Guerra al segreto bancario svizzero

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Guerra al segreto bancario svizzero

Lorenzo Bagnoli

Prendere tempo è stata la principale strategia adottata dalla Svizzera per consolidare e preservare il proprio segreto bancario. La “riservatezza” degli istituti di credito non è infatti una legge, bensì una prassi: è stata appresa e praticata dai banchieri della Confederazione a partire dagli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, fino a farla diventare una sorta di religione di Stato. Spiega Sebastien Guex – professore di storia contemporanea all’Università di Losanna, tra i pochi intellettuali svizzeri che abbia mai scritto dell’origine del segreto bancario – che già all’alba del Ventesimo secolo i banchieri elvetici dispensavano ai clienti più importanti la massima discrezione.

La Svizzera diventò anche per questo un polo attrattivo per i ricchi borghesi di Francia, Germania e Austria (pochi gli italiani, al tempo). «Tra il 1906 e il 1907 il governo francese aveva già intrapreso delle azioni per ottenere dai governi di Svizzera, Belgio e Gran Bretagna quello che oggi si chiama Scambio automatico d’informazioni fiscali», racconta Guex. Il Common Reporting Standard (Crs), questa la sigla del sistema odierno condiviso all’interno della comunità dei Paesi Ocse, è stato introdotto in Svizzera solo nel 2018. Permette alle autorità fiscali dei Paesi aderenti di scambiarsi i dati standardizzati dei contribuenti, in modo che possano condurre verifiche patrimoniali. Di fatto è il mezzo che abolisce il segreto bancario. Almeno per i contribuenti residenti all’estero.

È stato un percorso lungo e accidentato per la Svizzera arrivare fino a questo punto: «Se si dovesse insegnare all’università il combattimento ritardatore, bisognerebbe prendere come modello la diplomazia svizzera», commenta Paolo Bernasconi, avvocato, ex magistrato, padre della legge svizzera sul riciclaggio degli anni Novanta. Il combattimento ritardatore è una tecnica difensiva: significa reagire agli attacchi per non perdere posizioni. Per cent’anni la diplomazia svizzera ha resistito agli assalti al suo segreto bancario. Gli Stati Uniti pensavano di aver vinto nel 1996, quando firmarono il primo accordo di collaborazione. Prevedeva lo scambio dei rapporti ma non dei conti correnti: un’informazione inutile ai fini di un procedimento penale. La guerra non era nemmeno cominciata.

Punire i delatori

Le prime schermaglie giudiziarie contro le banche svizzere cominciarono negli anni Trenta. Non era ancora una guerra, ma la cronaca di allora ricalca quello che si vede anche oggi, sia da parte della Svizzera, sia dei suoi aggressori.

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Il 27 ottobre 1932, per rompere la segretezza svizzera il ministero delle Finanze francese ha mosso persino la magistratura. La Banca commerciale di Basilea, un istituto di credito tra i più importanti dell’epoca, aveva un’agenzia clandestina a Parigi, nascosta nelle stanze del lussuoso hotel La Trémoille, a due isolati di distanza dall’Eliseo. Le fece perquisire il Commissario della sicurezza generale Roger Barthelet, una sorta di superpoliziotto alle dipendenze di un dipartimento del ministero dell’Interno, il quale interrogò poi sia gli impiegati della banca – il direttore e i suoi due vice, svizzeri – sia la clientela francese. Tra i documenti trovò una lista di conti correnti depositati nella sede centrale della banca, a Basilea. Nessun accenno a chi fossero i proprietari: erano conti cifrati. Sepolta in mezzo alle pagine di un quaderno, però, c’era una lista con un migliaio di nomi: la prima nella lunga storia degli scandali bancari della Svizzera. Era la chiave per decrittare i proprietari dei conti.

Gli inquirenti francesi scoprirono così che almeno dal 1927, a loro insaputa, all’hotel La Trémoille c’era un via vai di clienti francesi che venivano a riscuotere cedole, obbligazioni, dividendi, interessi maturati sui conti accesi in Svizzera. Il meccanismo permetteva ai clienti francesi di evadere circa il 20% delle tasse. Al fisco francese erano stati strappati così tra l’uno e i due miliardi di franchi svizzeri. Nella lista degli evasori c’erano alcune della famiglie francesi più ricche dell’epoca (tra cui gli industriali Peugeot e gli editori di Le Figaro, i Coty), politici di primo piano di diverse estrazioni, ex ministri, una dozzina di generali, due vescovi e due giudici della Corte d’appello. All’interno della banca ci fu una discussione se collaborare o meno con le autorità francesi. Alla fine la linea della tutela del segreto bancario prevalse.

Nella lista degli evasori c’erano alcune della famiglie francesi più ricche dell’epoca, politici di primo piano di diverse estrazioni, ex ministri, una dozzina di generali, due vescovi e due giudici della Corte d’appello

Dopo il caso della Banca commerciale di Basilea ne vennero altri, nei mesi seguenti. Banche minori che, memori del precedente, spostarono tutti i documenti in Svizzera prima dell’arrivo degli inquirenti. Qualche lista di clienti spuntò comunque. I magistrati francesi decisero di rendere pubblici i nomi di 130 correntisti con il patrimonio in Svizzera: la «classifica dei buoni francesi che evadono il fisco», scrisse il settimanale socialista Le Populaire.

