Sardegna fantasma

24 Marzo 2023 | di Giacomo Zandonini

Sagre di paese, installazioni fotografiche, festival letterari, incentivi fiscali, e ancora: abitazioni in svendita, turismo esperienziale, pranzi comunitari. Da un decennio a questa parte, gli amministratori locali sardi, come prestigiatori, estraggono dal cilindro soluzioni e proposte per combattere la rapida desertificazione demografica dell’isola e attrarre turisti, lavoratori e nuovi residenti.

Nel 2014, l’allora sindaco di Tula, vendeva il borgo come fosse un paradiso fiscale. «Addio escamotage bancari e atolli oceanici, la soluzione è Tula», scriveva ironicamente il Comune, lanciando la campagna Vieni a vivere qui. Oltre a sgravi fiscali sulla proprietà delle seconde case e a un sostegno per trovare alloggio, il centro dell’entroterra sassarese offriva un generoso bonus bebè per i genitori di bambini nati nel Comune, sfruttando gli introiti di un vicino parco eolico.

Tra le proposte anti-spopolamento che più hanno riscontrato interesse, ben al di fuori della Sardegna, c’è poi la vendita di case alla cifra simbolica di un euro, proposta nel 2016 dai comuni di Nulvi e Ollolai, nel centro-nord dell’isola. La lunga lista di iniziative – a cui di recente si è aggiunto un Happy Village, borgo fatto a misura per pensionati abbienti, a Fluminimaggiore – testimonia sia la crescente urgenza del tema, sia il suo recente ingresso nel marketing politico.

In questo senso, non sono mancate le forzature: nel 2018, la giunta regionale di centro-sinistra, guidata da Francesco Pigliaru, presentava come antidoto uno stanziamento straordinario di 20 milioni di euro per dotare i piccoli comuni di videocamere di sorveglianza. Poco dopo, l’attuale presidente della Regione e già segretario del Partito Sardo d’Azione, Christian Solinas, riportava il governo regionale nelle mani del centrodestra facendo appello a una rinnovata identità sarda e impegnandosi ad affrontare i problemi del mondo rurale, ovvero di quelle centinaia di piccoli Comuni la cui popolazione si riduce costantemente da anni.

Trainato da un’alleanza allora vincente con la Lega Nord di Matteo Salvini, Solinas aveva sconfitto il Partito Democratico soprattutto nell’entroterra, dove le riforme della giunta precedente erano state spesso vissute come un ennesimo taglio di risorse. L’abolizione delle pluriclassi, cioè quelle classi che riuniscono alunni di età e gradi diversi, aveva penalizzato per esempio gli istituti d’istruzione periferici, costringendo a chiudere alcune sedi. La razionalizzazione del sistema sanitario introdotta dal centro-sinistra, aveva portato invece al taglio di servizi essenziali in aree poco abitate.

La lotta allo spopolamento diventa quindi un tema di consenso, tanto che nel 2022, chiusa la fase emergenziale della pandemia da Covid-19, Solinas e la sua giunta presentano una manovra finanziaria che «per la prima volta mette in campo risorse vere e certe necessarie affinché la Sardegna possa combattere con forza e decisione lo spopolamento dei territori e l’isolamento», secondo le parole del presidente.

Le tre misure al centro del piano presentato dalla giunta sembrano voler mettere a sistema alcune delle iniziative ideate nell’ultimo decennio da sindaci, consorzi e associazioni locali: offrire incentivi economici per chi trasferisce la residenza, erogare prolungati bonus bebè e prevedere sgravi fiscali per aziende e professionisti che trasferiscono la propria sede e assumono personale in loco. Obiettivo degli interventi è attrarre nuovi residenti e trattenere chi già vive nei 275 comuni – su 377 totali nella regione – con meno di tremila abitanti.

Il progetto

All’interno della serie #LisolaCheNonCePiù sullo spopolamento delle isole europee, realizzata con la testata irlandese Noteworthy e il media d’inchiesta scozzese The Ferret, IrpiMedia è stata in due luoghi-simbolo del tentativo di arginare lo svuotamento dell’entroterra sardo: il Comune di Baradili, che con i suoi 78 residenti – a inizio 2023 – è il più piccolo dell’isola, e quello di Ollolai, che a partire dal 2016 ha ricevuto migliaia di richieste di potenziali nuovi residenti, dall’Australia al Canada passando per il Medio Oriente, incuriositi dalle case in vendita a un euro.

I Comuni in estinzione

Tra i primi a suonare un campanello d’allarme sulla demografia dell’isola, nel 2013, sono due sociologi sardi, Gianfranco Bottazzi e Giuseppe Puggioni, il cui studio sui Comuni in estizione contribuisce a portare il tema dello spopolamento nel dibattito pubblico. Il rapporto parte da un dato: tra il 1951 e il 2011, il 60% dei Comuni sardi ha perso popolazione e, per un terzo di questi, il decremento è stato superiore al 40%.

Costruendo statisticamente un indice di malessere demografico, basato su tendenze passate, e realizzando delle proiezioni, Bottazzi e Puggioni ritengono che, entro il 2086, la popolazione di 31 comuni sardi potrebbe azzerarsi. La scomparsa di Semestene (provincia di Sassari), il primo della lista, era prevista per il 2025, ma sembra finora rimandata. In un decennio, il Comune ha comunque perso un quarto dei suoi abitanti – da 171 nel 2011 a 129 a fine 2022 – e da anni la linea di telefonia mobile funziona a stento, a sottolineare una cronica mancanza d’investimenti, tanto pubblici quanto privati.

Bottazzi, ordinario all’Università di Cagliari, spiega che «per lo studio del 2013 abbiamo usato una tecnica giornalistica, forzando la mano per ottenere un effetto shock». Lo spopolamento della Sardegna, continua, «era oggetto di studio già dagli anni Novanta, quando ancora si poteva invertire la tendenza, ma per anni nessuno sembrava darci peso, a livello politico». Il titolo sensazionalistico del rapporto sembra funzionare, tanto che pochi anni dopo, un collettivo di architetti e urbanisti, Sardarch, pubblica il volume Spop, istantanea dello spopolamento in Sardegna, raccontando – paese per paese – quei 31 comuni a rischio di estinzione. Altri gridi d’allarme scuotono l’opinione pubblica sarda negli ultimi anni, innestandosi sulla popolarità dello studio del 2013. Guardando oltre agli allarmismi, i dati mostrano però una regione che invecchia e perde popolazione più rapidamente di altre aree in Italia e in Europa.

Popolazione in declino

In Sardegna il tasso di decrescita della popolazione è doppio rispetto a quello nazionale

Tra il 2011 e il 2022, si passa da 1,656 milioni a 1,577 milioni di abitanti, oltre 60 mila in meno. In un solo anno, tra il 2019 e il 2020, complice anche la pandemia di Covid-19, il numero di residenti scende di 21 mila unità. L’indice di vecchiaia, che mostra il rapporto tra abitanti nella fascia d’età 0-14 anni e chi ne ha più di 65, è uno dei più alti d’Italia. In più di 300 Comuni supera il 200%, arrivando a toccare il 400% in alcuni centri. E mentre l’età media cresce, la popolazione giovane si riduce. Se nel 2019 la Società Italiana di Pediatria metteva in guardia rispetto alla discesa sotto le 10 mila nascite all’anno in Sardegna, la soglia è oltrepassata già nello stesso anno. A inizio 2023, l’Istat ricorda infine come la Sardegna registri il dato più basso di nuovi nati tra le regioni italiane – 4,9 ogni mille abitanti – ben al di sotto di una media nazionale di 6,7. Nel 2050, titolava a dicembre 2022 il quotidiano La Nuova Sardegna, sarà «l’isola dei pensionati».

La tendenza sembra dominare il panorama regionale, con poche eccezioni. La decrescita è più ridotta nella provincia di Cagliari, la più urbanizzata dell’isola, e in alcune aree costiere, mentre pochi comuni vedono la propria popolazione salire. Tra i centri di medie dimensioni, per esempio, quelli di Arzachena e Olbia guadagnano abitanti, grazie all’indotto del fiorente mercato turistico della Costa Smeralda così come alla recente crescita della componente straniera della popolazione, che qui tocca il 10% degli abitanti, mentre la media regionale è del 3,2%.

