Figli del Silenzio

10 Febbraio 2023 | di Elena Basso, Giulia De Luca

Dal 1950, con un picco durante la dittatura militare di Augusto Pinochet, oltre 20 mila bambini sono stati strappati ai loro genitori e dati illegalmente in adozione a migliaia di famiglie dei Paesi più ricchi del mondo. Cresciuti senza avere idea che dall’altra parte dell’Oceano ci fossero una madre e un padre che li stavano cercando, la maggior parte di questi bambini ha vissuto senza conoscere le proprie origini. Ma negli ultimi anni, grazie a inchieste giornalistiche che hanno gettato luce su questo caso, un gruppo di madri si è riunito per cercare i figli scomparsi.

Da allora ha iniziato a indagare anche la giustizia cilena scoprendo un vero e proprio traffico di bambini che ha coinvolto enti religiosi, funzionari dello Stato cileno, assistenti sociali e militari. I Paesi in cui la maggior parte dei bambini è stata adottata illegalmente sono Italia, Svezia, Spagna e Olanda e, fino a oggi, nessuno dei governi ha dato spiegazioni o partecipato alle indagini portate avanti dal Cile. Ma non solo: ben 500 di questi bambini sono stati adottati illegalmente in Sardegna, portati in Italia da un gruppo di suore che aveva varie sedi nel Paese latinoamericano.

Chi sono questi bambini? E le loro vere famiglie che li cercano dall’altra parte dell’Oceano? Siamo andate a cercarli e in questi mesi abbiamo parlato con loro e le loro famiglie. Le loro storie e testimonianze sono racchiuse nel podcast scritto da Elena Basso e Giulia De Luca e prodotto da IrpiMedia Figli del silenzio: il caso dei 500 bambini cileni adottati in Sardegna.

Elena e Giulia sono arrivate a questo argomento attraverso differenti canali ma, avendo entrambe la passione per l’America Latina, diventata parte integrante del loro lavoro, sono entrate in contatto con le molte realtà riguardanti i diritti umani, e la loro negazione, nel continente. Rispetto a una generale violazione dei diritti, soprattutto per alcune categorie di persone, ogni Paese è complesso e differente. Questa è una storia cilena.

Ep. 1 – I 20 mila bambini rubati

Dal 1950 oltre 20 mila bambini sono stati rapiti in Cile e dati illegalmente in adozione a migliaia di famiglie in tutto il mondo. Ai genitori, spesso poveri, i figli venivano portati via da un giorno all’altro dalle forze dell’ordine, da religiosi o da assistenti sociali a cui i genitori li affidavano per un periodo di tempo limitato. A molte madri, veniva detto che i loro bambini erano nati morti.

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Ep. 2 – Da Santiago a Baunei

Ben 500 bambini sono stati rubati in Cile a famiglie che non li hanno mai voluti abbandonare per essere portati in Sardegna, dove sono stati adottati illegalmente. A gestire il traffico un gruppo di suore sarde che aveva varie sedi nel Paese latinoamericano.

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Ep. 3 – Le madri

Da alcuni anni le madri a cui sono stati rubati i figli si sono riunite in un’associazione per chiedere giustizia. Nonostante le inchieste portate avanti dai media e dalla magistratura cilena però questo caso è ancora un tabù nel Paese. E in Italia? Chi sono le religiose che hanno portato avanti questo traffico?

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Ep. 4 – Desaparecida

Strappati alle loro famiglie che non hanno mai acconsentito a darli in adozione dall’altra parte del mondo, questi bambini molte volte in Italia sono arrivati in nuclei familiari problematici in cui hanno subito diversi abusi. Nessun controllo veniva fatto sull’ambiente familiare né al momento dell’arrivo né successivamente. Le loro famiglie li hanno cercati per più di 40 anni, senza successo.