Dopo il clamore iniziale, il caso si sgonfiò: i 38 magistrati che indagavano avevano infatti a disposizione solo quattro contabili per analizzare un migliaio di documenti; l’Ordine degli avvocati protestò al ministero della Giustizia contro i metodi d’indagine e qualche giornale conservatore, tra cui Le Figaro, cominciò una campagna contro il governo: «Verso la dittatura della delazione», titolava l’editoriale del 27 novembre 1932. Faceva il caso di monsieur Blum, «un distinto giurista»: «Per il solo essere nominato nei documenti della Banca di Basilea, viene incolpato e il suo nome rispettato, uno dei più antichi di Francia, viene messo alla pubblica gogna, il signor Blum!», s’indignava l’articolo. «Il vero scandalo – prosegue l’articolo – è il saccheggio fiscale d’ispirazione socialista e demagogica che rovina la Francia».

Cent’anni di liste dei correntisti segreti

Senza le liste clienti sequestrate o fuoriuscite dagli uffici delle banche che si trovano in Paesi che mantengono riservata l’identità dei clienti non sapremmo nulla di patrimoni all’estero. L’episodio di Parigi è stato solo il primo di una serie. In fondo, è stato una sorta di leak d’altri tempi. La lista più famosa riguardante clienti di una banca è quella procurata da Hervé Falciani nel 2008. L’ex dipendente della sede svizzera di Hsbc aveva girato circa duemila nomi di potenziali evasori fiscali all’allora ministro delle Finanze francese Christine Lagarde. La Lista Lagarde è un sottoinsieme della Lista Falciani, contenente 120 mila nomi. Da lì è nata l’inchiesta collaborativa di Icij SwissLeaks. Falciani è stato poi condannato a cinque anni per spionaggio industriali e violazione del segreto bancario nel 2015.

Sempre del 2008 è anche la Lista Vaduz, un cd-rom con 388 nomi di presunti evasori in Liechtenstein. In Italia, nel 2009, la Guardia di Finanza di Milano ha scoperto sul computer dell’avvocato svizzero Fabrizio Pessina una lista di clienti importanti con patrimoni nascosti all’estero. Aveva una società in Svizzera dalla quale ha costruito fiduciarie e società schermate in diversi paradisi fiscali.

Nel dicembre 2013 sempre la Guardia di Finanza milanese ha trovato la lista di circa 13mila clienti di Credit Suisse che hanno sottoscritto false polizze assicurative tra Liechtenstein e Bahamas. La banca ha patteggiato, però per tanti clienti la situazione è incerta, tanto che molte polizze nemmeno si trovano. Nel 2019 sempre le Fiamme Gialle hanno iniziato a setacciare i 4.500 nomi di clienti di Payopm, una piattaforma facente capo a un avvocato italiano residente a Panama che secondo un esposto sarebbe uno strumento per evadere il fisco.

Le conseguenze del caso della Banca Commerciale di Basilea e la discussione interna all’istituto di credito sono due delle motivazioni principali per le quali nel 1934, sotto la pressione dell’ambiente bancario svizzero, la confederazione ha introdotto la sua legge bancaria. L’articolo 47, spiega il professor Guex, è il più importante: «Dice che tutti gli impiegati, i direttori o i proprietari di una banca che trasmettono informazioni sulla clientela dell’istituto di credito commettono un delitto». Quando la pressione internazionale si è fatta più forte, nel 2014, la pena prevista per i delatori è stata ampliata ad altre categorie professionali che entrano in possesso dei dati (con pene fino ai tre anni di carcere; sono cinque per chi rivela i dati dei correntisti per ottenere «per sé o per altri un vantaggio patrimoniale»). Fin dall’origine della legge, tuttavia, lo Stato, in quanto protettore del bene della segretezza, può procedere d’ufficio. Due anni dopo la sua introduzione, nel 1936, fu riformato anche il codice penale per introdurre il reato di spionaggio bancario. «A quel punto il segreto bancario è davvero protetto dal punto di vista legale e diventa un bene pubblico in Svizzera – spiega Guex -. A mia conoscenza si tratta dell’unico governo che prima della Seconda Guerra Mondiale ha adottato delle disposizioni legali a tutela del segreto bancario». Questo sistema, secondo Guex, ha creati «una cultura del segreto bancario, interiorizzata dagli impiegati di banca o, per meglio dire, da una buona parte della società svizzera».

Finché ci sarà l’articolo 47, il segreto bancario avrà il suo salvacondotto. Per quanto la Svizzera abbia stretto accordi di collaborazione con le autorità fiscali di oltre un centinaio di Paesi e abbia adottato lo standard comune nello scambio di informazioni, il suo passato non passa del tutto. Del resto il Dipartimento federale è conscio che «ogni grande centro finanziario – dice a IrpiMedia un portavoce – corre il rischio di essere sfruttato per transazioni illegali».

Per i cittadini svizzeri e per i residenti in Svizzera la riservatezza dei conti correnti è ancora tutelata. Dal punto di vista di Guex, il fatto che i correntisti delle banche svizzere con un patrimonio superiore ai 50 milioni di euro sia cresciuto dal 2015 dimostra che i servizi di gestione del patrimonio elvetici si rivolgono sempre di più a una fetta specifica del mercato.

L’articolo 47 della legge bancaria svizzera (1934) prevede che tutti gli impiegati, i direttori o i proprietari di una banca che trasmettono informazioni sulla clientela dell’istituto di credito commettono un delitto. Due anni più tardi fu introdotto nel codice penale il reato di spionaggio bancario

E questo va di pari passo con una maggiore possibilità di concedere residenza e cittadinanza: «Un primo modo per continuare a far funzionare il segreto bancario è trasformare i clienti più importanti in cittadini svizzeri». «Ciò che tiene insieme il popolo svizzero, così diverso per valori e lingue, è il franco. La ricchezza. E per mantenere lo status quo, è stato fatto credere agli svizzeri, serve il segreto bancario», conclude il professore.

