La mafia dei Nebrodi pascola libera tra i fondi Ue

La mafia dei Nebrodi pascola libera tra i fondi Ue

Edoardo Anziano
Simone Olivelli
Paolo Riva

INebrodi sono una catena montuosa che attraversa le province centro-settentrionali della Sicilia, dove c’è un parco naturale di 86 mila ettari. Quella di Enna vive sostanzialmente di agro-pastorizia, praticata sulle pendici di queste montagne. Secondo l’ultimo rapporto semestrale della Direzione investigativa antimafia (Dia), l’agricoltura nell’ennese «richiama le consorterie mafiose interessate all’indebita percezione di contributi comunitari per il sostegno allo sviluppo rurale». Nella provincia di Messina, invece, le organizzazioni criminali hanno dimostrato la capacità di espandersi «nell’illecito accaparramento di finanziamenti pubblici destinati al settore agro-pastorale», afferma la Dia. La provenienza è diversa, la natura delle organizzazioni criminali è diversa ma l’espressione con cui sono state descritte sui giornali è la stessa: mafia dei Nebrodi.

A dispetto dell’espressione, nella mafia dei Nebrodi non ci sono solo gruppi legati alla criminalità organizzata. A dirlo è la storica sentenza – ancora di primo grado – pronunciata il 31 ottobre scorso dai giudici del tribunale di Patti. I condannati, in tutto, sono stati 90.

Secondo quanto si legge nell’ordinanza di custodia cautelare da cui sono scaturiti gli arresti, la minaccia di intimidazioni in stile mafioso, il più delle volte nemmeno necessarie, e la connivenza tra criminali e pubblici ufficiali che dovrebbero gestire le procedure per l’assegnazione dei terreni hanno permesso ai condannati di aggiudicarsi circa 5,3 milioni di euro di contributi europei per l’agricoltura. Il principale anello debole della catena del controllo pubblico sull’erogazione dei fondi, secondo gli investigatori, sono i Centri di assistenza agricola (Caa). In Italia, rappresentano l’anticamera da cui passare per presentarsi all’Unione europea come legittimi pretendenti di quei contributi che, sulla carta, dovrebbero sostenere gli agricoltori e contrastare l’abbandono delle aree rurali.

Dalle indagini è emerso che diversi responsabili dei Caa hanno aiutato i condannati a individuare le particelle di terreno, sia private che demaniali, per le quali chiedere i sussidi previsti dalla Politica agricola comune (Pac) dell’Unione europea. L’aggressione ai fondi europei è passata dallo sfruttamento di terreni intestati a soggetti deceduti, emigrati all’estero o semplicemente ignari della possibilità di finanziamento, oppure, nel caso di aree pubbliche, puntando sulla disattenzione degli enti gestori.

Per quanto il numero delle percezioni illegittime accertato in sede processuale sia stato particolarmente alto, ci sono elementi che portano a ritenere che il perimetro delle frodi sia ancora più largo. Secondo i dati di FarmSubsidy, database che monitora l’assegnazione dei fondi comunitari per l’agricoltura, dal 2010 al 2021 aziende riconducibili a vario titolo ai condannati, ma non coinvolte nell’indagine, avrebbero ricevuto un totale di oltre un milione e mezzo di euro di fondi comunitari.

La cifra, superiore di circa il 25% rispetto a quella finora intercettata, è frutto di erogazioni risalenti il più delle volte a epoche precedenti alle indagini, ma che dimostrano come il monitoraggio della spesa sia stato insufficiente a evitare che a mettere le mani sulle risorse pubbliche fossero soggetti legati a organizzazioni criminali, sia mafiose che non, o comunque dediti alla commissione di frodi. Al contempo, non mancano indizi che portino a pensare che qualcuno tra gli imputati, a processo già in corso, abbia in qualche modo mostrato la volontà di rimanere nel mondo che ruota attorno alle sovvenzioni destinate ad agricoltura e pascoli. Sono assegnazioni che pongono almeno un problema di opportunità e che mettono in discussione anche le stesse regole del gioco: i requisiti richiesti per accedere ai contributi e i sistemi di controllo sono adeguati a gestire la voce di spesa più importante del bilancio Ue?

Profili di rischio

La cura e il mantenimento di pascoli e coltivazioni sono sostenuti da finanziamenti europei, erogati secondo le strategie definite dalla Pac. Il criterio di assegnazione principale è semplice: l’ammontare del sostegno è proporzionale all’estensione dell’appezzamento. Il processo Nebrodi ha fatto luce su come i soggetti condannati siano riusciti a ottenere anche ciò che, carte alla mano, non sarebbe spettato loro, garantedosi di conseguenza molti più fondi.

Dal 2011 la Commissione europea articola una strategia antifrode complessiva, che per il settore agricolo è disegnata dalla Direzione generale agricoltura (DG Agri). Ad applicarla sono poi le autorità nazionali, in Italia l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea) e le sue diramazioni regionali. Tra gli obiettivi della strategia, ci sono l’individuazione di criteri di rischio per escludere dall’assegnazione le aziende più problematiche e, nel caso in cui ci sia un’elargizione errata, il recupero dei fondi. Umberto Di Maggio, sociologo dell’Università Lumsa di Roma, scrive in un saggio sull’evoluzione della mafia dei Nebrodi, pubblicato nel 2021 dalla Rivista giuridica del Mezzogiorno, che i trasferimenti della Pac «andrebbero valutati ed autorizzati anche rispetto a fattori di rischio di alcuni contesti ove i fenomeni di frode di sviluppano con maggiore rilevanza».

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A conferma di quanto il tema sia caldo, nella Relazione speciale della Corte dei Conti europea, dedicata alle risposte della Commissione alle frodi commesse ai danni della Politica agricola comune, si legge che l’Italia «mira a istituire un modello di profilazione per individuare i Comuni in cui c’è un’elevata probabilità di criminal focus area», utilizzando vari strumenti, tra cui ad esempio il monitoraggio delle foto satellitari. Criminal focus area è l’espressione usata per definire le aree meno sviluppate del Paese considerate a rischio per specifiche attività criminali, dalla creazione di discariche abusive fino all’accaparramento dei terreni. Attraverso un progetto europeo, il ministero dell’Interno ha realizzato il loro primo monitoraggio, a testimonianza di quanto sia delicato il tema della prevenzione.

In tal senso, un episodio descritto dalle indagini rende bene l’idea di quanto le autorità pubbliche dei Nebrodi siano assoggettate alle organizzazioni criminali.

Centuripe, seimila anime in provincia di Enna: è da queste parti che, poco meno di sei anni fa, un uomo conosciuto come Carrittèri, carrettiere in siciliano, riceve una telefonata da un dipendente della Regione. Ufficialmente fa l’imprenditore agricolo, ma per i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Messina è soprattutto un esponente dei Batanesi, pericoloso clan che ha radici nel cuore dei monti Nebrodi. Nel corso della conversazione, il pubblico ufficiale racconta di avere incontrato un allevatore e di avere ricevuto da questi la richiesta di poter pascolare le pecore in una zona demaniale. I terreni formalmente sarebbero di proprietà della Regione, ma chi è del posto sa che nella pratica sono a disposizione della famiglia del Carrittèri. Il dipendente lo chiarisce: «Lo devo sapere, perché i pascoli li avete voi». Dall’altro capo del telefono, chi ascolta è prodigo di rassicurazioni: «Dai, se puoi fare una gentilezza, gliela fai. E diglielo: “Tramite i carusi (i ragazzi, ndr), ti sto facendo questo favore”». Anche per pascolare sui terreni di proprietà pubblica, serve il benestare della famiglia mafiosa.

Come funziona in Italia il sostegno Ue agli agricoltori

La Politica agricola comune, finanziata con le tasse dei contribuenti dell’Unione europea, è stata varata nel 1962. Anche se il suo peso è andato diminuendo nel corso dei decenni, è ancora la voce del bilancio comunitario più rilevante. Nel periodo 2014-2020, la dotazione era di 408 miliardi di euro, mentre in quello attuale, 2021-2027, l’ammontare è sceso a 378 miliardi, che valgono comunque più del 30% del budget complessivo dell’Unione.

In particolare, all’interno del bilancio Ue, la Pac è finanziata tramite due fondi: il Fondo europeo agricolo di garanzia (Feaga) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr). Il primo sostiene il reddito dei contadini con pagamenti diretti, che vanno principalmente a chi ha più ettari di terreno, e misure di sostegno del mercato. Il secondo, invece, promuove la competitività delle aziende, la tutela dell’ambiente e una migliore qualità della vita nelle zone rurali.

I pagamenti sono gestiti a livello nazionale da ciascun paese dell’Ue. Per l’Italia se ne occupa l’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura), istituita nel 1999 per lo svolgimento delle funzioni di organismo di coordinamento e di organismo pagatore. I pagamenti diretti sono di gran lunga la componente più consistente dell’intera Pac. Per ottenerli, gli agricoltori italiani devono presentare una domanda all’organismo pagatore attraverso i sistemi informatici o recandosi in un Centro di assistenza agricola

Il maxi-processo Nebrodi

A quasi tre anni dagli arresti scaturiti dall’indagine Nebrodi, coordinata dal procuratore aggiunto della Dda di Messina, il tribunale di Patti ha inflitto condanne per un totale di sei secoli per reati inerenti soprattutto alla sottrazione di risorse pubbliche. Alla sbarra c’erano soprattutto soggetti ritenuti a vario titolo legati a due gruppi criminali attivi da decenni a Tortorici, una cittadina in provincia di Messina immersa tra i boschi di noccioleti. Qui, tra 2015 e 2021, sono stati assegnati oltre 22 milioni di euro di fondi Ue per l’agricoltura, distribuiti a 610 beneficiari. Sono numeri notevoli, considerato che il paese ha circa seimila abitanti e 70 chilometri quadrati di superficie.

