Ex Ilva di Taranto, transizione impossibile

Ex Ilva di Taranto, transizione impossibile

Carlotta Indiano

Gli impianti industriali dell’ex Ilva sovrastano la città di Taranto, da nord ovest. Ilva è l’antico nome dell’isola d’Elba, dove gli Etruschi fabbricavano il ferro già 2.500 anni fa. Oggi la storia della più grande acciaieria d’Europa, nata a metà degli anni ‘60, è a una svolta obbligata: deve inquinare meno e, di conseguenza, ridurre l’impatto sulla salute dei tarantini. Obbligato, secondo gli esperti, sarebbe anche il modo di farlo: chiudere i vecchi altiforni, le torri di ferro che svettano all’orizzonte, seconde in altezza solo alle ciminiere con le punte striate di bianco e rosso, per cominciare davvero a produrre diversamente.

Si può raggiungere lo stabilimento solo in auto o con le navette che fanno da spola ai lavoratori che si alternano per mantenere accese le fornaci perenni degli altiforni. Si trovano in una zona detta area a caldo, il cuore pulsante dell’acciaieria, la cui produzione genera anche il maggiore impatto ambientale, provocato da diversi inquinanti, tra cui polveri, diossine e idrocarburi policiclici aromatici (alcuni dei quali potenzialmente cancerogeni), principalmente derivanti dalla lavorazione del carbone.

L’ex Ilva non si spegne mai: è l’unico impianto strategico di interesse nazionale in Italia e vanta questa eccezionalità per i suoi valori produttivi, la modalità di produzione a ciclo integrale – cioè completo, per cui partendo dalle materie prime come carbone e ferro, produce acciaio – e il numero di operai impiegati, circa 10 mila fino al 2017. Appena nato, era già il quarto polo siderurgico italiano, con cinque altiforni alti più di 40 metri.

Taranto fu scelta perché rispondeva a diversi requisiti, come la vicinanza con il porto, che avrebbe facilitato il trasporto e la spedizione di materiali. C’era inoltre la convinzione che avrebbe rappresentato la migliore forma di investimento per lo sviluppo economico del Sud Italia e avrebbe offerto la possibilità di sostituire le importazioni siderurgiche con la produzione interna. Così fu infranto il regio decreto del 1934 secondo cui gli stabilimenti industriali non potevano essere costruiti nei pressi di un centro abitato.

Secondo la Corte d’Assise di Taranto, la famiglia Riva – proprietaria dell’impianto tarantino tra il 1995 e il 2012 – ha prodotto danni irreparabili alla salute cittadina, tanto che ha condannato in primo grado 26 persone tra dirigenti, manager e politici per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari e all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro (a gennaio 2023, riporta Ansa, diversi hanno presentato ricorso).

Il complesso dell’ex Ilva di Taranto visto dal cielo (in queste immagini di marzo 2020) appare come una macchia scura nell’area industriale della città
Distante meno di quattro chilometri da Piazza Garibaldi, all’inizio di quella che viene chiamata città vecchia, il complesso industriale si estende su una superficie complessiva di 15 chilometri quadrati ed è considerato il più grande d’Europa

All’inizio dell’indagine, nel 2012, la magistratura tarantina ha ordinato il sequestro dello stabilimento. In seguito, quello stesso anno, l’ex Ilva ha ottenuto lo status di impianto strategico e ha ricominciato a funzionare sotto la gestione di commissari straordinari. Questi devono eseguire una serie di rinnovamenti forzati che hanno lo scopo almeno di contenere i costi ambientali e mantenere l’occupazione. Nel 2017 è subentrata nella gestione la multinazionale dell’acciaio indiana ArcelorMittal, che tra 2020 e 2021 ha creato una nuova joint venture con Invitalia, agenzia del ministero dell’Economia. È la holding che controlla Acciaierie d’Italia Spa, la nuova Ilva, ed è al 62% privata e al 38% pubblica. Dal 2012 si attende il rilancio dell’ex Ilva, la sua rinascita come gigante dell’acciaio verde, ma la trasformazione industriale sembra ancora solo un miraggio, secondo esperti e lavoratori.

Il sogno dell’acciaio verde

Nel 2021, lo stabilimento di Taranto di Acciaierie d’Italia ha prodotto quattro milioni di tonnellate di acciaio, scese a 3,1 nel 2022, vale a dire circa il 16% dell’intera produzione italiana. L’acciaieria ha un’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che permette la produzione fino a sei milioni di tonnellate. Il documento autorizza l’esercizio di un impianto industriale a determinate condizioni che garantiscono la conformità a requisiti di prevenzione e riduzione dell’inquinamento. Significa che la dirigenza di allora, ArcelorMittal, ha ottenuto per l’area a caldo un tetto di emissioni di polveri, uno dei principali macroinquinanti, di 3.092 tonnellate annue. È un quantitativo molto elevato, rispetto alla capacità produttiva dimostrata da quando ArcelorMittal è entrata nella gestione.

Le valutazioni di impatto nel diritto ambientale

Nel diritto ambientale, esistono tre valutazioni di impatto: la Valutazione ambientale strategica (Vas), la Valutazione di impatto ambientale (Via) e l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). La Vas e la Via assicurano che piani, programmi e progetti siano realizzati nel rispetto dei principi di tutela dell’ambiente, della qualità della vita e dello sviluppo sostenibile, mentre l’Aia, essendo un’autorizzazione, valuta le condizioni in cui lavora un impianto. Vas e Via sono preventive, integrano cioè considerazioni nell’adozione di un piano e valutano le possibili conseguenze derivanti dalla realizzazione di un progetto. L’Aia è finalizzata alla prevenzione e riduzione dell’inquinamento generato dall’esercizio delle principali installazioni industriali.