«Una volta i clienti stranieri delle banche svizzere non fiscalizzati erano l’80%, se non il 90%. Oggi non è più così», dice Paolo Bernasconi, ex magistrato. Al di là del segreto bancario, infatti, il sistema penale svizzero si è dotato di nuovi reati per punire il riciclaggio anche da proventi di reati fiscali (introdotto nel 2016) e ha costretto i distretti finanziari svizzeri a preoccuparsi delle potenziali inchieste in casa propria.

Le prime reazioni a Suisse Secrets

Credit Suisse in una nuova nota di risposta a Suisse Secrets ribadisce di essere «pienamente consapevole delle proprie responsabilità, nei confronti dei clienti e del sistema finanziario nel suo complesso, relative al mantenimento dei massimi standard di condotta». «Queste dichiarazioni pubblicate sui media – aggiunge la banca – costituiscono un evidente tentativo di screditare non solo la banca ma anche la piazza finanziaria svizzera nel suo insieme, che ha attraversato un periodo di cambiamenti significativi nel corso degli ultimi anni». Nel Parlamento svizzero, però, la questione dell’articolo 47 sta diventando di natura politica: «Suisse Secrets mostra ancora una volta che le banche svizzere continuano a fare affari con dittatori, autocrati e criminali – è stato il commento del partito dei Verdi, che sono all’opposizione -. Sono inoltre tutelate da un inasprimento dell’articolo 47 della legge sulle banche, che risale a un’iniziativa parlamentare del PLR (Partito liberale radicale)». Il Partito liberale radicale è un gruppo politico di centrodestra tra i principali rappresentanti degli interessi del mondo economico e finanziario svizzero. Nel 2014 il PLR ha proposto l’inasprimento dell’articolo 47 della legge bancaria per punire la «violazione del segreto professionale», che poi è stato ratificato dal Parlamento. In questo modo i colpevoli del reato non sarebbero stati solo i dipendenti della banca ma anche chi ottiene questi dati o chi induce chi ne è in possesso a cederli. Su twitter, Samira Marti – deputata dei socialdemocratici, partito che fa parte del governo ma in minoranza – ha scritto che l’assenza di un media svizzero al consorzio Suisse Secrets per il timore di ripercussioni legali (carcere compreso) è la dimostrazione del livello di censura che le banche riescono a imporre. Aggiunge che il suo partito «presenterà una proposta nella sessione primaverile» par cambiare l’articolo 47 e chiede ai centristi di Die Mitte/Le Centre e alla sinistra dei Verdi Liberali di votare assieme . Julie Cantalou, dei Verdi Liberali, le ha risposto: «Il giornalismo svolge il suo ruolo essenziale quando svela pratiche illecite – si legge nel suo comunicato-. Vogliamo quindi sostenere la riforma dell’articolo 47 e non vediamo l’ora di collaborare con Samira Marti su questa importante materia».

Lo sbarco degli americani

Il combattimento ritardatore svizzero ha tenuto botta finché il conflitto fiscale si è combattuto in Europa. Poi, nel 2008, sono arrivati gli americani e si sono portati dietro la comunità internazionale.

La Pearl Harbour che ha trasformato in mondiale la guerra fiscale europea è stata la testimonianza di Bradley Birkenfeld, gestore del risparmio che lavorava all’epoca con Ubs e che, di fronte a un Tribunale della Florida, si è dichiarato colpevole di aver aiutato i suoi clienti a evadere milioni di dollari tra il 2001 e il 2006. Apriti cielo: il Dipartimento di Giustizia americano ha cominciato a usare in modo sistematico il concetto di «concorso nel reato» da parte dei professionisti residenti all’estero che hanno aiutato i contribuenti americani a evadere il fisco. «2008, anno nero dell’Ubs», titolava Swissinfo a dicembre 2008: l’Unione bancaria svizzera si apprestava a chiuedere un bilancio bucato dall’enorme esposizione sul mercato dei mutui americano (l’origine della crisi finanziaria) e una serie di controversie giudiziarie. L’istituto bancario è stato salvato dall’intervento del governo elvetico e della banca centrale.

L’anno successivo la War on tax è stata dichiarata tema centrale del G20. «È stata la prima volta che gli Stati hanno fatto sul serio. In materia fiscale di solito non era così», ricorda Bernasconi. È stata l’Ocse a decidere di stilare l’elenco dei Paesi non collaborativi: quelle banche avrebbero dovuto passare scrutini straordinari per ogni singola transazione. «L’asticella fissata per non essere in blacklist però era irraggiungibile per la Svizzera», ricostruisce l’avvocato: servivano dodici accordi in materia di doppia imposizione che prevedesse la possibilità di cooperare su richiesta nei casi non solo di frode fiscale, ma anche di evasione. Anche i pochi alleati europei della Svizzera – Austria e Lussemburgo – si sono adeguati al contesto internazionale. Era impossibile per la Svizzera andare avanti da sola. Anche Ubs, quindi, si è dovuta arrendere.

Il D-Day delle guerre fiscali, l’inizio della cavalcata contro il segreto fiscale svizzero, è cominciata il 12 agosto 2009, quando l’istituto elvetico ha accettato di consegnare i nomi di 250 clienti (su 4.500 richiesti) alle autorità americane. «Se vuole illegalmente, perché in violazione del segreto bancario», sottolinea Paolo Bernasconi. Questa concessione però è stata spiegata di fronte al Tribunale federale svizzero: la banca si trovava in «stato di necessità». Se non si fosse adeguata, non avrebbe più potuto fare compensazioni finanziarie (in pratica operazioni interbancarie per scambiarsi assegni o denaro) in dollari, rimanendo tagliata fuori completamente dal mercato internazionale. «La banca doveva evitare l’avvio di un procedimento penale formale, perché avrebbe fatto scattare una serie di misure che l’avrebbero messa al tappeto», prosegue Bernasconi. Sarebbero scattate sanzioni come quelle applicate alle banche russe dopo l’invasione della Crimea. Insomma, se non avesse ceduto, sarebbe fallita.