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Figli del Silenzio è un podcast di IrpiMedia
Scritto da: Elena Basso e Giulia De Luca
Edito da: Giulio Rubino
Prodotto, montato e sonorizzato da: Riccardo Cocozza
Con le voci di: Amelie Tapella, Costanza Spocci, Stefano Starna, Massimo De Luca, Luca Raineri, Anna Maria Tulli, Paolo Rossini, Enea Bellanti, Noemi Snell, Marzia Coronati, Silvia Albini
Illustrazioni di: Claudio Capellini
Musiche di: Riccardo Cocozza

(Dis)onora i tuoi debiti

07 Ottobre 2022 | di Alice Facchini

«La Bibbia dice che bisogna tenere fede alla parola data e onorare i propri debiti, ma tutto dipende da come vengono letti questi precetti. Nel mio modo di vedere, se una donna viene portata in Europa dietro a false promesse e si ritrova in strada obbligata a prostituirsi, il debito che ha nei confronti della madame non è valido, perché a monte non c’era un accordo chiaro e consensuale». Princess Inyang Okokon ha gli occhi pensierosi e la voce profonda. È una mediatrice culturale per l’associazione Piam Asti, che ha contribuito a fondare 22 anni fa per aiutare le donne vittime di tratta a uscire dallo sfruttamento. Ed è anche una pastora pentecostale nella sua chiesa, la Liberation foundation international ministry.

L’arrivo in Italia

Anche Princess Okokon è arrivata in Italia attraverso la rete della tratta, come tante delle ragazze che oggi supporta. Nel 1998, nel suo ristorante a Benin City, conosce una donna che le promette di aiutarla ad andare in Europa. Le dice che lì si può guadagnare molto aprendo un ristorante africano: Okokon si fida e decide di partire. Viaggia in aereo con documenti falsi e atterra a Torino, dove viene venduta a un’altra madame. È solo in quel momento che scopre di avere un debito di 45 mila euro da saldare.

Così viene obbligata a prostituirsi. «La madame mi picchiava, una volta mi ha anche mandata all’ospedale aprendomi la testa con il tacco di una scarpa», racconta. Dopo sei mesi, non ce la fa più. «Qualche anno prima, un pastore mi aveva detto che sarei andata in Europa a liberare le anime che erano schiave. In quel periodo pregavo e chiedevo allo spirito santo: ma non sono qui per diventare profeta? O sono arrivata solo per vendere il mio corpo?».

Breve storia delle migrazioni, tra aerei e barconi

di Lorenzo Bagnoli

Quando Princess Okokon è entrata in Italia via aereo, l’immigrazione irregolare era diversa da quella di oggi. L’anno in cui è arrivata, il 1998, è entrato in vigore il testo Unico sull’Immigrazione, noto come legge Turco-Napolitano. È stato il primo tentativo – fallimentare – di costruire un flusso regolare d’ingresso e disincentivare l’attraversamento delle frontiere senza documenti. In quegli anni erano tanti i migranti che entravano in Italia con un visto turistico e restavano anche dopo la sua scadenza, diventando overstayer. È accaduto anche che il documento fosse concesso a suon di mazzette: a Torino, nel 1996, la procura aveva aperto un’inchiesta per concessione di visti facili, anche a organizzazioni dedite alla tratta delle donne. Erano gli anni in cui la migrazione dall’Africa cominciava a prendere delle dimensioni più importanti.

È in questo contesto che il governo di Silvio Berlusconi, nel 2002, ha introdotto la legge Bossi-Fini. Come spiega ad Altreconomia l’avvocato Livio Neri, socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), con la Bossi-Fini il governo ha cominciato a trattare l’immigrazione come un problema di ordine pubblico, da risolvere con un approccio repressivo. È stata la legge che ha introdotto la dipendenza tra permesso di soggiorno e lavoro: per restare in Italia si deve avere un permesso di soggiorno, che però è molto difficile da ottenere senza un lavoro. Questo circolo vizioso è ancora oggi un serbatoio di irregolarità.