Nonostante la produzione sia in calo da anni, è improbabile che Acciaierie d’Italia voglia ridimensionare la produzione e – di conseguenza – ridurre il tetto di emissioni climalteranti previste. La dirigenza sogna un rilancio in grande. Dopo aver completato tutte le modifiche per il risanamento ambientale, previste dal piano industriale del 2017 da completarsi entro il 2023, auspicano di poter produrre ancora di più, fino 9,5 milioni di tonnellate di acciaio nel 2025.

L’Aia in vigore oggi scadrà il 23 agosto 2023 e, secondo le procedure, almeno sei mesi prima il gestore deve richiedere il riesame per il rinnovo. Fonti vicine agli enti di controllo sostengono che Acciaierie d’Italia abbia inviato già la nuova richiesta al ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase, ex Mite) senza aprire la conferenza dei servizi, necessaria per accogliere le osservazioni degli enti di controllo ambientale e dei soggetti interessati. Nella nuova Aia ci saranno i nuovi livelli produttivi e la soglia emissiva consentita, ma è improbabile che ci sia una modifica concreta delle attuali autorizzazioni.

L’ex Ilva di Taranto nel 2021

Insieme a chimica, ceramica, carta, vetro, cemento e alle fonderie, le acciaierie appartengono ai settori industriali che emettono il 64% delle emissioni di CO2 dell’industria italiana. Sono i settori più energivori, che in inglese vengono definiti con la formula hard to abate, difficili da abbattere. La Federazione imprese siderurgiche italiane (Federacciai), di cui fa parte anche Acciaierie d’Italia, punta a una riconversione dell’intero settore per poter raggiungere gli obiettivi del Fit for 55, il pacchetto di riforme ambientali e sociali promosse dalla Commissione europea a luglio. Prevede che gli Stati membri riducano le loro emissioni del 55% entro il 2030 per poi raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

Per l’ex Ilva è una sfida difficile: aumento della produzione e trasformazione ecologica possono andare insieme? A sentire le posizioni ufficiali dell’azienda sì, con la produzione dell’acciaio verde a zero emissioni. Però tra il presidente Franco Bernabè, nominato a seguito dell’ingresso di Invitalia, e l’amministratrice delegata Lucia Morselli, manager nominata da ArcelorMittal, a leggere tra le righe non sembra sempre che le tappe intermedie per raggiungere l’obiettivo siano le stesse.

Forni elettrici Vs Afo5

Franco Bernabè è un manager di società di Stato con una lunghissima esperienza. L’11 febbraio, durante un incontro privato e informale a cui, insieme a Bernabè, hanno partecipato anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano e il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e altre istituzioni locali, si è parlato della possibilità di introdurre la tecnologia Direct reduced iron (Dri). Prevede l’uso di un materiale ferroso ridotto (preridotto) attraverso l’utilizzo di energie rinnovabili, da utilizzare poi nei forni elettrici, due in questo caso, per la produzione di circa 2,5 milioni di tonnellate ciascuno.

Il preridotto ha una serie di vantaggi dal punto di vista dell’impatto sulle emissioni climalteranti: può essere caricato negli altiforni per diminuire il consumo di carbone, oppure nei forni elettrici in sostituzione del rottame, con il vantaggio di non avere gli stessi elementi chimici inquinanti di quest’ultimo. Per abbattere ancora di più le emissioni, all’alimentazione a gas dovrebbe sostituirsi quella a idrogeno verde. Però entrambe le tecnologie sono costose e il preridotto della qualità adatta al forno elettrico è anche difficile da reperire.

Per decenni i cittadini del quartiere Tamburi di Taranto, il più vicino ai parchi minerari dell’ex Ilva, hanno convissuto con la polvere che, trasportata dal vento, finiva per ricoprire tutto con una patina rossastra. L’immagine del 1 agosto 2015 mostra la vicinanza delle gru e degli accumuli di materie prime ai complessi popolari: le prime case del quartiere sorgono a poco più di 200 metri, mentre a 500 metri si trova la Scuola Secondaria di I grado Ugo de Carolis. La situazione è cambiata tra il 2018 e il 2020 quando, a seguito delle inchieste della magistratura, i parchi minerari sono stati coperti con due immensi capannoni lunghi 450 metri e larghi 250 per una superficie complessiva di 250.000 metri quadrati

Inoltre, mentre uno dei forni verrebbe costruito per Acciaierie d’Italia, il secondo sarebbe previsto nei pressi del porto di Taranto o della Zes, la zona economica speciale, dunque all’esterno del perimetro dell’acciaieria. Le Zes sono sempre collegate a un’area portuale e ricevono importanti benefici fiscali e semplificazioni amministrative. Non è però chiaro quale sarà l’azienda che potrebbe gestire il secondo forno elettrico. Una parte del prodotto del processo produttivo fuori dagli stabilimenti ex Ilva dovrebbe rifornire le acciaierie del triangolo Brebemi (Brescia – Bergamo – Milano) che non consumano solo rottami e che hanno subito un calo nell’approvvigionamento in seguito al conflitto russo-ucraino e all’arresto dell’acciaieria di Mariupol (fino al 2021 l’Ucraina era il maggior Paese esportatore verso l’Italia).

Smantellati tutti gli altiforni, la disponibilità di acciaio da vendere sul mercato per Acciaierie d’Italia si limiterebbe a 2,5 milioni di tonnellate, cioè a quell’unico forno elettrico costruito per la decarbonizzazione del sito.

Se Bernabè spinge sui forni elettrici, l’amministratrice delegata Lucia Morselli mette sul tavolo anche un’altra priorità: aumentare la produzione dell’area a caldo. «Facciamoci una ragione del fatto che l’area a caldo di Taranto è la più pulita d’Europa», ha dichiarato l’ad il 19 gennaio, al Tavolo di lavoro al ministero dell’Industria e del made in Italy (Mimit), il vecchio ministero dello Sviluppo economico. «Uno degli investimenti che faremo e inizieremo quest’anno è il rifacimento di Altoforno 5», ha aggiunto.