La definizione

Con evasione fiscale si definiscono i comportamenti illeciti che si adottano per non pagare o pagare meno le tasse. L’elusione fiscale è invece il modo attraverso cui, in modo lecito ma spregiudicato, si aggirano le regole tributarie per pagare meno di quanto dovuto. La frode fiscale è un reato che si commette emettendo fatture false e dichiarazioni dei redditi fasulle.

L’accordo Irs-Ubs è stato un precedente che ha condizionato per sempre le relazioni Svizzera-Stati Uniti. Anche Credit Suisse, Banca Svizzera Italiana, Pkb Privatbank e Wegelin & Co hanno dovuto patteggiare con gli americani. Quest’ultima – la più antica banca svizzera – finendo in bancarotta a causa della sanzione.

Come in ogni guerra, l’intervento di una potenza in un conflitto è teso a proteggere i propri confini. In questo caso Delaware, South Dakota, Alaska, Nevada, ovvero alcuni tra i paradisi fiscali sul suolo americano specializzati in particolare nella costruzione di società “bucalettere”. Secondo il report 2009 della Tax Justice Network, l’organizzazione che traccia i furti di gettito a livello complessivo, nel 2007 gli Stati Uniti hanno attratto 2.600 miliardi di rapporti finanziari, ancora più della Svizzera. «Mentre gli Stati Uniti saltano su e giù e dicono “Ah, cattive, cattive banche svizzere”, gli Stati Uniti stanno facendo esattamente le stesse cose per quanto riguarda i titolari di conti bancari non residenti», spiegava alla Reuters Sarah Lewis, all’epoca direttore esecutivo della Tax Justice Network.

Con il Fatca – Foreign Account Tax Compliance Act, introdotto in USA da Barack Obama – le banche sono obbligate a fornire al fisco americano tutte le informazioni sui contribuenti americani. Ma non viceversa

Barack Obama, appena eletto presidente degli Stati Uniti, ha promosso lo standard americano di scambi di informazioni, il Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca). Però non ha affrontato i paradisi di casa propria: per quello ci sono voluti più di dieci anni. Il Corporate Transparency Act del 2020 è il tentativo più credibile fatto finora per la riforma delle leggi antiriciclaggio statunitensi.

Ma le perplessità restano, soprattutto in materia bancaria: gli Usa, infatti, rifiutano il sistema di scambio automatico delle informazioni previsto per i Paesi dell’Ocse, il CRS. Con il Fatca di Obama si sono costruiti il loro. «Sono stati gli Stati Uniti a fare da locomotiva contro il segreto bancario svizzero, perché hanno lanciato i provvedimenti contro le banche e hanno lanciato il loro sistema automatico, ma non di scambio», conclude Bernasconi. In pratica con il Fatca le banche sono obbligate a fornire al fisco americano tutte le informazioni sui contribuenti americani. Non viceversa. Secondo una fonte investigativa italiana, è totalmente sbilanciato nello scambio di informazioni: «Noi agli Stati Uniti diciamo tutto, loro niente». Trucchi da L’arte della guerra. Quella fiscale.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

La sede della banca nazionale svizzera a Bern
(marekusz/Shutterstock)

Suisse Secrets, i conti segreti da 88 miliardi di euro

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Suisse Secrets, i conti segreti da 88 miliardi di euro
Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Gianluca Paolucci

Un generale algerino che ha guidato le torture durante la guerra civile. Un imprenditore dello Zimbabwe noto come “il Napoleone d’Africa” accusato di sottrazione di fondi pubblici, corruzione, evasione e finanziamento del conflitto in Repubblica Democratica del Congo. Impiegati pubblici che hanno distratto milioni di fondi del Venezuela contribuendo all’attuale devastante crisi umanitaria. Cardinali accusati di aver sperperato soldi destinati alle opere pie. Medi e grandi evasori italiani, chi semplice delinquente, chi invece dalle amicizie importanti tra le file della ‘ndrangheta.

Questi sono solo alcuni degli oscuri personaggi che hanno avuto conti presso Credit Suisse, nonostante l’istituto bancario svizzero abbia più volte promesso una stretta su criminali e corrotti. Le loro identità sono emerse grazie ad un leak – una segnalazione anonima – che dimostra come Credit Suisse abbia gestito conti correnti dal valore di milioni di euro senza fare le dovute verifiche.

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo guidato dal Süddeutsche Zeitung e OCCRP che scardina i segreti di casseforti nascoste per decenni tra le Alpi. E rivela almeno due aspetti inquietanti: da un lato, nonostante il segreto bancario non sia più un dogma indiscusso, la cultura e la legge bancaria svizzera difendono ancora i patrimoni nascosti in quel paese, dall’altro i clienti più a rischio, lungi dall’essere analizzati più a fondo, beneficiano di un’attenzione particolare e i loro conti sono gestiti esclusivamente da un élite all’interno della banca stessa.

