Joe Valachi, storia del “ratto” di cosa nostra
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«Naturalmente a poter ricominciare la mia vita daccapo la ricomincerei. Chi non lo farebbe? Ora sono completamente solo al mondo. Come sai, non scrivo a mia moglie e a mio figlio perché loro non vogliono avere più niente a che fare con me, e chi gli dà torto? Vito Genovese è responsabile di tutto. I ragazzi gli raccontarono tutte quelle storie sul mio conto, e lui ci credette. Ma quando si preparò a colpirmi, io lo colpii. In ogni modo, ha scoperto che non può fare, stando dentro, quello che faceva stando fuori. Ad Atlanta non ho fatto altro che cercare di proteggermi. Spero che gli americani traggano vantaggio dal fatto di conoscere che cos’è la mafia. Se m’uccidevano ad Atlanta, morivo marchiato come un infame senza aver fatto niente. Perciò, che cosa ho perduto?».
A parlare è Joseph Michael Valachi, primo collaboratore di giustizia dalle colonie della mafia italo-americana, che tramite una lettera risponde al giornalista Peter Maas che gli domandava il motivo per cui avesse deciso di parlare dell’organizzazione criminale. Fu lui a far conoscere agli Stati Uniti e al mondo il termine “cosa nostra”, con cui da lì in avanti si è identificata la criminalità organizzata di stampo mafioso originaria della Sicilia.
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Dai “minute men” alla famiglia di Don Vito Genovese
È il 1960 quando Joseph “Joe Cargo” Valachi, scagnozzo della stessa famiglia di Don “Vitone” Genovese, costola di cosa nostra in quel di New York decide di vuotare il sacco sugli organigrammi e sui traffici delle più potenti famiglie criminali operanti negli Stati Uniti in quegli anni. Prima di arrivare a quel punto, però, Valachi, detto anche “il ratto” (nomignolo conquistato nel corso degli anni ’20 mentre faceva appunto parte di una banda detta “i ratti”), è un fedele soldato del “sindacato del crimine” statunitense.
La banda dei ratti
La “banda dei ratti” era la gang in cui operava Joseph Valachi prima dell’ingresso in cosa nostra. Agivano dalle parti della 107a strada di Est Harlem e si erano guadagnati il nomignolo per la velocità con cui agivano nello svaligiare i negozi. Valachi ha sempre avuto un debole per le auto e così si ritrovò a essere l’autista della gang, da qui il nomignolo di Joe “cargo”.
Tra il 1919 e il 1923, racconta Valachi nelle sue memorie, quella banda fece centinaia di furti. Il metodo adoperato era abbastanza semplice. Sfondata la vetrina di un negozio con un bidone dell’immondizia, arraffavano tutto ciò che c’era dentro, in genere pellicce e gioielli, vendendo tutto poi a un ricettatore. Al tempo la polizia non era dotata delle radio e c’era tutto il tempo per svignarsela.
Tuttavia Valachi deve il nomignolo di “ratto” non tanto a quella esperienza quanto alla scelta di collaborare con la giustizia. Il nomignolo di “ratto” era quello affibiato ai collaboratori e agli informatori della giustizia dalla cosca del boss Vito Genovese.
«Perché strillano? Io non parlo degli italiani, parlo dei delinquenti»
Nel racconto che Valachi consegna al giornalista Peter Maas (ampiamente osteggiato dalle comunità italiane, in particolare dal giornale italo-americano Il Progresso. A tal proposito Valachi disse: «Perché strillano? Io non parlo degli italiani, parlo dei delinquenti») non mancano anche episodi comici legati al periodo delle gang e dei furti. Uscito dalla “banda dei ratti” Joe “Cargo” si unisce a quella che lui chiama “la banda irlandese” che impazzava a New York sulla 116a strada: una compagnia cosmopolita composta da un primo gruppo di irlandesi, due ebrei e tre italiani, Valachi incluso. «Avevano i nervi saldi – ricorda – ma nessun senso degli affari. Capii che a restare con loro mi accorciavo la vita».
