Le migliaia di braccianti rumene e bulgare che lavorano nei campi di Italia, Spagna e Germania devono separarsi dai figli per mesi. La lontananza e la “maternità delegata” segnano i figli per sempre
Da Latina alla Germania, il vero prezzo della frutta
#InvisibleWorkers
Sara Manisera
Giulio Rubino
Sta calando la notte nella piazza centrale di Pontinia, a sud di Roma. È fine estate e Hardeep Singh, un bracciante indiano che ha accettato di parlare con noi, non può saltare le ore di lavoro che, in questa stagione, vanno avanti ininterrottamente dal primo mattino al tramonto.
Pontinia, in provincia di Latina, è al centro di una delle zone agricole più produttive d’Italia, l’Agro Pontino, un’area bonificata dalle paludi dal governo fascista degli anni Trenta. Le linee squadrate e gli ampi spazi vuoti della piazza centrale riflettono l’architettura razionalista dell’epoca.
C’è poca gente in giro, per lo più con indosso una mascherina, che si gode l’aria più fresca della notte, un sollievo necessario dai giorni roventi di agosto. Hardeep arriva verso le 20:30, ha appena finito la sua lunga giornata di riparazione delle serre di un’azienda locale. La sua paga? Non più di 5,50 euro all’ora. È qui per raccontarci una storia che sta diventando fin troppo comune in questa zona: il 12 giugno 2020 un suo amico, Jobandeep Singh, un lavoratore di 25 anni emigrato dall’India, si è impiccato alla scala dell’appartamento che divideva con altri connazionali. È il tredicesimo caso degli ultimi tre anni.
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«Eravamo amici, ci siamo incontrati per la prima volta a Borgo Grappa (un altro piccolo paese di questa zona, ndr) lavorando il cavolo rapa per un’azienda, non posso dirti quale», racconta Hardeep. Deve stare attento, perché i lavoratori possono subire dure ritorsioni da parte dei loro capi per aver parlato con i giornalisti. «Mi chiedeva sempre consigli perché, prima dell’arrivo del Covid, collaboravo con un centro gestito dalla Caritas come mediatore».
La storia di Jobandeep è una storia comune alla maggior parte dei lavoratori indiani in questa zona. «Era indebitato fino al collo – spiega Hardeep -. Aveva chiesto un prestito a un parente per comprare un visto per l’Italia, ma stava per scadere. Non poteva pagare l’affitto, non poteva ripagare il debito e il suo parente minacciava di togliergli la terra in India. Voleva trovare un altro lavoro, ma non riusciva a trovare niente».
Hardeep racconta che Jobandeep odiava il suo lavoro. Secondo diverse fonti qualificate, lavorava in nero per un’importante società dell’area. Prima di morire, concordano le testimonianze, avrebbe cercato di riscuotere migliaia di euro di stipendi non pagati. «L’ultima volta che mi ha chiamato – prosegue Hardeep – è stato perché l’azienda gli ha chiesto il passaporto, per sistemare il permesso di soggiorno. Jobandeep non voleva consegnarlo, perché i capi chiedono ai lavoratori molti soldi per la loro regolarizzazione».
La situazione dei braccianti irregolari è disastrosa da decenni. I cosiddetti “salari di piazza”, gli stipendi di strada, sono sempre molto più bassi di quanto previsto dai contratti nazionali
La situazione dei braccianti irregolari è disastrosa da decenni. I cosiddetti “salari di piazza”, gli stipendi di strada, sono sempre molto più bassi di quanto previsto dai contratti nazionali. E la situazione è peggiorata con il lockdown, quando i braccianti non hanno potuto in alcun modo smettere di lavorare, ma le ispezioni e i controlli all’interno delle aziende si sono fermati.
A Jobandeep, è stato chiesto qualcosa come 2,5/3 mila euro per mettere in ordine i suoi documenti, più altri trecento euro al mese di “tasse”, secondo quanto riporta Hardeep. «Il mio consiglio – ricorda – era di non dare loro il passaporto, ma di concentrarsi invece sul recupero di questi soldi. Gli ho detto di andare lì e chiedere al titolare “perché non mi paghi?”».
Ma Jobandeep si sentiva in trappola, non sapeva cosa fare anche perché all’interno della sua stessa comunità aveva ricevuto consigli di segno opposto. Così alla fine, ci dicono persone a lui vicine, Jobandeep aveva accettato di consegnare il passaporto all’azienda.