Miliardi di euro che potrebbero essere stati sequestrati su richiesta dei tribunali di mezzo mondo ma su cui non si hanno notizie certe: la banca non ha risposto alle domande puntuali dei giornalisti del consorzio. Alcuni conti, ad oggi, sono ancora aperti. «Credit Suisse – ha risposto la banca – opera nel rispetto delle regole internazionali e locali. Negli ultimi anni, la banca ha adottato una serie di misure significative in linea con le riforme finanziarie della Svizzera, che includono investimenti considerevoli specialmente nella compliance e nel combattere il crimine finanziario. Credit Suisse ha un serio dovere di confidenzialità e cura dei propri clienti, e siamo quindi impossibilitati a commentare dichiarazioni che riguardano individui, siano essi clienti o meno».Seppure la Svizzera si sia adeguata al sistema di scambio automatico di informazioni, a detta degli stessi consulenti bancari dell’ente, la riservatezza resta uno dei capisaldi dell’istituto di credito.

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L'inchiesta in breve
  • Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo che indaga i proprietari di 18mila conti correnti segreti di Credit Suisse, la seconda banca svizzera, rivelati da un leak. 
  • Tra i correntisti ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti dei servizi segreti.
  • I residenti in Italia sono una ventina, gli italiani circa 700, tutti residenti all’estero (più della metà in Venezuela). Tra loro Mario Merello, imprenditore già noto per precedenti casi di frode fiscale. Ci sono anche i conti correnti del Vaticano coinvolti nello scandalo per l’acquisto dell’immobile di Londra. C’è poi un immobiliarista che ha fatto affari con un ex Ira irlandese e uomini della ‘ndrangheta, in Calabria. 
  • Credit Suisse incappa in patteggiamenti e procedimenti giudiziari a causa dei clienti a cui ha aperto rapporti finanziari da oltre vent’anni. È stata coinvolta nella sottrazione di fondi pubblici della Nigeria ai tempi di Sani Abacha, nelle tangenti Elf, nel riciclaggio della Lavanderia russa, nel caso di corruzione della Pdvsa in Venezuela. E i conti si trovano in Suisse Secrets. Ma la vicenda processuale più recente, tuttora in corso, riguarda un narcos bulgaro in contatto con la cosca Bellocco condannato in Italia. 
  • Tra i politici che hanno aperto conti in Credit Suisse ci sono il re Abdullah II, gli Obiang della Guinea Equatoriale e diversi eredi di leader destituiti con le primavere arabe. Alcuni di questi conti sono del tutto sconosciuti alle autorità fiscali e dimostrano quanto disattenta sia stata la verifica sui clienti. 
#SuisseSecrets, il progetto

Suisse Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo basato sui dati forniti da una fonte anonima al giornale tedesco Süddeutsche Zeitung. I dati sono stati condivisi con OCCRP e altri 48 media di tutto il mondo. IrpiMedia e La Stampa sono i partner italiani del progetto. 

Centocinquantadue giornalisti nei cinque continenti hanno rastrellato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri, legislatori, procuratori, esperti e accademici, e ottenuto centinaia di documenti giudiziari e finanziari. Il leak contiene più di 18mila conti bancari aperti dagli anni Quaranta fino all’ultima decade degli anni Duemila. In totale, lo scrigno è di oltre 88 miliardi di euro.

«Ritengo le leggi sul segreto bancario svizzero immorali – ha dichiarato la fonte ai giornalisti-. Il pretesto di proteggere la privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratori degli evasori fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di sviluppo che tanto dovrebbero ricevere i proventi delle tasse. Questi sono i Paesi che più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera».

Nel database di Suiss Secrets ci sono politici, faccendieri, trafficanti, funzionari pubblici accusati di aver sottratto denaro alle casse del loro Paese, uomini d’affari coinvolti in casi di corruzione, agenti di servizi segreti. Ci sono anche molti nomi sconosciuti alle cronache giudiziarie.

Agli italiani piace Credit Suisse

Sono poche le eccezioni in cui il segreto bancario può essere sospeso. Se lo richiede un tribunale svizzero, se lo richiede un tribunale straniero ma solo nel caso in cui il crimine presupposto sia riconosciuto in entrambi i Paesi (per esempio riciclaggio sì, mafia no) e, in ogni caso, solo se si conosce già il numero di conto bancario della persona indagata. Nel caso delle procure antimafia italiane, che sono ben coscienti di come una parte dei capitali delle mafie finiscano proprio in Svizzera, la collaborazione è da sempre problematica. 

«Le banche svizzere sono state e sono di importanza chiave per la ‘ndrangheta – spiega a IrpiMedia un inquirente che da anni cerca di tracciare i soldi dei clan – È un rapporto consolidato nel tempo, iniziato già dagli anni Ottanta con gli spalloni, che entrano in Svizzera con le borse piene di soldi». Nel 2009, immediatamente dopo una promessa di apertura da parte della Svizzera a marzo di quell’anno, la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria ha chiesto al Paese elvetico di tracciare i soldi di un cittadino italiano sospettato di riciclaggio per la ‘Ndrangheta. L’autorità giudiziaria elvetica ha risposto però di poter agire solo se se si avevano in mano i numeri dei conti correnti, altrimenti la richiesta sarebbe stata una cosiddetta “ricerca generica”, non permessa. Oggi, grazie ai dati di Suisse Secrets, IrpiMedia può dimostrare come proprio Antonio Velardo, l’imprenditore indagato oltre 10 anni fa dai magistrati reggini, avesse vari conti in Credit Suisse rimasti al sicuro per tutti questi anni.

Sono poche le eccezioni in cui il segreto bancario può essere sospeso. Se lo richiede un tribunale svizzero, se lo richiede un tribunale straniero ma solo nel caso in cui il crimine presupposto sia riconosciuto in entrambi i Paesi

Credit Suisse, con la Calabria, ha avuto – seppur fugacemente – uno strettissimo legame. Nel 2004 infatti, grazie all’acquisizione del giocatore giapponese Shunsuke Nakamura, l’allora presidente Pasquale Foti riesce a strappare alla filiale di Hong Kong la sponsorizzazione della Reggina Calcio. Con tanto di magliette con il logo “CS” portate dai giocatori dell’allora serie A.