Detto Afo5, è una delle chiavi per ottenere un aumento di produzione nel corso del 2023 del 10-15%, come promesso dall’azienda. «Perché rifarlo? – si è chiesta Morselli al Mimit – Perché per arrivare alla conclusione del piano illustrato dal presidente Bernabè serve continuare a produrre e se Afo4 è a posto, appena rifatto, Afo2 è in condizioni più delicate». In altri termini, quello che dice Morselli è che oggi funziona a pieno regime solo uno dei cinque altiforni dell’ex Ilva, Afo4, mentre Afo2, l’altro funzionante, è in condizioni precarie.

In realtà, il mantenimento dei vecchi altiforni sembra in contraddizione con gli obiettivi green che si pone Bernabè. Afo5, chiuso dal 2015, come tutti gli altiforni non è al passo con gli ultimi accorgimenti possibili per ridurre le emissioni: in termini di materie prime, la polvere utilizzata nell’agglomerato costa di meno, ma produce diossina nella lavorazione. Per l’alimentazione di un altoforno delle dimensioni del gigante Afo5, inoltre, sono necessarie almeno due cokerie – gli impianti da cui si produce il coke, residuo del carbon fossile che si usa come combustibile nella fusione di metalli – che sprigionano il benzene, i cui scarichi in aria sono causa di inquinamento.

Non solo: Afo5 è stato cannibalizzato nel tempo per far funzionare altri impianti. Ci vorrebbero almeno tre o quattro anni per rimetterlo in piedi e far ripartire una macchina che da sola produrrebbe a pieno regime il 40% dell’intero stabilimento, circa cinque milioni di tonnellate di acciaio. Il rischio è che questa scelta ritardi ulteriormente la transizione ecologica di un settore già considerato difficile da decarbonizzare.

Un rigassificatore nel porto di Taranto

Afo5 non è l’unica struttura su cui vuole puntare Morselli. Tra gli investimenti illustrati dall’amministratrice delegata al tavolo con il Mimit c’è anche la realizzazione di un rigassificatore galleggiante, una nave in grado di convertire il gas naturale liquefatto (gnl) che arriva da altre navi metaniere. Il passaggio fino agli stabilimenti dovrebbe avvenire attraverso impianti Snam, in collaborazione con il porto di Taranto. La proposta di un rigassificatore a Taranto era già stata rigettata nel 2006 dal ministero dell’Ambiente la cui Valutazione di impatto ambientale (Via) aveva sottolineato più di quaranta criticità ambientali sul progetto.

In verità, secondo fonti interne, a Taranto non c’è più un problema di approvvigionamento di gas naturale, che viene rifornito storicamente da Eni e il cui prezzo sta anche lentamente scendendo. C’è semmai un problema di fatture non pagate: a ottobre 2022, a seguito dei debiti contratti da Acciaierie d’Italia nei confronti del Cane a sei zampe, circa 300 milioni, il fornitore ha lasciato l’azienda senza metano. Con il rigassificatore, si aumentano e diversificano le fonti di approvvigionamento. In questo modo, Acciaierie d’Italia sarebbe in grado di scegliere di volta in volta il fornitore più conveniente.

Già in passato, ultimo caso con il piano industriale del 2017, le promesse di rinascita si sono sono infrante, sia per crisi congiunturali (come quella dell’acciaio in Europa nel 2019 dovuta alla debolezza del comparto automobilistico in Germania, e la seconda nel 2022 in seguito all’invasione russa dell’Ucraina), sia per mancanza di investimenti verso una concreta trasformazione dell’ex Ilva, a dispetto dei piani industriali.

I veri costi del rilancio

«Lo stabilimento – racconta il delegato dell’Unione sindacale di base (Usb) Alessandro D’Amone – è in una condizione irreversibile. Siccome da tempo non vengono fatti gli investimenti e le manutenzioni, l’impianto è arrivato in una condizione dove si possono mettere tutti i soldi che vuoi ma non saranno mai sufficienti a ottenere una risoluzione seria e netta dell’intero contesto impiantistico e del ciclo produttivo». «Facciamo denunce tutti i giorni – prosegue – anche stamattina (19 ottobre 2022, ndr) abbiamo denunciato il crollo di un soffitto in una palazzina dove sono ubicati degli uffici. A testimonianza che non solo sulla parte impiantistica ma anche sulle strutture non c’è manutenzione, né ordinaria, né straordinaria».

Nell’immagine del luglio 2018 un dettaglio degli altiforni dell’acciaieria. Sono cinque quelli presenti, ma solo due sono attualmente in funzione: l’altoforno 1 e l’altoforno 4
Nell’immagine di gennaio 2022 un dettaglio degli altiforni dell’ex Ilva su cui, da anni, si parla di investimenti e progetti di riconversione

Vista dai lavoratori, l’ex Ilva di Taranto non sembra uno stabilimento pronto a cambiare pelle. Giulia Novati, collaboratrice di Ecco, il think tank italiano che si occupa di ambiente, sul programma di decarbonizzazione dell’industria ritiene che «con la sola manutenzione ordinaria, gli impianti non vanno oltre il 2028 (2032 riferisce invece Acciaierie d’italia, ndr), quindi quello che proponiamo come riconversione sarebbe proprio la chiusura, lo smantellamento completo degli altiforni e la ricostruzione di nuovi impianti».

Sui costi della riconversione, la previsione del think tank Ecco nel report di agosto 2022 indica numeri elevati: la tecnologia Dri è molto cara, così come quella per ottenere idrogeno verde, che per mantenere un’acciaieria come l’ex Ilva avrebbe bisogno di investimenti tra gli 8,2 e 8,9 miliardi di euro. A questi «andrebbero aggiunti i costi relativi ovviamente alla dismissione degli altiforni e degli impianti esistenti. E poi ci sono anche i costi relativi all’adattamento impiantistico, modifiche di layout e a una eventuale bonifica del sito che noi nella nostra stima non abbiamo. Noi abbiamo fatto una previsione con il terreno già pronto per costruire», conclude Novati.