Una conferma arriva quando Valachi cerca di convincere la banda, dedita a furti e rapine in pieno giorno, ad operare di notte andando a saccheggiare un negozio d’abbigliamento. Gli irlandesi accettano: arrivati alla fabbrica, Valachi lascia fuori due della gang a fare da palo, mentre gli altri entrarono nel deposito del negozio. Pochi minuti dopo, all’uscita, con i vestiti sottobraccio, i due che avrebbero dovuto guardare le spalle alla banda, stufi di stare impalati a fare la guardia, stanno alleggerendo del portafogli una dozzina di persone fatte allineare contro il muro.
Valachi lascia gli irlandesi e ormai, dopo il secondo transito nella prigione di Sing Sing (dove avrebbe dovuto scontare una condanna a tre anni e otto mesi per furto e rapina), la strada verso cosa nostra è già tracciata. In prigione ritrova un vecchio compagno di sortite: Nick Petrilli detto “Lo Squarcio”, che una volta fuori, insieme a un certo Alessandro Vollero lo avvicina a quel “sindacato del crimine” conosciuto genericamente con il nome “The Mob”, la paranza, come tradotto negli stessi documenti americani. Vollero è in quel momento uno dei gangster più celebri di Brooklyn. È da lui che Valachi sente nominare per la prima volta la “guerra” tra napoletani e siciliani in seno al mondo della malavita italiana negli Stati Uniti. La faida si risolverà dopo la morte del boss Joe Masseria e la presa di potere prima di Salvatore Maranzano, poi di Lucky Luciano e don Vito Genovese, a spese dello stesso Maranzano.
“Alla scuola della prigione di Sing Sing impara a leggere e a scrivere, oltre a beccarsi una coltellata da un altro mafioso newyorchese, Peter La Tempa, che per paura della ritorsione di Valachi si costituisce alla direzione del penitenziario e viene spostato. La Tempa anni dopo verrà avvelenato in carcere per aver attribuito a Vito Genovese un omicidio.
Dentro “l’onorata società”
Fuori da Sing Sing, Valachi fa il suo ingresso nella “onorata società”, dopo anni passati più in prigione che per le strade. Nick Petrilli lo accompagnerà al rito di affiliazione, che lui ricorda così: «Quando mi siedo si siede tutta la tavolata. Qualcuno mi mette davanti sul tavolo una pistola e un coltello. Ricordo che la pistola era una calibro 38 e il coltello era un pugnale. Dopodiché Maranzano (all’epoca reggente delle famiglie della mafia italo-americana, ndr) fa segno d’alzarci di nuovo e tutti noi ci prendiamo le mani e lui dice qualcosa in italiano. Poi ci sediamo e lui si volta dalla mia parte e, sempre in italiano, parla del coltello e della pistola. “Questo significa che tu campi di pistola e coltello e che muori di pistola e coltello”. Poi mi chiede: “Con quale dito spari?”. Dico: “Questo qui”, e muovo l’indice destro. Mi stavo ancora chiedendo che cosa volesse significare quando lui mi dice di fare una coppa con le mani. Poi ci mette dentro un pezzo di carta e l’accende con un fiammifero e mi dice di ripetere con lui, mentre muovo il pezzo di carta su e giù: “È così che morirò se tradisco il segreto di cosa nostra”».
Valachi non finisce di appuntare particolari dal rito, ma riporta altre parole pronunciate successivamente da Maranzano: «Ecco le due cose più importanti che voi tutti vi dovete ricordare. Ficcatevele bene in testa. La prima è che tradire il segreto di cosa nostra significa morte senza processo. Secondo, che prendersi la moglie di qualsiasi altro membro significa morte senza processo. Guardatele, ammiratele e comportatevi bene con loro».
La prigione di Sing Sing
Oggi il carcere di Sing Sing ospita circa 1.700 prigionieri ed è entrato nell’immaginario collettivo grazie soprattutto al cinema. Da pellicole come Quarto Potere, alla serie Law & Order, passando per Colazione da Tiffany e Terapia e Pallottole con Robert De niro, solo per citarne alcuni, spesso i criminali finiscono proprio a Sing Sing. Dove dal 1891 al 1963 è stata in uso la sedia elettrica, applicata a 614 condannati.
Da quest’anno è inoltre aperto il museo che ospita la storia della prigione. Il progetto negli anni è stato accompagnato da grosse critiche sui giornali statunitensi. Tuttavia, assicurano i curatori, sarà anche un modo per fare i conti con gli strumenti utilizzati nella storia del sistema giudiziario americano.