Nuovi nati

Il calo di natalità in Sardegna è molto più accentuato rispetto alla media nazionale: sull’isola, nel 2021 sono nati 8.232 bambini contro i 12.650 del 2011

Il sociologo Bottazzi sostiene però che quelle della legge di bilancio 2022, finanziate anche nel 2023, «non sono vere misure anti-spopolamento, ma programmi costosi e poco efficaci». Il contributo – fino a 15 mila euro – per chi acquista o rinnova casa, trasferendosi in un piccolo comune per almeno cinque anni, non affronta una mancanza strutturale di servizi, sostiene il docente. «Pur essendoci degli incentivi, chi si trasferirebbe in un paese in cui non c’è la farmacia, manca il medico, la scuola è lontana?», si chiede Bottazzi.

Della stessa opinione, seppur più cauto, è il consigliere regionale Francesco Agus, all’opposizione con la lista Campo Progressista. Per Agus, «sono soldi che arriveranno a pioggia e qualcuno ne beneficerà, ma fino a fine 2022 non era stato speso un euro». A febbraio 2023 la Regione ha fatto sapere che 1.400 famiglie, residenti in comuni con meno di tremila abitanti, hanno ottenuto il bonus bebè, un mini salario di 600 euro al mese per il primo figlio e 400 per i successivi, che la Regione si è impegnata a corrispondere fino al quinto compleanno dei bambini, stanziando per il momento 106 milioni di euro per tre annualità. La norma si pone come obiettivo di incrementare del 20% le nascite, ma per il momento non si sa quanti tra i beneficiari si siano trasferiti nei piccoli comuni perchè incentivati proprio dal nuovo sussidio.

Call of Duty a Baradili

A Baradili (provincia di Oristano), il Comune meno abitato della Sardegna e tra i 31 a rischio estinzione, secondo lo studio di Bottazzi e Puggioni, l’amministrazione ha cercato di attrarre nuovi abitanti tramite dei contributi per l’acquisto di terreni edificabili, fino a 10 mila euro a famiglia stanziati già dal 2018, e ha sostenuto con 30 mila euro la costruzione di una piccola falegnameria industriale, che impiega giovani del paese e di quelli circostanti.

Marianna Camedda, la sindaca, conosce uno per uno i 78 abitanti, comprese le tre famiglie insediatesi negli ultimi anni nei terreni edificabili di proprietà del Comune. Fermo al centro della piana dell’Alta Marmilla, tra le due giare – termine che indica altipiani basaltici – di Gesturi e Serri, Baradili è un reticolo di poche strade, che si prolungano verso la campagna, puntellata da uliveti e mandorli. La popolazione qui era esplosa nel XVIII secolo per poi decrescere senza sosta, con un ultimo esodo nel secondo Dopoguerra. «Ci si spostava verso la costa, lasciando agricoltura e pastorizia per diventare operai a Cagliari, con un sentimento di riscatto ma anche di vergogna verso le origini paesane», spiega Camedda. Settant’anni fa, i residenti erano circa 200.

Il sindaco di Baradili, Maria Anna Camedda. Nell’ultimo decennio il comune ha implementato diverse progetti volti ad arrestare lo spopolamento del comune – Foto: Daniela Sala

Accanto alle antiche case in stile campidanese del centro storico, il paese ospita tre pizzerie – una delle quali è aperta tutto l’anno e gestisce una scuola di cucina – un piccolo parco acquatico che impiega una dozzina di giovani nella stagione estiva, un pastificio artigianale e un vivaio. Per bar, scuole, farmacie, banche, uffici postali bisogna prendere l’auto e arrivare nei paesi vicini o nel capoluogo di provincia, Oristano. L’unico alimentari ha chiuso nel 2010 e il medico di base non è più attivo dal 2019. Tra i progetti lanciati dal Comune per arginare lo spopolamento, c’è un percorso con una società di consulenza di Oristano, Nabui, che nel 2019 ha proposto di formare un ambasciatore di comunità, scelto tra i giovani del paese, per facilitare le relazioni tra residenti e capirne i bisogni.

Stefano Piras, che a 22 anni lavora come fornaio nella vicina Baressa e dal 2020 è ambasciatore di comunità, racconta con entusiasmo come, in piena pandemia, i pochi giovani di Baradili siano riusciti a portare migliaia di persone in paese, per lo meno virtualmente. Tra 2020 e 2021, insieme alla società Nabui, hanno infatti promosso dei tornei di e-sport, lo sport su piattaforme online. «C’erano milioni di persone online in quel periodo e così abbiamo deciso di fare un torneo qui, nel paese più piccolo della Sardegna», racconta. La sfida di Call of Duty: Warzone, popolare gioco di combattimento, a cui ha preso parte anche uno dei campioni mondiali, registra quasi 80 mila spettatori, tutti online ma ospitati virtualmente a Baradili. Il sogno, spiega Piras, è aprire una sede fisica, con postazioni di gioco, per fare del paese un riferimento per i cosiddetti e-tournaments che, ricorda l’ambasciatore, potrebbero presto diventare discipline olimpiche.

La modalità di gioco scelta per il torneo si chiama Island Rebirth, ovvero la rinascita dell’isola. Se i videogiochi possono rappresentare un inedito collante sociale in una comunità minuscola, a preoccupare l’amministrazione è però la mancanza di servizi di base, che accelera l’esodo. «Ci sono politiche che non si materializzano, amplificando la sensazione di essere un’isola dentro un’isola, lontano da tutti», dice la sindaca Camedda.

A deludere è stata soprattutto la Strategia nazionale aree interne (Snai), nata nel 2013, su spinta dell’Unione europea, per rispondere ai bisogni delle zone più remote d’Italia, dalle valli alpine e appenniniche alle campagne del centro-sud, con un approccio strutturale, intervenendo cioè su servizi mancanti, spesso chiusi per tagliare le spese. Quattro le aree di intervento: sanità, istruzione, trasporti e sviluppo locale.

Per la Sardegna, proprio l’Alta Marmilla, il territorio attorno a Baradili, è scelta come “area prototipo” in cui sperimentare l’uso dei nuovi fondi, gestiti dalla Regione e da diversi ministeri, come parte della Politica di coesione dell’Unione europea. Per Baradili e gli altri 18 paesi dell’Unione dei Comuni dell’Alta Marmilla, è un’occasione unica per evitare, in extremis, una «resa incondizionata» allo spopolamento, come riportato nel documento di adozione della Strategia.

Tra la scelta dell’Alta Marmilla nel 2014, la trasmissione di un documento di Strategia d’area nel 2017 e l’adozione di un Accordo Quadro di Programma con il governo nazionale, nel 2019, nessun progetto prende però il via per anni. I primi, timidi segnali e il via libera ad alcuni stanziamenti arrivano all’inizio del 2023. «Abbiamo elaborato le proposte per la Snai quasi dieci anni fa e ora che finalmente prendono il via, si basano su analisi e indicatori già superati», sostiene Marianna Camedda. Dei 15 milioni di euro impegnati, 6,5 provengono dal Piano straordinario di edilizia scolastica della Regione, lanciato nel 2015, e servono ad accentrare in due poli scolastici il sistema d’istruzione dell’Alta Marmilla, evitando che gli alunni debbano muoversi tra quattro comuni, come avviene oggi. «Da quando il progetto è stato proposto, nel 2015, il numero di alunni è crollato, da oltre 500 a circa 420 in tutta l’Alta Marmilla, numeri che potranno ancora abbassarsi quando i lavori saranno terminati», spiega Camedda.

Nessuna traccia, per ora, degli interventi per migliorare l’accesso alla salute previsti dalla Strategia, come la costruzione di un ambulatorio specialistico con posti letto per degenze medio-lunghe. Per chi ha bisogno di cure specialistiche, spesso l’unica soluzione è andare in ospedale a Cagliari e a Oristano. «Mancano infermieri e specialisti e i pochi medici di base rimasti non sono incentivati a restare: per curarsi qui servono tanti soldi, altrettanta fortuna e un’automobile», spiega Camedda. Nel 2022, l’Unione dei Comuni dell’Alta Marmilla ha partecipato a un bando del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) riservato a Comuni e consorzi delle aree interne, per finanziare degli infermieri di comunità, a cui l’Unione è stata ammessa in riserva, ovvero senza copertura finanziaria. «Il problema del Pnrr – spiega la sindaca – è che introduce una competizione tra territori che hanno, tutti, bisogno di interventi rapidi: sembra un’occasione sprecata, lontana dai bisogni delle comunità».

