Pochi, mal pagati e non formati: sono i dipendenti pubblici italiani. E il Pnrr resta al palo

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Pochi, mal pagati e non formati: sono i dipendenti pubblici italiani. E il Pnrr resta al palo

Andrea Ballone

Iritardi nella realizzazione del Piano di ripresa e resilienza sono imputabili alle piccole amministrazioni territoriali: impreparate e sotto organico. A dirlo è la Corte dei conti. La seconda rata del Recovery Fund prevista per l’Italia è arrivata, ma prima del suo accredito, del quale il nuovo ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti si è detto orgoglioso, è arrivata anche la bacchettata della Corte dei conti italiana.

Più che una vera e propria bacchettata è stata una tirata d’orecchi, che la dice lunga però sullo stato della pubblica amministrazione italiana, in modo particolare quella locale, che sembra arrancare dietro ai progetti del Pnrr. Le amministrazioni locali sono quelle in maggiore difficoltà nella realizzazione dei target imposti dall’Unione europea. Ed è un vero peccato, perché a disposizione ci sono molti fondi che potrebbero intervenire a sistemare il patrimonio immobiliare dei comuni, che in Italia è tutt’altro che nuovo, ma anche i servizi, provati da un decennio di patti di stabilità, che vincolavano la spesa corrente (quella che copre in prevalenza i servizi) a una percentuale legata ai precedenti bilanci.

Fin dalla metà degli anni 2000 fu l’amministrazione centrale, su precisa indicazione dell’Unione europea, a imporre limiti di spesa. L’obiettivo era tenere sotto controllo gli sprechi e l’indebitamento, ma il risultato è stato quello di impoverire in modo progressivo anche gli organici delle amministrazioni. Soprattutto di quelle comunali, che oggi si arrovellano su come spendere i fondi che proprio dall’Europa stanno arrivando.

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Il Pnrr potrebbe essere quella boccata d’ossigeno che alle amministrazioni manca, ma senza un’adeguata capacità di respirare si può solo rimandare il soffocamento. Come è successo negli ultimi 12 anni ad esempio a Ischia, l’isola travolta dall’alluvione lo scorso novembre. Il Ministero dell’ambiente aveva stanziato tre milioni di euro per prevenire il dissesto idrogeologico. Ma non sono mai stati spesi. Altri ne arriveranno proprio con il Pnrr e si sta già chiedendo il supporto dell’Istituto Ispra (specializzato in studi ambientali) per spendere quei fondi che rischiano di ritornare all’Europa.

Chi ha in mano il pallino sono i cosiddetti Rup (Responsabili unici di progetto) cioè i tecnici comunali, che rischiano di essere però numericamente insufficienti, e tecnicamente impreparati a gestire questi fondi. «Siamo noi – racconta l’assessore di un piccolo comune lombardo – alla sera a guardare i bandi e capire quelli ai quali si può partecipare». Di questo gap di competenze se n’è accorta a luglio anche la Corte dei conti che nel suo report sul Pnrr di luglio scriveva delle difficoltà delle «amministrazioni per finanziare i progetti previsti dal piano, tenuto conto che le ultime stime elaborate dell’Ufficio parlamentare di bilancio evidenziano come nel 2021 ci sia stata una realizzazione degli interventi del Pnrr inferiore a quanto ipotizzato, con una spesa pari al 37,2 per cento di quanto preventivato».

Lo strumento di controllo punta poi il dito proprio contro le amministrazioni. Se da un lato si spiega come l’andamento della realizzazione del piano sia nel complesso positivo nel raggiungimento di obiettivi e target intermedi, la struttura di controllo segnala come sia «emersa la problematica connessa alla capacità di spesa delle singole amministrazioni».

Esclusi perché senza impiegati

Il Pnrr ha scoperchiato così il vaso di Pandora della pubblica amministrazione italiana, i cui impiegati sono sempre meno, spesso impreparati e incapaci di gestire una situazione di questo tipo. «Le difficoltà che gli enti beneficiari potrebbero riscontrare sono di natura amministrativa. – scrive la Corte – Infatti, soprattutto i comuni più piccoli da tempo rappresentano carenza di risorse umane qualificate, nonché numerose complessità burocratiche e contrattuali che aggravano la procedura di affidamento delle opere».