Per fare un paragone, Cerignola, uno dei centri agrari più estesi d’Italia, ha circa 56 mila abitanti e una superficie di oltre 595 chilometri quadrati: nello stesso periodo, ha ottenuto 78 milioni di euro di contributi europei. Oppure, per restare in Sicilia, Noto, con i suoi 24 mila abitanti e 554 chilometri quadrati di superficie, ha preso 23 milioni di euro, soltanto uno in più del Comune dei Nebrodi.

In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, previste per giugno, l’ordinanza firmata a dicembre del 2019 dal gip Salvatore Mastroeni rappresenta la bussola con cui orientarsi in una delle più grandi frodi ai fondi agricoli Ue mai avvenute. Gli inquirenti sono convinti di avere avuto a che fare con organizzazioni strutturate e facenti riferimento direttamente alle cosche Bontempo Scavo e Batanesi. In passato i due gruppi a Tortorici si sono fatti la guerra e invece da tempo vivrebbero nel pieno di una pax mafiosa utile ad accumulare ricchezza non più soltanto con droga ed estorsioni, ma anche e soprattutto tramite le sovvenzioni pubbliche europee.

Per quanto la sentenza abbia riconosciuto soltanto nel caso dei Batanesi l’esistenza dell’aggravante mafiosa, ciò che appare accertato è l’esistenza di un sistema che, a tavolino, avrebbe deciso come spartire i terreni su cui lucrare.

«Il centro del procedimento è questo: non agricoltura e pastorizia e qualche leggero aiuto per avere finanziamenti, ma criminalità che, magari con origini in quel campo, non costruisce ricchezza per il territorio, ma fa ditte di “carta”, ingurgita profitti milionari che come tutti i profitti di mafia spariscono e niente lasciano alla gente, al territorio», si legge nell’ordinanza.

Per ottenere i contributi europei, le due associazioni criminali hanno dichiarato la «titolarità fittizia» di terreni, sia privati che demaniali. Hanno utilizzato allo scopo società create ad arte, presenti sui registri ufficiali ma sprovviste di beni aziendali, e una serie di relazioni con gli impiegati dei Centri di assistenza agricola, chiamati materialmente a presentare le richieste all’Agea (sono circa una decina i dipendenti dei Caa condannati). Gli inquirenti hanno parlato di spartizione virtuale dei terreni.

I responsabili dei Caa, mediante l’accesso a un portale informatico impiegato da Agea, «sono in grado di rilevare la presenza di particelle mai valorizzate dai legittimi proprietari ai fini della richiesta di una sovvenzione – hanno scritto i magistrati -. Tale informazione è di primaria importanza per i sodalizi mafiosi, in grado in tal modo di effettuare un’appropriazione indebita “virtuale” di tali terreni […] ad insaputa dei reali proprietari e con un rischio minimo di “duplicazione”». La necessità di evitare che la stessa particella finisse oggetto di più domande di finanziamento sarebbe stata fondamentale per evitare che i sistemi automatici in uso all’agenzia dipendente dal ministero dell’Agricoltura facessero scattare alert per possibili operazioni sospette.

Questa evenienza, nonostante la mole di domande esaminate nel corso delle indagini, non si sarebbe mai verificata, consentendo così ai gruppi criminali di mettere le mani su un fiume di soldi.

Gli affari rimasti fuori dai radar

A fronte delle circa 150 imprese agricole finite sotto la lente degli investigatori, il tribunale di Patti, in concomitanza con le condanne per gli imputati, ha disposto alla fine la confisca di poco meno di una ventina di società. La riduzione non cambia la portata della frode e, più in generale, delle dinamiche illecite che condizionano la distribuzione dei fondi comunitari. I dati di FarmSubsidy analizzati da IrpiMedia consentono inoltre di stabilire che, a partire dal 2010, i novanta condannati – sia imprenditori sia soggetti finiti alla sbarra nelle vesti di operatori dei centri di assistenza agricola – hanno percepito altri fondi pubblici per circa 1,5 milioni di euro, tramite aziende a loro collegate e rimaste fuori dall’inchiesta Nebrodi.

I dati che non tornano
La ditta individuale Coci Sebastiano ha sede a Tortorici. Dalla visura camerale risulta avere come titolare il 62enne coinvolto nell’inchiesta Nebrodi e successivamente condannato a quattro anni e quattro mesi per alcune truffe, senza il riconoscimento dell’aggravante mafiosa, e assolto perché il fatto non sussiste dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Dal portale dell’Agea, fonte primaria di FarmSubsidy, emerge che la ditta ha beneficiato di otto pagamenti spalmati su sei diverse annualità, l’ultima delle quali nel 2021: in totale quasi 400 mila euro. Il percepimento della somma, tuttavia, è smentito dall’avvocato di Coci, Giuseppe Strano Tagliareni: «Ha chiuso la ditta già diversi anni fa e comunque non ha mai ricevuto erogazioni per quelle cifre. Semmai per un decimo. Ma soprattutto a titolo esclusivamente personale come da sentenza e lavorando in prima persona quale allevatore in pochi ettari di terreno di origine familiare».

In effetti, dalla visura camerale, emerge che la ditta individuale è stata cancellata dal registro delle imprese a fine 2017. È però difficile pensare a un caso di omonimia tra aziende: dai registri delle Camere di commercio, risultano altre due ditte individuali omonime, ma solo quella riferibile al condannato del processo Nebrodi ha avuto sede legale a Tortorici.

Un esempio è il caso di Sebastiano Armeli, 55enne originario di Tortorici, condannato a sette anni e quattro mesi per il ruolo avuto nell’aggirare l’Agea in due circostanze. Da FarmSubsidy risulta che Armeli, tra 2015 e 2016, ha beneficiato di oltre 111 mila euro, tramite La Gemma Srl, società agricola non interessata dalle indagini. Nel caso del 51enne Sebastiano Bontempo Scavo – condannato a sei anni e mezzo per una serie di frodi commesse anche nell’interesse del clan Batanesi – emerge che ha ricevuto quasi 82 mila euro tramite un’omonima ditta individuale di cui l’uomo è stato titolare fino al 2018, ovvero uno dei due anni – l’altro è il 2017 – in cui il database FarmSubsidy ha registrato il contributo.

Cifre quasi quattro volte superiori sono andate invece a Salvatore Calà Lesina. Con una pena a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, Calà Lesina ha ricevuto più di 300 mila euro sui conti di una società agricola che ha sede a Belpasso, alle pendici dell’Etna. Ammonta a poco più della metà – quasi 155 mila euro – la cifra erogata a Maria Chiara Calabrese, titolare a partire dal 2017 di una ditta individuale non finita nel processo in cui la donna è stata condannata a quattro anni per il riciclaggio dei proventi di una truffa in cui è stata coinvolta la madre. Tra gli operatori infedeli dei Caa che sono stati condannati, c’è anche Antonio Caputo: l’uomo, a cui è stata comminata una pena a quattro anni, ha un passato da sindaco nel centro nebroideo di Cesarò. Caputo risulta beneficiario di sovvenzioni per quasi 50 mila euro tramite una ditta individuale.

Tortorici (ME) e la pioggia di fondi

I condannati del processo Nebrodi hanno ricevuto 5,3 milioni di fondi europei. Per dare un termine di paragone, si tratta di un quarto di tutti i fondi PAC ricevuti nel comune di Tortorici fra il 2014 e il 2020. L’analisi di IrpiMedia mostra, inoltre, come ulteriori 1,5 milioni di euro siano finiti ad aziende legate ai condannati stessi.

Un altro caso di azienda riconducibile agli imputati ma non direttamente coinvolta nell’indagine riguarda la Rando Zootecnica, società che ha ricevuto dalla Ue più di 132 mila euro. Ad amministrarla e a possederne circa un terzo, sin dalla sua costituzione nel 2017, è Valentina Foti, che lo scorso autunno ha preso una condanna a due anni perché ritenuta responsabile di ricettazione nell’ambito di una frode a cui ha preso parte anche la madre. «Foti non ha affatto percepito alcuna somma oggetto di interesse nel procedimento penale a suo carico, tantomeno – dichiara a IrpiMedia l’avvocata Maria Cinzia Panebianco – quella pari a 132.609,99 di euro da voi indicata, relativa ai fondi Pac in qualità di socia amministratrice dell’azienda Rando Zootecnica Società Semplice Agricola. Nella sentenza – prosegue la legale – non vi è la benché minima traccia di una condanna in capo a Foti per aver percepito indebitamente fondi Pac e quindi per il reato a tale fattispecie ricollegabile». In merito alle erogazioni in favore della Rando Zootecnica, la legale specifica che la società «né nel processo (Nebrodi, ndr) né tantomeno in altri è stata mai protagonista di illecite percezioni da parte di Agea».

Tra i condannati nel maxi-processo c’è chi, in una fase successiva al blitz, ha deciso comunque di aprire nuove ditte. Come per esempio Katia Crascì, condannata a quattro anni e quattro mesi di reclusione per due frodi compiute attraverso altrettante società. Dal registro imprese, risulta avere aperto, a novembre 2021 (meno di un anno prima della sentenza) ditta individuale con sede a Capri Leone, nel messinese, e oggetto sociale l’allevamento di bovini e bufalini. «La mia assistita unitamente al marito Faranda Gaetano (anche lui condannato, ndr) svolgono l’attività di allevatori», dichiara a IrpiMedia l’avvocato Alessandro Pruiti Ciarello. «L’attività – aggiunge il legale – quantunque gli stessi siano indagati, viene esercitata per il sostentamento della famiglia». Il difensore di Crascì, poi, esclude che la nuova ditta sia servita a chiedere nuovi contributi all’Ue: «La mia assistita non ha presentato, né può farlo, domande per contributi pubblici nazionali o comunitari, perché imputata nel procedimento penale e fintantoché resterà tale».