Nonostante lo scenario da missione impossibile, il presidente di Acciaierie d’Italia Bernabè sostiene che il 2023 potrebbe essere l’anno della svolta. «Do atto all’amministratore delegato Lucia Morselli di aver condotto l’azienda in una situazione di grande drammaticità. La situazione di Acciaierie d’Italia è assolutamente più complessa di tutte quelle che io ho vissuto in precedenza», ha ammesso in Commissione industria al Senato, a fine gennaio. Però l’impianto di Taranto «oggi è probabilmente tra i più ambientalmente compatibili dell’industria Siderurgica internazionale» tanto da far sognare un Piano di decarbonizzazione fondato su quattro pilastri: il rispetto dell’ambiente, l’occupazione, la sostenibilità economica e la crescita.

Salute e lavoro all’ombra dell’ex Ilva

«Le emissioni nell’aria dell’impianto ex Ilva, se tradotte in concentrazioni di polveri sottili (PM), sono causa di eccessi di mortalità e altri impatti negativi sulla salute, con relativi costi economici». Lo scrive l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) in un report del 2021 commissionato dalla Regione Puglia per monitorare le condizioni di salute della città. «Data l’importanza dello stabilimento ex Ilva per l’economia locale – prosegue il rapporto -, è necessario affrontare il problema in un quadro più ampio, andando oltre i confini geografici della città di Taranto e del Sito di interesse nazionale (Sin) e adottando un modello sanitario più completo». Nonostante i limiti delle emissioni siano a norma di legge, c’è sempre grande apprensione sulle conseguenze dell’ex Ilva sulla salute dei tarantini.

Al problema ambientale si lega anche quello occupazionale. I lavoratori sono molto critici verso la gestione di ArcelorMittal: sostengono che dopo una lunghissima trattativa per sottoscrivere un patto con i sindacati, l’azienda non ha mai davvero voluto mantenere il livello occupazionale promesso.

«Appena firmato il contratto, ArcelorMittal mostra subito il suo volto – racconta il delegato dell’Unione italiana lavoratori metalmeccanici (Uilm) Davide Sperti -. A ottobre 2017, il colosso dell’acciaio invia una procedura ex articolo 47, cioè la cessione di ramo d’azienda, dove dichiara 3.300 esuberi solo a Taranto, assumendo 7.600 lavoratori».

In pratica, ha dimostrato di non essere interessata a mantenere davvero i 10 mila dipendenti previsti. Dall’ingresso della proprietà indiana ci sono stati diversi altri esuberi congiunturali, come li chiama la proprietà, legati cioè a condizioni che vanno al fuori della fabbrica, ma i reintegri promessi non ci sono mai stati. E la minaccia di andarsene lasciando a casa migliaia di persone è una delle armi per negoziare condizioni favorevoli.

L’ennesimo piano di rilancio dell’ex Ilva, immaginato su un arco temporale di dieci anni, «prevede la completa eliminazione delle emissioni climalteranti dello stabilimento di Taranto», chiosa Bernabè. Costa cinque miliardi di euro, cifra «insostenibile», per usare le stesse parole di Bernabè, per una società che lo scorso anno ha fatturato 3,5 miliardi di euro.

Quanto incassa Acciaierie d’Italia per salvare l’ex Ilva

Se non ci arriva la proprietà, ci pensa lo Stato. In Francia, come raccontano i partner di Disclose, senza l’intervento pubblico, il gruppo ArcelorMittal minaccia di uscire dagli stabilimenti, lasciando potenzialmente un enorme problema occupazionale. In Italia, dove ArcelorMittal rappresenta il 62% di Acciaierie d’Italia, la strategia è la stessa, almeno dal 2017. E i soldi pubblici sono arrivati eccome in questi anni e non solo per la riconversione green.

Alcuni dati si possono ricavare dal Registro nazionale degli aiuti di Stato, uno strumento a cura del Mimit e l’Agenzia territoriale per la coesione, attivo dal 2017. Riporta che dal 2021, Acciaierie ha ottenuto in totale 709 milioni sotto forma di garanzie bancarie, sconti in bolletta e ammortizzatori sociali. Ci sono poi 150 milioni previsti per le bonifiche dell’area contaminata del polo industriale per i quali si è discusso, lo scorso anno, di modificare la destinazione d’uso e allocarli per progetti di investimenti sugli impianti. Il decreto Aiuti bis approvato dal governo uscente di Mario Draghi ad agosto 2022 permette a Invitalia di «sottoscrivere aumenti di capitale o diversi strumenti comunque idonei al rafforzamento patrimoniale sino all’importo complessivamente non superiore a un miliardo di euro per il 2022 per assicurare la continuità del funzionamento produttivo dell’impianto siderurgico di Taranto della società Ilva Spa».

Un mese dopo, a settembre 2022, il Consiglio dei ministri ha approvato anche il decreto Aiuti ter che introduce altre misure per l’applicazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e prevede, per l’ex Ilva di Taranto, un altro miliardo per la decarbonizzazione.

L’ultimo contributo, firmato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è del marzo 2023 ed è stato soprannominato Salva-Ilva. È il quattordicesimo di questo genere. Nel decreto ci sono 680 milioni di euro con i quali Acciaierie dovrà prima di tutto pagare i fornitori con i quali continua a indebitarsi, come ad esempio Eni per il gas. Ma non c’è solo il lato economico. Ripropone infatti anche lo scudo penale per chi è coinvolto nella gestione dell’azienda, una misura introdotta la prima volta nel 2015 che, pur di garantire la continuità produttiva, impedisce che si prendano misure per contrastare presunti illeciti amministrativi e penali eventualmente commessi nella gestione dell’impianto durante l’attuazione delle prescrizioni ambientali.