Ma calcio a parte, sono almeno 700 gli italiani che hanno scelto di portare i propri soldi in Credit Suisse. I nomi che si ritrovano non sono particolarmente famosi, ma rivelano uno schema: sono quasi tutti residenti o domiciliati all’estero, in alcuni casi per davvero – come nel caso degli italiani che operano nel settore petrolifero o minerario e legname in Africa, o nel gaming in Asia, – in altri solo perché fiscalmente più conveniente.

I correntisti italiani più ricchi

I Paesi dove sono domiciliati i correntisti italiani più ricchi

I venezuel(itali)ani

Tra gli italiani domiciliati all’estero, quasi un terzo abita in Venezuela. Tra loro, anche Valentin Josè Bagarella Gleim che in Credit Suisse ha avuto 14 milioni di euro: un immobiliarista che assieme al petroliere italo-venezuelano Josè Francisco Arata possiede un borgo-castello in Toscana come ha già svelato IrpiMedia nell'inchiesta #OpenLux. 

Ma il più facoltoso tra i correntisti “venezuelani” è Mario Merello, imprenditore noto alle cronache rosa per essere il marito della cantante Marcella Bella e per le sue frequentazioni del mondo delle showbusiness, i cui patrimoni all’estero sono noti dal 2009 grazie alla lista Pessina. Secondo l’accusa, Merello era a capo di un’associazione per delinquere che tra il 2000 e il 2009 avrebbe frodato al fisco circa 450 milioni di euro. Creava società offshore a cui faceva emettere fatture per consulenze, polizze assicurative e prestazioni mai effettuate. Con questo castello di carte, spostava il denaro oltreconfine e abbatteva l’imponibile delle imprese.  Tra i dati di Suisse Secrets, emergono 13 conti - oggi tutti chiusi - che sommati hanno avuto un patrimonio massimo di oltre 24 milioni di euro. 

Alcuni patrimoni degli italiani in Svizzera sono stati dichiarati al fisco a fronte di ampi sconti su sanzioni e potenziali procedimenti penali, attraverso strumenti come la voluntary disclosure e lo scudo fiscale, in particolare negli anni tra il 2009 e il 2015. Mario Merello è stato tra quelli che sono riusciti ad aggirare lo scudo: con una mano faceva rientrare una parte dei capitali, con l’altra ne manteneva una parte offshore, trasformata in quote di una società schermata da un trust. Anche volendo utilizzare i dati dello scudo fiscale, nessuno sarebbe riuscito a individuare il beneficiario effettivo.

Nei casi in cui è stato possibile approfondire le informazioni ricevute con le autodichiarazioni, gli inquirenti si sono ritrovati di fronte non solo a conti cifrati ma anche a polizze assicurative trasformate in conti deposito nei quali investire e prelevare esentasse, in qualche paradiso offshore. Le hanno definite “polizze mantello”, come vedremo nei prossimi capitoli di questa inchiesta.

Vent’anni di scandali 

«La cultura del malaffare è radicata in profondità in Credit Suisse», spiega un ex banchiere Credit Suisse basato a Zurigo e che ha accettato di parlare anonimamente con il team di Suisse Secrets. «Le regole sono semplici. Il dipartimento di compliance della banca è maestro nella negazione plausibile (cioè nel dichiararsi estraneo a misfatti commessi da terzi sotto i suoi occhi, ndr): non si appunta nulla che potrebbe esporre un conto corrente non in regola e non si chiede mai nulla di cui non si vuole sapere la risposta. E certamente, non si scava a fondo».

Secondo questa e altre fonti, Credit Suisse non solo accettava, ma incoraggiava i propri dipendenti a fornire servizi a clienti con fondi di dubbia provenienza. In questi casi, spiega l’ex banchiere, i conti erano gestiti direttamente dalla direzione della banca, i conti più ricchi e al tempo stesso più a rischio erano «isolati e gestiti dagli alti dirigenti».

I conti più ricchi e al tempo stesso più a rischio, racconta una fonte che vuole restare anonima per ragioni di sicurezza, «non passano attraverso il normale processo di apertura di un conto bancario. Accedono ad un sistema separato, la loro documentazione è tenuta a parte, in cartelle che non accessibili al sistema standard. Solo i dirigenti sono a conoscenza di questi conti»

Sono vent’anni che Credit Suisse è costretta a rispondere ad autorità giudiziarie che la accusano a vario titolo di non aver fatto le verifiche necessarie sui propri clienti, favorendo di fatto dei reati finanziari: riciclaggio, corruzione, appropriazione indebita, peculato. 

Il primo scandalo della banca risale al 2000: il dittatore nigeriano, il generale Sani Abacha, era morto da due anni. È allora che viene a galla come Credit Suisse abbia aiutato Abacha a nascondere almeno 200 milioni di dollari che gli Abacha avevano sottratto al proprio Paese. Per cercare di tamponare lo scandalo, l’amministratore delegato dell’epoca nel 2000 dichiarò che la banca aveva «continuamente migliorato le proprie procedure di controllo e compliance».

Credit Suisse ha anche aderito, l’anno successivo, all’associazione di 13 banche internazionali che promuove gli standard dell’industria finanziaria, le politiche di verifica del cliente e il contrasto al riciclaggio, il Wolfsberg Group. Le banche si impegnano ad accettare «solo clienti di cui l’origine della ricchezza possa essere tracciata come legittima».Eppure da allora gli scandali in cui è stata coinvolta Credit Suisse sono innumerevoli.