I ritardi nell’adozione delle misure della Snai sembrano essere riconducibili a una serie di imbuti amministrativi, nel passaggio dai decisori locali a quelli nazionali. La relazione annuale sull’implementazione della Strategia, che il governo è tenuto a presentare ogni anno al Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile, e potrebbe aiutare a capire ritardi e ostacoli, non è pubblicata dal 2020. Nel frattempo, altre tre aree interne della Sardegna sono state inserite nella Snai, che è stata rinnovata per il periodo 2021-2027: il Gennargentu-Mandrolisai, la valle del Cedrino e la Barbagia. Un totale di 24 milioni di euro, da distribuire sui quattro territori.

Il Sacro Graal delle politiche antispopolamento

Per Camedda come per altri amministratori dell’Alta Marmilla, l’idea di vendere le case a un euro non è che uno spot pubblicitario. «È segno di un legame con il territorio che si è perso: se vendi le case a un euro, a quanto vendi un intero quartiere?», dice la sindaca. A un’ora e mezza di auto da Baradili, il Comune di Ollolai ha puntato invece proprio su questa idea, lanciata nel 2016, sulla scia di un’iniziativa che ha attirato diversi piccoli comuni sparsi nel centro-sud d’Italia: la messa in vendita di case semi-abbandonate a un euro, proposta nel 2009 dalla giunta di Salemi, in Sicilia, allora guidata dal critico d’arte Vittorio Sgarbi.

A Ollolai, 1.200 abitanti distribuiti tra i vicoli e le campagne di quella che un tempo era considerata la capitale della zona montuosa della Barbagia, in provincia di Nuoro, l’esodo degli abitanti, dagli anni Cinquanta ad oggi, ha quasi dimezzato la popolazione. «I nostri emigranti hanno creato piccole Ollolai in tutto il mondo e oggi i 2.300 abitanti degli anni Sessanta sono un ricordo lontanissimo», spiega l’ex sindaco, Efisio Arbau.

Arbau, un avvocato che si sveglia prima dell’alba per occuparsi del suo ovile, come da tradizione di famiglia, ha lanciato il progetto delle case a un euro, racconta «come un volano per migliorare la qualità della vita delle persone, non necessariamente per attrarre nuovi residenti». D’altra parte, aggiunge, «la ricetta contro lo spopolamento è come il Sacro Graal: è utile cercarla anche se in realtà non esiste». Problema fondamentale è l’abbandono del patrimonio abitativo, che riguarda spesso i centri storici. In tutta la Sardegna, secondo stime dell’Istat relative al 2021, il 28% del patrimonio, composto da circa 920 mila case, non è utilizzato. Solo nel 2018, la Regione ha deciso di stanziare 25 milioni di euro per «il recupero e la riqualificazione del patrimonio immobiliare privato».

A Ollolai, la giunta comunale guidata da Arbau ha individuato 150 abitazioni «diroccate ma potenzialmente utilizzabili», 17 delle quali poi sono effettivamente entrate nell’orbita del progetto. Dal 2016 al 2018, anno di chiusura di una prima fase di “case a un euro”, il Comune riceve più di duemila richieste d’informazione, in diverse lingue, e protocolla centinaia di domande di acquisto.

Nel 2018, quando entrano nel vivo i primi interventi di riqualificazione delle case acquistate, Ollolai diventa, per una breve stagione estiva, un polo di attrazione turistico e mediatico. Vito Casula, un costruttore sardo che è il primo acquirente di una casa a un euro, racconta di essere stato «intervistato dai media di mezzo mondo, dal Washington Post a canali televisivi australiani: a un certo punto ho dovuto dire basta».

A sancire il successo mediatico della proposta è Het italiansee dorp: Ollolai (Il villaggio italiano: Ollolai), un reality show girato interamente in paese e mandato in onda quotidianamente per sei mesi dal quarto canale della TV olandese RTL. Il programma seguiva cinque coppie olandesi, scelte da una giuria popolare di Ollolai, che dovevano ristrutturare un alloggio e relazionarsi con la comunità locale. Oltre alle 25 persone della troupe, nell’estate 2018 Ollolai è invasa da turisti dei Paesi Bassi, incuriositi dal programma.

Per i concorrenti dello show olandese, come per gli altri acquirenti, il sogno di una casa a basso prezzo in un paese immerso nella natura, si scontra – forse inevitabilmente – con diversi ostacoli. Le ristrutturazioni si rivelano più costose dei 25 mila euro per alloggio che il Comune aveva stimato e l’idea di avviare nuove attività lavorative in loco è complessa, anche per il limitato afflusso di turisti.

I giovani vincitori del reality show olandese, Marije Graafsna e Ovan Abdullah, spiegano che il progetto del comune di Ollolai «ha creato un’offerta a cui non sono stati in grado di rispondere». Tra ostacoli linguistici, una «burocrazia da incubo» e lavori di ricostruzione più lunghi e costosi del previsto, per una spesa finale di 150 mila euro, la coppia ha deciso nel 2019 di abbandonare il paese, lasciando la proprietà della casa al canale televisivo olandese. Dietro il successo mediatico, che – spiega l’ex sindaco Arbau, «ha fatto sentire meno sola la nostra comunità, ci ha dato autostima» – c’è insomma la difficoltà ad affrontare lavori costosi, in contesti che non si conoscono.

Un graffito che celebra il legame tra l’Olanda e il comune di Ollolai dove nel 2018 il canale televisivo RTL ha girato un reality show – Foto: Daniela Sala

Invece che portare nuovi residenti, le otto case che sono state effettivamente ristrutturate a fine 2022 sono usate oggi come abitazioni per le vacanze o bed and breakfast. Nonostante le esitazioni della prima fase dell’iniziativa, in Comune difendono l’approccio di Arbau, che ha portato a nuovi finanziamenti: 2,1 milioni di euro sono arrivati nel 2019 per un Programma integrato di riordino urbano che parte dall’esperienza delle case a un euro, proponendo un percorso partecipato e gestito, in gran parte, dalla Cooperativa di comunità di Ollolai, nata nel 2020.

Al posto delle case a un euro, il nuovo Programma prevede degli affitti a un euro e dei luoghi di lavoro a un euro. La Cooperativa fa da mediatrice tra proprietari e fruitori, mettendo a disposizione case e spazi a costo zero, per chi vuole trasferirsi nel Comune ma anche avviarvi un’attività d’impresa. Nodo centrale sembra sempre essere l’assenza di servizi. Tramite i fondi regionali, amministrati dalla Cooperativa di comunità, nel dicembre 2021 è stato aperto il primo servizio per bambini tra zero e tre anni. Non un asilo ma una ludoteca, che a fine 2022 era frequentata da nove bambini. La sanità sembra emergere come uno degli aspetti più critici del territorio. Sono tre i medici di medicina generale che servono Ollolai per alcune ore alla settimana. Due di questi hanno già superato l’età pensionabile.

In un normale giorno di visite, il dottor Giuseppe Mastio vede fino a cento pazienti. «Sono spesso sette giorni su sette, per dieci-dodici ore al giorno», spiega Mastio, che a quasi 68 anni sperava di essere già in pensione. Un quarto dei suoi 1.500 pazienti ufficiali, il numero massimo consentito dalla legge regionale, è composto da ultra-settantacinquenni, spesso con problematiche complesse. A loro si aggiungono gli almeno 2.500 pazienti, secondo le stime di Mastio, rimasti senza un medico di base nei comuni vicini di Sarule, Olzai e Ottana.
«Siamo abbandonati e il primo ospedale è a 80 chilometri di curve da qui», lamenta il medico.