C’è di più: in caso di sequestro, alcune decisioni saranno prese non dal tribunale di Taranto ma da quello di Roma. La proroga dello scudo era stata stralciata nel 2019, ma da allora era stato al centro di uno scontro con i legali di ArcelorMittal, in quanto la sua decadenza avrebbe potuto spingere l’investitore privato a rescindere il contratto. Il Gip di Taranto aveva già sollevato dubbi sulla costituzionalità della misura, poi in seguito leggermente modificata e ora tornata di attualità. Dallo scorso anno, in Costituzione ci sono anche due articoli che si occupano della tutela ambientale e che potrebbero essere utilizzati per ribadire i dubbi sull’incostituzionalità della norma.

CREDITI

Autori

Carlotta Indiano

Editing

Lorenzo Bagnoli

Ha collaborato

Michele Luppi, Federico Monica (PlaceMarks)

Infografiche

Lorenzo Bodrero

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Google/Maxar

In partnership con

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Foto di copertina

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Con il sostegno di

L’illusione verde

#GreenWashing

L’illusione verde

Carlotta Indiano
Fabio Papetti

Immaginiamo per un attimo di essere al mercato. Camminiamo per la piazza e vogliamo prendere delle mele biologiche, coltivate senza fertilizzanti o pesticidi che inquinano la terra e rovinano il sapore. Da un lato del mercato, ci sono produttori che vendono mele con il loro bollino ancora attaccato, mentre dall’altro ci sono produttori senza marchio, che si definiscono biologici. La differenza tra i prodotti si nota a occhio: le prime hanno una buccia lucida, perfetta; le altre sono ammaccate, con qualche bitorzolo qua è là.

Il bitorzolo è il nostro indizio: ci dice che quelle mele sono prodotte a chilometro zero. Ormai lo sappiamo, sono anche più saporite. La presenza di ammaccature, quindi, è per noi un criterio di selezione della frutta buona e senza pesticidi. Scegliere prodotti del genere ci fa mangiare sano evitando di alimentare un mercato che inquina.

Un giorno alla nostra bancarella di fiducia troviamo anche una cassa di mele dai colori più sgargianti, seppure un po’ ammaccate. Inizialmente le guardiamo con sospetto, poi ne acquistiamo qualcuna, facendoci convincere dal nostro contadino di fiducia. Tornati a casa prendiamo dalla busta una mela delle nuove, per addentarla: gusto quasi inesistente. Ce le hanno vendute insieme alle nostre mele preferite, ma il loro sapore non c’entra nulla. In bocca ci resta solo l’amaro di una grande delusione. L’ammaccatura era un bluff: sembravano biologiche, ma non lo erano davvero.

Ora immaginiamo che le mele ammaccate siano dei fondi di investimento sostenibili (green) su cui vogliamo investire per salvaguardare l’ambiente e guadagnare e che le mele un po’ ammaccate ma sgargianti siano fondi che, grazie a criteri non troppo chiari, si vendono come sostenibili quando in realtà lo sono solo in parte. Il rischio è di addentare una mela con qualche bitorzolo ma poco saporita.

Fuori dalla metafora, il rischio è quello di investire in fondi che sono parzialmente o per nulla verdi. È quello che sta accadendo oggi agli investitori nel mercato della finanza sostenibile a causa di un mercato ancora poco regolamentato, dove si vende sempre più di frequente l’illusione di investimenti sostenibili.

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La Grande inchiesta sugli investimenti verdi

Gli investimenti definiti come “verdi” stanno diventando sempre più frequenti. Solo in Europa, oltre quattromila miliardi di euro sono investiti in fondi commercializzati come “sostenibili” – quasi il 40% di tutti gli asset gestiti da fondi domiciliati nell’Unione europea. Ciò solleva una domanda: questi fondi sono davvero sostenibili come dichiarano o si tratta solo di un grande bluff verde?

La Grande inchiesta sugli investimenti verdi, in inglese The Great Green Investment Investigation, è un progetto coordinato da Follow The Money e Investico, in cui collaborano altre undici testate europee. L’inchiesta analizza i fondi definiti “verde scuro” (dark green in inglese) disponibili per gli investitori retail (risparmiatori, imprese, società, investitori non istituzionali, ndr) nei principali mercati europei come Paesi Bassi, Germania, Francia, Spagna, Lussemburgo, Belgio, Irlanda, Austria, Danimarca e Italia.

Nel grande mercato della finanza un investitore può scegliere di allocare una somma in denaro su uno o più fondi di investimento a seconda del proprio interesse personale ma lo scopo è solo uno: il rendimento. Ora immaginate di poter guadagnare e contemporaneamente salvare il mondo dal riscaldamento globale. Un obiettivo piuttosto ambizioso. C’è chi è convinto che l’investimento sostenibile e responsabile (nel gergo anglosassone Sustainable and Responsible Investment, SRI) sia in grado di influenzare il modello di sviluppo economico tanto da dirottare il denaro verso le tasche di aziende capaci addirittura di mitigare gli effetti del cambiamento climatico.

Almeno da un punto di vista di marketing, la cosa funziona alla grande. Oggi, gli investitori non sono preoccupati solo per i propri ritorni finanziari, vogliono anche avere la sensazione di tenere sempre a mente i problemi ambientali. Ma la realtà non è così semplice. In Europa, a giugno 2022, il 46,3% dei fondi definiti “verdi” investivano in aziende fossili e nel settore dell’aviazione (uno dei più inquinanti). Secondo il database messo a disposizione da Follow The Money, in Italia su 477 fondi “verdi” analizzati, 236 investono in fonti fossili (carbone, petrolio, gas) e nel settore dell’ aviazione.