Chi si è opposto alla mafia dei Nebrodi

Nel 2018, c’è stata una seconda operazione contro i medesimi sistemi predatori della mafia dei Nebrodi: Nebros II. L’inchiesta, che conta 14 indagati, riguarda una gara per l’affidamento di terreni demaniali indetta, nel 2015, dall’Azienda silvo-pastorale di Troina, Comune dei monti Nebrodi in provincia di Enna il cui sindaco, dal 2013, è Fabio Venezia, da qualche mese anche deputato regionale in quota Pd. È stato tra i primi ad avere preso posizione contro lo sfruttamento illecito dei terreni, insieme all’ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, fautore del protocollo di legalità – poi diventato legge dello Stato – che ha stretto i controlli sulle istanze di finanziamento.

Per approfondire

Gli ultraricchi dell’agricoltura europea

I dati di FarmSubsidy.org indicano che i fondi pubblici per l’agricoltura sono concentrati nelle mani di pochi. La PAC però è fondamentale anche per i piccoli contadini. E nel 2023 entrerà in vigore la sua riforma

«Il fenomeno della mafia dei pascoli è stato scoperto a Troina nel 2014 – racconta Venezia -. Fino ad allora i reati venivano interpretati quasi sempre sotto il profilo esclusivo delle frodi pubbliche. Noi ci siamo accorti dell’esistenza di consorterie mafiose che gestivano i terreni demaniali e pressavano i privati affinché cedessero i terreni di proprietà». Pur essendo un piccolo centro, Troina gestisce – tramite una partecipata – un’ampia fetta di terreni demaniali ricadenti nel Parco dei Nebrodi. «Subito dopo essere diventato sindaco ho deciso di fare chiarezza su chi avesse in locazione i terreni e il risultato è stato allarmante: nel 2015, la prefettura ha emesso alcune interdittive antimafia che hanno interessato 14 dei 15 terreni assegnati dalla nostra Azienda silvo-pastorale».

A quella svolta, poco dopo, sono seguite le indagini della procura e l’ulteriore conferma che qualcosa da tempo non andasse. «Abbiamo licenziato il direttore dell’Azienda dopo avere scoperto che anziché fare gli interessi della collettività faceva quelli di chi voleva lucrare illecitamente», prosegue Venezia. Per questo impegno, il primo cittadino è andato incontro a intimidazioni che hanno portato il ministero degli Interni ad assegnargli la scorta. «Arrivarono un giorno in ufficio, chiedendomi di sistemare i contratti, altrimenti non sarebbe finita bene».

L’assoggettamento delle autorità pubbliche all’interesse privato della mafia dei Nebrodi è un tema che appare anche nell’ordinanza del processo Nebrodi scritta dal gip Salvatore Mastroeni: «I finanziamenti non chiesti, non saputi chiedere o non avuti dagli aventi diritto sono l’espressione di un fallimento grave. Quando infatti la mafia si incunea, altera il mercato, depreda risorse», si legge. Mentre Venezia ha saputo opporsi, altri non controllano a sufficienza: «Fa ovviamente impressione che Agea, Comunità europea, organi di controllo – ha sottolineato il giudice – si “bevano” (termine adeguato per i truffati) istanze con fascicoli solo virtuali, con terreni collocati in zone distanti e improbabili rispetto alla residenza dell’istante, con evidenti falsi sui titoli, giro disinvolto di titoli, conti bancari all’estero». «Oltre le determinanti e gravi complicità interne, quel che dimostra l’indagine – conclude Mastroeni – è che l’intero meccanismo dei contributi dovrebbe essere rivisitato».

Un grido d’allarme, certamente parziale, ma che dal tribunale di Patti si rivolge sia a Roma sia a Bruxelles.

Tra feudi brulli e montagne ingrate, la mafia veste colletti bianchi

«Lassù dove feudi brulli e montagne ingrate segnano il confine tra le province di Messina e Palermo», i monti Nebrodi «delimitano una sorta di zona franca in cui la mafia ha potuto continuare a prosperare indisturbata». Siamo nel 1968 e L’Unità descriveva così la mafia dei Nebrodi. Una mafia violenta, che in questo territorio montuoso ha sempre mirato al controllo dei pascoli tanto quanto, nelle aree interne della Sicilia, ha mirato al controllo dei latifondi per la coltivazione del grano. Come ha scritto Mario Ovizza nel saggio Il caso Battaglia, è intorno ai pascoli che «si svolge il complesso delle più clamorose e insidiose interrelazioni mafiose». I pascoli, con l’andare dei decenni, restano una fonte di reddito anche per famiglie mafiose storicamente arroccate a Tortorici, i Galati Giordano e i Bontempo Scavo, che intanto fiutano l’affare del racket ai danni dei commercianti della costiera Capo d’Orlando.

Negli anni Novanta, a Tortorici, vengono dichiarate 40 mila pecore. Un numero enorme, che, in realtà, non supera i 7.000 ovini. Gonfiare il numero serve a percepire maggiori fondi comunitari. La Comunità economica europea, antesignana dell’Ue, prevedeva già all’epoca un contributo di 30 mila lire a pecora. I rari controlli, racconta un reportage di Saverio Lodato su L’Unità, vengono aggirati spostando le greggi per far quadrare i conti. Quando nel 1992 il boss latitante Antonino Bontempo Scavo viene arrestato, sta pascolando le sue pecore a bordo di una Mercedes. Era stato condannato dal Tribunale di Patti per le estorsioni a Capo D’Orlando.

Ancora oggi, fra gli uomini di fiducia arrestati insieme al boss, c’è chi percepisce i fondi agricoli dell’Unione europea. Col passare degli anni cambiano le modalità, ma le truffe sui fondi comunitari rimangono una costante della mafia dei Nebrodi. Nel 2002, con l’operazione Vitello d’oro, i carabinieri di Sant’Agata di Militello, mezz’ora di macchina da Tortorici, denunciano 200 persone per una truffa all’Unione europea da 800 mila euro. Questa volta vengono utilizzati finti certificati di nascita e macellazione delle mucche per presentare domanda di rimborso all’ente pagatore italiano.

L’operazione Nebrodi, andata a sentenza nel 2022, conferma la specializzazione della criminalità organizzata messinese nel campo delle frodi sui fondi comunitari.

Proprio grazie ai guadagni illeciti derivanti dai contributi per agricoltura e allevamento, la criminalità mafiosa a Tortorici si è radicata. Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice per le indagini preliminari Salvatore Mastroeni parla di una «evidente inestirpabilità» della mafia tortoriciana. Nonostante le molte indagini, a Tortorici la mafia opera «quasi pacificamente, sottotraccia, dismettendo la veste violenta e mafiosa apparente, indossando guanti ma anche vestiti e colletti “bianchi”».

Bruxelles, abbiamo un problema

A Bruxelles, le istituzioni Ue sanno che le frodi con i fondi della Politica agricola comune sono un problema. Basta un dato a farlo capire. Da quando nel giugno 2021 la Procura europea è operativa, ha aperto 1.117 indagini. Ben 231 riguardano la Pac e, di queste, 83 riguardano l’Italia, primo paese in Ue per questo genere di frodi, seguito a debita distanza da Romania, Francia e Spagna (24, 18, 11).

Non solo. A finire sotto la lente degli enti di controllo dell’Unione europea sono stati proprio i pascoli siciliani. Nella relazione speciale della Corte dei conti Ue dedicata alla risposta della Commissione alle frodi nella politica agricola comune e pubblicata nel 2022, viene citata proprio l’operazione che ha portato al maxi-processo Nebrodi. Il caso è preso come esempio delle frodi relative a «pagamenti diretti e “accaparramento dei terreni” (land grabbing, nel documento originale in inglese, ndr)», anche se è la stessa corte a definire l’espressione «controversa».

La relazione spiega che «dalle indagini condotte dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) e dalle autorità nazionali è emerso che le superfici agricole maggiormente esposte a questo tipo di attività fraudolenta sono i terreni demaniali o i terreni privati con assetto proprietario poco chiaro» e che i «frodatori che dichiarano terreni in modo illegittimo per beneficiare del sostegno tramite pagamenti diretti potrebbero presentare documenti falsi e utilizzare pratiche criminali, come l’estorsione o la collusione con dipendenti pubblici». «La conclusione generale della Corte – prosegue la relazione – è che la Commissione ha risposto ai casi di frode nella spesa della Pac, ma non è stata sufficientemente proattiva nell’affrontare l’impatto del rischio dell’accaparramento illegale dei terreni sui pagamenti della Pac, nel monitorare le misure antifrode degli Stati membri e nello sfruttare il potenziale delle nuove tecnologie».

Un’accusa netta, che però l’esecutivo Ue ha cercato di schivare: «Il land grabbing (accaparramento della terra, ndr) non rappresenta un problema inerente all’abuso di specifiche debolezze della legislazione sulla Pac», ha scritto la DG Agri della Commissione europea nella sua risposta alla Corte dei conti. «Questi fenomeni sono piuttosto legati a possibili carenze dei sistemi giuridici, della supervisione e della tutela dei diritti individuali negli Stati membri e devono quindi essere affrontati da questi ultimi nell’ambito di un approccio generale allo stato di diritto, a seconda dei casi», ha aggiunto la direzione generale, addossando sostanzialmente la responsabilità ai singoli paesi Ue e, quindi, nel caso italiano, all’Agea e al ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, di cui l’agenzia è un ente collegato. Interpellata da IrpiMedia, però, Agea non ha risposto alle nostre domande.