La sorte degli abitanti di Ollolai, come quella di gran parte degli abitanti dell’entroterra sardo, sembra essere sospesa tra lotta e fuga, come suggerito dalle biografie di due tra i cittadini più illustri della capitale della Barbagia: l’ex sindaco e quadro del Partito Sardo d’Azione Michele Columbu e il campione del mondo di bodybuilding Francesco Columbu. L’effige del primo campeggia nelle sale del Comune, ricordando una lunga marcia verso Cagliari che il politico aveva compiuto da solo nel 1965, per denunciare l’assoluta marginalità a cui il governo regionale aveva condannato il suo territorio. Una gigantografia di Francesco Columbu domina invece la piazza: amico intimo e collega di Arnold Schwarzenegger, con cui emigra negli Stati Uniti negli anni Sessanta, Columbu insegue il sogno americano lontano dalla Sardegna, dove morirà nel 2019, in ferie.

Sanità, trasporti, internet: politiche che mancano

A gennaio 2021, la Regione Sardegna stimava mancassero 242 medici di medicina generale. Un dato che sembra crescere rapidamente nei mesi successivi. L’Azienda regionale della salute (Ares) cerca di far fronte a questo vuoto di medici con una serie di bandi di concorso, che vanno in parte deserti. Nel luglio 2022, un bando per assegnare 338 sedi riceve poche candidature. Un secondo avviso, aperto a febbraio 2023, vede 151 candidature a fronte di un’offerta di 439 posti. Per l’assessore regionale alla Sanità, Carlo Doria, gli ultimi bandi dovrebbero soddisfare le necessità di tutti i residenti dell’isola. Per gli amministratori di Baradili e Ollolai, però, servono incentivi ad hoc, per attirare medici in sedi considerate disagiate. Un bando per reclutare chirurghi per le aziende sanitarie di Nuoro, del Sulcis e dell’Ogliastra, lanciato a gennaio dalla Regione con lo slogan «Cerchiamo medici sognatori. Il sogno si chiama Sardegna», ha visto solo tre candidati presentarsi, nessuno dei quali per l’Ogliastra.

La piazza principale del comune di Ollolai durante il festival Cortes Apertas – Foto: Daniela Sala

Per il consigliere d’opposizione Francesco Agus «il problema non è solo il numero di medici, quanto il loro impiego, all’interno di una struttura della sanità ingessata e gestita male». I fondi del Pnrr promettono di migliorare la situazione. Un decreto di riforma, presentato dalla Giunta Regionale nel maggio 2022, definiva gli obiettivi da raggiungere entro il 2026, tra cui l’apertura di 50 nuove case di comunità per i servizi di prossimità, 14 case della salute e 13 ospedali di comunità. Una riforma che dovrebbe entrare nel vivo, secondo il calendario del governo regionale, nel corso del 2023.

Sia Baradili che Ollolai lamentano poi la lentezza nella diffusione delle connessioni internet cablate. Il Piano strategico per la banda larga, lanciato nel 2015 dalla giunta di centro-sinistra, ambiva a collegare alla fibra ottica tutti i comuni sardi, con priorità per quelli inseriti nella Strategia nazionale delle aree interne. Centoquarantotto milioni di euro di fondi stanziati in sette anni e un cronoprogramma che prevedeva una chiusura della prima tranche dei lavori, per i comuni più penalizzati, già nel 2017. Secondo un’indagine diffusa a marzo 2023 dai portali SOStariffe.it e Segugio.it, appena il 30% delle utenze domestiche sarde può usare i collegamenti via fibra. Cifre più incoraggianti sono raccolte dal sito Sardegnadigital, secondo cui il 67% dei Comuni isolani può collegarsi alla banda larga.

Sul fronte dei trasporti, il 2023 è iniziato con un conflitto tra governo regionale e nazionale, sul tema della continuità territoriale, ovvero di tutte quelle misure di sostegno alla mobilità dei residenti dell’isola, volte a rendere sostenibili i collegamenti con la terraferma, soprattutto per via aerea. Una misura adottata nel 2000, che fa riferimento a diverse norme, ricorrendo a finanziamenti statali ed europei, rivolti soprattutto alle compagnie aeree e di navigazione, tenute a mantenere tariffe agevolate per i residenti, per trasferte verso gli aeroporti di Milano e Roma.

L’Ue, per evitare distorsioni alla concorrenza, impone un tetto ai posti coperti dalle tariffe agevolate. Posizione che, secondo la giunta guidata da Solinas, isola ulteriormente i sardi. Anche perché i bandi annuali vincolano in modo limitato le compagnie. Nel periodo natalizio del 2022, l’esaurimento dei posti a tariffa agevolata, tra i 40 e i 70 euro più le tasse, unito a un taglio dei voli e all’aumento del costo del carburante, ha fatto lievitare i prezzi, con voli fino a 600 euro per un’andata e ritorno dal continente.

Se la continuità territoriale è da oltre un ventennio fonte di tensioni e strumento bipartisan di consenso elettorale, la recente mossa della giunta regionale, che a marzo 2023 ha annunciato di voler impugnare la manovra finanziaria nazionale di fronte alla Corte Costituzionale, sembra indicativa di una linea di difesa dell’insularità, su cui spingono sia il Partito Sardo d’Azione che alcuni dei suoi alleati.

Al centro della disputa ci sono innanzitutto gli stanziamenti per la continuità territoriale, che la finanziaria limita a 20 milioni di euro in due anni, a fronte di una spesa annuale in media più alta nelle scorse annualità – 46 milioni messi bando dalla Regione nel 2022, mentre un bando di febbraio 2023 metteva a disposizione dei vettori aerei 52 milioni di euro per coprire gran parte dell’anno. A non convincere la Regione è poi la mancata previsione del “tavolo tecnico-politico per la definizione degli svantaggi strutturali permanenti derivanti alla Sardegna dalla sua particolare condizione di insularità”, tra autorità regionali e ministero dell’Economia e delle Finanze. Il tavolo, previsto dalla finanziaria 2020 e avviato a inizio 2022, è stato interrotto poco dopo e ora, sostiene la giunta sarda, rischia di affossarsi definitivamente.

Se ottenere nuovi trasferimenti dallo Stato può aiutare l’economia e il tessuto sociale sardo, Nicolò Fenu, architetto e ricercatore, tra i fondatori del collettivo Sardarch, sottolinea come sia urgente un incontro tra politiche nate dal basso e interventi strutturali, per evitare che iniziative come quelle di Baradili e Ollolai rimangano isolate e senza seguito. «Per garantire servizi di base e sviluppo locale, serve legare politiche locali e interventi strutturali, cosa che la Strategia per le aree interne finora non è riuscita a fare», spiega Fenu, che con Sardarch segue i progetti di programmazione urbanistica di Ollolai. «Se penso a politiche strutturali per le aree interne – continua – l’unica che mi viene in mente, nelle ultime cinque legislature regionali, è l’elisoccorso per le evacuazioni mediche d’urgenza: un intervento che dovrebbe essere emergenziale e finisce per supplire a troppe mancanze».

Foto di copertina: Una vista del comune di Balardili, il più piccolo della Sardegna. Secondo uno studio dell’Università di Cagliari, rientra tra i 31 comuni sardi che spariranno entro il 2031 a causa dello spopolamento – Daniela Sala
Editing: Lorenzo Bagnoli
Infografiche: Lorenzo Bodrero
Con il sostegno di: Journalismfund

Veneziani in via d’estinzione

17 Marzo 2023 | di Giacomo Zandonini

Èil 18 luglio 2022 e in una Venezia assolata e affollata di turisti, il deputato del Partito Democratico Nicola Pellicani si rivolge a sostenitori e curiosi. L’occasione è il festeggiamento per la conversione in legge del cosiddetto Decreto Aiuti, il primo di una serie di interventi straordinari da parte del governo guidato da Mario Draghi, «in materia di politiche energetiche nazionali, produttività delle imprese e attrazione degli investimenti, nonché in materia di politiche sociali e di crisi ucraina».

Più che il decreto-legge, sul cui voto di fiducia si era appena aperta un’irreversibile crepa nella maggioranza parlamentare, a interessare i militanti del Partito Democratico e altri cittadini veneziani accorsi in Campo Santa Maria Formosa è un singolo emendamento, il 37 bis, nascosto tra norme sul rinnovo del parco autobus a scopi turistici e altre sulla cittadinanza digitale nei comuni medio-piccoli. L’articolo, che in città è già noto come emendamento Pellicani, permette al solo Comune di Venezia di introdurre nuove «misure per favorire l’incremento dell’offerta di alloggi in locazione per uso residenziale di lunga durata nella città storica di Venezia».