Quello che scrive la Corte dei conti è una relativa novità. Perché già nel giugno 2021 il Ministero per la pubblica amministrazione denunciava una carenza di personale in rapporto agli altri paesi europei e parlava di una pubblica amministrazione «anziana» con un’età media di cinquantadue anni per gli impiegati comunali e cinquantasei per i dirigenti. Il rapporto presentato al Forum della pubblica amministrazione parlava di una spesa per il personale inferiore di 110 milioni di euro rispetto a dieci anni prima. Ma nel 2021 nel rapporto sulla pubblica amministrazione si scriveva: «Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza saranno previsti investimenti in Capacità amministrativa della Pa per 1,3 miliardi, e ulteriori 0,4 miliardi di fondi strutturali Ue e cofinanziamento nazionale».

Se si analizzano i milestone per la pubblica amministrazione si scopre però che la prima scadenza era prevista per il 30 giugno 2022 e quella definitiva per il 30 giugno 2023. In pratica gli investimenti per rimpolpare il personale sarebbero arrivati in un secondo momento rispetto ai fondi per realizzare le opere, che necessitano di maggiore personale.

I numeri della Pubblica amministrazione
Che l’amministrazione pubblica sia in una crisi pesante lo certifica anche il rapporto della Fondazione Ifel, che ha il compito di vigilare sull’andamento della Pa. Scrive, infatti, il rapporto: «Negli ultimi 14 anni il personale comunale in servizio ha subito una progressiva e sensibile riduzione. Se, infatti, nel 2007 ammontava a 479.233 unità, nel 2020 il valore diminuisce del 27,4%. Le riduzioni percentuali più significative, pari al -3,2%, al -3,1% e al -4,0%, sono quelle rilevate nel passaggio tra il 2011 e il 2012, tra il 2014 e il 2015 e tra il 2017 e il 2018: nel primo periodo, infatti, il personale comunale in servizio è diminuito, in valore assoluto, di oltre 14 mila unità, nel secondo periodo di 13mila e nel terzo di oltre 15mila unità. Anche nel passaggio dal 2019 al 2020 la variazione percentuale è significativa e pari al -3,8%. Anche ponderando il numero di unità di personale comunale in servizio per 1.000 abitanti nell’intervallo temporale osservato, si registra una riduzione del dato, passato da 8,04 nel 2007 a 5,94 nel 2020».

Nel 2020 il blocco dei concorsi non ha permesso al turnover di ritrovare un equilibrio

Eppure qualcosa era stato fatto. Nel 2020 si erano aperte molte possibilità per integrare le piante organiche. Era stato predisposto lo sblocco del turn over che ormai da anni impediva gli ingressi di nuove leve nel settore pubblico. All’inizio si parlava di una nuova assunzione ogni quattro licenziamenti, poi progressivamente le maglie si sono aperte, ma non a sufficienza, anche perché si prevede un’ulteriore fuoriuscita di 300 mila lavoratori nei prossimi anni, dopo l’esodo legato alla decisione di quota 101, che ha visto andare in pensione soprattutto lavoratori del pubblico impiego.

«Abbiamo avuto un regime di turnover negativo fino al 2018 – spiega Alessandro Purificato della Cgil Fp – Gli enti pubblici potevano assumere sempre meno personale di quello che andava in pensione. Siamo arrivati al 100% soltanto nel 2019, ma sono stati poi stabiliti criteri che non sono pratici».

La possibilità di assumere è data oggi, infatti, dal rapporto tra le entrate correnti e la spesa media. Ci sono tre fasce. In una di queste ci sono i comuni in condizioni finanziarie difficili che hanno meno possibilità di turnover. I centri dove la popolazione è mediamente più ricca, e che di conseguenza hanno un gettito Irpef maggiore, hanno anche più possibilità di assumere nuove forze e di garantire quel ricambio generazionale che rende le amministrazioni più competitive quando partecipano ai bandi. Al contrario, difficilmente in un piccolo centro arriverà un giovane ingegnere preparato e aggiornato, che possa far fare quel salto di qualità al comune.

Il fatto che si sia deciso di tornare ad assumere nel pubblico impiego, inoltre, non sta a significare che i giovani ci vogliano andare. Il posto fisso, tanto gradito alle vecchie generazioni, oggi sembra piacere meno a quelle nuove. Soprattutto a coloro che hanno competenze tecniche spendibili sul mercato.