Tra il 1930 e il 1931 la “Guerra Castellammarese” tra i clan lascia per le strade degli Stati Uniti più di sessanta cadaveri e alla fine Maranzano ne esce vincitore, riorganizzando le famiglie americane e dotandosi anche di una facciata legale tramite una società immobiliare. Maranzano percepisce come ingombranti le figure di Luciano e Genovese e prova a “fargli la festa”, ma loro, grazie a una banda vestita da finti poliziotti arrivano prima e il “boss of the bosses” Salvatore Maranzano il 10 settembre del 1931 viene fatto fuori. Stessa sorte, lo stesso giorno, per altri quaranta uomini di origine italiana veterani dell’organizzazione. Luciano, dal capello untuoso e dall’occhio di ghiaccio, aveva pianificato tutto nel dettaglio. Valachi finisce così nella famiglia di Vito Genovese e Lucky Luciano e prende ordini da Tony Bender, al secolo Anthony Strollo.
«Quando mi siedo si siede tutta la tavolata. Qualcuno mi mette davanti sul tavolo una pistola e un coltello. Ricordo che la pistola era una calibro 38 e il coltello era un pugnale. Dopodiché Maranzano (all’epoca reggente delle famiglie della mafia italo-americana, ndr) fa segno d’alzarci di nuovo e tutti noi ci prendiamo le mani e lui dice qualcosa in italiano. Poi ci sediamo e lui si volta dalla mia parte e, sempre in italiano, parla del coltello e della pistola: “Questo significa che tu campi di pistola e coltello e che muori di pistola e coltello”»
Genovese e Luciano tengono buono Valachi e gli assegnano il giro delle slot machine e un banco scommesse. Il 18 settembre del 1932 Joseph Valachi sposa Mildred Reina, figlia del defunto luogotenente di Maranzano, Gaetano Reina. Testimone di nozze d’eccezione: don Vito Genovese in persona. La mafia intanto fa affari col racket, con la “protezione” data ai commercianti dalle altre bande criminali, con le scommesse, il gioco d’azzardo e si maschera di business legale con le società di costruzioni e riuscendo anche a infiltrarsi nel sindacato dei lavoratori. Gli investigatori però iniziano a tirare le fila di quello che accade nel sottobosco della mafia e nel 1936 arrestano Lucky Luciano, mentre Vito Genovese decide di trascorrere gli anni della Seconda guerra mondiale in Italia. Un ritorno in madrepatria per Genovese dopo una permanenza di tre mesi nel 1933. Sul finire della guerra Genovese verrà rintracciato in Italia e si scoprirà una sua donazione di 250mila dollari per la costruzione di una casa del fascio.
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In quegli anni Valachi se la cava diventando socio di un ristorante e acquistando un cavallo che faceva correre all’ippodromo. Alla fine della guerra Genovese torna negli Stati Uniti e riorganizza cosa nostra rimasta in mano a Joseph Anastasia («un pazzo» lo descrive Valachi) e Frank Costello. La riorganizzazione avviene nel 1957 al summit di Apalachin, nello Stato di New York, che si rivelerà teatro di un blitz della polizia. Durante l’operazione, le forze dell’ordine fermeranno parte dei presenti, ma non don Vito Genovese che riesce a farla franca per un anno: l’arresto arriva nel 1958 per traffico di stupefacenti, sia per don Vitone, sia per Joseph Valachi.
Nei giorni trascorsi nel carcere federale di Atlanta con Vito Genovese, Valachi matura l’idea di essere sotto il tiro degli uomini del capomafia. Lo stesso Genovese avrebbe dato a Valachi anche il cosiddetto “bacio della morte”. Dopo essere scampato per tre volte ai tentativi di ucciderlo in carcere, Joe incontra don Vito: «Sai – attacca a parlare Genovese quando incontra Valachi – teniamo un barile di mele e in questo barile c’è una mela marcia. Questa mela deve essere tolta di mezzo, perché se non viene tolta di mezzo finisce che infetta tutte le altre mele».