Cinquanta sfumature di verde

Un fondo d’investimento si definisce responsabile se si impegna a comporre il proprio portafoglio di azioni e obbligazioni soltanto dopo aver valutato aziende o Stati su cui investire sulla base di tre direttrici: la dimensione ambientale (Environment), la dimensione sociale (Social) che include diversità e diritti umani, e la dimensione delle buone politiche (Governance) con cui si intendono politiche eque come i sistemi retributivi, o di trasparenza come le politiche anticorruzione. Queste tre componenti, che insieme formano la sigla ESG, caratterizzano i fondi di investimento sostenibili.

Oggi la domanda di prodotti ESG sul mercato finanziario è in crescita, come anche il rischio che il prodotto acquistato non sia realmente “verde”. Questo perché i criteri di sostenibilità – i bitorzoli e la vendita senza etichette, per intenderci – non sono ancora univoci e chiari a livello europeo. Se per le mele l’acquirente sa che le ammaccature e l’assenza di certi bollini sono un criterio per selezionare una mela biologica a chilometro zero, l’investitore in cerca di prodotti finanziari sostenibili ha meno indizi.

#Greenwashing

Egitto, la svolta green è una farsa

Durante la Cop27, il Paese ha siglato accordi con l’Ue per forniture di energia verde. Ma resta impantanato nelle fonti fossili. A Sharm e dintorni, è una colata di (nuovo) cemento

L’illusione verde

Dall’analisi dei fondi europei che dovrebbero avere stringenti politiche sulla sostenibilità emerge che quasi la metà investe nell’industria fossile o nelle compagnie aeree

Nel 2019 la Commissione europea prova a creare una cornice normativa per gli obiettivi ESG. Si chiama SFDR, Sustainable Finance Disclosure Regulation, e si inserisce all’interno del Piano d’azione per la Finanza sostenibile, lanciato a marzo 2018. Il piano comprende anche la Tassonomia europea e il Regolamento sui Low Carbon Benchmarks, ovvero gli indici di riferimento sulle emissioni di gas serra.

Il regolamento SFDR, che viene implementato solo a marzo 2021, ha l’obiettivo di introdurre informazioni obbligatorie e standardizzate sulle caratteristiche ESG dei prodotti di investimento e contrastare fenomeni di greenwashing finanziario. Identifica tre tipologie di fondi, anche se lascia ancora vaga la definizione di “investimento sostenibile”. Il primo è definito dall’articolo 6 e indica tutti i fondi che nel loro prospetto non prendono in considerazione parametri ambientali, sociali o di buone politiche quando si tratta di scegliere le aziende su cui investire. L’articolo 6 è quel bollino che ci fa identificare la provenienza industriale delle nostre mele brillanti.

Gli altri due tipi di fondi presentano diverse sfumature di verde: quelli inclusi nell’articolo 8 del regolamento prediligono caratteristiche ESG nel processo di scelta dell’allocazione delle risorse, e sono anche chiamati light green, mentre i fondi compresi nell’articolo 9, definiti dark green, sono caratterizzati dalla presenza nel proprio prospetto di specifici obiettivi di investimento sostenibile. Dark e light green, verde scuro e verde chiaro, sono le mele coltivate dal nostro contadino di fiducia che si presentano con una buccia più brillante del solito e una serie di ammaccature non troppo vistose. La differenza sostanziale tra le due tipologie di verde sta nel fatto che mentre gli investimenti verde chiaro promuovono le caratteristiche ESG, gli investimenti verde scuro hanno il dovere di contribuire attivamente agli obiettivi ESG. Quindi per questi ultimi esiste l’obbligo di verificare che le aziende e le attività su cui si investirà non indeboliscano o danneggino uno o più campi di sostenibilità ESG. Il principio di “non danneggiamento” è chiamato con la sigla inglse DNSH (Do no significant harm, “non produce danni significativi”).

Dalla data di implementazione della regolamentazione (marzo 2021), tutti gli enti che gestivano fondi di investimento sono stati obbligati a codificarli come appartenenti a uno dei tre articoli nella normativa, a seconda degli obiettivi di sostenibilità che si prefiggevano. Alla fine del 2021 i fondi classificati come articolo 8 o 9 hanno avuto una crescita esponenziale, fino a rappresentare il 42% dei fondi di investimento in Europa, pari a circa 4 mila miliardi di euro.

Nello stesso periodo le attività finanziarie legate ai fondi verdi sono cresciute quasi del 3%, raggiungendo i 4,3 trilioni, mentre le attività legate all’articolo 6 sono diminuite del 9,6%. La quota di mercato dei fondi articolo 8 e 9 continua ad aumentare e ha raggiunto il 53,5% a fine settembre. Parliamo di oltre 380 prodotti a cui le società di investimento hanno aggiornato la codifica da articolo 6 ad articolo 8.

Mele ammaccate

Percentuale di diffusione nell’Unione europea e in Italia dei fondi articolo 9 (che investono in società che producono energia da petrolio, gas o carbone) e dei fondi articolo 8 (che non investono in società che producono combustibili fossili)

In Italia a giugno 2022 la metà dei fondi articolo 9 ha investito in società che producono energia da petrolio, gas e carbone oppure in compagnie aeree. Il bilancio totale è di quasi 5 miliardi di euro. Questo trend è rispecchiato anche a livello europeo, con il 46,3% dei fondi dark green che investono nel fossile. Si tratta di 388 fondi di investimento su un totale di 838 analizzati per un totale di 8,54 miliardi di euro.

Secondo un report di ottobre della società di analisi finanziaria Morningstar, la trasparenza dei fondi e la coerenza con i principi di sostenibilità dell’investimento sono i principali punti critici nell’auto-assegnazione degli articoli. Sebbene il 95% dei fondi definitisi articoli 8 e 9 affermino di applicare il DNSH, la metà di questi rendiconta una percentuale minima di investimenti sostenibili e solo il 5% dei fondi totali ESG mostra nel proprio prospetto una strategia di investimenti sostenibili che ricopra almeno il 90% delle risorse in gestione. Ecco che adesso, tornando al nostro mercato contadino, vediamo sempre più mele sgargianti e poco saporite tra quelle ammaccate che ci piacevano tanto.