«La prevenzione dovrebbe spettare agli organi amministrativi che purtroppo sono spesso inefficienti. E quando non lo sono, si avvalgono di controlli che non consentono una reale attività preventiva». A parlare a IrpiMedia è una fonte vicina agli investigatori che si occupano di reati commessi in danno all’Unione europea. «Ogni anno soltanto in Italia – continua – vengono prodotte centinaia di migliaia di domande per contributi agricoli. Obiettivamente di fronte a questi numeri diventa complesso il controllo a monte, non si può pensare che l’argine alle frodi si basi sull’attività del singolo impiegato».

La portata del fenomeno delle frodi è ampia non solo per gli importi percepiti da chi non avrebbe i requisiti. L’ordinanza Nebrodi contiene, per esempio, intercettazioni in cui alcuni indagati fanno riferimenti a possibili affari da chiudere nell’Est Europa. Nonostante si tratti di fatti rimasti fuori dal processo, sono emblematici di come il problema sia esteso anche geograficamente. Stando a quanto appreso da IrpiMedia, negli ultimi mesi l’attenzione di più procure sarebbe rivolta al Centro Italia. «La scelta del luogo dove compiere la truffa non dipende tanto da contatti criminali ma – conclude la fonte vicina agli investigatori – dalla presenza di un aggancio, di un impiegato compiacente nel centro di assistenza agricola. Sono loro a sapere quali sono i terreni scoperti da richieste di contributo e da sfruttare per compiere le frodi».

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Simone Olivelli
Paolo Riva

Editing

Lorenzo Bagnoli

In partnership con

FarmSubsidy
FragDenStaat

Infografiche

Edoardo Anziano
Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Un campo agricolo ai piedi del Monte Zimmara, sui Nebrodi
(DeAgostini/Getty)

La leggenda dell’aiuto mafioso allo sbarco degli Alleati in Sicilia

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La leggenda dell’aiuto mafioso allo sbarco degli Alleati in Sicilia
Ciro Dovizio

Il mito della collaborazione della mafia allo sbarco in Sicilia tra il 9 e il 10 luglio 1943 domina a tutt’oggi la discussione pubblica, benché ampiamente confutato dagli storici. L’origine e la destituzione di questo mito nascono entrambe dalle pagine de L’Ora, il quotidiano di Palermo uscito tra il 1900 e il 1992. La sua genesi e le conseguenti polemiche, a tanti anni di distanza, restano indicative di modi diversi di declinare l’argomento mafia e di inquadrarlo nei grandi tornanti della storia nazionale.

Stando alla leggenda, a favorire (se non a rendere possibile) l’occupazione del primo pezzo d’Europa da parte delle forze anglo-americane sarebbe stato un accordo segreto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi. Nel 1942 l’apparato dell’esercito americano avrebbe infatti ottenuto dal boss mafioso siculo-americano Lucky Luciano, allora detenuto in un carcere di massima sicurezza, di adoperarsi affinché la mafia siciliana, a partire dal caporione di Villalba (provincia di Caltanissetta) Calogero Vizzini, contribuisse alacremente alle operazioni.

La storia non manca di dettagli spettacolari: dai foulard gialli con la «L» di Luciano lanciati dai bombardieri alleati prima dell’invasione a carri armati con la stessa lettera, ai messaggi in codice spediti da Vizzini in tutta l’isola per mobilitare le cosche.

Qualcosa di vero (e documentato) nella vicenda c’è, ma non ha nulla a che fare con lo sbarco. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, in effetti, corse voce che il porto newyorkese brulicasse di spie e sabotatori nemici, che pescherecci rifornissero al largo sottomarini tedeschi. Il culmine del panico si ebbe nel febbraio 1942, allorché il transatlantico Normandie andò misteriosamente a fuoco. Consapevole del controllo di Luciano sugli affari del porto, l’intelligence della Marina chiese il suo aiuto. Sicché il grande boss assicurò che l’Ila (International longshoreman association – Associazione internazionale portuali, in italiano), il sindacato a lui fedele, e la sua organizzazione avrebbero garantito l’ordine. Lo stesso Luciano avrebbe più tardi rivelato di aver compiuto «sabotaggi», compreso l’incendio del Normandie, nell’intento di ingraziarsi le autorità americane (nella classica logica mafiosa per cui si crea il danno per offrire protezione).

Probabilmente, il suo intervento servì più che altro a evitare che in una fase critica per la nazione i portuali (tra cui molti erano gli italiani) s’impegnassero in scioperi e agitazioni. Nel 1946, Luciano venne scarcerato e rispedito in Italia.

Gli archivi de L’Ora
#GliArchiviDelOra è una serie di tre puntate all’interno di #ArchiviCriminali. È un viaggio tra le pagine dello storico quotidiano che ha contribuito a trasformare la mafia in un tema di interesse nazionale. Fondato dalla famiglia di armatori e proprietari di tonnare Florio, ha attraversato il fascismo come Quotidiano fascista del Mediterraneo e nel Dopoguerra è stato acquistato dal Partito comunista (Pci) che l’ha trasformato in un giornale aperto, interessato soprattutto al dialogo con i gruppi autonomisti siciliani, lontano dalla logica dell’organo di partito.

La serie è curata da Ciro Dovizio, storico dell’Italia contemporanea (mafie e antimafia, politica, giornalismo, cultura) presso l’Università Statale di Milano.

1958: l’inchiesta de L’Ora su Vizzini a Villalba

La leggenda dello sbarco degli Alleati grazie all’aiuto della mafia siculo-americana, come nella migliore tradizione delle false notizie, nacque a guerra in corso come spiegazione fascista del cedimento dell’esercito davanti alle armate nemiche. Nonostante la schiacciante superiorità anglo-americana, infatti, negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale ancora forte restava nel Paese la presunzione d’invincibilità del regime, frutto di tanti anni di martellante propaganda. Di qui l’idea che la sconfitta fosse l’effetto non del crollo del fascismo e dei suoi contrasti con la monarchia, ma del tradimento di generali, ammiragli, funzionari, oltre che di quel male oscuro dell’isola contro cui il regime si era battuto: la mafia.

Il mito, però, cominciò a delinearsi compiutamente nel 1958, quando Michele Pantaleone, esponente socialista di punta di Villalba, pubblicò sul quotidiano palermitano L’Ora una biografia di don Calò, Calogero Vizzini. Il contributo di Pantaleone s’inseriva in una più vasta campagna antimafia ideata dal direttore, il giornalista calabrese Vittorio Nisticò. Quest’ultimo dirigeva la testata dal 1954, cioè da quando l’editore era diventato il Partito comunista italiano (Pci). Il suo mandato era quello di allargare un’opinione di sinistra che a Palermo, come nelle altre città isolane, era molto ristretta. Perciò portò il giornale su una linea fortemente regionalista, atta a promuovere larghe intese in nome dell’autonomia siciliana, ad avversare le industrie settentrionali e la rivale Democrazia cristiana.

Don Calò, Calogero Vizzini

Nisticò fece però di più: rinnovò il nucleo redazionale attingendo al capitale sociale delle lotte contadine post-belliche: si trattava di quadri di partito, sindacalisti e intellettuali di sinistra accomunati dal fatto di essere passati dagli alvei conservatori delle loro famiglie al fuoco delle mobilitazioni social-comuniste.

Medesima estrazione aveva Pantaleone, rampollo di una famiglia di notabili villalbesi da sempre avversa a quella di don Calò Vizzini. Nel 1944 era al fianco del segretario regionale del Pci Girolamo Li Causi quando il boss ordinò di sparare verso il comizio social-comunista. Fu eletto poi deputato regionale per il Psi. Questi suoi trascorsi indussero Nisticò a reclutarlo nel gruppo di cronisti incaricati di seguire le inchieste sulla mafia, coordinati da un giornalista di cui parleremo ancora, Felice Chilanti.

Pantaleone si concentrò appunto su Vizzini e Villalba, anticipando i temi di Mafia e politica, in un suo saggio sulle origini di Cosa nostra diventato, negli anni, un best-seller. Pantaleone fece di Vizzini il super-capo della mafia e di Villalba la sua capitale mondiale. Scrisse della scalata del boss nel settore dei latifondi e delle zolfare, delle sue parentele con alti prelati, quindi del suo contributo allo sbarco. Raccontò poi di come gli americani lo avessero eletto sindaco del paese, della sua militanza separatista che durò «finché gli convenne: poi, quando il movimento fu liquidato passò alla Democrazia cristiana e – sempre a modo suo – vi rimase finché visse».

Vizzini in realtà aveva aderito al Partito popolare e, sotto il regime, a un effimero Partito agrario. In seguito, si era fatto separatista mantenendo però una relazione con la Dc, segretario della quale era, a Villalba, suo nipote. Passò quindi alla Democrazia cristiana. La sua carriera politica segue uno schema ricorrente: il passaggio dei capi-mafia dal separatismo alla Dc. È la sopravvivenza del vecchio mondo delle classi dominanti (e dei loro codazzi mafiosi) in quello nuovo della politica e dei partiti di massa. Difficile, insomma, trovare miglior modo d’inchiodare i democristiani alle proprie responsabilità. Il discorso, peraltro, esasperò la crisi politica in corso alla Regione favorendo l’ascesa di Silvio Milazzo, notabile Dc di Caltagirone (in provincia di Catania), alla presidenza col sostegno di monarchici, missini, cattolici dissidenti e (dall’esterno) social-comunisti, e l’estromissione della Dc dal governo.

