anche Credit Suisse, Banca Svizzera Italiana, Pkb Privatbank e Wegelin & Co hanno dovuto patteggiare con gli americani. Quest’ultima – la più antica banca svizzera – finendo in bancarotta a causa della sanzione.
Come in ogni guerra, l’intervento di una potenza in un conflitto è teso a proteggere i propri confini. In questo caso Delaware, South Dakota, Alaska, Nevada, ovvero alcuni tra i paradisi fiscali sul suolo americano specializzati in particolare nella costruzione di società “bucalettere”. Secondo il report 2009 della Tax Justice Network, l’organizzazione che traccia i furti di gettito a livello complessivo, nel 2007 gli Stati Uniti hanno attratto 2.600 miliardi di rapporti finanziari, ancora più della Svizzera. «Mentre gli Stati Uniti saltano su e giù e dicono “Ah, cattive, cattive banche svizzere”, gli Stati Uniti stanno facendo esattamente le stesse cose per quanto riguarda i titolari di conti bancari non residenti», spiegava alla Reuters Sarah Lewis, all’epoca direttore esecutivo della Tax Justice Network.
Con il Fatca – Foreign Account Tax Compliance Act, introdotto in USA da Barack Obama – le banche sono obbligate a fornire al fisco americano tutte le informazioni sui contribuenti americani. Ma non viceversa
Barack Obama, appena eletto presidente degli Stati Uniti, ha promosso lo standard americano di scambi di informazioni, il Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca). Però non ha affrontato i paradisi di casa propria: per quello ci sono voluti più di dieci anni. Il Corporate Transparency Act del 2020 è il tentativo più credibile fatto finora per la riforma delle leggi antiriciclaggio statunitensi.
Ma le perplessità restano, soprattutto in materia bancaria: gli Usa, infatti, rifiutano il sistema di scambio automatico delle informazioni previsto per i Paesi dell’Ocse, il CRS. Con il Fatca di Obama si sono costruiti il loro. «Sono stati gli Stati Uniti a fare da locomotiva contro il segreto bancario svizzero, perché hanno lanciato i provvedimenti contro le banche e hanno lanciato il loro sistema automatico, ma non di scambio», conclude Bernasconi. In pratica con il Fatca le banche sono obbligate a fornire al fisco americano tutte le informazioni sui contribuenti americani. Non viceversa. Secondo una fonte investigativa italiana, è totalmente sbilanciato nello scambio di informazioni: «Noi agli Stati Uniti diciamo tutto, loro niente». Trucchi da L’arte della guerra. Quella fiscale.
CREDITI
Autori
Editing
Giulio Rubino
Foto di copertina
La sede della banca nazionale svizzera a Bern
(marekusz/Shutterstock)