Le autorità cittadine, in sostanza, potranno decidere «limiti» e «presupposti per la destinazione degli immobili residenziali ad attività di locazione breve», rendendo quindi disponibili, secondo l’assunto della norma, più alloggi per i residenti della Venezia insulare.

Sono due le indicazioni ulteriori: si può adottare un limite massimo di 120 giorni all’anno oltre il quale il privato cittadino che affitta sul mercato turistico è obbligato a chiedere un cambio di destinazione d’uso dell’immobile; e va tenuto conto della «funzione di integrazione del reddito esercitata dalle locazioni brevi» per chi gestisce o mette a rendita un solo alloggio. Insomma non si vorrebbe colpire chi per esempio, affittando una seconda casa di famiglia tramite AirBnb, paga il mutuo della prima abitazione.

Ai profani, il testo della norma può apparire blando, tanto più che le disposizioni non sono vincolanti: il Comune può adottarle, ma non è tenuto a farlo. Per i veneziani della città storica e della laguna, distribuiti tra le 112 isole collegate e pedonalizzate del centro e decine di isole minori, il tema è però di attualità strettissima. Tanto che mentre il deputato Pellicani e una parte dell’elettorato cittadino festeggiano, nella piazza arrivano anche decine di cittadini sul piede di guerra, convocati dalle associazioni di rappresentanza dei gestori e dei proprietari che affittano appartamenti sul mercato turistico, come AGATA, ABBAV e Bre-Ve.

Proprietari, host e check-in manager, figure di intermediazione tra proprietari e clienti, che lavorano grazie a piattaforme come AirBnb, Expedia e la controllata Vrbo, Booking.com o HomeToGo, temono che l’articolo 37-bis possa mettere in ginocchio un settore cresciuto esponenzialmente nell’ultimo decennio e in rapida ripresa dopo la pandemia di Covid-19.

Gli scambi tra i due fronti sono accesi e proseguono nei mesi successivi, segnando una spaccatura profonda in una città il cui centro insulare (i sei sestieri e l’isola della Giudecca), sempre a luglio 2022, scende per la prima volta sotto la soglia simbolica dei 50 mila residenti. Al cuore del dibattito c’è un esodo che sembra difficile da arrestare e che ha portato i residenti a un minimo storico: appena il 30% dei 171 mila residenti del 1951 è rimasto a vivere tra calli e campi.

La testa del corteo di protesta contro il biglietto di ingresso nella città di Venezia che potrebbe essere implementato nel 2023. Il movimento critica la proposta comunale di instaurare un biglietto di cinque euro per l’ingresso in laguna e lamenta la mancata imposizione di un numero massimo di turisti e la mancanza di una politica per favorire la residenza prolungata ai cittadini – Foto: Daniela Sala
L’imbarchino dell’isola San Pietro di Castello sorge in un’area controllata dal Demanio e sarà smantellato se il progetto di conversione della struttura in residenze a breve termine sarà approvato – Foto: Daniela Sala

Per una parte di città, quella che festeggiava insieme all’ex deputato del PD, il calo demografico dell’ultimo decennio è innegabilmente legato all’affitto turistico breve, che ha sottratto alloggi al mercato residenziale per trasformarli in investimenti redditizi. Per chi gestisce parte degli oltre 5.500 appartamenti ad uso turistico registrati dal Comune nella zona centro storico e isole di Murano e Burano – un totale di 21.100 posti letto, secondo i dati di gennaio 2023 – non ci sarebbe però legame tra il calo demografico e la locazione turistica breve.

La giunta comunale, guidata dal sindaco e imprenditore Luigi Brugnaro, che ha unito diverse anime del centrodestra cittadino, sembra trovarsi in mezzo al guado, alla ricerca di un difficile consenso. «Venezia perde popolazione da 50 anni e l’Italia pure, ma ora fa comodo dire che è colpa del turismo: siamo un capro espiatorio», sostiene Ondina Giacomin, presidente dell’Associazione B&B, Alloggi Turistici ed Appartamenti del Veneto (ABBAV).

Lo spopolamento delle isole

IrpiMedia è andato a Venezia, patrimonio dell’Unesco, per raccogliere dati e testimonianze degli abitanti di una città unica al mondo, che vive in un territorio fragile, segnato dal cambiamento climatico e dall’iperturismo. Il reportage è parte di una serie sullo spopolamento delle isole europee, realizzato con la testata irlandese Noteworthy e il media d’inchiesta scozzese The Ferret.

Una città in conflitto

La battaglia sul futuro della città lagunare è proseguita nell’ultimo anno a suon di comunicati stampa, manifestazioni pubbliche e interrogazioni al Consiglio comunale, intersecandosi con proposte e proteste nazionali ed europee per arginare lo svuotamento dei centri storici. Al centro della discussione c’è una visione di città che si incarna anche nei dati e nella loro correlazione. Con conclusioni radicalmente opposte.

Per Elena Fiorani, portavoce di Bre-Ve, associazione nata nel 2022 e che riunisce decine di host e property managers, ovvero gestori per conto terzi di appartamenti privati affittati tramite piattaforme digitali, «quando è arrivata AirBnb, la città era vuota, poi sono arrivati i nostri inquilini che hanno riempito quelle case e vanno al forno, dal parrucchiere». L’affermazione non è suffragata da dati, ma in tanti ne sono convinti. Le locazioni brevi, spiega l’imprenditrice, «hanno un indotto pazzesco e se l’emendamento Pellicani verrà adottato, ci sarà un danno economico e sociale enorme: migliaia di persone se ne andranno».

Un altro socio di Bre-Ve, il vicepresidente Mario Vidal, aggiunge che «Venezia non è democratica, non può essere per tutti». A dover essere ridotti, secondo Vidal, sono i daytrippers, i turisti giornalieri che alloggiano fuori città e raggiungono la laguna per visite lampo. Nel 2019, anno di picco per il turismo, si stimavano in 20 milioni di persone, a fronte di 3,5 milioni di turisti pernottanti.

Ocio, ovvero occhio in dialetto veneto, è l’acronimo che identifica l’Osservatorio civico sulla casa e la residenza, nato nel 2019 da un gruppo di attivisti e ricercatori veneziani. L’Osservatorio è di tutt’altro parere: attrarre più turisti, grazie alla disponibilità di alloggi sulle piattaforme online, significa inevitabilmente perdere residenti e consegnare Venezia a un destino di città-museo, in vendita sul mercato turistico globale. Giacomo Maria Salerno, ricercatore e animatore di Ocio, spiega che «con l’affitto turistico breve il ciclo di rendita degli investimenti immobiliari si è accorciato di molto, rendendo sconveniente affittare a residenti o a studenti». Allo stesso tempo, aggiunge, «gli sfratti per fine locazione qui sono altissimi e spesso aprono la strada all’affitto su piattaforme». Molti alloggi di edilizia popolare, come in altre città d’Italia, restano tuttavia vuoti per anni.

Esclusi dal mercato privato della casa come da quello pubblico, gli isolani di Venezia non hanno altra scelta che «legare il barchìn» e trasferirsi sulla terraferma: a Mestre, a Marghera o nelle frazioni e nei Comuni adiacenti, dove il costo degli affitti è finora più sostenibile e dove servizi pubblici e negozi sono più vicini e non sovraccaricati dal turismo, spiega Salerno. Nel 2022, Ocio ha stimato in 2.208 – 1.274 di proprietà dell’azienda regionale per l’edilizia residenziale Ater e 934 del Comune – gli alloggi popolari lasciati vuoti in città, un migliaio dei quali si trova nella Venezia insulare. Tra le ragioni di questo inutilizzo sembra esserci la mancata manutenzione, costosa ma essenziale in una città umida e battuta dalle onde.

Secondo le analisi di Ocio, i 20 milioni di euro stanziati tra il 2015 e il 2021 dal Comune per la società partecipata Insula Spa, che gestisce circa 5.500 alloggi di edilizia residenziale, non bastano nemmeno a coprire la manutenzione e la rimessa in circolo degli appartamenti riconsegnati ogni anno a causa del decesso o dello spostamento dei locatari. A luglio 2022, mentre il Comune apriva un nuovo bando per assegnare alloggi pubblici, centinaia di persone risultavano ancora in graduatoria e in attesa di entrare in appartamento dal 2020. Sono 30 gli alloggi dell’Ater, l’azienda regionale per l’edilizia abitativa, assegnati nel 2022 nella Venezia storica.