Don Vito Genovese a Joe Valachi nel carcere federale di Atlanta: «Sai teniamo un barile di mele e in questo barile c’è una mela marcia. Questa mela deve essere tolta di mezzo, perché se non viene tolta di mezzo finisce che infetta tutte le altre mele»
Nelle settimane precedenti quel colloquio, Valachi è stato accusato di aver “smicciato”, quindi di aver aperto bocca su cosa nostra con gli agenti dell’FBI. La mattina del 22 giugno 1962 un Valachi inquieto e sempre più convinto di essere bersaglio degli uomini di Genovese in carcere uccide un altro detenuto, scambiandolo per Joe Beck Di Palermo, uomo di Genovese. Viene portato in isolamento e non ha più contatti con gli altri inquilini della prigione.
Per l’omicidio in carcere, Valachi rischia la condanna a morte, così in cambio della clemenza decide di svelare i segreti della mafia negli Stati Uniti, almeno quelli da lui conosciuti. A capo del Dipartimento di Giustizia a Washington c’è dal 1961 Robert Kennedy, che dal suo insediamento sta concentrando parte delle forze dell’FBI nello svelare i meccanismi mafiosi impiegando uomini e mezzi come mai era successo prima nei confronti di cosa nostra. Nel frattempo, fonti interne al sistema carcerario statunitense apprendono che Vito Genovese ha fissato sulla testa di Joe Valachi una taglia da 100mila dollari per ucciderlo: i timori del pentito di non sfuggire al sanguinario boss sono fondati.
Per l’omicidio in carcere Valachi rischia la condanna a morte, così in cambio della clemenza decide di svelare i segreti della mafia negli Stati Uniti, almeno quelli da lui conosciuti
La collaborazione con la giustizia e l’avvio della Commissione McClellan
Nel 1962 Joe Valachi viene trasferito prima nel carcere di Worchester, e successivamente, nel 1963, nella prigione di massima sicurezza di Forth Monmouth, nel New Jersey. É nel 1963 che per tre mesi, tre ore al giorno per quattro volte a settimana l’investigatore dell’FBI James P. Flynn, raccoglie le testimonianze di Joe Valachi con cui ricostruì organigrammi, traffici e business sporchi e puliti di cosa nostra negli Stati Uniti. Valachi è poi comparso davanti alla Commissione McClellan, costituita e presieduta dal senatore dell’Arkansas per indagare il crimine organizzato negli Usa negli anni Sessanta, confermando tutto quello che aveva raccontato a James P. Flynn.
Quelle sedute sono state trasmesse in televisione, senza molto successo, anche perché, ricorda il giornalista Peter Maas, per molti esponenti della politica statunitense sono state solo un ghiotto momento di campagna elettorale. Tuttavia gli atti di quella commissione, a cui hanno preso parte anche gli investigatori e lo stesso Robert Kennedy rimangono un tesoro prezioso.
Valachi richiama nei suoi memoriali anche dure accuse di corruzione nei confronti del Bureau of Prisons (l’amministrazione penitenziaria), del Bureau of Narcotics (il dipartimento antidroga) e dello stesso ministero della giustizia, oltre che della politica locale statunitense. Valachi racconta in seguito al giornalista Peter Maas, autore de Il Dossier Valachi, che lo stesso McClellan si è recato a trovarlo in forma privata prima delle audizioni, pregandolo di evitare di menzionare ciò di cui era a conoscenza su Hot Springs, collegio elettorale del senatore.
L’eco del nome di Valachi arriva anche in Italia: nel 1965 il giudice istruttore di Palermo Aldo Vigneri riesce a ottenere il visto per andare a interrogare il pentito e visionare i documenti riservati in possesso dell’FBI. Fa di più riuscendo a farsi trasmettere le sentenze dei tribunali americani e le relazioni di polizia che provano il coinvolgimento della mafia siciliana nel traffico di stupefacenti con i boss dall’altra parte dell’oceano. A Palermo però l’intuizione e il viaggio di Vigneri, che prova a mettere nero su bianco come i fili del narcotraffico vengano tirati in realtà in Sicilia, vengono bollate come una “americanata”: si ritenne insomma che, in virtù del fantomatico “codice d’onore” dei boss, cosa nostra non si sporchi le mani con la droga.