A dicembre 1996, davanti alle coste di Portopalo, in Sicilia, il mare inghiottì 283 migranti provenienti da Pakistan, India e Bangladesh. È una delle date spartiacque nella storia delle migrazioni. Nonostante già si registrassero in quegli anni tragedie del genere lungo la rotta del Mediterraneo Centrale, la maggioranza dei migranti irregolari nei primi anni Duemila erano overstayer. «Secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno – scriveva Italia Oggi nel 2004 – il 75% degli irregolari attualmente presenti nel Paese è arrivato con il permesso di soggiorno e alla sua scadenza non è più rientrato nella terra d’origine». La considerazione seguente, che circola ancora oggi, riguarda il numero di identificazioni e di respingimenti degli irregolari troppo bassa, intorno al 30%. Questo elemento è rimasto costante nei dati del Ministero dell’Interno anche quando, a partire dalla cosiddetta “Emergenza Nord Africa” del 2011, gli sbarchi sono diventati maggioranza, fino a superare le 180 mila unità nel 2016. La frontiera marittima, di conseguenza, è diventata la più calda sul fronte della migrazione irregolare.

Nel rapporto della Fondazione Migrantes del 2020, però, si legge un ricorso storico: l’81,9% dei respingimenti del 2019 è stato effettuato agli aeroporti. «Si è dunque invertito, nel corso del 2019, il trend che aveva caratterizzato gli anni scorsi, che avevano registrato prevalenti e copiosi arrivi via mare», si legge nel rapporto. Si vedrà dopo il Covid come cambierà il trend.

Nel 1999 conosce Alberto Mossino, oggi suo marito, e grazie al suo aiuto scappa dalla madame e la denuncia. Durante il processo, testimonia di fronte a lei e la fa condannare a quattro anni di carcere. Poi fonda l’associazione Piam Asti: «Abbiamo iniziato con l’unità di strada, aiutavamo le donne che avevano problemi di salute e che avevano bisogno di un accompagnamento in ospedale, oppure le supportavamo nella ricerca di un lavoro», racconta. «Nel tempo abbiamo attivato un progetto sociale che offre ospitalità in case protette: lì abbiamo dato vita a una scuola di italiano, oltre a vari corsi specializzanti come quelli di aiuto cuoca, barista, pizzaiola, addetta alle pulizie, badante. Lavoriamo molto sull’autonomia».

L’«esempio vivente» che si può evitare di estinguere il debito

Per il suo impegno, Princess Okokon ha ricevuto nel 2022 la nomination all’Ypres Peace Prize, premio internazionale dedicato alla pace, conferito ogni tre anni dalla città di Ypres, in Belgio. «Per aiutare le donne che vogliono uscire dallo sfruttamento, un aspetto fondamentale che si tende a sottovalutare è quello spirituale – spiega -. Queste ragazze, spesso molto giovani, hanno fatto un rituale voodoo o juju per sancire il proprio patto con la madame: questo le lega indissolubilmente fino a che non avranno ripagato il proprio debito».

Questi rituali hanno origine nei culti africani animisti: una sorta di stregone utilizza capelli, unghie o peli pubici della ragazza per legarla alla sua madame, fino alla restituzione della somma anticipata. Se i soldi non dovessero essere resi, malattie e sfortune colpiranno la donna e i suoi familiari. «Queste ragazze sono terrorizzate – dice Princess -. Ecco perché nella mia chiesa io organizzo le deliverance, rituali per rompere i giuramenti fatti attraverso il voodoo e il juju. In questo modo queste persone riacquisiscono la propria libertà».