Il giorno dopo averlo consegnato, è stato trovato senza vita. La polizia locale ha aperto un’indagine, ma Hardeep non riesce a trattenersi: «La polizia conosce bene la situazione qui, sa che almeno la metà dei braccianti sono senza contratto, senza documenti, ma ogni volta che c’è un’ispezione viene avvisato in anticipo».
Secondo Hardeep, Jobandeep è rimasto sveglio tutta la notte dopo aver consegnato il passaporto. Il venerdì mattina i suoi coinquilini partono molto presto per il lavoro, ma lui dice loro che è malato e che non andrà a lavorare. Quando uno di loro torna alle 9 del mattino, si è già ucciso. Tramite il loro avvocato, l’azienda, prevedibilmente, nega che Jobandeep Singh abbia mai lavorato alle loro dipendenze.
Omertà, paghe da fame e il sistema dei “crediti”
La cooperativa agricola dove lavorava Jobandeep è un azienda importante in quest’area. Il proprietario è anche nel consiglio di amministrazione di altre tre aziende. Secondo le nostre fonti, conta molto sull’export, e negli ultimi anni ha costantemente inviato i suoi prodotti in Germania. Aldi Nord, uno dei discount più diffusi in Germania, ci ha confermato che importa indirettamente cavolo rapa da quest’azienda..
Hardeep, parlando dell’azienda, non nasconde la sua sfiducia: «Una volta, mio fratello è andato a lavorare da loro – dice – ma è durato solo una settimana e non ci è voluto più tornare». È molto difficile trovare persone disposte a parlare delle condizioni di lavoro all’interno di questa azienda, un po’ per paura di ritorsioni, un po’ perché i lavoratori migranti si spostano molto, e quelli che in passato hanno avuto il coraggio di parlare, si sono tutti allontanati, sia per tornare in patria, sia per lavorare con diverse aziende in altre zone d’Italia.
Ne parliamo con Marco Omizzolo, sociologo di Eurispes e giornalista che per anni si è occupato delle condizioni della comunità di migranti indiani dell’Agro Pontino. Ci spiega che l’azienda in questione non ha una cattiva fama nella zona: «Era considerata un buon posto di lavoro dalle comunità locali, soprattutto perché la paga è leggermente superiore alla media della zona», afferma Omizzolo, il quale fa notare che la paga è “buona” solo in confronto a quella che si può ottenere in altre aziende: «Se paga 4,5 euro l’ora, e le altre aziende ne pagano 2,5, allora sembra buono per i lavoratori, che non sanno che la paga prevista dai contratti è di nove euro l’ora».
Ma i salari bassi sono solo l’inizio del sistema di sfruttamento, in molte aziende della zona: «Le persone sono costrette a lavorare di notte, senza dispositivi di sicurezza, se non quelli che possono comprare da soli (anche durante la pandemia di Covid-19). Devono lavorare molte più ore e molti più giorni di quello che il loro salario corrisponde – continua Omizzolo -. Oltre a questo, molto spesso una parte della paga viene trattenuta, creando un sistema di “crediti” che i lavoratori hanno nei confronti del loro capo, che li costringe a non cambiare datore di lavoro, né a denunciare la loro situazione, per non perdere una parte vitale del loro reddito». Proprio come è successo a Jobandeep.
Abbiamo chiesto all’azienda dove lavorava Jobandeep quanti lavoratori, e con che tipo di contratto, lavorino per lui, oltre che quanta parte della sua produzione sia destinata all’export, ma ci ha risposto che si tratta di dati protetti da privacy.
Lavoratori “in grigio”, sul crinale tra “legale” e “invisibile”
La situazione dei braccianti in Italia è molto difficile da risolvere, soprattutto perché è molto complicato ottenere dati precisi sulla loro situazione. Se da un lato sono stati ottenuti dei miglioramenti, grazie ad alcuni tentativi riusciti di sindacalizzazione e di sciopero, dall’altro la maggior parte di essi si trova ancora in una condizione di cosiddetto “lavoro grigio”.
Ciò significa che solo una parte delle ore di lavoro è effettivamente registrata e tassata. Il resto del loro tempo viene pagato in nero, con pochissimi soldi e senza alcuna sicurezza.
Omizzolo definisce il problema in termini sociologici piuttosto che fiscali, sottolineando come i contratti e la documentazione dei lavoratori può apparire perfettamente in ordine anche in casi di sfruttamento particolarmente gravi, considerati dalle autorità inquirenti come riduzione in schiavitù.