«Il lavoro nel pubblico – dice Purificato – è sempre meno appetibile. Innanzitutto dal punto di vista economico. Se da un lato il contratto base è simile agli altri, non ci sono integrazioni. Nell’ultimo contratto nazionale di categoria non sono previsti i quadri. Un funzionario amministrativo in Italia può arrivare al massimo a 35 mila euro di ral, mentre nei comuni si sta sui 24 mila euro. L’unica integrazione è quella della cosiddetta posizione organizzativa». Che viene assegnata di solito in modo arbitrario dalla giunta nei comuni.

«L’altro punto- continua Purificato – che va affrontato è quello dei concorsi. Qualcosa aveva fatto il decreto semplificazione di Brunetta, riducendo i concorsi a domande con risposta multipla». Anche il ricorso ai precari, che potrebbero essere utilizzati per la progettualità del Pnrr non è semplice. «Le offerte a tempo determinato – continua il sindacalista – se non sono economicamente remunerative, subiscono la concorrenza del privato. Un tempo determinato nel pubblico percepisce meno di uno nel privato, quindi significa che si spostano a lavorare nel privato».

Il Pnrr non ha risolto i problemi, ma li ha fatti emergere: in primis la formazione

Ma chi sono i dipendenti comunali italiani e quali sono le loro competenze?

La formazione in questi anni è stato un nodo cruciale. Il rapporto Ifel, che si dedica allo studio della finanza locale rivela innanzitutto come il livello dei titoli di studio degli impiegati della Pa non sia altissimo. «Poco più della metà dei dipendenti comunali a tempo indeterminato, il 54,9%, – scrive il rapporto – è in possesso di un diploma di scuola superiore come massimo titolo di studio conseguito. Il 18,1% ha terminato gli studi con la scuola dell’obbligo, il 27% ha conseguito la laurea (breve o magistrale) o titoli superiori».

Ma anche la formazione in corso d’opera lascia a desiderare. Lo spiega sempre il rapporto: «A peggiorare il quadro appena descritto si aggiunge l’imposizione, da parte del legislatore, di vincoli alle spese per la formazione del personale comunale che si attestano su livelli dimezzati rispetto a quelli pre 2011. Nonostante una lieve ripresa nel 2019, negli ultimi 4 anni tali spese si aggirano infatti tra i 18 e 19 milioni di euro complessivamente, ossia circa 50 euro per unità di personale, contro la media 2007-2010 di 42 milioni di euro in valori assoluti e di 89 euro pro capite».

Lo stesso rapporto specifica poi come: «Il rilancio della formazione dei dipendenti pubblici è uno snodo cruciale per la “transizione amministrativa”, elemento imprescindibile per il raggiungimento degli obiettivi di crescita economica e di benessere collettivo previsti dal Pnrr».

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Da anni i sindacati chiedono di puntare sulla formazione e forse ora qualcosa si sta muovendo. «Sono previste – dice Purificato – nuovi ingressi nelle amministrazioni comunali e nuove risorse per la formazione delle risorse umane impegnate in tali realtà». Ma in chiave Pnrr potrebbe essere tardi, perché intanto la marea di chi sta abbandonando il lavoro non si ferma. «Nel momento stesso in cui stiamo parlando – continua – sono andate in pensione tre o quattro lavoratori del pubblico. Il rischio è che si debba ricorrere nell’immediato a consulenti esterni».

Il problema è capire chi li potrebbe pagare. Un modo per evitare l’assurdo che vedrebbe i comuni pagare un consulente esterno per poter accedere a un bando che gli porti denaro di cui necessita, c’è. «Si possono utilizzare – spiega Purificato – quote di Pnrr per la realizzazione di un progetto specifico, ma ci si trova a ricaricare la spesa sui fondi che si vanno a prendere. Questo accade quando l’ente non ha al proprio interno gli skill necessari per creare un bando».

C’è il rischio quindi di ricaricare il costo di chi fa il progetto del bando sul bando stesso, andando ad assottigliare la quota di fondi che effettivamente vengono spesi per le opere. L’alternativa è quella di accontentarsi, cioè partecipare non ai bandi che permetterebbero la realizzazione di progetti che si vogliono o si devono fare, ma solo a quelli che si possono fare con le professionalità interne già presenti.