Per approfondire

Un momento di preghiera presso la chiesa pentecostale Salvation Ministries a Port Harcourt (Nigeria) nel febbraio 2019 - Foto: Yasuyoshi Chiba/Getty

Il silenzio delle chiese pentecostali sulla tratta delle donne nigeriane

Sono il fulcro delle comunità nigeriane all’estero. A volte proteggono criminali e sfruttatrici. Nessuna indagine ha mai chiarito il loro ruolo

Princess non ha paura di schierarsi contro la tratta di esseri umani e contro chi è nella rete, e lo fa anche all’interno della sua chiesa: «Certo non posso essere io a decidere chi entra e chi no, cacciando le madame o chi fa parte dei gruppi criminali – afferma -. Quello che posso fare però è esortare la mia comunità a comportarsi come bravi cristiani. Durante l’omelia, dico esplicitamente di non compiere attività illecite: le madame si innervosiscono e se ne vanno, ma a me non interessa. Sono stata anche in altre chiese a portare la mia testimonianza: io sono l’esempio vivente che si può sopravvivere anche senza aver pagato il proprio debito, e per le ragazze ascoltare queste storie è importante».

Pastori e cult

Ci sono invece altri pastori pentecostali che hanno interesse a ospitare le madame, tra le altre cose anche per le offerte che portano alla chiesa. In particolare c’è la decima, un’offerta che equivale a un decimo del proprio guadagno. «La decima di una madame vale molto di più della decima di una ragazza sfruttata, visto che i suoi guadagni sono maggiori – spiega Princess -. Ci sono pastori che non hanno un altro lavoro e che vivono della propria attività religiosa: io invece faccio anche un altro mestiere e non sono interessata a quel tipo di offerte. Ma ce ne sono anche molti altri che si attivano per aiutare le ragazze a uscire dalla rete, e che le indirizzano alla mia associazione».

In alcuni casi, c’è stato chi ha provato a fare donazioni alla sua chiesa o all’associazione per comprare il suo silenzio: «Un giorno delle persone mi hanno chiamato, dicevano che volevano avviare una collaborazione e darci un finanziamento, avevano molta fretta – racconta -. Abbiamo indagato e ci siamo resi conto che si trattava di membri dei cult, le confraternite nigeriane che agiscono con metodi mafiosi. Abbiamo subito declinato l’offerta: successivamente c’è stata una retata, hanno arrestato 69 nigeriani del cult De Norsemen Kclub».

Per quanto l’Italia riconosca i metodi di certi cult come mafiosi, in Nigeria, Gran Bretagna e Stati Uniti il Kclub è legittimamente registrato e descritto come «organizzazione umanitaria» da alcuni media locali. Si legge sul sito dell’organizzazione che il nome rimanda ai Norreni, «”marinai” che regnarono nell’VIII-XI secolo nei Paesi scandinavi come Danimarca, Norvegia e Svezia» in una società che aveva come motto «servizio all’umanità», mutuato anche dal Kclub nigeriano. I Norreni, prosegue la descrizione del Kclub, si sono contraddistinti per «audacia e coraggio» nella «lotta per l’uguaglianza di tutti», che ispira gli aderenti al cult anche in Nigeria.

Nata come organizzazione giovanile negli anni Ottanta per promuovere la pace in un momento di forti tensioni interne al Paese, oggi il Kclub è considerato dai suoi sostenitori uno strumento per la gestione dei conflitti e dai suoi detrattori come un gruppo di gangster. Di certo si esprimono su temi di pubblico interesse e hanno spazio sui giornali locali, anche in vista delle elezioni in Nigeria del prossimo febbraio.

Andare contro organizzazioni del genere costa: per la sua attività, Princess subisce intimidazioni e minacce telefoniche da parte di chi non vede di buon occhio il suo impegno. Ma lei va avanti per la sua strada. «Non mi lascio spaventare – conclude – Ho fede in Dio, mi sento protetta: non ho paura perché ho in me il potere di Cristo».