Il Comune di Venezia non ha risposto a nessuna delle richieste inviate da IrpiMedia, su questo aspetto come su altre politiche pubbliche legate alla residenza e alla gestione del flusso turistico. Un portavoce del Sindaco Luigi Brugnaro ha detto per telefono di non intendere rispondere a domande sul legame tra residenza e questione turistica.

Il miraggio dell’housing sociale alla Giudecca

Per gli attivisti dell’Assemblea Sociale per la Casa, che da trent’anni si occupa di diritto all’abitare a Venezia, l’unica soluzione per restare a vivere nella città isolana è stata quella di occupare. «Come Assemblea – spiega Pasquale Ambrogio, arrivato a Venezia per gli studi universitari e rimasto come insegnante precario – occupiamo case popolari non ristrutturate e quindi non assegnabili, le rendiamo abitabili a nostre spese e poi le assegniamo a chi ne ha bisogno».

Chiara Buratti nel suo appartamento all’interno del complesso Case Minime. Originaria delle Marche, si è trasferita a Venezia nel 2011 per studiare fino diventare una residente della Laguna. Oggi, afferma, in mancanza di politiche a sostegno della residenza di lunga durata è impossibile trovare affitti accessibili – Foto: Daniela Sala
Giorgio Gatto e un’altra residente dell’ex caserma Sanguinetti mentre informano i giornalisti sulla concessione rinnovata dal Demanio, la quale potrebbe significare l’espulsione dei residenti stessi in un futuro prossimo – Foto: Daniela Sala

Alla fine del 2022 gli appartamenti occupati dagli attivisti erano più di 70, «quasi tutti nella Venezia insulare». Sedici di questi solo nel complesso delle Case Minime o Casette, una serie di palazzine costruite sull’isola della Giudecca nei primi anni ‘40 e «subito occupate da centinaia di sfollati, che fuggivano qui sapendo che la Venezia storica non veniva bombardata», racconta Chiara Buratti, attivista e occupante di uno dei 40 appartamenti non assegnati del complesso residenziale, che conta 126 alloggi.

«Il paradosso – spiega Buratti, che a 34 anni lavora in uno sportello informativo del sindacato di base Adl Cobas – è che siamo sotto processo per le occupazioni, che facciamo sempre alla luce del sole, convocando la stampa, ma senza di noi in città ci sarebbero decine di residenti in meno». Buratti, che ha occupato e rinnovato un appartamento di 40 metri quadri e resiste all’inverno con un’unica stufa, mostra i tre appartamenti vuoti nella sua palazzina, uno dei quali sostiene sia inutilizzato da 25 anni.

A pochi metri dalle Case Minime si trova anche l’enorme edificio costruito e poi abbandonato dalla società Acqua Marcia Immobiliare, coinvolta nel crollo finanziario del gruppo Acqua Marcia, allora guidato da Francesco Bellavista Caltagirone: 50 alloggi, all’interno dell’area degli ex magazzini cinematografici della Scalera Film, 25 dei quali dovevano essere venduti ai residenti a prezzi calmierati. In altri termini, un progetto di housing sociale.

I lavori si sono però bloccati nel 2013 e da quel momento non si è saputo più nulla. Un’interrogazione, depositata nel luglio 2022 da alcuni consiglieri comunali alla Giunta, sulla sorte del complesso e sulla possibilità di recuperarne gli alloggi, ormai in stato di abbandono, per destinarli a nuovi residenti, non ha ricevuto risposta.

La Giunta comunale ha spesso presentato il social housing come soluzione per continuare a risiedere nella Venezia storica. Si tratta dell’accesso con affitto ridotto ad alloggi pubblici per chi ha un reddito superiore a quello richiesto per la casa popolare, ma insufficiente per affittare sul libero mercato. Gli affitti del social housing vanno dai 200 euro al mese per un mini appartamento ai 650 circa per un trilocale, per nuclei con reddito tra i 6.000-8.000 e i 25.000 euro di ISEE, l’Indicatore della situazione economica equivalente. Tra il 2018 e dicembre 2022, il Comune ha emesso 11 bandi, per un totale di 134 alloggi assegnati tra isole e terraferma. Per Giacomo Maria Salerno, che nel 2020 ha pubblicato il libro Per una critica dell’economia turistica. Venezia tra museificazione e mercificazione, le misure di housing sociale sono però insufficienti e rispecchiano lo scarso investimento dell’amministrazione nelle politiche per la casa.

Tra chi vorrebbe accedere al social housing c’è Patrizia Zaniol, che a quasi sessant’anni vive con una pensione di invalidità in uno degli alloggi occupati del complesso delle Case Minime. Zaniol, che riempie le giornate con piccoli lavori artigianali, vorrebbe tornare a vivere nell’isola del Lido, dove è nata e dove vive una parte di famiglia, lasciando così la Giudecca, dov’è approdata dopo aver dormito su divani di amici e parenti.

«I giudechini no me piase», scherza la donna, ricalcando un antico pregiudizio della Venezia benestante verso gli abitanti di un’isola più povera, popolare e fredda del resto della città insulare, tanto da essere soprannominata isola delle foche. Il suo reddito, spiega Zaniol, è però troppo basso per fare domanda di social housing e da anni attende l’assegnazione di un alloggio pubblico dell’Ater, l’azienda regionale per l’edilizia pubblica. «A causa degli impieghi precari nel mercato turistico, con salari bassi e pochi diritti, in molti sono tagliati fuori sia dal social housing sia dall’edilizia popolare, le cui graduatorie scorrono troppo lentamente», sostiene Chiara Buratti dell’Assemblea Sociale per la Casa.

Sestiere di Castello: il progetto per trasformare l’ex caserma in un coworking

A qualche fermata di vaporetto dalla Giudecca, il sestiere di Castello – il più occidentale del centro storico – è considerato come una delle poche zone che ancora sopravvivono allo spopolamento e a un’espansione turistica che ha cambiato il volto di Venezia. In fondo a via Garibaldi, l’unica via di tutta la città acquatica, e alla successiva Fondamenta di Sant’Anna, dove sopravvive una delle due barche di frutta e verdura rimaste in città, l’isola di San Pietro in Castello vive a ritmi più lenti, apparentementi lontani dalla frenesia del turismo.

Ferma sul ponte di Quintavalle, uno dei due collegamenti pedonali per accedere all’isola, Cinzia Dalboni scherza: «Se vogliono mandarci via da qui, faremo le barricate». Dalboni è tra i pochi abitanti, otto famiglie in tutto, dell’ex caserma Sanguinetti, un enorme complesso, semi-abbandonato, la cui storia si intreccia con le origini di Venezia. Per lei e per gli altri residenti della struttura, che hanno tra i 50 e gli 87 anni, il legame con questo lembo di terra, su cui gli archeologi situano le origini di Venezia – attorno al V secolo dopo Cristo – potrebbe però interrompersi presto. Nell’ottobre 2021 la giunta comunale ha infatti approvato una delibera che dava parere positivo a un progetto di valorizzazione dell’ex caserma, già convento e sede del Patriarcato veneziano, e dell’adiacente monastero di Sant’Anna, abbandonato da anni, per trasformarli in spazi di coworking, foresteria, centro benessere, ristorante e di servizi per la convegnistica.

A proporre il progetto è stato il gruppo Artea, holding francese dell’energia e dell’immobiliare, diretta e controllata dall’architetto Philippe Baudry, che ha crescenti interessi nella messa a valore di immobili di pregio in Italia, tramite il project financing: l’ente pubblico concede l’utilizzo di strutture di valore storico-artistico, in cambio di un intervento di recupero, manutenzione e gestione a carico del privato, che rientra dell’investimento nel corso degli anni.

Artea lo ha già fatto a Firenze, garantendo un investimento di 31,5 milioni di euro per riqualificare l’ex monastero di Sant’Orsola, progetto approvato dal Comune toscano nel 2021. Abbandonato da decenni, il centralissimo complesso trecentesco dovrà ospitare spazi di coworking, atelier d’artista, servizi di ristorazione e fitness, ludoteca e foresteria.