Com’è noto, le fortune del mito e di Pantaleone decollarono col suo Mafia e politica, libro edito (grazie all’aiuto di Carlo Levi) nel 1962 da Einaudi, più volte tradotto e ristampato, che diede al problema-mafia rilievo nazionale, sia pure sovrastimando il peso e di Vizzini e di Villalba nella vicenda mafiosa.
Pantaleone fu percepito sempre di più come l’«esperto» di mafia per eccellenza. Se non che, il suo racconto molto inclinava alla mitologia, e non solo in relazione allo sbarco.

Prendiamo l’immagine di Vizzini come capo-mafia tradizionale (e tradizionalista): essa strideva col suo profilo di imprenditore zolfifero, già esponente di un cartello internazionale dell’acido solforico, e col suo reiterato utilizzo delle cooperative contadine – elemento per eccellenza «moderno» dalla prospettiva di sinistra – nel proprio interesse. Negli anni caldi del Dopoguerra era stato sì un personaggio importante, al confine tra mafia, affari e mondo politico, tra separatismo e Democrazia cristiana; non era stato però il capo della mafia. In effetti, testimonianze successive di pentiti ne hanno molto ridimensionato il ruolo nelle gerarchie mafiose.

La versione di Nick Gentile

Non passò molto perché nella redazione de L’Ora prendesse forma una versione sullo sbarco antitetica a quella di Pantaleone. Fu il risultato delle indagini di Felice Chilanti, grande cronista investigativo, già coordinatore dell’inchiesta del 1958. Originario di Ceneselli (in provincia di Rovigo), il giovane Chilanti si era distinto nella stampa di regime come fascista radicale e antisemita. Successivamente si era fatto prima cospiratore (tramando contro Galeazzo Ciano, il genero del Duce), finendo in carcere e al confino, poi antifascista militando in un gruppo partigiano irregolare, Bandiera Rossa. Dopo la guerra, infine, si era avvicinato al Pci concorrendo alla fondazione del quotidiano Paese Sera e specializzandosi nel giornalismo d’inchiesta.

Nel 1963 il vecchio mafioso italo-americano Nick Gentile propose a Chilanti un grande scoop: raccontare la propria vita. Le dichiarazioni del boss furono pubblicate su L’Ora e Paese Sera in novembre, per andare a formare in seguito un volume rimasto prezioso, Vita di Capomafia (Editori Riuniti). Veramente Gentile aveva già steso un testo autobiografico nel corso di una collaborazione confidenziale con agenti del Narcotic Bureau, che avevano intercettato una sua lettera a un altro mafioso americano. Quel testo passò a Chilanti, il quale lo pubblicò com’era aggiungendovi un’introduzione e alcuni brani dell’intervista uscita su L’Ora. Diversi altri, compreso quello sull’aiuto della mafia allo sbarco, restarono però fuori dal libro.

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La prima autobiografia di un mafioso

di Lorenzo Bagnoli

Agrigentino di Siculiana, Nicola Gentile – noto come zu Cola oppure Nick – ha vissuto gli anni del proibizionismo ed è stato uno stretto collaboratore di Lucky Luciano nei primi anni Trenta, quando oltreoceano si combatteva la “guerra castellamarese” (1930-31) tra boss originari di Castellammare del Golfo. Nel 1937, a seguito di un rilascio su cauzione, è fuggito in Sicilia, dove ha stretto nuovi rapporti con mafiosi come Calogero Vizzini. Dagli archivi desecretati dell’FBI in merito all’inchiesta sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, si scopre che l’ambasciata americana di Roma nel 1963 stava cercando di sapere se ci fossero nuove rivelazioni del boss negli articoli de L’Ora. Si legge anche che Aristide Manopulo, della polizia di Roma, stava cercando di localizzare dove si trovasse il boss, senza però riuscirci. John Dickie, nel libro Cosa Nostra, racconta che quando Gentile si confessò «viveva una vita da pensionato» a Roma, che cercava di giustificare la sua esperienza all’interno dell’organizzazione criminale.

Gentile è stato il primo “uomo d’onore” a raccontarsi in un’autobiografia, a ottant’anni. Al netto di errori di prospettiva, in particolare rispetto agli equilibri di potere criminale tra Palermo e l’agrigentino, è stato uno spaccato importante per comprendere alcune dinamiche di cosa nostra. Già nel 1949, racconta Dickie, aveva passato un intero pomeriggio a parlare con un «duttureddu». Leggenda vuole – mai dimostrata indipendentemente – che si trattasse di Andrea Camilleri, il futuro inventore del commissario Montalbano.

Il racconto di Gentile uscì appena prima che il super-pentito Joe Valachi testimoniasse davanti alla Commissione McClellan. «La più straordinaria avventura della nostra vita di giornalista»: così Chilanti avrebbe definito i suoi colloqui col boss.

Gentile dichiarò di appartenere a un’organizzazione criminale a base etnica, siculo o italo-americana, nota come «onorata società», articolata in Famiglie o borgate e a livello elementare in «decine», dotata di una struttura di coordinamento chiamata Commissione. Raccontò di essersi mosso sempre tra i due versanti dell’Atlantico, collegandosi volta a volta a gruppi di consociati, connazionali, compaesani, tra New York, Pittsburgh, Kansas City, Philadelphia, New Orleans, Palermo, Raffadali (Agrigento).

Tra l’altro, l’intervista avrebbe inaugurato un genere di grande fortuna: quello della «vita di mafia», del racconto «dall’interno» in forma di libro. Va detto che l’esame critico a cui Chilanti sottopose le parole di Gentile restarono un unicum in questo campo. Al cronista premeva capire perché il capo-mafia decidesse di esporsi in pubblico, rivelando un passato denso di misfatti. Che volesse difendere prima di tutto sé stesso?

«Forse vuole ottenere anche questo – scrisse Chilanti – ma fin dal primo colloquio, durato alcune ore, ho ricavato la sensazione che Nicola Gentile fosse mosso da ragioni più complesse: un miscuglio di astuzie, secondi, terzi fini, non disgiunti dallo stato fondamentale della sua esistenza: la vecchiaia coi suoi ripensamenti e bilanci, e principalmente con la sua solitudine».

Ne venne fuori un confronto serrato del cronista con l’ideologia mafiosa. «Era molto difficile capirsi, Gentile e io. Gentile chiamava “giustizia” atti che per me erano delitti, chiamava “onore” proprio quel modo di comportarsi che per un normale cittadino è il malaffare, la malavita».

Chiese il cronista: «Nelle sue memorie lei parla di “amicizia”; erano amici o avevano paura?». «Conoscevano la mia forza, sapevano», rispose il boss. «Ma allora la famosa amicizia degli amici non conta niente?», ribatté Chilanti. «Conta la forza», fu la risposta lapidaria di Gentile.

#ArchiviCriminali

I misteri intorno alla scomparsa di Mauro De Mauro

Battitore libero, geloso di fonti e del suo metodo d’inchiesta, il giornalista de L’Ora non è mai stato ritrovato. La campagna contro L’Ora e le piste che portano ai suoi nemici

Ma torniamo allo sbarco. A un certo punto, Chilanti chiese al vecchio boss se fosse vero che Luciano, Vizzini e un altro capo-mafia di rango come Vito Genovese avessero svolto funzioni di agenti segreti per conto dei servizi di sicurezza della Marina americana. «Non è vero niente. Questa è una favola inventata di sana pianta e che ha avuto fortuna per diverse ragioni – fu la risposta di Gentile -. I comandi alleati disponevano di ben altri servizi di informazione, e la favola di questi gangster e capimafia diventati improvvisamente combattenti al servizio della Marina americana o della democrazia venne convalidata, tacitamente anche da chi svolse effettivamente quelle attività, ma preferì attribuirne il merito a “mafiosi” ed ex-gangster. E naturalmente certi capi-mafia si presero ben volentieri quei meriti, pensando di ricavarci qualcosa di buono. Posso senz’altro affermare che la storiella del carro armato americano che giunge a Villalba con un drappo inviato da Lucky Luciano al capomafia Calogero Vizzini è una fantasiosa invenzione».

Ciò che resta del mito

In realtà Gentile non escluse che ufficiali americani si fossero collegati a mafiosi più o meno illustri, dopo lo sbarco. Quei contatti, tenne però a specificare, non servirono tanto alla guerra quanto a «certi traffici, certi commerci, certi affari che potremmo definire di sottogoverno militare alleato. E niente altro». Chilanti, particolarmente prudente verso le parole del boss, in questo caso si disse d’accordo, presentando la gestione degli affari illeciti come l’effettivo «servizio reso dai capimafia tornati in patria ai funzionari americani». «Siamo lieti – aggiunse – che questa faticosa inchiesta ci abbia dato anche la possibilità di smentire nettamente e con una testimonianza non contestabile, la brutta storia della partecipazione degli ex-gangster e dei capimafia alla guerra in Sicilia, al servizio degli alleati».

Naturale che l’intervista provocasse la reazione di Pantaleone, che scrisse una lettera di protesta al direttore de L’Ora, Nisticò, presto pubblicata. In quell’occasione l’autore di Mafia e politica scoprì le sue fonti: oltreoceano, gli accenni della Commissione d’inchiesta del Senato degli Stati Uniti del 1950 presieduta da Estes Kefauver alla trattativa con Luciano (che però riguardano i sabotaggi nel porto di New York, non lo sbarco) e, sul versante siciliano, la testimonianza dei Carabinieri locali e di alcune famiglie di sfollati.