Della stessa opinione è Stefano Morea, segretario territoriale della Flai Cgil Frosinone Latina, che descrive il fenomeno come «un sistema di sfruttamento che attacca i diritti fondamentali di tutti i lavoratori che hanno bisogni diversi rispetto al semplice salario».
Sì, perché per i lavoratori stranieri, anche quelli che entrano regolarmente nel Paese, la “legalità” della loro situazione deve essere costantemente riaffermata. Hanno bisogno di un indirizzo di residenza, di una sorta di reddito regolare, di un contratto, il tutto solo per rinnovare il permesso di soggiorno e per non diventare invisibili, perdendo ogni protezione dalla legge.
Questo dà vita a specifici meccanismi di sfruttamento: il più terribile, che abbiamo visto nel caso di Jobandeep Singh, è la vendita di contratti. Se il lavoratore vuole abbastanza ore certificate per poter rinnovare il permesso di soggiorno e tenere in ordine i documenti, è lui che deve pagare il capo, con richieste che, secondo Hardeep Singh, arrivano fino a 7mila euro all’anno, circa la metà del reddito medio annuo.
Un altro trucco che l’azienda spesso applica è quello di certificare solo le ore sufficienti per consentire al lavoratore di chiedere il sussidio di disoccupazione, costringendolo poi a considerare quel sussidio pubblico come parte del suo stipendio e facendolo lavorare a zero costi per loro per il resto delle ore di cui hanno bisogno: «I benefici vengono conteggiati dalle aziende non come un contributo assistenziale, ma direttamente come parte del salario nella negoziazione con il lavoratore», spiega Morea.
#InvisibleWorkers
Le madri lontane
Il sapore amaro del kiwi
Dalla provincia di Latina arrivano i kiwi Zespri, esportati in tutta Europa. I lavoratori indiani impiegati nella raccolta sono sottopagati e senza tutele. Le aziende locali rimandano ogni responsabilità a enti terzi di controllo
Dal Punjab a Latina, pagare per diventare schiavo
Come, attraverso i debiti, una rete di intermediari che collega l’India all’agro pontino tiene sotto ricatto migliaia di lavoratori indiani, sfruttati in uno dei maggiori distretti ortofrutticoli d’Europa
L’egemonia tedesca sul mercato europeo di frutta e verdura
La Germania, destinazione finale di parte dei prodotti dell’’azienda dove lavorava Jobandeep, è patria della più grandi catene di supermercati e di distribuzione del continente. Secondo i dati della National Retail Federation (NRF), la più grande associazione mondiale di commercio al dettaglio, i maggiori gruppi alimentari in Europa per fatturato sono infatti Schwarze Group (Lidl, Kaufland) e Aldi, con un fatturato rispettivo di 123 e 91 miliardi di dollari all’anno. Al quinto posto c’è un altro gruppo della Germania, REWE, con un fatturato di 72 miliardi. Questa circostanza, nella prassi, permette alle aziende tedesche di dettare le regole del gioco. Lo strapotere della grande distribuzione non si limita ad affossare i prezzi, ma impone nei contratti che i fornitori debbano farsi carico dei costi per le promozioni e le scontistiche offerte ai clienti. I frutti danneggiati e “brutti” vengono respinti e i contratti prevedono che a riportali indietro siano i fornitori, a spese loro. Per quanto la legalità di tali imposizioni sia dubbia, i fornitori hanno una scelta semplice: obbedire o essere tagliati fuori dal sistema. Se la maggior parte delle aziende oneste non ha altra scelta se non quella di cercare di restare a galla, cercando di denunciare la situazione e di fare pressioni sulle autorità, molte altre semplicemente spostano questa pressione sui loro lavoratori, massimizzando i profitti anche con lo sfruttamento estremo dei braccianti.Il mercato tedesco è della massima importanza soprattutto per Italia e Spagna. Nel 2017 sono arrivate 1.158 tonnellate di frutta e verdura dall’Italia e molte aziende nostrane esistono solo grazie all’esportazione di prodotti che hanno un mercato molto limitato qui. Il risultato è un sistema vessatorio, secondo le esperienze degli imprenditori agricoli italiani: «Le catene di distribuzione tedesche hanno il potere assoluto su tutte le trattative», racconta uno, fornitore di supermercati tedeschi. Chiede di rimanere anonimo per paura di ritorsioni. «Con i fatturati che hanno – sostiene – fanno loro le regole in tutta Europa».