In parte è già stato così e lo dimostrano il proliferare di aree fitness nei parchi in Lombardia, che spesso giacciono inutilizzate, o gli interventi di efficientamento scolastico su edifici nella migliore delle ipotesi da ristrutturare perché troppo vecchi. Ma i bandi erano abbordabili per tutti e i soldi, quindi, disponibili subito. «C’è il rischio – continua Purificato – che l’eccessivo ricorso ai consulenti lasci un giorno gli enti prosciugati, perché a volte serve una filiera più composta».

La nascita della Pnrr Academy che si occupa di formazione per amministratori

Lo stesso legislatore si era reso conto nei mesi scorsi che la partita del Pnrr rischiava di passare sopra le teste delle piccole realtà territoriali. Anche per questo è stata chiamata in causa la Scuola nazionale dell’amministrazione, che già da settembre 2021 ha iniziato a realizzare corsi indirizzati ai Rup (responsabili unici di progetto). La proposta formativa è stata messa in campo. Nei programmi di quest’anno la scuola propone 260 corsi, che si dividono tra 234 di formazione continua e 120 di nuovi corsi dedicati al Pnrr. I dipendenti comunali vi hanno partecipato, grazie anche alla possibilità di collegarsi da remoto.

I dati Ifel parlano di una partecipazione media di 477 persone per evento organizzato in collaborazione con la Pnrr Academy, diretta emanazione della Scuola nazionale di amministrazione, presieduta dall’ex ministro Paola Severino. Un terzo delle stesse attività formative erogate dalla Fondazione Ifel si è concentrata su “Appalti, Contratti ed Investimenti”. Poco meno del 40% dei webinar ha affrontato questioni ed approfondimenti legati a tale tematica. In particolare, degli 82 webinar realizzati, 49 sono stati erogati nell’ambito della Pnrr Academy. I webinar incentrati sulle novità normative in materia di personale comunale e di lavoro agile hanno avuto un’ampia diffusione: sebbene rappresentino il 10% del totale dei webinar erogati da Ifel, i partecipanti sono poco meno di un quinto del totale dei discenti.

Ma non è stata l’unica risorsa messa in campo. La stessa Corte dei conti sottolinea come per raggiungere l’obiettivo di aiutare i comuni si sia cercato di fare accordi con Invitalia e Ministero dell’economia e delle finanze, ma questi in gran parte sono naufragati. È stato così aperto il portale Italia Domani, che nei prossimi mesi verrà passato al setaccio da parte della Corte dei conti.

CREDITI

Autori

Andrea Ballone

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

The Good Lobby

Foto di copertina

L’inaugurazione del “Governo Meloni” con i suoi 24 rappresentanti nella foto ufficiale di ottobre 2022
(Antonio Masiello/Getty)

Quel pasticcio brutto sulla revisione della geografia giudiziaria

04 Febbraio 2022 | di Andrea Ballone

Che il risparmio sarebbe stato inferiore a quello previsto dal governo, il consiglio dell’Ordine nazionale forense (Cnf) l’aveva detto in un dossier già nel 2013 con l’allora presidente Guido Alpa. Ma che la chiusura di trentuno tribunali voluta nel 2012 dal governo Monti avrebbe portato risparmi prossimi allo zero lo sappiamo soltanto oggi. Quelli sicuri sono invece i disagi, per i molti comuni che a distanza di anni si trovano senza un presidio di legalità sul territorio. Tant’è che in più di un’occasione si è ipotizzata anche una retromarcia o una soluzione di mezzo, con l’apertura di sportelli di prossimità oppure il presidio del Giudice di pace, soluzioni che in alcuni centri sono state adottate, ma a ulteriori spese delle municipalità.

La cosiddetta riforma della geografia giudiziaria a oggi ha comportato più problemi che vantaggi per lo Stato. Come era stato in parte anticipato proprio da quel dossier dell’Ordine nazionale forense che contestava le cifre fornite dall’allora governo Monti. «Fin da quando è stata approvata la Manovra, che ha conferito la delega al Governo per la revisione della geografia giudiziaria, il Cnf ha sostenuto la necessità che i cittadini possano usufruire di una giustizia di prossimità efficiente e razionale e ha sempre rilevato che per affrontare una questione così importante è necessario disporre di tutti i dati e i numeri utili», scriveva allora Guido Alpa, presidente del Cnf e mentore di Giuseppe Conte, che sarebbe diventato presidente del consiglio di lì a qualche anno