Questa la replica di Chilanti: «I famosi accordi segreti […] in base ai quali il gangster [Luciano] avrebbe diretto misteriose operazioni spionistiche in Sicilia stando in prigione (c’è rimasto fino al Dopoguerra) sanno molto di fiaba». Certo, Gentile non era il Vangelo, lasciò intendere, eppure la storia del grande complotto non lo convinceva. Se il boss, aggiunse, «mi avesse raccontato che Vizzini e Genco Russo (un altro mafioso di Cosa nostra originario del nisseno, ndr) o lui stesso avevano diretto le operazioni degli anglo-americani in Sicilia, predisponendo gli sbarchi e guidando le truppe dall’uno all’altro capo del vallone, lungo le trazzere, alla liberazione delle città, non gli avrei dato credito». Molto più probabile, oltre che congeniale al profilo dei mafiosi, che il tutto riguardasse la borsa nera più che la collaborazione allo sforzo bellico. Pungente la nota conclusiva: «Del resto Pantaleone sa che mi sono sempre occupato, di preferenza, di mafiosi viventi. Sono più scomodi di quelli morti, ma più interessanti».

Insomma, la versione di Pantaleone restava sproporzionata (e tale resta quella dei suoi epigoni), ancorché mossa da intenzioni lodevoli. Si fondava, certo, su un nucleo di verità, visto che gli alleati e la mafia si incontrarono veramente dopo lo sbarco. Il punto era (ed è) un altro: che in qualunque sede, e a maggior ragione in quella giornalistica e storica, non si può affermare alcunché prescindendo dalle prove; e nessuna evidenza attesta il grande complotto. Molti documenti, invece, compresi quelli desecretati dell’Oss (Office of strategic services, il servizio segreto del tempo di guerra), testimoniano che non vi furono accordi segreti tra la mafia e l’intelligence americana, che le autorità di occupazione misero a segno anche operazioni repressive. Non per questo però – ne siamo certi – il mito cesserà di avere fortuna.

CREDITI

Autori

Ciro Dovizio

Editing

Lorenzo Bagnoli

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Appalti e corruzione: 30 anni seduti al “tavolino”?

Appalti e corruzione: 30 anni seduti al “tavolino”?

Simone Olivelli

Catania, marzo 2021. A dispetto di quello che ci si potrebbe aspettare da una città siciliana affacciata sul mare, le temperature sono ancora invernali. All’ultimo piano di un palazzo del centro, un attico con terrazza, tre uomini sono impegnati in una conversazione. Non si tratta di persone qualunque: a fare gli onori di casa è infatti un noto politico regionale. Il giovane onorevole – questo il titolo che in Sicilia spetta ai componenti dell’Assemblea regionale siciliana (Ars), uno dei parlamenti più antichi d’Europa – in pochi anni ha saputo affermarsi sulla scena isolana e in tanti sono pronti a scommettere su un futuro ancora più radioso.

Chi, invece, gli ha fatto visita sono un funzionario pubblico e un imprenditore. Il primo è un affermato dirigente della Regione, il secondo un costruttore che in quell’appartamento è stato già più volte, il politico infatti è un suo caro amico.

Il politico, l’imprenditore e il funzionario toccano diversi argomenti. Parlano, per esempio, della piscina che il primo vorrebbe realizzare sul terrazzo. Un’idea che garantirebbe la possibilità di immergersi nell’acqua godendo della vista su quella che, nonostante un declino che avanza anno dopo anno, un tempo era definita la Milano del Sud. Forse, però, capita anche dell’altro: in un momento in cui il padrone di casa si allontana, l’imprenditore prende una mazzetta di soldi e la passa al funzionario. Il denaro è una tangente per un appalto ricevuto dall’ufficio guidato dal funzionario, grazie alla mediazione del politico.

Quella appena descritta è però solo una delle tante ricostruzioni dell’incontro verbalizzate dalla procura di Catania dalla fine del 2021.

Si tratta della versione di Natale Zuccarello, il funzionario del trio. Oggi in pensione, ma all’epoca molto influente nei principali gangli della Regione Siciliana, dopo essere stato arrestato alla fine di un’indagine sulla rete corruttiva dentro al Genio civile di Catania, ha deciso di collaborare con i magistrati chiedendo di patteggiare la pena. Dai suoi racconti sono venuti fuori tanti nomi. Soggetti che in prima battuta erano rimasti fuori dall’indagine e che hanno arricchito un quadro d’insieme rimasto però per nulla chiaro.

Il lavoro di inquirenti e investigatori è stato infatti tutt’altro che semplice. Se in alcuni casi ha prodotto elementi di prova tali da spingere gli indagati a chiedere di patteggiare la pena, in altri l’impegno è sfumato in una serie di archiviazioni per l’impossibilità – come nel caso dell’incontro nell’attico – di discernere il vero dal falso.

L’inchiesta catanese fornisce spunti per riflettere sulle dinamiche che caratterizzano la corruzione oggi in Italia e sulle difficoltà nel perseguirla, specialmente ora che il Paese si appresta a gestire i miliardi di euro di fondi pubblici del Pnrr.

Il cilindro di Zuccarello

Considerato dagli inquirenti il dominus del sistema corruttivo che passava dal Genio civile di Catania, Zuccarello era finito sotto la lente della procura già dalla fine del 2020. Il pubblico ministero Fabio Regolo aveva messo gli occhi su di lui dopo che il funzionario aveva deciso di annullare, in seguito ad articoli di stampa, alcuni lavori per la pulizia di torrenti da lui assegnati con il sistema dell’affidamento diretto, cioè contrattando con le singole imprese senza indire gare d’appalto. Il sospetto del magistrato era che la scelta delle ditte fosse stata viziata da rapporti corruttivi. Ne erano seguite perquisizioni, che avevano portato prima al sequestro di importanti somme di denaro e infine alla retata della finanza e all’arresto di due imprenditori e tre funzionari, fra cui anche Zuccarello.

Poco dopo essere stato sottoposto alla custodia cautelare in carcere, Zuccarello ha ammesso di avere preso tangenti. Si è trattato del primo passo di una collaborazione che, oltre a favorire l’accordo con la procura in merito al patteggiamento su cui proprio nei prossimi giorni deciderà la gup Anna Maria Cristaldi, ha dato la possibilità agli inquirenti di esplorare nuove strade nel convincimento che la corruzione all’interno del Genio civile etneo fosse un fenomeno ancora più esteso.

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Tra le storie che escono fuori dal cilindro di Zuccarello c’è proprio quella dell’incontro nell’attico. Il funzionario racconta di essere andato lì invitato dal padrone di casa, Gaetano Galvagno. Pupillo e concittadino in quel di Paternò (Catania) del presidente del Senato Ignazio La Russa, Galvagno la carriera annunciata la sta facendo. Oggi è presidente dell’Ars, mentre all’epoca era uno dei settanta deputati con ruoli in diverse commissioni parlamentari, tra cui quella Antimafia che si occupa anche di corruzione nel pubblico. Tra le audizioni effettuate dalla commissione ce n’è una, svoltasi pochi mesi prima dei contatti tra Zuccarello e Galvagno, in cui alcuni imprenditori avanzarono sospetti sulle gare d’appalto gestite dagli uffici della Regione Siciliana.

Nell’abitazione del politico, Zuccarello dice di avere trovato anche Carmelo Gangi Climenti, imprenditore edile. Sarebbe stato lui a pagare la mazzetta, un “regalo” per un lavoro ottenuto grazie anche all’interessamento di Galvagno. I contatti con il politico sarebbero stati molteplici e il funzionario li descrive nel corso di un interrogatorio svoltosi ad aprile dello scorso anno.

«Voglio riferire anche un altro episodio che riguarda lavori di somma urgenza seguiti nel 2020 – si legge nel verbale – . Nel periodo di fine anno, ho ricevuto una telefonata dell’onorevole Gaetano Galvagno, che mi avvisa che voleva incontrarmi». Zuccarello dice agli inquirenti di essere rimasto sorpreso di quell’invito, avvenuto in un momento in cui il Genio aveva già affidato un appalto all’impresa di Gangi Climenti, l’amico di Galvagno. «Gli fisso l’appuntamento al bar – rivela il funzionario nell’interrogatorio -. Sono andato all’incontro convinto di ricevere apprezzamenti sia sull’attività svolta dal Genio sia per l’affidamento fatto nei confronti del Consorzio Innova, segnalatomi da lui per fare lavorare poi la consorziata Cie di Gangi Climenti. In realtà – continua l’ingegnere – mi redarguì per il fatto che avevo affidato un altro lavoro alla Nurovi diversamente dalle sue aspettative, in quanto lui si era impegnato per portare il finanziamento per coprire entrambi i lavori programmati con due verbali di somma urgenza».

Nella ricostruzione di Zuccarello, Galvagno avrebbe ambito a far sì che la ditta dell’amico imprenditore potesse agguantare non uno ma due lavori. Dal canto suo, il capo del Genio civile aveva deciso di affidare solo un lavoro a Gangi Climenti, mentre l’altro era andato alla Nurovi, ditta gelese i cui vertici sono stati anche’essi coinvolti nel blitz in cui è stato arrestato Zuccarello. Questa ripartizione sarebbe stata frutto di altre richieste, pervenute – a detta di Zuccarello – da Pippo Li Volti, uomo di fiducia dell’allora assessore regionale ai Lavori pubblici Marco Falcone. Li Volti e Falcone non sono mai stati indagati nell’inchiesta sul Genio civile, ma nei giorni scorsi è emerso il loro coinvolgimento in un’indagine su corruzione in una vicenda legata alla società Interporti Siciliani.

«Dopo qualche giorno sono stato richiamato da Galvagno per avere un incontro al bar. Sono andato e ho trovato insieme a lui Gangi Climenti – si legge nel verbale – Dopo aver ripreso il discorso sugli affidamenti, Gangi Climenti mi disse che era un peccato non aver affidato entrambi i lavori a lui perché erano pronti 20mila euro da spendere. All’inizio la discussione è stata animata, poi ci siamo lasciati al bar in serenità perché avevano capito che era stato Li Volti a non indicarmi Gangi Climenti».