Incontriamo l’imprenditore, un uomo d’affari sulla cinquantina, in una giornata di fine luglio all’interno della sua azienda nel nord Italia. Il suo è un gruppo che fattura oltre 120 milioni di euro l’anno. Il 65% del suo fatturato si basa sulle esportazioni: dal Sudamerica alla Nuova Zelanda, passando per la Germania e i Paesi scandinavi. In un tour guidato all’interno di uno degli stabilimenti più moderni al mondo, l’imprenditore ci spiega come funziona la filiera che porta la frutta dal campo al supermercato. Ma soprattutto le storture che si nascondono dietro di essa.
«Io vendo a Edeka, Lidl e Aldi. Per quanto riguarda Edeka a volte, quando acquistano la merce, noi non sappiamo nemmeno il prezzo che ci pagheranno. Il lunedì noi notifichiamo la merce che abbiamo, il mercoledì fanno l’ordine senza comunicare il prezzo, e il venerdì la ricevono. Solo la settimana dopo, scopro quanto mi pagheranno – spiega l’imprenditore frustrato -. È una diffusa prassi del mercato».
Abbiamo inviato domande a tutte e tre le catene di supermercati nominate dalla nostra fonte. Edeka in particolare ha specificato che tutti i requisiti legali sono soddisfatti dai contratti che, sempre in forma scritta, fanno con i loro fornitori.
Le accuse dell’imprenditore vanno oltre. I distributori, ci dice, impongono requisiti molto severi in termini di estetica del prodotto: «L’aspetto estetico del prodotto è controllato da un’azienda esterna e, se anche solo il 2% di esso non è conforme ai loro standard, ti mandano semplicemente la foto di un frutto rovinato e ti dicono “il camion è a tua disposizione”, il che significa che non lo comprano, puoi farci quello che vuoi». Quindi, calcola l’imprenditore, un camion di frutta che ha percorso migliaia di chilometri consumando 500 litri di benzina, deve tornare indietro e sprecarne altrettanti, per niente. L’imballaggio viene distrutto e gettato e la frutta stessa deve essere riconfezionata, o addirittura buttata se non può essere riutilizzata. «E ogni volta – è l’amara conclusione – noi siamo costretti ad accettarlo, altrimenti non lavoriamo più con loro».
L’imprenditore: «Le catene di distribuzione tedesche hanno il potere assoluto su tutte le trattative»
Secondo questa testimonianza, molte delle imposizioni non hanno in realtà nulla a che vedere né con la qualità effettiva né con l’aspetto. Accade invece che le catene della grande distribuzione «si rendano conto di avere troppo prodotto, così dagli uffici dei piani alti arriva un semplice ordine, “rispedire 20 camion indietro”, così si trova una qualsiasi scusa per rifiutare il carico di frutta a spese del fornitore». «Una volta – aggiunge – mi hanno rimandato indietro un camion perché il diametro delle mele era di 78 millimetri invece di 80».
Lidl ed Edeka, seppure ribadendo il loro rispetto degli standard ambientali e delle leggi a protezione del lavoro, non rispondono ai punti specifici sollevati dalla testimonianza che abbiamo raccolto. Aldi entra più nel dettaglio, spiegando che definiscono i loro prezzi tramite un sistema di aste (spesso indicato dagli imprenditori come uno dei principali strumenti per affossare i prezzi) e che definiscono il prezzo che sono disposti a pagare «in base a domanda e offerta dell’intero mercato».
Ma in questo settore l’offerta è molto più ampia della domanda, e al mercato partecipano anche attori extraeuropei, che operano in sistemi molto meno regolamentati e spesso offrono prezzi molto più bassi ai distributori.
La nostra fonte ha anche cercato di sollevare alcuni di questi problemi direttamente col distributore. Ha stilato un documento allo scopo di analizzare la sostenibilità di queste pratiche in termini ambientali, aggiungendo al computo «lo spreco degli imballaggi, l’acqua, il carburante e tutto il resto». «Si sono arrabbiati moltissimo – afferma -. Hanno detto: “Se il signor X non vuole più venderci la sua merce, troveremo qualcun altro”». Non è finita qui: durante un incontro tenutosi nel 2020, il direttore dei supermercati tedeschi che si approvvigionano dalla sua azienda «mi ha sbattuto il documento che ho scritto davanti agli occhi e mi ha detto: “Non permetterti più di mandare una cosa del genere”»

«Tutto il mondo del retail europeo, Germania in testa, si è opposto a questa direttiva, che è la prima a toccare l’assoluta autonomia di cui questo settore ha goduto finora».