Opacità della norma

«Si è un po’ partiti a costruire la casa dal tetto invece che dalle fondamenta, nel senso che prima di obbligare il settore finanziario a fare determinate cose, bisognava rendere obbligatorio per le imprese, le aziende, ma anche gli Stati, rendicontare certi dati che ancora oggi si fa fatica a reperire». Secondo Roberto Grossi, vice direttore generale della società di gestione del risparmio Etica Sgr, ci vorranno alcuni anni affinché la norma possa effettivamente funzionare come previsto inizialmente. Non è l’unico esperto a pensarlo: l’idea che la Commissione europea per regolamentare il mercato della finanza sostenibile sia partita dal tetto e non dalle fondamenta è condivisa anche dalla Financial services and markets authority (Fsma), la Consob del Belgio.

Sulla possibilità di considerare gli investimenti nell’industria fossile e nelle compagnie aeree all’interno della diverse sfumature di verde, la stessa Commissione europea ha precisato che «l’SFDR è un regime di trasparenza (disclosure regime), non un sistema di etichettatura. In questo contesto, lo scopo dell’SFDR è quello di richiedere agli operatori dei mercati finanziari di divulgare tutte le informazioni relative alla sostenibilità dei prodotti finanziari, in modo che gli investitori finali possano decidere quali prodotti corrispondono alle loro preferenze. L’SFDR non prevede criteri di esclusione né stabilisce standard per quanto riguarda le caratteristiche dei prodotti».

«Diversi punti della norma sono torbidi e la regolamentazione è stata scritta in maniera molto concisa. È da questa brevità che nascono una serie di interpretazioni e quindi diversi modi di applicare le regole», spiega Roberto Randazzo, consulente finanziario e docente universitario presso il Politecnico di Milano. La SFDR è concepita come una dichiarazione di intenti e entrambi gli articoli che coprono gli investimenti sostenibili permettono diversi approcci a seconda del livello di ambizione delle società. «Dal sistema della due diligence (verifica e controllo, ndr) al concetto di DNSH, la norma non prevede un codice unico a cui tutti si devono attenere e questo genera squilibri tra chi applica [gli articoli 8 e 9] in maniera rigida e chi meno», continua Randazzo.

Per approfondire

Le lobby decidono ancora sul gas in Europa

Gli ultimi documenti discussi in Commissione sono ostaggio delle industrie del gas e dei Paesi che non vogliono abbandonare i combustibili fossili

Per Hugo Gallagher, Senior Policy Adviser di Eurosif, un consorzio dei Forum nazionali per l’investimento sostenibile (SIF) alcuni dei concetti fondamentali dell’articolo 9 non sono sufficientemente sviluppati. Interrogato dal team di giornalisti investigativi ha spiegato che «si dovrebbe investire esclusivamente in investimenti “sostenibili” (così come previsto da un articolo della SFDR, il numero 2 comma 17, che secondo molti analisti lascia ampio spazio alle interpretazioni, ndr) ma gli obiettivi non sono chiari. Almeno il 25% dei fondi dell’articolo 9 dovrebbe probabilmente essere riqualificato come articolo 8 perché non soddisfa la condizione di “tutti gli investimenti devono essere sostenibili”».

Inoltre, nel regolamento non esiste una voce che indichi in modo obbligatorio come deve essere effettuato il controllo delle aziende su cui si investe. La vaghezza della norma porta i gestori dei fondi a fare controlli preventivi sulle attività in questione in maniera autonoma, dove ognuno prende in considerazione criteri diversi a seconda dello scopo che si prefigge. La stessa ESMA (European Security and Market Authority), ente di controllo europeo delle attività finanziarie, ha affermato in uno scambio di mail con i giornalisti del team che non è proibito a livello ufficiale investire nel fossile e dichiarare che si tratti di un investimento sostenibile, purché l’investimento si attenga al principio DNSH.

Quest’ultimo è definito attraverso il Principal Adverse Impact (PAI), un sistema composto da 18 indicatori – obbligatori solo per l’articolo 9 – per calcolare l’impatto positivo o negativo di un investimento. Un articolo del PAI, ad esempio, considera «l’esposizione a compagnie attive nel settore dei combustibili fossili» un indicatore negativo. Seppur già “scritto”, il PAI è ancora in fase di implementazione da parte degli Stati membri: per esempio, alcuni criteri diventeranno validi solo a partire da gennaio 2023. Nel frattempo sono in corso di validazione anche altre regolamentazioni per stringere ancora di più la presa sui fondi che deviano dalla propria missione verde.

Quest’aria di cambiamento sta provocando qualche effetto. Il gruppo assicurativo AXA, interrogato dal nostro team, ha infatti comunicato di voler declassare 47 fondi da dark a light green. Secondo il report di Morningstar, sono 41 i prodotti finanziari declassati da articolo 9 a 8 nel terzo trimestre del 2022. E si prevede che altri seguiranno il loro esempio nei prossimi mesi, quando verrà implementata la nuova normativa. Pochi giorni fa anche Reuters riportava che Amundi, una società di asset management controllata da Crédit Agricole, ha declassato cento fondi dall’articolo 9 all’articolo 8 per un valore di 45 miliardi di euro in asset.

Ad oggi, infatti, non ci sono regole che impongano una percentuale minima di sostenibilità a cui i fondi si devono attenere per essere categorizzati articolo 9. Come ci spiega il vice direttore generale di Etica Sgr, «dal primo gennaio il prospetto informativo di tutti i prodotti di investimento si va ad arricchire di una nuova sezione che sarà standard per tutte le società di gestione europee e sarà più facile confrontare un prodotto con un altro. Finora ognuno metteva le informazioni un po’ a modo suo».