Come cambia la tratta delle donne dalla Nigeria

29 Luglio 2022 | di Antonella Mautone

Inumeri delle persone costrette a vendere sesso per strada sono in calo. Eppure dietro questa notizia positiva ci potrebbero essere delle nuove forme di sfruttamento. «Questo è un momento di passaggio – sostiene Gianfranco Della Valle, responsabile del Numero verde antitratta, un servizio messo in piedi dal Dipartimento delle pari opportunità per aiutare le vittime di sfruttamento sessuale o lavorativo -. La tratta sta cambiando». Vengono soprattutto dalla Nigeria le sex worker costrette a vendere il loro corpo in Italia. Sono tra coloro che sono sempre meno visibili in strada: «Alcune iniziano a prostituirsi in appartamento – spiega Della Valle -. ma non abbiamo dati reali del fenomeno».

Per la maggior parte si tratta di donne già arrivate da tempo in Italia, che faticano a regolarizzarsi. Gli operatori sentono sempre più di frequente che alcune di loro sono costrette anche a vendere droga, soprattutto al nord Italia. Anche i risultati positivi ottenuti dalla magistratura potrebbero nascondere qualche effetto collaterale: «A fine 2019 nel territorio di nostra pertinenza ci sono state numerose operazioni di polizia che hanno colpito la criminalità nigeriana – racconta Lina Trovato, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia a Catania, da anni impegnata nella lotta alla tratta -. Da quel momento abbiamo notato una diminuzione di ragazze e, a inizio 2020, la totale assenza di minori in strada. Questo ci fa pensare che il timore di un’azione giudiziaria troppo aggressiva abbia portato le organizzazioni a “spostare” le ragazze”».

La procuratrice ipotizza che le donne che gestiscono i guadagni delle prostitute, le madame, «abbiano deciso di abbandonare le ragazze in Libia» perché non riuscivano a organizzare il viaggio. Lo sfruttamento che non si vede in Italia potrebbe quindi essersi fermato sulle coste libiche.

Le parole della tratta

Madame: Nel contesto della tratta, indica la trafficante che sfrutta le ragazze che vendono prestazioni sessuali. Le madame raccolgono i soldi del debito. Spesso sono state anche loro prostitute. Oga è il corrispettivo maschile delle madame.

Debito: Somma che le vittime di tratta devono restituire alle organizzazioni criminali per pagare il loro viaggio in Europa. Per estinguere il debito, le vittime sono costrette a prostituirsi oppure a spacciare. Se non lo fanno, le organizzazioni minacciano ritorsioni nei confronti della famiglia di origine.

Native doctor: È uno sciamano che sottopone le vittime di tratta a riti voodoo (juju è il termine che usa la comunità nigeriana). Attraverso il juju le ragazze sono costrette a ripagare il loro debito alle madame. È lo strumento di coercizione spirituale alla quale sono sottoposte le ragazze.

Boga: È la persona che accompagna le vittime. È in perenne contatto con i trafficanti e con le madame.

Connection man: È colui che organizza i viaggi dalla Nigeria all’Italia, il più delle volte passando dalla Libia. L’imbarcazione con la quale le donne sono costrette ad attraversare il Mediterraneo è chiamata la palapa.

Connection House: È il termine attraverso cui le vittime di tratta definiscono i bordelli dove sono costrette a prostituirsi. Si trovano principalmente in Libia, ma ne esistono anche in alcuni ghetti italiani.

Le “organizzazioni”

Sono ipotesi, perché sono ancora molti i lati poco conosciuti della tratta delle schiave sessuali dalla Nigeria. Il mercato è appannaggio sia di organizzazioni di piccole dimensioni, sia di strutture criminali che sono state condannate in Italia con l’aggravante mafiosa. Questi gruppi criminali organizzati in Nigeria si chiamano cult.

«Normalmente – spiega la pm della procura antimafia di Catania Lina Trovato – la prostituzione è gestita da una o due persone in concorso, oppure da piccole associazioni criminali che prendono una ragazza e dalla Nigeria la fanno arrivare qui».