La nuova normativa europea contro le pratiche sleali
Ciò che ci ha detto la nostra fonte anonima è confermato anche da Dino Scanavino, presidente della Confederazione Italiana Agricoltori, una delle più grandi associazioni di produttori in Italia con quasi un milione di iscritti. Lo raggiungiamo al telefono a metà ottobre per chiedergli cosa ne pensa di tutta questa vicenda.
«Funziona così a causa del potere sproporzionato dei distributori – spiega -. Per il sistema l’unica priorità è il prezzo finale per il consumatore, e quando c’è un qualsiasi tipo di problema, tutti i costi vengono scaricati su di noi (i fornitori, ndr) che siamo l’anello più debole di questa catena».
Scanavino definisce le prassi del sistema di distribuzione come «pratiche sleali». Dice che c’è una una nuova direttiva europea che dovrebbe fermarle, ma non è ottimista riguardo a una rapida risoluzione di questo problema: «Combattere una battaglia legale contro i distributori per noi è inutile – ammette – perché in una guerra aperta vinceranno sempre. Tutti i distributori lavorano in questo modo, non solo quelli tedeschi. Abbiamo bisogno che i governi nazionali intervengano per trovare una soluzione sistemica».
Almeno per quanto riguarda gli Stati europei, un qualche tipo di soluzione dovrebbe arrivare in tempi brevi. La direttiva 2019/633 della Commissione Europea infatti, dev’essere adottata da ogni Paese entro il prossimo maggio.
Dei suoi possibili effetti abbiamo parlato con Paolo De Castro, europarlamentare e, fino al 2014, presidente della Commissione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale del Parlamento europeo. Secondo De Castro, la maggior parte dei problemi incontrati dalle aziende che vendono alla grande distribuzione tedesca dovrebbero essere affrontati da queste nuove regole. «La direttiva è già legge in Francia e Spagna. In Italia è già passata in Senato e ora la Camera dovrebbe autorizzare il Governo a fare i relativi decreti – spiega -. La Germania è un po’ più lenta in questo caso perché non avendo una legge nazionale già fatta a riguardo, deve costruire l’intero impianto legislativo da zero».
De Castro è soddisfatto dei risultati raggiunti, per altro attesi da vent’anni, anche se riconosce che si tratta solo di un primo passo di un percorso ancora lungo: «Tutto il mondo del retail europeo, Germania in testa, si è opposto a questa direttiva, che è la prima a toccare l’assoluta autonomia di cui questo settore ha goduto finora».
E se certamente si tratta di ottime notizie per il mondo dell’agricoltura, ci sono alcuni cambiamenti a cui si dovranno adattare anche i produttori. In primo luogo, maggiore trasparenza lungo tutta la catena: «Al centro della direttiva c’è la creazione di autorità nazionali di contrasto alle pratiche sleali, che avranno potere di indagare e sanzionare tali pratiche – aggiunge Castro -. Ogni stato membro dovrà crearle, ma i produttori dovranno perdere l’abitudine agli accordi verbali, e pretendere, come fra l’altro la direttiva impone, contratti scritti con i distributori, o almeno tener traccia di ogni scambio di email».
Le nuove autorità di contrasto saranno legate ai ministeri dell’agricoltura, potranno avviare indagini autonome e, soprattutto, raccogliere denunce anonime dai produttori o dalle associazioni di categoria. Quanto alle sanzioni, si dovrà in primo luogo cercare una conciliazione fra le parti, per poi passare alla pubblicazione della pratica sleale – una misura che secondo De Castro «è temuta dai distributori ancora più della multa» – per poi arrivare a multe salate, calcolate in percentuale al fatturato del gruppo. Considerando il volume d’affari dei distributori in questione, si potrebbe arrivare a cifre impressionanti.
«La direttiva prevede che le autorità di diversi Stati membri possano collaborare, ma anche che un’autorità nazionale possa intervenire nei confronti un altro Stato dell’Unione – conclude De Castro – ma soprattutto, mette fine al potere dei distributori di alterare accordi e contratti in modo unilaterale, impedendogli di imporre prezzi, pretendere sconti, rimandare regolarmente indietro spedizioni di merci o scaricare sul fornitore il prezzo dell’invenduto».
Tutti questi progressi però restano dipendenti da due fattori: primo, la creazione di autorità nazionali efficaci, che secondo De Castro devono avere «forte presenza sul territorio, con uffici in tutte le regioni, alcune migliaia di ispettori e una certa sensibilità verso il mondo dell’agricoltura»; secondo, una maggiore organizzazione dei produttori, che devono definire i contratti ed essere pronti a denunciare. Entrambi i punti richiedono ancora molto lavoro.

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