Gli ultimi vent’anni di Credit Suisse

La banca, spesso insieme ad altri istituti di credito elvetici, è stata al centro di contenziosi giudiziari in tutto il mondo

Sempre nel 2001 viene a galla un importante caso di corruzione legato all’azienda petrolifera pubblica francese Elf. Secondo la procura francese, tra il 1989 e il 1993, alcuni dirigenti della società si sono appropriati di oltre 300 milioni di euro della società per pagare tangenti a politici in Francia e in diversi Paesi africani dove la compagnia petrolifera doveva acquisire licenze, ville private, gioielli e altri beni di lusso. È stato uno dei peggiori scandali politico-finanziari del dopoguerra.

Tra i politici che hanno potuto approfittare delle prebende dei manager, c’è stato anche l’ex ministro dell’Interno Charles Pasqua: un politico di lunghissimo corso scomparso nel 2015 lasciandosi dietro un alone di mistero. È stato infatti il protettore politico di Robert Feliciaggi, “Bob l’Africano”, uomo d’affari corso e politico dell’Assemblea nazionale con lo stesso partito di Pasqua, ucciso nel 2006 all’aeroporto di Ajaccio. Anche lui fu implicato nel caso Elf e in altre vicende giudiziarie in cui è stato coinvolto anche il suo socio Michel Tomi, «il padrino dei padrini» della Corsica. Il nipote di Feliciaggi, Romain, da quando è un adolescente è titolare di un conto corrente milionario in Credit Suisse, che dai dati di Suisse Secrets risulta ancora aperto. 

Nel 2009 la banca viene multata dagli Stati Uniti per 536 milioni di dollari per non avere rispettato le sanzioni e avere gestito fondi di individui e aziende provenienti da Iran, Sudan e altri Paesi sulla lista nera delle sanzioni USA. Il procuratore generale Eric Holder all’epoca disse che «l’ampiezza e la complessità dell’atteggiamento criminale di Credit Suisse in questo caso è semplicemente sconvolgente».

Nel 2011 comincia l’odissea dei soldi in Svizzera di Sergey Magnitsky,  l’avvocato russo che ha svelato una devastante frode fiscale da 230 milioni di dollari, in parte dirottati in Svizzera, morendo poi misteriosamente in carcere nel 2009. Dei 18 milioni di franchi inizialmente sequestrati da una procura svizzera a seguito delle indagini per riciclaggio, nove erano in Credit Suisse. La vicenda, dieci anni dopo, è stata archiviata.

Nel 2009 la banca viene multata dagli Stati Uniti per 536 milioni di dollari per non avere rispettato le sanzioni e avere gestito fondi di individui e aziende provenienti da Iran, Sudan e altri Paesi sulla lista nera delle sanzioni USA

Nel 2014, la banca patteggia per avere aiutato cittadini americani ad evadere il fisco, con tanto di false dichiarazioni dei redditi, venendo multata 2,6 miliardi di dollari. Due anni dopo, viene accusata di riciclare soldi di mazzette di funzionari della Petróleos de Venezuela, S.A (PDVSA), l’azienda petrolifera di stato. Si parla di miliardi di fondi pubblici distratti e poi reinvestiti nell’immobiliare in Florida. 

Nel 2017, altri due scandali. Da una parte fondi pubblici rubati dal primo ministro della Malesia, Najib Razak, e riciclati a Singapore. Dall’altra 160 milioni di franchi sequestrati all’allora CEO del Banco Espirito Santo in Angola, accusato di frode miliardaria basata su prestiti senza garanzie. Come se non bastasse, sull’altra costa del continente africano, tre bancari di Credit Suisse in Mozambico vengono arrestati per distrazione di fondi del Fondo Monetario Internazionale che Credit Suisse doveva girare al governo mozambicano per finanziare la costruzione di un impianto di allevamento del tonno.

Nel 2018 finirà in carcere con una sentenza di cinque anni Patrice Lescaurdon, relationship manager - una sorta di consulente dei clienti - di Credit Suisse. Lavorava in particolare con i clienti dalla Russia e da Paesi confinanti. Il tribunale di Ginevra ha stabilito che la banca dovesse restituire 120 milioni di dollari a diversi clienti frodati dall’ex manager. L’uomo si è poi tolto la vita nell’agosto 2020 poco dopo la sua scarcerazione anticipata, riporta il Financial Times.

Conti globali

La distribuzione per macro-aree degli oltre 30.000 correntisti

Non ultimo poi, nel 2019, lo scandalo vaticano. Ben 242 milioni di euro di fondi dell’Obolo di San Pietro - che servono per le opere pie - vengono spesi dal cardinale Becciu, firmatario del conto della Segreteria di Stato presso Credit Suisse, in investimenti immobiliari di lusso a Londra. In uno scambio con i giornalisti del consorzio, Raffaele Mincione, uno dei broker che ha partecipato all’investimento, ha spiegato tramite i suoi avvocati che il suo fondo è stato coinvolto direttamente da Credit Suisse e che «non fu fatta menzione né della provenienza dei fondi dal Vaticano, né dello scopo dei fondi investiti». 