I numeri parlavano chiaro anni fa

E fu proprio l’organismo che allora presiedeva a fornirglieli. L’allarme lanciato dall’Avvocatura partiva da uno studio complesso sui flussi dei procedimenti giudiziari e sui costi (raccolti direttamente sul territorio dalle commissioni di manutenzione stante il silenzio dell’amministrazione centrale, al netto delle spese del personale) di 48 tribunali sub-provinciali sui 57 in odore di soppressione, poi ridotti a una trentina nella realtà, cosa che ha causato un risparmio ancora inferiore rispetto a quello preventivato dal governo Monti. Il risultato di quello studio contestò le cifre del governo. «Contro gli 80 milioni di risparmio stimati dal ministero della giustizia, – diceva – a fronte della eventuale chiusura di 48 tribunali sub-provinciali (su 57 in totale) e 160 sezione distaccate, il risparmio reale sarebbe di poco più di 41 milioni, (sommando i circa 25 milioni di euro derivanti dalla soppressione di 48 tribunali ed i circa 16 milioni derivanti dalla soppressione delle sezioni distaccate)».

In realtà il numero dei tribunali soppressi realmente sarà ancora inferiore perché il governo ha deciso di salvarne alcuni già designati per una chiusura. In tutto, i tribunali che a oggi non esistono più sono 28. «Volendo calcolare il risparmio relativo alla chiusura dei 37 tribunali, – continuava il dossier – individuati applicando i criteri legislativi previsti dalla delega n. 148/2011, il risparmio sarebbe di 17 milioni, al quale andrebbero sommati i circa 16 milioni relativi alle 160 sezioni distaccate, per un totale di circa 33 milioni di euro (cioè 37 tribunali e 160 sezioni distaccate, ndr). Cifra sempre ben lontana dalla stime governative».

Dai calcoli del governo mancavano inoltre ulteriori costi aggiuntivi derivanti dalle chiusure delle strutture, come gli investimenti necessari per garantire il passaggio di personale e attività ai tribunali provinciali. Uno studio condotto sulle 4 sezioni distaccate del tribunale di Trento ha fatto anche emergere che a fronte di un costo attuale-strutturale di 90 mila euro (dunque di possibile risparmio) la collettività (cittadini e personale giudiziario) spenderebbe circa due milioni e mezzo di euro in termini di spostamenti per raggiungere le sedi giudiziarie.

Tante proposte, ma nessuna riforma della geografia giudiziaria

Quando l’allievo prediletto di Alpa è arrivato al governo non ha avuto nemmeno il tempo di mettere mano a una riforma della geografia giudiziaria che riportasse indietro l’orologio di circa 10 anni, riportando le sedi distaccate nei centri che le richiedono. Da almeno due anni giacciono due disegni di legge per annullare gli effetti delle soppressioni. Nella scorsa legislatura il parlamento si è impegnato con la commissione Vietti, istituita nell’agosto del 2015, a mettere mano alla riforma giudiziaria. Tale commissione avrebbe dovuto predisporre un progetto di riforma relativo «allo sviluppo del processo di revisione della geografia giudiziaria, attraverso una riorganizzazione della distribuzione sul territorio delle corti di appello e delle procure generali presso le corti di appello, dei tribunali ordinari e delle procure della Repubblica ed una collegata promozione del valore della specializzazione nella ripartizione delle competenze».

Tribunali soppressi

L’elenco dei 30 tribunali accorpati rispetto ai 37 inizialmente preventivati dal governo Monti

La Commissione ha concluso i propri lavori con l’elaborazione di un testo a cui nessuno dei governi che si sono succeduti in questi anni (Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi) ha dato seguito. Gli stessi parlamentari che hanno redatto il documento escludono che le proposte possano essere approvate anche in questa legislatura, destinata a concludersi nel marzo del 2023. Dunque in commissione Giustizia c’è già chi considera rimandata la pratica. In sostanza l’Italia dei comuni ha prevalso, con deputati e senatori che promettono alle cene e agli eventi degli ordini degli avvocati di impegnarsi per la riapertura del singolo tribunale. Intanto dopo dieci anni si scopre che la riforma della geografia giudiziaria, specialmente nei tribunali di provincia ha contribuito a rallentare i tempi della giustizia, ingolfando ulteriormente le stanze dei palazzi di giustizia e spesso facendo lievitare le parcelle degli avvocati, che caricano le spese sui clienti, o al contrario sono costretti a ridurre i propri margini di guadagno.