La società francese entra nelle cronache veneziane con una delibera comunale dell’ottobre 2021, con cui la Giunta dice di aver acquisito un primo parere favorevole anche da parte dell’Agenzia del Demanio, proprietaria dell’ex caserma, in vista di un trasferimento del bene al Comune, all’interno di una richiesta di federalismo demaniale culturale, ovvero la cessione gratuita di beni dello Stato agli enti locali, previa approvazione di un accordo di valorizzazione, con l’obiettivo di garantire la manutenzione e l’uso culturale delle strutture.

La delibera sul progetto che potrebbe sfrattare gli abitanti dell’ex caserma è un atto d’indirizzo, a cui dovrebbe seguire un dibattito in Consiglio comunale, che ancora non c’è stato. Per Dalboni e gli abitanti del complesso, che insieme a altri cittadini dell’isola hanno dato vita a un comitato, Salviamo San Pietro e Sant’Anna, è però un segnale chiaro di una volontà di espellere cittadini, cedendo la zona al mercato turistico. Secondo il ricercatore Giacomo Maria Salerno, «il caso di San Pietro riassume le follie della situazione veneziana di oggi: il Comune in precedenza ha fatto una delibera blocca-alberghi, ma poi apre a una speculazione alberghiera, chiamandola in altro modo, dentro un contesto di crisi abitativa».

Occupanti in casa propria, cronache dall’ex caserma Sanguinetti

Entrati nel chiostro rinascimentale, dove i panni stesi si stagliano sul rosso ocra dell’intonaco novecentesco, Cinzia Dalboni racconta che «tra queste mura sono passati religiosi, militari, esuli istriani e ora siamo rimasti noi, otto famiglie delle oltre trenta che ci abitavano quando sono arrivata nel 1978, al seguito di mia madre». L’ospite più celebre della ex caserma, ricorda Dalboni, sembra essere stato il cantautore Sergio Endrigo, nativo di Pola e qui sfollato da adolescente, appena finita la Seconda guerra mondiale.

Dalboni vive in un appartamento che si affaccia sul chiostro, restaurato a spese sue e del marito, «con 100 milioni di vecchie lire e l’autorizzazione del Comune e della Soprintendenza, dato che siamo in un’area sottoposta a vincolo storico-artistico», spiega.

La sua presenza, come quella degli altri abitanti, ha dei contorni giuridici difficili da definire: negli anni ‘50, il nonno di Dalboni si è visto assegnare un alloggio nel complesso in quanto lavoratore della Marina Militare presso il vicino Arsenale, e dal 1985 il Demanio ha dato concessioni pluriennali agli abitanti e ai loro familiari, in cambio del pagamento di un canone mensile. Concessioni temporanee che sono state sempre rinnovate, almeno fino al giugno 2022, quando i residenti hanno ricevuto una lettera del Demanio che li informava della necessità di «liberare il bene», per provvedere alla sua «riqualificazione», fissando al 2024 – ovvero a tre anni dopo un’autorizzazione interna da parte del Ministero della Cultura – il tempo limite per lasciare il compendio.

Nella comunicazione, Dalboni e gli altri residenti sono definiti occupanti. Una richiesta simile è arrivata ai titolari dello storico cantiere navale De Pellegrini, che separa l’ex caserma dall’acqua.

Giorgio Gatti nel suo appartamento all’interno dell’ex caserma. Negli anni Ottanta ospitava circa 40 famiglie ma negli ultimi anni molti residenti sono morti o hanno preferito abbandonare i propri appartamenti per prevenire lo sfratto e che ora sono abbandonati e in rovina – Foto: Daniela Sala
La Basilica di San Pietro di Castello è la prima basilica della città. L’ex caserma Sanguinetti giace proprio a fianco – Foto: Daniela Sala

La lettera del Demanio e la delibera comunale hanno spinto i residenti a reagire, creando legami con quella parte di Venezia che vede nella “turistificazione” un attacco alla residenzialità. Una serie di richieste di accesso agli atti al Comune di Venezia e all’Agenzia del Demanio ha permesso di ricostruire la vicenda e ottenere più dettagli sul progetto presentato dal gruppo Artea. Nel testo della delibera e nei documenti ottenuti da IrpiMedia, emerge come Artea si fosse impegnata a investire 25,7 milioni di euro per ristrutturare i due complessi adiacenti della ex caserma e del convento di Sant’Anna, a fronte di una concessione d’uso di 70 anni e senza alcuna spesa a carico del Comune.

Nella proposta di Artea, l’ex caserma diventerebbe uno spazio di coworking e «ospitalità d’impresa», con orti urbani e servizio di ristorazione, destinati soprattutto al «turismo d’affari». Il documento segnala anche come «in particolari periodi dell’anno (estate, grandi ricorrenze ed eventi, etc.) la proposta di utilizzo a foresteria si possa rivolgere anche al mercato turistico, consentendo l’equilibrio economico».

Per Artea, che non ha risposto a una serie di domande inviate da IrpiMedia, il progetto risponde «alle esigenze dei veneziani, delle imprese, delle start-up, dei lavoratori indipendenti, delle associazioni culturali […] rafforzando l’appeal internazionale di Venezia e il dinamismo del quartiere». Per il comitato Salviamo San Pietro e Sant’Anna, al contrario, si tratta di un’ulteriore svendita di uno dei pochi territori cittadini non ceduti al turismo.

Giorgio Gatto, residente della ex caserma e infermiere in pensione, sostiene che se il progetto della società francese sarà portato avanti, «con i suoi 70 posti letto, stravolgerà la zona e noi, con pensioni da dipendenti o parastatali, saremo costretti a lasciare la laguna».

Secondo il comitato locale, come per alcuni esponenti politici veneziani, sono due gli aspetti discutibili: l’apertura al mercato turistico e la conseguente sottrazione di spazi ai residenti, e l’assenza dell’elemento culturale, requisito fondamentale per la cessione di beni dall’Agenzia del Demanio agli enti locali. Nel progetto presentato da Artea, appena il 6,8% della superficie edificata dell’ex caserma è considerato area comune e dunque accessibile a chi vive nel quartiere, mentre si ipotizza di aprire parzialmente al pubblico il giardino. Il consigliere comunale Giovanni Andrea Martini, del gruppo Tutta la Città Insieme, ricorda poi come l’assenza di riferimenti culturali avesse già portato il ministero dei Beni Culturali a bocciare un precedente programma di valorizzazione del complesso, presentato nel 2011.

«Qui ci sono vincoli archeologici che gli assessorati competenti hanno mostrato di disprezzare, almeno quanto lo spirito di comunità, la convivialità unica di questo lembo di città», aggiunge Martini.

I numeri dello spopolamento di Venezia

Se sul legame tra residenza e turismo l’opinione pubblica cittadina sembra spaccata in due, ci sono dati su cui nessuno ha dubbi: la Venezia insulare si sta spopolando molto più rapidamente del resto del Comune, con cifre molto più alte rispetto alla tendenza regionale e a quella nazionale. In vent’anni, dal 2003 ai primi mesi del 2023, i residenti sono scesi da 64 mila a circa 49.700. Nello stesso periodo Mestre e Marghera, i due poli abitativi maggiori del Comune di Venezia, entrambi sulla terraferma, hanno mantenuto una popolazione stabile, mentre l’area metropolitana veneziana è passata da 271 mila a 253 mila abitanti.

Secondo un articolo della rivista scientifica Nature, pubblicato nel 2020, a fine 2019 nella Venezia insulare c’erano oltre 49 mila letti in strutture ricettive – una crescita del 500% rispetto al 2008 – a fronte di una popolazione residente di poco più di 52 mila abitanti. «In una progressiva deviazione degli assetti immobiliari, quasi metà dei letti della città sono dedicati ai turisti», scrivono gli autori della ricerca.

Per il ricercatore Giacomo Maria Salerno, rappresentante di Ocio, dati come questi illustrano il nesso tra affitti turistici e spopolamento: «L’esodo degli ultimi anni è evidentemente legato all’economia di piattaforma, che rende non competitivo l’affitto di lungo termine ai residenti», spiega.