I cult, invece, commettono una serie di reati «concernenti soprattutto il traffico di stupefacenti nel nord Italia – specifica Trovato -. Questo non vuol dire che il cultismo non abbia nulla a che fare con la tratta, ma non è lo scopo principale dell’associazione: capita talvolta che ci siano membri dei cult che abbiano una fidanzata vittima di tratta o che siano sposati con una madame, oppure gestendo una connection house (bordello, vedi box) in Libia, la mafia nigeriana chieda alle madame di pagare una percentuale sui guadagni».

“Mafia nigeriana” è una categoria molto strumentalizzata dal punto di vista politico, tanto è vero che Giorgia Meloni, insieme allo psichiatra Alessandro Meluzzi e a Valentina Mercurio, l’ha usata come titolo di un libro: Mafia nigeriana. Origini, rituali, crimini. L’argomento ricorre di frequente nei comizi del suo partito Fratelli d’Italia e della Lega. Al netto della propaganda sull’invasione dei migranti, però, è un fatto che i tribunali italiani riconoscano l’aggravante del metodo mafioso per alcuni cult nigeriani.

Uno dei più potenti in Italia è la Black Axe. Secondo un’inchiesta di BBC Africa Eye, nasce all’interno del Neo Black Movement of Africa (NBM), movimento studentesco formatosi all’Università di Benin negli anni Settanta. In origine si trattava puramente di una formazione anti-aparthaid che voleva combattere ogni forma di sfruttamento. Il simbolo è tutt’oggi una catena spezzata da un’ascia nera. Il movimento ha smentito ogni collegamento con le attività criminali degli affiliati ai Black Axe. Nonostante le prese di posizione contro la violenza, il movimento universitario è tuttavia ritenuto assimilabile alla Black Axe dagli inquirenti statunitensi, canadesi e sudafricani e dall’Interpol.

In Italia, scrive il Ministero dell’interno in un focus del 2021, ci sono stati 154 cittadini nigeriani segnalati per 416 bis contro 28 nell’anno precedente. L’esito giudiziario di questi processi con l’aggravante del metodo mafioso non è tuttavia scontato.

A Palermo a seguito di un’operazione del 2016 sono scaturiti due processi: nel filone ordinario, il 416 bis è decaduto; in quello abbreviato, su 14 imputati, dodici sono stati condannati in appello. Nella sentenza di condanna di primo grado, che risale al 2018, si legge che l’organizzazione ha «interessi solo nel settore della prostituzione o dello smercio di sostanze stupefacenti, nell’ambito del quale poteva vantare i giusti canali di approvvigionamento grazie alla rete dei connazionali sparsi in tutta Europa, ed era altresì disposta ad assumersi il maggior rischio di andare incontro a conseguenze giudiziarie». Ma la situazione oggi sembra essere diversa da quella fotografata dalla sentenza di allora.

Il calo degli sbarchi

I dati del monitoraggio nazionale fatto dal Numero verde antitratta, il cui dipartimento dipende direttamente dalla Presidenza del Consiglio, dicono che nel maggio 2017 le persone presenti in strada in orario notturno erano 3.178, mentre a giugno 2021 ne sono state segnalate “solo” 1.623. Sotto la voce “Africa” al 90% si parla della nazionalità nigeriana. Sotto la voce “Europa” al 50% sono rumene, 25- 30% albanesi, e il resto bulgare. Secondo il Ministero della Giustizia anche le denunce per lo sfruttamento della prostituzione sono passate da 1.761 del 2015 a 524 nel 2019.

L’ultimo rapporto del Servizio analisi criminali del Viminale ha evidenziato che ancora «le nazionalità più attive nella tratta degli esseri umani sono quella nigeriana, seguita da quella romena, italiana e albanese». Il Ministero delle Pari opportunità registra nel 2020 (il dato più recente) 1.475 donne nigeriane assistite dagli operatori del servizio antitratta, il 72,3% del totale.