A farne le spese è comunque la Giustizia. A distanza di anni quindi la montagna ha partorito il topolino, ma anche molti disagi per l’utenza, e l’Italia è costellata di situazioni rimaste a metà, i cui costi vanno spesso a incidere sugli enti locali, che già devono patire il disagio di non avere un tribunale. In molti posti soluzioni e impieghi alternativi delle strutture che ospitavano i palazzi di giustizia sono arrivati con molti anni di ritardo.

I palazzi di giustizia rimangono vuoti, ma i comuni pagano

È il caso di Acqui Terme in provincia di Alessandria, dove dal 2020 ha la sua sede l’ufficio servizi sociali. Per permettere il trasferimento dell’ufficio l’amministrazione comunale nel 2018 ha dovuto finanziare dei lavori di sistemazione e adattamento. Fino al 2018 la struttura ha ospitato l’archivio e il ministero della giustizia ha continuato a pagare l’affitto. Vanificando ogni possibile risparmio.

Una situazione simile si è verificata a Chiavari a pochi passi da Genova, con la differenza che il tribunale ligure è stato chiuso poco dopo la sua costruzione, che alla comunità è costata 4 milioni di euro. Da un anno è tornato l’ufficio di prossimità, ma nella vecchia struttura, per buona parte ancora inutilizzata, ci sono ancora i faldoni. Al comune di Chiavari se si chiede conto del risparmio sorridono in modo amaro e commentano: «Per lo stato il risparmio c’è stato: siamo noi che paghiamo».

Ci sono poi situazioni che risultano bloccate da anni, come quella del tribunale di Lucera, in provincia di Foggia. Nel 2013 infatti il ministero ha accolto l’istanza, concedendo al tribunale di Foggia l’utilizzo degli immobili già sede del tribunale soppresso per un periodo di 5 anni. Il Comune di Lucera ha più volte manifestato l’intenzione di rinnovare la concessione gratuita al Ministero e di voler investire un milione di euro per lavori di manutenzione straordinaria e adeguamento alle normative nel caso in cui l’edificio divenisse la sede della sezione Lavoro del Tribunale di Foggia o sede di una sezione distaccata di quest’ultimo. Al momento però non si svolge alcuna attività giudiziaria e Lucera è soltanto un supporto di natura logistica di tipo archivistico, al quale fanno riferimento anche le ex sedi distaccate di Ange, San Severo, Apricena e Lodi Garganico. Le manutenzioni da effettuare negli anni sono aumentate, come segnala il locale comitato per la riapertura, perchè ci sono continue infiltrazioni di acqua, che danneggiano non soltanto il bene, ma anche i fascicoli stessi. I danni finiscono in capo al comune di Lucera, che si è detto disponibile a investire fino a un milione di euro per sistemare l’immobile se ci fosse la possibilità di avere un tribunale per il lavoro.

Sorte simile è toccata a Melfi in Basilicata, dove il palazzo di giustizia svolge ormai la funzione di archivio. I costi di gestione del tribunale ammontano a circa 200 mila euro annui ai quali si devono sommare i soldi spesi per l’accorpamento del tribunale di Melfi con quello di Potenza e quelle per lo spostamento continuo dei fascicoli poiché tutto l’archivio, dal 1860 ad oggi, si trova ancora a Melfi.

In alcuni casi la chiusura è stata di fatto un pro forma. Montepulciano è stato accorpato a Siena e gli edifici che ospitavano il tribunale sono stati utilizzati come archivio fino al 2015. Dopo di che il Comune ha chiesto al ministero di potervi trasferire degli uffici giudiziari, tra i quali l’ufficio del Giudice di pace, che pagava un affitto di 122 mila euro annui a un privato. Gli uffici giudiziari non si trovano però nel vecchio tribunale ma in un edificio di proprietà di privati per la cui sistemazione il comune ha speso 250 mila euro (che si sommano ai 150 mila euro spesi dal proprietario), e ogni anno corrisponde un canone d’affitto di 280 mila euro per i primi cinque anni e 230 mila a seguire, salvo adeguamenti.