Lo stop più pesante per Vigneri arriva dalla stessa procura di Palermo, che respinge la richiesta di rinvio a giudizio per il capomafia Genco Russo. Rinvio a giudizio che avrebbe dato peso a quella riunione all’Hotel delle Palme di Palermo in cui i quadri di Cosa Nostra, siciliana e americana, si trovano nel 1957 per organizzare al meglio il traffico di droga. Su quell’incontro però le relazioni di polizia sono fumose e non ne sono mai esistite di ufficiali, così come mai sono state disposte indagini suppletive. Come ha dichiarato più volte lo storico italiano Alfio Caruso «in quel momento sono stati regalati alla mafia trent’anni di vantaggio».
A Palermo l’intuizione e il viaggio di Vigneri, che prova a mettere nero su bianco come i fili del narcotraffico vengano tirati in realtà in Sicilia, vengono bollate come una “americanata“: si ritiene insomma che in virtù del fantomatico “codice d’onore“ dei boss, cosa nostra non si sporchi le mani con la droga.
«Prima di Valachi non c’era alcuna concreta evidenza che una realtà come cosa nostra potesse anche solo esistere. Valachi ha dato un nome ad ogni cosa. Ha svelato la struttura e il modo di agire. In poche parole, ha dato un volto al nemico»
Joe Valachi dopo le audizioni viene trasferito nel supercarcere di La Tuna, ad Anthony, Texas, in una cella di massima sicurezza che verrà soprannominata “The Valachi Suite”. Nel 1971 il primo pentito della storia della mafia «colui che ruppe il muro dell’omertà», lo ricordano negli Stati Uniti, muore d’infarto in cella. Due anni dopo la dipartita di quel Vito Genovese che su Valachi aveva fissato la taglia da 100mila dollari.
La relazione di Robert Kennedy
Dei giorni delle audizioni di Valachi, oltre al libro del giornalista Peter Maas The Valachi Papers – la cui uscita negli Stati Uniti è stata osteggiata da alcuni esponenti delle comunità italiane e dal periodico italo-americano Il Progresso in quanto avrebbe dato stereotipi “razzisti“ sugli italiani – rimane la lucida relazione del 25 settembre del 1963 stilata da Robert Kennedy, allora ministro della Giustizia del governo guidato da suo fratello John Fitzgerald. Nel documento, Kennedy evidenzia i rischi derivanti dall’ingresso della mafia nella corruzione dei pubblici ufficiali e nel circuito del lavoro e dell’economia legale, oltre agli immancabili mercati della droga, prostituzione, racket, e gioco d’azzardo illegale.
«L’attenzione dell’opinione pubblica – dirà Kennedy davanti alla commissione McClellan prima delle audizioni di Valachi – non è sufficiente. Diventa sempre più un urgenza nazionale». Un’urgenza che si ripercuote sull’economia legale anche grazie alle frodi bancarie, e sul mondo del lavoro, notava Kennedy, che sulle dichiarazioni di Valachi era convinto: «Le rivelazioni di Joseph Valachi ci hanno aiutato, come mai in precedenza, a capire come funzionano le operazioni» della mafia, senza escludere quelle riguardanti la «corruzione politica».
«È chiaro – spiega nelle battute conclusive Robert Kennedy – che la criminalità organizzata sia un problema nazionale. In breve il crimine organizzato tocca tutti. L’unica preoccupazione non può essere solo trovare soluzioni legislative. Deve essere una urgenza che interessi attivamente ogni cittadino».
Leggi la relazione integrale dell’allora ministro della giustizia statunitense Robert Kennedy
Gli stessi Flynn e Maas sono sempre stati convinti di una cosa: Valachi non era un pentito, semplicemente non aveva nulla da perdere e ha raccontato tutto. William Hundley, ex capo della sezione crimini e racket del Dipartimento di giustizia americano, dirà: «Prima di lui non c’era alcuna concreta evidenza che una realtà come cosa nostra potesse anche solo esistere. Valachi ha dato un nome ad ogni cosa. Ha svelato la struttura e il modo di agire. In poche parole, ha dato un volto al nemico».
CREDITI
Autori
Luca Rinaldi
Editing
Illustrazioni
Foto
JFK National Library
Wikimedia