Prima del 2014, le vittime di tratta nigeriane arrivavano in Italia principalmente via aereo. Poi hanno cominciato ad arrivare con i barconi: tra il 2014 e il 2016, il numero è cresciuto esponenzialmente (+600%). Tra il 2015 e il 2017 ne sono arrivate oltre 22 mila, poi, dopo il 2017, meno di 500. «Se vediamo meno donne dell’est in strada, si può pensare che una volta rimaste in Italia siano passate all’indoor – spiega Gianfranco Della Valle, responsabile del Numero verde antitratta -. Per le nigeriane è diverso: non ne arrivano più».

Il motivo principale è legato alla generale riduzione degli sbarchi: dopo i numeri del 2016 (181.000) e del 2017 (119.310), c’è stato un netto calo di arrivi in Italia che ha toccato il minimo con 11.471 migranti nel 2019. Stesso andamento per gli ingressi delle vittime di tratta nigeriane: il picco di entrate è stato registrato nel 2016, con 11.000 ingressi, per poi passare a 5.400 nel 2017, 324 nel 2018, 41 nel 2019, 82 nel 2020, e 215 nel 2021 (dati del Numero verde antitratta).

Poi c’è la pandemia, che ha avuto delle conseguenze su tutto il mercato del sesso a pagamento. Luca Scopetti lavora per Parsec, una cooperativa romana che da circa trent’anni si occupa di contrastare i fenomeni delle dipendenze e della tratta di esseri umani: «Quando il virus ha iniziato a diffondersi, la maggioranza delle donne rumene è rientrata a casa – racconta – mentre le altre non erano presenti in strada, rendendo più difficile per gli operatori contattarle e cercare di favorire, per chi volesse, eventuali fuoriuscite».

Dalla strada alle piazze di spaccio

«Da quando ho iniziato a occuparmi di tratta, circa venti anni fa, sono cambiate molte cose per le ragazze», racconta Elizabeth, mediatrice nigeriana che in Veneto lavora con le vittime del mercato dello sfruttamento, sue connazionali. Ricorda il caso di una ragazza arrivata a Roma nel 2015: «Per pagare il debito dovuto alle organizzazioni criminali che minacciavano la sua famiglia, ha iniziato a trasportare droga fino a Padova, dove la polizia l’ha beccata. Aveva ventitré anni».

Il “debito” (vedi box) è ciò che lega la vittima ai propri sfruttatori: fino a che non si estingue, la persona trafficata avrà il timore che i criminali possano rivalersi sulla propria famiglia di origine, a casa. Solo una piccola parte è quanto serve davvero per il viaggio, il resto arricchisce i criminali. Al debito economico, si aggiunge anche il juju, un rito particolare che soggioga le vittime di tratta anche sul piano psicologico (vedi box). Agli inizi degli anni Novanta, quando il viaggio era principalmente via aereo, il debito era anche di 60-75 mila euro, mentre nel 2015-2016, quando sono diventate più comuni le traversate via mare, si è abbassato a 25-35 mila. A volte il legame non si spezza nemmeno quando è stato ripagato, perché oltre a quello economico le vittime sono sottoposte a un giogo spirituale, sancito attraverso dei riti particolari. Per pagare il debito, quindi, si comincia a lavorare. Prima la merce pressoché esclusiva delle donne era il sesso, ora sono costrette anche a vendere droga, con nuovi rischi.

«Le organizzazioni criminali – aggiunge Gianfranco Della Valle – chiedono alle ragazze di continuare a guadagnare, non più prostituendosi, ma trasportando qualsiasi tipo di droga». Eroina, cocaina ma anche il Tramadol, un anestetico inserito nella lista delle sostanze psicotrope che la Nigeria importa dal mercato asiatico o produce clandestinamente, costa poco ed è usato per “sballarsi” dai giovani e nelle periferie di Lagos. Il suo abuso provoca euforia, inibisce stanchezza e fame, per questo molte ragazze lo assumono anche prima di intraprendere il viaggio che le porterà qui. «In Italia le ragazze acquistano il Tramadol online e lo vendono al minuto, alcune ne rimangono schiave per sempre», conferma Elizabeth, la mediatrice culturale.