Dove invece non ci si aspettava la chiusura del tribunale è Pinerolo. La città piemontese infatti aveva da poco effettuato cospicui investimenti per rimettere a nuovo le stanze del palazzo di giustizia, che è di proprietà comunale. La maggior parte degli ex palazzi di giustizia infatti sono di proprietà delle amministrazioni locali, che spesso si trovano a dover affrontare delle spese per costruzioni che giacciono inutilizzate.

«A Rossano Calabro – spiega l’avvocato Teresa Madeo, che è a capo del comitato per la riapertura del tribunale – l’edificio è di proprietà del Comune, ma in questo momento è inutilizzato. Formalmente è ancora in consegna al tribunale di Castrovillari e ospita l’archivio storico. Non c’è manutenzione né controllo e nemmeno viene pagato un affitto. Il tribunale costava 400 mila euro l’anno, ma non c’è un grande risparmio, perché i lavoratori che vi sono stati trasferiti lavorano a più di un’ora di strada e a loro viene pagata la trasferta».

A Saluzzo in provincia di Cuneo dal capo opposto della penisola c’è un situazione simile. Per alcuni lavori di ristrutturazione il ministero aveva sottoscritto un mutuo fino al 2035, ma l’immobile è tornato al Comune, che ne è proprietario, solo nel 2020. Il ministero ha continuato a pagare le spese per tutto il palazzo, che sono comprensive di riscaldamento centralizzato, Tari e Tasi. Ora che è tornato nella disponibilità dell’amministrazione comunale, questa dovrà spendere altri soldi per alcuni interventi.

In tutta Italia si sono attivati comitati locali, spesso spalleggiati dalla politica, che promette il ritorno della giustizia di prossimità sul territorio. Nelle pieghe dei palazzi romani qualcuno ha trovato la strada per riuscire a ottenere il proprio piccolo presidio, ma la maggior parte degli ex tribunali oggi vive in un limbo. È il caso di Alba dove su uno stabile di recente costruzione grava ancora il vincolo dell’impiego come ufficio giudiziario. Ospita infatti un Giudice di pace e la sede dell’Inail per un bacino d’utenza di 211 mila persone, che devono rivolgersi per i processi a un’altra sede.

A Mistretta, piccola località siciliana in provincia di Messina, i locali sono rimasti a disposizione del ministero della giustizia, ma le spese sono a carico del Comune, attualmente le vecchie aule di giustizia ospitano il Giudice di pace. Fino a qualche anno fa lo stato forniva un contributo, ma non essendo previsto il Giudice di pace, questo contributo non arriva più. «Il problema – spiega l’avvocato Liborio Poracciolo, a capo del comitato per la riapertura – è che il tribunale più vicino si trova a 100 chilometri di distanza e i testimoni ci devono andare a spese proprie. Non essendoci mezzi di trasporto che collegano i due centri, devono anche pagarsi l’albergo».

Palazzi di giustizia che chiedono solo di essere usati

Ci sono poi una serie di località dove le ex aule di tribunale giacciono inutilizzate e i comitati formati da avvocati del luogo, assieme ai sindaci, da tempo chiedono che possano essere riutilizzate. Tra questi ci sono Sala Consilina, Sant’Angelo dei Lombardi, Vigevano e Modica in Sicilia, dove ogni anno si spendono centinaia di migliaia di euro per affittare locali, inadeguati, per sistemare alla meglio impiegati, forze dell’ordine, ufficiali giudiziari.

In alcuni casi, anche se anni dopo, le aule tornano però a essere utilizzate. Ad Ariano Irpino c’è il Giudice di pace e l’Agenzia delle entrate, a Bassano del Grappa e a Casale uno sportello di prossimità, come a Tolmezzo dove provvisoriamente si ospita ancora una scuola. A Tortona è tornato nelle disponibilità del Comune, a Voghera invece dal 2022 ci andrà il centro per l’impiego, mentre a Crema è stato usato come hub vaccinale. E poi ci sono i tribunali per i quali non si è ancora concluso l’iter di soppressione. Sono quelli di Avezzano, Lanciano, Vasto, Urbino e Sulmona che sono ancora in attesa e per i quali i comitati locali pochi giorni fa hanno chiesto un’ulteriore proroga. Anche Camerino era in attesa di una destinazione, ma ci ha pensato prima la natura: è stato demolito, a causa dei danni dovuti al terremoto del 2015.

Foto: Stefano Guidi/Getty
Infografiche: Lorenzo Bodrero
Editing: Luca Rinaldi