Nel 2020 poi, una procura svizzera ha aperto un fascicolo su un caso di riciclaggio milionario da parte di un gruppo di narcos bulgari e italiani guidati da Evelin Banev. Tra i suoi clienti c’era anche la costola piemontese della cosca Bellocco. «Una decina di alti dirigenti del Credit Suisse, così come il suo dipartimento legale, era a conoscenza del fatto che un gruppo di clienti erano criminali trafficanti di droga, ma hanno approvato milioni di euro di transazioni per loro prima di congelare i loro conti», riporta il Financial Times

«Alla banca piace dire che è solo questione di alcuni bancari delinquenti - ha detto Jeff Neiman, l’avvocato americano che difende diversi whistleblower di Credit Suisse - ma quanti bancari delinquenti servono prima che si possa dire che è delinquente la banca stessa?» Neiman non rappresenta la fonte all’origine del leak di Suisse Secrets. Rappresenta però l’ex dipendente  che a novembre ha raccontato a un tribunale statunitense come Credit Suisse abbia continuato ad aiutare clienti americani a nascondere illecitamente milioni di dollari offshore, in paradisi fiscali

Se confermato, questa sarebbe una violazione della promessa che nel 2014 la banca aveva fatto alla giustizia americana, nel patteggiamento delle accuse dell’epoca. Attualmente, la commissione finanza del Senato sta indagando.

Grazie al leak di Suisse Secrets emergono i nomi di una serie di correntisti che fanno scattare l’allerta rispetto alle procedure di due-diligence (valutazione della clientela) seguite dalla banca negli anni passati

Conti ad alto rischio

Grazie al leak di Suisse Secrets emergono i nomi di una serie di correntisti che fanno scattare l’allerta rispetto alle procedure di due-diligence (valutazione della clientela) seguite dalla banca negli anni passati. Questi conti non sono emersi in scandali precedenti. Sono rimasti protetti dentro la “gestione separata” di cui erano a conoscenza solo i dirigenti della banca. È il caso del conto dell’ex capo dei servizi segreti venezuelani, Carlos Luis Aguilera Borjas, che dopo avere servito Hugo Chávez per un anno ha lasciato la posizione governativa entrando nel mondo degli affari e accumulando una ricchezza che pochissimi venezuelani possono anche solo immaginare.

Nel 2007, si assicura un contratto senza gara per rinnovare la metro di Caracas guadagnando, come commissione, 90 milioni di dollari. I dettagli dell’accordo emergono in una nota interna di CBH, una banca svizzera dove Aguilera aveva aperto un conto nel 2011. Nella nota, la banca lo descrive come «un cliente di qualità, che non rappresenta un rischio di livello per la banca».

Credit Suisse sembra essere giunta alla stessa valutazione, poiché sempre nel 2011 l’istituto di credito ha aperto due conti su cui sono stati versati almeno otto milioni di euro e che risulterebbero tuttora attivi. 

Un soggetto come Aguilera Borjas «è per definizione ad alto rischio» ha commentato Graham Barrow, esperto di crimini finanziari e compliance bancaria. Che ha aggiunto come le banche siano responsabili di assicurarsi che l’origine dei soldi di persone politicamente connesse sia legittima.

«Non dovrebbero poter accedere al sistema bancario se portano soldi sporchi. La gente del venezuela e di altri luoghi resterà povera, se le élite continueranno a distrarre risorse», ha aggiunto.

Un whistleblower, e che ha lavorato nella filiale di Zurigo, ricorda come la direzione spingesse i bancari a cercare rapporti con clienti “ad alto rischio”. «La direzione incentivava l’offrire servizi per soldi la cui origine era dubbia, mettendo pressione ai bancari, soprattutto i più giovani, per mantenere conti tossici. O si sarebbero pagate le conseguenze, che erano licenziamento o blocco dell’aumento dello stipendio».

Aguilera era in ottima compagnia. Infatti, i dati di Suisse Secrets mostrano una serie di altri clienti “ad alto rischio” in mezzo mondo. Un funzionario dell’intelligence egiziana che ha torturato persone sospettate di terrorismo dalla C.I.A., un dirigente della multinazionale tedesca Siemens che ha corrotto ufficiali nigeriani, il re di Giordania Abdullah II che aveva - con la regina e i figli - sette conti milionari in Credit Suisse, di cui uno che è arrivato a valere oltre 200 milioni di euro. II re è stato al centro di proteste che lo accusavano di essere un cleptocrate. Il re Abdullah II ha risposto alle domande dei giornalisti del consorzio dicendo che questi conti in Credit Suisse contengono ricchezze personali guadagnate fuori dalla Giordania e pertanto non soggette a tassazione in Giordania.

Un whistleblower, e che ha lavorato nella filiale di Zurigo, ricorda come la direzione spingesse i bancari a cercare rapporti con clienti “ad alto rischio”

Accanto ad Abdullah II, c’è anche la famiglia presidenziale della Guinea Equatoriale - largamente criticata per avere sottratto ricchezze a uno dei popoli più poveri della terra. Il dittatore Teodoro Obiang Nguema non mostra compassione: «Il petrolio della Guinea Equatoriale appartiene a me e alla mia famiglia», disse all’inizio degli anni Novanta, poco dopo che le compagnie petrolifere americane scoprirono i primi giacimenti del Paese.

Gli Obiang risultano avere un conto in Credit Suisse, intestato alla moglie del dittatore e ai due figli gemelli. Dentro pochi soldi, il picco massimo è di 700mila euro, ma secondo il partner Diario Rombre questa è una traccia importante: oltre a quella liquidità, potrebbero contenere metalli preziosi, polizze assicurative o addirittura criptovalute.

Affinché la verifica fiscale di un conto offshore possa portare qualche risultato, però, al di là dei nominativi dei proprietari, le autorità devono ripercorrere tutte le tappe della presunta fuga di capitali. Il conto corrente “segreto” potrebbe essere solo la prima. Come è accaduto per gli altri leak, fin dal 1932, la lista di Suisse Secrets sarà solo l’inizio della prossima battaglia fiscale.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Lorenzo Bagnoli
Gianluca Paolucci

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

Occrp
Süddeutsche Zeitung

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Richard Levine/Corbis via Getty Images