La possibilità di beneficiare di una tangente da 20mila euro nel caso di un doppio affidamento all’impresa di Gangi Climenti avrebbe lasciato posto, secondo Zuccarello, a una concreta dazione di denaro, seppure di importo inferiore. Si tratta dell’incontro a casa di Galvagno, avvenuto nei primi mesi del 2021.

«Sono stato invitato ad andare a casa sua e anche in quell’occasione era presente Gangi Climenti, che durante una discussione fatta in assenza di Galvagno mi ha consegnato una busta con circa 6.500 euro».
Interrogato dai magistrati, Gangi Climenti, ha smentito ogni addebito. L’imprenditore ha negato di avere mai dato soldi a Zuccarello e di avere mai cercato sponsorizzazioni dall’amico politico. «La segnalazione me la sono fatta da solo», si legge nel verbale di interrogatorio di Gangi Climenti.

A rimandare al mittente ogni accusa è stato anche lo stesso Galvagno. Il politico ha spiegato la presenza in casa propria di Zuccarello con la volontà di chiedergli consigli tecnici sul progetto di realizzazione della piscina e sugli iter da seguire per ottenere le autorizzazioni. «Forse penserete che sia inopportuno avere interessato Zuccarello per una pratica che poi doveva assentire il Genio civile, magari è così e ho sbagliato, ma nulla a che vedere con il grave contenuto delle dichiarazioni di Zuccarello», ha detto Galvagno agli inquirenti durante il proprio interrogatorio. Al contempo ha ammesso di avere sollecitato a Zuccarello il nome di Gangi Climenti. Ma in buona fede. «Ho avuto modo di parlare del fatto che il mio amico non lavorava mai con il Genio e visto che dovevano utilizzare il principio di rotazione mi sembrava strano», si legge nel verbale. A precisa domanda del magistrato, Galvagno ha detto che le rimostranze sulle modalità di gestione degli appalti e sul mancato principio di rotazione delle imprese da parte di Zuccarello non sono mai confluite in segnalazioni ufficiali all’interno dell’Ars.

Il portone d’ingresso della sede del Genio civile di Catania – Foto: Simone Olivelli

Davanti a versioni così divergenti, il pubblico ministero ha deciso di mettere a confronto i protagonisti. Così, in estate, Zuccarello, Galvagno e Gangi Climenti si sono trovati uno di fronte all’altro. Il faccia a faccia però non è servito a dipanare la matassa. Davanti all’impossibilità di stabilire chi dicesse la verità, la procura ha chiesto e ottenuto l’archiviazione dell’indagine.

Leggendo la richiesta presentata dal pm Regolo al gip emerge come l’apporto fornito dal funzionario non sia stato sufficiente. «Alla richiesta di fornire maggiori dettagli sulle circostanze della dazione di 6.500 euro, Zuccarello rispondeva di non ricordare alcun particolare riguardante le modalità di consegna del denaro, se non il fatto che era avvenuta in casa di Galvagno seppure non alla sua presenza. Zuccarello – si legge nella richiesta di archiviazione – non forniva nemmeno altri elementi a supporto delle presunte pressioni ricevute da parte di Galvagno».
Una ricostruzione, quella di Zuccarello, che alla fine è risultata carente degli elementi necessari a sostenere il giudizio in un processo. O per usare l’espressione scelta dal pm si è rivelata «lacunosa».

Deroghe in nome di una finta velocità

«Il nostro codice dei contratti è di matrice europea ed è pensato per contesti nei quali l’incidenza di criminalità organizzata e corruzione sono molto inferiori alla situazione italiana». Parte da qui Luigi Oliveri per commentare il caso Genius. Una carriera da dirigente pubblico, Oliveri vanta una significativa conoscenza in tema di appalti, materia a cui ha dedicato diverse pubblicazioni. «Nel mondo anglosassone vige il concetto di accountability, ovvero la responsabilità in capo a chi gestisce risorse pubbliche di spiegarne l’uso e l’efficacia della gestione. In Italia invece – sottolinea – questo principio viene interpretato come mera libertà d’azione del funzionario».

Il riferimento va alla diffusa scelta di ricorrere a modalità di selezione dei contraenti che sfuggono a una reale consultazione del mercato. Optare per procedure diverse dalle gare aperte, quelle a cui chiunque è interessato può partecipare, non è un fenomeno nuovo ma è diventato ancora più frequente nel momento in cui i decreti Semplificazioni, varati tra 2020 e 2021 dal governo precedente, hanno innalzato le soglie al di sotto delle quali è possibile restringere il campo dei partecipanti. Ciò può avvenire tramite un numero limitato di inviti alla gara o, nei casi più estremi, contrattando direttamente con la singola impresa.

«È facile capire come questo possa favorire la convergenza di interessi tra un imprenditore disposto a pagare pur di avere il lavoro e un funzionario disponibile a elargire favori – commenta Oliveri –. Stabilito questo contatto, anche una gara a inviti può essere truccata. Basta invitare ditte disposte a fare da comparsa per favorire colui che dovrà vincere». Scenari che l’indagine Genius ha portato a scovare, rilasciando una fotografia del sistema degli appalti caratterizzato spesso da poca trasparenza.

«Spesso si ricorre ai sorteggi per affermare l’assenza di discrezionalità nelle scelte, ma va detto che anche questi metodi hanno dato prova di non garantire la correttezza delle procedure. I sorteggi – ricorda Oliveri – un tempo venivano taroccati usando i bussolotti riscaldati, oggi vengono fatti tramite strumenti informatici ma sarebbe ingenuo pensare che non possano esistere metodi per condizionarne gli esiti. A maggior ragione quando tutto si svolge in un ufficio, lontano da occhi indiscreti».

Anche in questo caso è possibile trovare un riscontro nelle carte dell’inchiesta catanese. Zuccarello ai magistrati ha ammesso di avere più volte soltanto simulato la selezione casuale delle imprese a cui inoltrare l’invito.

A fronte di tali criticità, l’azione del legislatore negli ultimi anni sembra essere andata in direzione opposta: «Il decreto Semplificazioni del 2020 – spiega l’esperto – ha addirittura abolito l’esigenza di esplicitare la motivazione per cui si ricorre a un affidamento diretto quando si parla di appalti legati al Pnrr. Tuttavia, bisognerebbe tenere a mente che per quanto la disciplina dei contratti pubblici possa avere ampliato le maglie, in Italia esistono leggi – come la 241 del ’90 sul procedimento amministrativo e la 190 del 2012 sull’anticorruzione – che vincolano i pubblici ufficiali a specifiche prudenze, lontane dalla discrezionalità delle scelte su base fiduciaria».

Il ricorso alle procedure negoziate (gare a inviti e affidamenti diretti) viene spesso giustificato dalle stazioni appaltanti con l’esigenza di celerità. Il messaggio sottinteso è: se volete che le opere vengano fatte in tempi consoni, bisogna snellire gli iter. Oliveri, però, la pensa diversamente: «Una gara aperta con qualche centinaio di partecipanti può essere espletata in una quarantina di giorni – commenta – Uno studio della Banca d’Italia ha chiarito che, nel percorso che va dalla programmazione dell’opera alla sua concreta ultimazione, la gara incide sul tempo di realizzazione soltanto per il 12 per cento».

Le bottiglie di vino dimenticate

Quelli di Galvagno e Gangi Climenti non sono gli unici nomi fatti da Zuccarello all’indomani della sua collaborazione. Le diverse storie però hanno copioni molto simili. Anche negli altri casi le nuove indagini sono finite archiviate, dopo che gli inquirenti si sono accorti della mancanza di prove sufficienti. Fossero state partite di calcio, quelle tra Zuccarello e le persone da lui accusate, la maggior parte di esse si potrebbe dire sia finita zero a zero. Tante schermaglie, ma alla fine ognuno è apparso più concentrato sul non prenderle.

Una rete paramassi sul costone pericolante della Timpa di Acireale – Foto: Simone Olivelli
Una barriera massi in costruzione nel borgo di Santa Maria la Scala – Foto: Simone Olivelli

Un esempio è la storia che vede protagonista Nunzio Adesini, uno degli imprenditori della Nurovi arrestati nel blitz per avere pagato Zuccarello. Anche Adesini ha chiesto – e ottenuto già in fase di indagine – di patteggiare, dichiarando di essere disponibile a rivelare fatti inediti. L’imprenditore ha detto ai magistrati di avere vinto un lavoro al porto di Catania, grazie alla presenza nella commissione giudicatrice di Zuccarello.
Il trattamento di favore sarebbe stato ricompensato da Adesini con diecimila euro. L’imprenditore ha raccontato di avere nascosto il denaro in alcune bottiglie di vino. Per recapitarle avrebbe chiesto una mano a Carmelo Paratore, imprenditore impegnato in più settori, dalla ricettività balneare alla gestione dei rifiuti, e volto noto alle cronache giudiziarie per essere stato arrestato nel 2016 nell’inchiesta Piramidi, con l’accusa di essere vicino a Maurizio Zuccaro, boss ergastolano e sanguinario killer della famiglia Santapaola-Ercolano.

Secondo Adesini, Paratore – il cui nome è comparso più di recente in alcuni sms inviati da Piero Amara a Denis Verdini in merito a donazioni al movimento politico Ala – avrebbe acconsentito alla richiesta di fare da intermediario.

«Mi disse subito di sì. Ero sicuro della bontà del contatto – ha spiegato Adesini ai magistrati – perché lo stesso Paratore mi aveva più volte parlato dei buoni rapporti con Zuccarello».