Per approfondire

Il dominio delle piattaforme

Le città di tutto il mondo sono in piena trasformazione a causa della presenza delle piattaforme, strumenti da cui si trova una casa in affitto, si ordina la cena oppure si guarda una serie. Stanno modificando il tessuto urbano e il sistema economico delle città. Ne parliamo sulla serie #LifeIsAGame

A fargli eco è Filippo Celata, ordinario di geografia all’università di Roma La Sapienza, che sottolinea come «a livello statistico il 90% del recente spopolamento di Venezia si può spiegare con la diffusione degli affitti brevi». I dati raccolti dall’Osservatorio, attingendo a fonti comunali e regionali, mostrano una crescita repentina dei posti letto nel settore extra-alberghiero, in prevalenza bed and breakfast e appartamenti privati, nella città insulare: dai 16 mila del 2016 agli oltre 40 mila del 2020.

Ocio incrocia i propri dati con quelli di Inside AirBnb, un progetto a cavallo tra attivismo e data journalism, che usa programmi open source per monitorare l’attività di AirBnb in decine di città del mondo, simulando delle richieste di ospitalità sulla piattaforma della società californiana. Secondo Inside AirBnb, a dicembre 2022 sul sito di AirBnb c’erano 7.275 annunci relativi al comune di Venezia. Il 77% si riferisce a appartamenti interi e il 99,6% riguarda affitti a breve termine, ovvero per meno di 30 giorni.

Il monopolio di Airbnb a Venezia

Dei 7.275 annunci su Airbnb a Venezia, quasi il 70% è riferibile a gestori che mettono a profitto più di una struttura. Società come City Apartments (111 annunci) e Views on Venice (84 annunci) sono host e check-in managers che offrono ai proprietari un pacchetto gestionale completo

Numeri simili a quelli di Inside AirBnb sono registrati dal portale di AirDNA, società statunitense che si presenta come leader nel fornire «dati e analisi per l’industria degli affitti brevi che vale 140 miliardi di dollari». Per AirDNA, che registra gli annunci attivi su AirBnb e su Vrbo, piattaforma di Expedia Group, a inizio 2023 erano 7.800 gli annunci attivi nel Comune di Venezia. In drastico calo rispetto ai numeri precedenti alla pandemia di Covid-19 – 11,380 annunci a fine 2019 – ma in crescita rispetto al 2021.

Le indecisioni della giunta

A fine 2021, Ocio e altre organizzazioni cittadine hanno dato vita ad Alta Tensione Abitativa, campagna di pressione e comunicazione imperniata attorno a una proposta di legge nazionale per regolamentare gli affitti turistici brevi, che anticipa alcune delle norme poi introdotte nel primo Decreto Aiuti tramite l’emendamento introdotto da Nicola Pellicani. La proposta di legge chiede di introdurre un sistema di autorizzazioni all’affitto turistico breve nei Comuni ad alta tensione abitativa, definizione nata da una legge del 1997. Si prevede una serie di restrizioni, da introdurre su base volontaria. Tra queste, un tetto del 20% di alloggi ad uso turistico sul totale per ogni zona del Comune.

A Venezia, organizzazioni locali come Bre-Ve, AGATA (Agenzie che Gestiscono Appartamenti Turistici Associate) e ABBAV hanno attaccato sia la proposta di legge nazionale sia l’emendamento di Pellicani. La presidente di ABBAV Ondina Giacomin ha spiegato a IrpiMedia che l’affitto breve risponde anche alla mancanza di tutele per i proprietari: «Non siamo incentivati ad affittare a un cittadino normale, perché se degli abusivi mi occupano casa poi non posso mandarli via», dice.

Per approfondire

Le mani sulla città

Chi sono i veri proprietari delle città? Chi possiede la maggior parte degli alloggi? #CitiesForRent è un progetto collaborativo che indaga su come cambiano le città d’Europa

Se ABBAV, nata nel 2003, rappresentata centinaia di gestori di strutture non alberghiere in tutto il Veneto, associazioni più giovani come AGATA e Bre-Ve sembrano dar voce a un numero limitato di agenzie e host manager, che gestiscono però centinaia di alloggi nella Venezia insulare. Tra i consiglieri di Bre-Ve ci sono per esempio i titolari di Red House Company, a cui fanno capo una cinquantina di “immobili di pregio” a Venezia, ma anche la community leader per Venezia di AirBnb, Ilaria Taffelli. La portavoce dell’associazione, Elena Fiorani, gestisce 28 appartamenti nella città insulare tramite la società Venice Actually. L’associazione AGATA ha tra i fondatori le agenzie VeniceAgency.com, tra i maggiori property manager cittadini, LuxRest Venice (29 alloggi elencati sul sito), Ca’ D’Oro Immobiliare (60 alloggi) e Mitwohnzentrale Venezia Alloggi Temporanei (29 alloggi). Secondo Giacomo Maria Salerno, «le piattaforme hanno creato un mercato e ora lavorano più o meno direttamente come lobby, per combattere norme regolatrici del mercato».

Il caso di Venezia non è evidentemente unico: buona parte dei centri storici delle città turistiche europee si sta spopolando. Nella laguna però, l’insularità, la concentrazione di beni culturali e di opportunità di mercato, sembrano accelerare un processo di esodo lungo e stratificato.

Il professor Celata, che ha studiato l’impatto della locazione turistica breve in tre città italiane, spiega che «mentre quasi tutte le città turistiche europee hanno introdotto restrizioni alla locazione turistica breve, l’Italia manca ancora all’appello». «Ci sono fior di studi, analisi ed esempi concreti su come cercare di ripopolare i centri storici limitando gli effetti del turismo di piattaforma – dice Celata – ma nessuno vuole ascoltare: né il sindaco di Venezia, né i vertici politici nazionali».

Nel corso degli ultimi anni, il sindaco Luigi Brugnaro ha rilasciato dichiarazioni contrastanti.

In un tweet del 2019, anno di presenze turistiche da record, il sindaco proponeva misure più stringenti di quelle poi introdotte con il Decreto Aiuti, parlando di un tetto di 100 giorni all’anno per la locazione turistica breve. Nello stesso anno, la Giunta comunale appoggiava un appello di dieci città turistiche europee per mettere un tetto alla locazione breve. D’altra parte già nel 2019, al termine del primo incarico di Brugnaro, il Consiglio comunale approva un regolamento per il “contributo d’accesso”, una sorta di tassa per chiunque entri nella Venezia lagunare, rilanciata ai primi di luglio del 2022 con lo scopo di regolare l’accesso di visitatori giornalieri. L’entrata in vigore del contributo, prevista per gennaio 2023, è rimandata per una serie di motivi, di carattere tecnico e politico. Non ultimo, un’istruttoria avviata dal Garante nazionale per la protezione dei dati personali, ancora aperta al momento della pubblicazione di questo articolo. Nel Documento unico di programmazione per il 2022, la Giunta comunale inseriva tra le attività previste la «promozione, nei confronti del Governo, di modifica alla legislazione volta a limitare la diffusione incontrollata degli affitti turistici, a favore della residenza.

Fino all’estate del 2022, insomma, Brugnaro e la sua giunta si dicevano favorevoli a misure restrittive.

Le possibilità offerte dall’emendamento Pellicani sembrano però diluirsi a partire dalle elezioni politiche del settembre 2022, a cui Brugnaro partecipa guidando, a livello nazionale, la lista Coraggio Italia. Prende solo il 3,6%, mentre vince Fratelli d’Italia, partito che si era opposto all’emendamento Pellicani. Il risultato impatta anche sull’orientamento della giunta veneziana: a inizio dicembre 2022, Brugnaro accenna infatti a un nuovo regolamento comunale che non prevederebbe alcuna limitazione temporale alle locazioni brevi ma l’obbligo, per i locatari, di «spiegare agli ospiti come vivere in città seguendo le regole».

Nel frattempo, tra l’annuncio prenatalizio del sindaco e la fine del febbraio 2023, le isole della Venezia storica perdono più di 120 residenti.

Foto di copertina: Gondole lungo il canale della Giudecca – Daniela Sala
Editing: Lorenzo Bagnoli
Infografiche: Lorenzo Bodrero
Con il sostegno di: Journalismfund