Il trasporto della droga – che ha come destinazione principale l’Italia settentrionale – può diventare in alcuni casi lo strumento per saldare il debito. Questo fenomeno, secondo Della Valle, è diventato sempre più evidente con la pandemia, che ha reso più difficile la prostituzione di strada. «Le ragazze – afferma il responsabile del numero verde antitratta – vengono usate per azioni per cui rischiano molto di più dal punto di vista penale». Della Valle sottolinea che secondo i dati delle direzioni distrettuali antimafia, tra il 2019 e il 2020 le rimesse economiche che dall’Italia vanno in Nigeria si sono quadruplicate. Ritiene che le stesse organizzazioni abbiano portato in Italia anche giovani uomini, anche loro con un proprio debito da estinguere, di solito intorno ai 15 mila euro. Questi sono poi finiti nelle piazze di spaccio, dove oggi si trovano anche ragazze vittime di tratta.

«La mafia nigeriana – prosegue Della Valle – è stata etichettata come quella delle tre “d”: donne, denaro e droga. Il viaggio fino all’Italia secondo alcuni studi non è mai costato più di 3-4 mila euro. Il resto del debito è guadagno netto per l’organizzazione».

La crisi dell’articolo 18

Secondo Della Valle, il sistema di contrasto alle organizzazioni criminali dedite alla tratta – nonostante il recente calo dei numeri delle persone in strada – è molto in difficoltà. Il sistema in Italia è fondato sull’applicazione dell’articolo 18 del testo unico dell’immigrazione promulgato nel 1998. Prevede per le vittime il rilascio del permesso «per protezione sociale» valido sei mesi, rinnovabili per altri dodici e convertibile in un permesso per lavoro. La vittima lo ottiene quando collabora con la polizia denunciando i propri sfruttatori. La gestione di questo tipo di documenti è in carico al Dipartimento delle pari opportunità che dipende dalla Presidenza del consiglio. Gianfranco Della Valle lo ritiene l’unico strumento davvero valido per incentivare le denunce delle vittime.

Al contrario, però, come ogni altro migrante le donne nigeriane vittime di tratta possono ottenere una forma di protezione anche partecipando al normale percorso di richiesta di asilo, che non prevede segnalazioni in merito ai propri aguzzini. Questo sistema è in carico al ministero dell’Interno e può finire o con un diniego oppure con l’approvazione di una forma di protezione internazionale: l’asilo politico, la protezione sussidiaria oppure quella umanitaria, che viene concessa con maggiore facilità perché dura solo un anno.

Il sistema della protezione internazionale, spiega Della Valle, è diventato sempre più importante a partire dal 2015, cioè dal momento in cui sono aumentati gli sbarchi. Così il sistema è andato in difficoltà: è previsto infatti che la domanda di asilo possa essere fatta subito dopo lo sbarco. Le Commissioni territoriali, gli organismi che dipendono dal ministero dell’Interno ai quali spetta valutare le richieste di asilo politico, hanno sentito spesso dalle ragazze storie di sfruttamento, eppure solo il 7% di queste è entrato nel sistema di protezione sociale ideato in origine per le vittime di tratta.

Durante il periodo di attesa per il verdetto, che in media tra il 2015 e il 2019 durava di solito due anni, le vittime di tratta si trovano in centri di accoglienza con gli altri richiedenti asilo, senza particolari sistemi di protezione. Così capita molto di frequente che le vittime continuino a prostituirsi per ripagare il debito.

«L’articolo 18 è andato in crisi nella misura in cui la maggior parte delle persone otteneva la protezione internazionale – afferma Della Valle, lapidario -. Mettiamo sotto protezione chi è vittima di tratta, indipendentemente dal fatto che queste persone denuncino chi le sfrutta, eliminando così la possibilità di colpire le organizzazioni criminali».