A non smentire la cordialità sono stati gli stessi Zuccarello e Paratore, nel corso dei relativi interrogatori. Paratore ha raccontato di avere conosciuto il funzionario oltre un decennio prima, dalle parti dell’assessorato ai Rifiuti. «Mi fermò per complimentarsi per la mia auto sportiva. Da quel giorno siamo rimasti in contatto e ci siamo visti più volte al mio stabilimento balneare a Catania» si legge nel verbale. L’uomo, però, ha negato qualsiasi coinvolgimento nella corruzione. «Ero stato liberato da qualche mese in quanto prima ero stato sottoposto a misura cautelare e quindi avevo altri pensieri», ha detto Paratore.

Così come nel caso di Galvagno e Gangi Climenti, anche in questa vicenda esiste un incontro a tre. Adesini, Zuccarello e Paratore si vedono nel bar di una stazione di rifornimento. Anche stavolta, secondo Zuccarello, ci sarebbe stato un passaggio di denaro. «Uscendo dal bar, improvvisamente nella tasca dei miei pantaloni mi venne messa una mazzetta che poi a casa ho avuto modo di appurare fossero diecimila euro», ha dichiarato Zuccarello in un interrogatorio. La chiarezza dei ricordi però si interrompe qui: l’ingegnere non ha memoria delle bottiglie di vino citate da Adesini e non si sente neanche di mettere la mano sul fuoco su chi sia stato a pagare. «A distanza di tre anni, non ricordo se a darmi le somme sia stato Paratore o Adesini», ha spiegato.

Una lacuna non da poco, considerato che ha portato la procura di Catania in un vicolo cieco per quanto riguarda la possibilità di appurare il reale coinvolgimento di Paratore nella vicenda e di conseguenza all’archiviazione dell’indagine. Quest’ultimo, dal canto suo, quando gli è stato chiesto se gli sia mai stato chiesto di portare qualcosa di cui magari non conosceva il reale contenuto, ha chiosato: «So sempre quello che porto, sono un uomo di mondo».

La mazzetta pagata dal consigliere di Ance per comprare il tempo

La collaborazione di Zuccarello con la procura di Catania ha portato anche al coinvolgimento di un imprenditore in vista sulla scena siciliana: Antonio Pinzone. In questo caso, le rivelazioni del funzionario hanno portato a una precisa incriminazione e alla successiva richiesta di Pinzone di patteggiare. Tuttavia, pure in questo caso, non sono mancate le sorprese.

L’imprenditore, che dopo il coinvolgimento nell’inchiesta ha presentato le dimissioni dal consiglio generale di Ance Catania, è stato tirato in ballo da Zuccarello per il pagamento di una mazzetta da 25 mila euro. Vicenda che lo stesso Pinzone ha confermato davanti agli inquirenti, ma fornendo una ricostruzione diversa di come sarebbero andate le cose. Secondo il funzionario, la tangente sarebbe servita a turbare due gare d’appalto. «Pinzone mi ha indicato le ditte da invitare – ha dichiarato Zuccarello –. Abbiamo redatto un verbale scrivendo che abbiamo selezionato a sorteggio dall’urna, mentre in realtà abbiamo scritto le cinque ditte per ciascun lavoro, senza alcun sorteggio». Dagli accertamenti eseguiti dagli inquirenti, è emerso che dei due appalti soltanto uno è andato al consorzio di cui fa parte la ditta di Pinzone, poi incaricata di effettuare i lavori. L’ipotesi coltivata dai magistrati è stata quella secondo cui Pinzone si sarebbe mosso non solo nel proprio interesse, ma anche per conto di terzi.

L’impianto accusatorio però non ha retto di fronte alla versione dei fatti fornita da Pinzone. L’imprenditore ha escluso di avere mai concordato gli elenchi delle imprese da invitare, ipotizzando tutt’al più di avere dato «pareri sulla capacità tecnica e affidabilità di ditte che non sono a me legate e per lavori a cui non sapevo se sarei stato interessato». Ma soprattutto Pinzone ha detto di avere pagato per un altro motivo: «Lego la dazione di denaro alla consegna del cantiere, visti gli ostacoli e l’inerzia che avevo percepito», ha detto l’imprenditore, specificando che, una volta pagata la mazzetta, il cantiere «è stato consegnato nel giro di quindici giorni» dando così la possibilità all’azienda di Pinzone di avviare i lavori.

Anche in questo caso le divergenze nelle ricostruzioni e il successivo confronto tra gli indagati non hanno portato chiarezza: ciò ha determinato la caduta del capo d’imputazione sulla turbativa d’asta, confinando le accuse al reato di corruzione per l’esercizio della funzione. Pinzone ha proposto di patteggiare, trovando concorde la procura. La decisione, così come per gli altri, sarà presa nei prossimi giorni dalla gup Cristaldi.

Il “tavolino” degli appalti regge ancora?

Sfogliando gli atti dell’indagine sul Genio civile di Catania, come si è visto, ci si imbatte in personaggi appartenenti a mondi diversi ma comunque tra loro collegati: la politica, l’imprenditoria, la burocrazia. E così, al netto degli esiti giudiziari dei singoli filoni, è inevitabile chiedersi se al livello sistemico possa ancora oggi esistere quel “tavolino” di cui, negli anni ’90, parlò Angelo Siino, l’uomo che da San Giuseppe Jato (Palermo) è passato alla storia come il ministro degli appalti di Cosa nostra. Nel modello tracciato da Siino ai magistrati, quando decise di diventare un collaboratore di giustizia, la mafia siciliana rappresentava la livella che riusciva a mettere d’accordo tutti gli attori interessati a lucrare sulle opere pubbliche.

«Quello del “tavolino” era un meccanismo perfettamente regolato. Se imprenditoria, politica e burocrazia erano le gambe, Cosa nostra potremmo immaginarla come una lampada che illuminava il tavolo e gli affari che venivano spartiti in maniera scientifica».

A parlare è Alberto Vannucci, professore di Scienza politica all’Università di Pisa ed esperto di criminalità e corruzione. «L’efficienza del “tavolino” era talmente alta da riuscire a determinare l’assegnazione degli appalti non quando la gara veniva bandita, ma quando il finanziamento per la determinata opera veniva stanziato – prosegue Vannucci –. Ancora oggi, specialmente in alcune aree del Paese, il ruolo della criminalità organizzata negli appalti è centrale, ma ritengo meno di un tempo. Oggi il fenomeno corruttivo prescinde anche dalle mafie, parliamo di settori talmente lucrosi dove a farla da padrone è un altro fattore: l’interesse degli imprenditori a non farsi concorrenza, a trovare accordi e costituire cartelli».

Per il docente, fissato il patto tra le imprese, il ruolo di politici e funzionari si trasforma in quello di complici interessati: «Si conta sul fatto che chiudano un occhio sapendo che le imprese sono capaci di autoregolarsi e soprattutto – sottolinea – che chiunque vincerà restituirà parte dell’importo. In un quadro del genere, il compito del funzionario infedele è spesso quello di far finta di non vedere nulla». Vannucci sottolinea come oggi la tangente non sia l’unico strumento in cui si concretizza la corruzione.

«L’imprenditore, per esempio, può finanziare la campagna elettorale del politico che ha fatto da sponsor, magari mettendo anche a bilancio il contributo – prosegue – oppure esistono le consulenze e non è detto che a beneficiare di queste ultime debba essere per forza il parente del funzionario corrotto. Può capitare che A faccia un favore a B e che da quest’ultimo non riceva nulla in cambio, mentre B farà un favore a C che, un giorno, magari non immediatamente, restituirà qualcosa ad A. In uno schema di questo tipo, il lavoro per i magistrati si fa sempre più complicato, specialmente quando pensiamo alla fattispecie del codice penale che parla di atto contrario ai doveri di ufficio».

Nelle ultime settimane, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, parlando di corruzione, si è detto favorevole a uno sfoltimento della normativa come misura utile a sottrarre ai funzionari parte degli strumenti che possono essere utilizzati per vincolare gli imprenditori al pagamento delle tangenti, pena vedere bloccato l’andamento dei lavori.

«È indubbio che la cornice di regole che caratterizza il settore degli appalti sia complessa ed estremamente mutevole – commenta Vannucci – Spesso ci si trova davanti a leggi scritte male, soggette a interpretazioni e ciò favorisce inevitabilmente i malintenzionati». La Corte dei conti ha quantificato nel 40 per cento il sovrapprezzo di un appalto caratterizzato dal pagamento delle tangenti, senza contare il costo indiretto dei cattivi risultati. «La corruzione garantisce coperture dalla sorgente alla foce, dall’aggiudicazione fino all’esecuzione dei lavori – spiega Vannucci – Per fare un esempio: per recuperare i soldi per pagare la tangente in una gara riguardante il rifacimento di una strada, si può risparmiare sulla quantità di asfalto, potendo godere della complicità di chi dovrà controllare che, al momento di fare i carotaggi, punterà sulla porzione di lavori fatti a regola d’arte».

«E poi – va avanti Vannucci – secondo me bisogna partire da due direttrici: l’uso dei big data per la segnalazione di anomalie nelle fasi di aggiudicazione e poi puntare su un maggiore coinvolgimento delle comunità nei processi che portano alla definizione delle opere da realizzare. Nel momento in cui i cittadini sentono propria l’esigenza di controllare che le cose vengano fatte correttamente – conclude – per corrotti e corruttori la strada si farà un po’ più in salita».

CREDITI

Autori

Simone Olivelli

Editing

Lorenzo Bagnoli
Giulio Rubino

Foto di copertina

Il tribunale di Catania
(Simone Olivelli)

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