A partire dal 2023, invece, i dark green dovranno aggiungere nel loro prospetto informativo un’indicazione rispetto ai loro investimenti con “obiettivi sostenibili”. Questi ultimi sono definiti dalla tassonomia verde (vedi box), che sarà ultimata solo nel 2024. Inoltre, per gli articoli 9, al momento non è prevista una “soglia di sbarramento” per quanto riguarda la percentuale minima di investimenti verdi nel proprio portafoglio. Per assurdo, quindi, potrebbe rientrare nella categoria anche un fondo di cui solo l’1% degli investimenti è in linea con gli obiettivi previsti dalla tassonomia.

La tassonomia verde

Per raggiungere gli obiettivi climatici che si è prefissata, l’Unione europea deve riuscire ad orientare efficacemente gli investimenti verso attività che possano essere considerate sostenibili. Per questo motivo, dal 2018 la Commissione europea ha lavorato alla redazione di una Tassonomia degli investimenti sostenibili, una lista verde che classifica tutte le attività produttive sulla base di sei criteri: adattamento al cambiamento climatico, protezione delle risorse idriche e marine, transizione verso un’economia circolare, prevenzione e controllo dell’inquinamento e protezione della biodiversità. Sulla base di queste linee guida, le aziende dovranno dichiarare quanto siano sostenibili le loro attività.

L’importanza della tassonomia sta nel fatto che potrebbe dirottare gli investimenti, sia pubblici sia privati, verso progetti sostenibili. L’uso della tassonomia è volontario ma sono sempre meno quelli disposti a investire su aziende e attività che l’Europa non considera verdi. Oltre al regolamento sulla tassonomia, entrato in vigore a luglio 2020, la Commissione ha pubblicato un primo atto delegato sulla mitigazione e sull’adattamento ai cambiamenti climatici valido da gennaio 2021 e un secondo atto delegato che è stato a lungo oggetto di scontro in Commissione, anche a causa dell’intensa attività di lobbying da parte delle aziende del settore fossile, che hanno cercato di far passare il gas e il nucleare come fonti di transizione. A luglio 2022 il Parlamento europeo ha approvato la proposta di atto delegato presentata dalla Commissione includendo gas e nucleare come attività transitorie nella tassonomia. Una vittoria per le lobby del gas e del fossile secondo numerose associazioni ambientaliste e per alcuni Stati membri, tra cui l’Austria, che il 7 ottobre 2022 ha formalizzato un ricorso alla Corte di giustizia europea per annullare l’atto delegato della Commissione.

Tassonomia sociale

La Tassonomia europea è parte della cornice normativa voluta dall’Ue per orientare gli investimenti verdi allo scopo di attuare l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. Tra molte polemiche, però, gas e nucleare sono stati inclusi all’interno della Tassonomia europea a partire dallo scorso luglio.

«Il modello ha iniziato a scricchiolare dal momento in cui, nonostante i pareri contrari dei gruppi di esperti che supportavano la Commissione europea, è stato deciso che alcuni settori – tanto per fare degli esempi espliciti gas e nucleare – erano compatibili con la tassonomia green», sostiene Roberto Grossi di Etica Sgr. Nonostante la Tassonomia europea non sia vincolante, infatti, la lista green e la SFDR si intersecano. Per Randazzo «la tassonomia rappresenta la pietra angolare del sistema perché definisce che cosa sta dentro e fuori dal mondo ESG». In sintesi: se non sei allineato non ricevi i soldi dalle banche. Ma nella tassonomia non c’è solo l’aspetto ambientale. La Commissione europea, infatti, sta lavorando a un nuovo regolamento di cui si è persa totalmente visibilità da mesi: la tassonomia sociale.

«Adesso la filiera della finanza etica si è concentrata molto sul binomio green-non green e su come affrontare il tema dell’impatto ambientale, ma non possiamo dimenticarci degli aspetti sociali, men che mai in un momento di transizione come questo», dice Roberto Grossi. Le fonti di energia che sono state scelte per essere la nuova speranza verde, infatti, presentano diverse problematiche non solo a livello di impatto ambientale. Il fatto che l’aspetto sociale è trascurato dalla tassonomia lo dimostra il Principal Adverse Impact (PAI) stilato dalla Commissione europea: solo quattro indicatori su 18 specificano cosa un fondo dovrebbe verificare per non avere impatti negativi a livello sociale: stipendio uguale per tutti i lavoratori e lavoratrici, diversità di genere, esposizioni a settori bellici controversi (mine antiuomo, armi chimiche e batteriologiche e munizioni a grappolo) e violazioni sociali nei Paesi in cui si investe.

«Ciò che manca nella finanza di oggi è la considerazione dei conflitti sociali presenti nei siti di estrazione di materiali necessari alla transizione, come l’uranio», conclude Grossi.

Proprio per ottemperare ai problemi legati agli investimenti sulla filiera, la Commissione sta studiando due ulteriori normative che andranno a integrarsi al Piano di azione per la finanza sostenibile. La prima è la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), votata al Parlamento europeo il 10 novembre scorso. L’obiettivo della direttiva è eliminare le ambiguità nella rendicontazione delle società di investimento. Le informazioni sulla sostenibilità entrano nella parte iniziale del bilancio annuale e devono essere trattate con lo stesso grado di rigore delle informazioni finanziarie.

L’altra direttiva, operativa dal 2025, è la Corporate Sustainability Due Diligence (CSDD), al momento ancora in fase di consultazione. Mentre la CSRD renderà obbligatorio per le società pubblicare obiettivi e politiche di sostenibilità, la direttiva CSDD «obbligherà non solo i grossi gruppi finanziari come le banche e le società di assicurazione, ma tutta la filiera ad adattarsi ai principi dei diritti umani», sostiene Randazzo. Secondo il professore del Politecnico sarà questa la norma «veramente rivoluzionaria» perché si occuperà di tutta la catena produttiva. La sua speranza è che sia in grado di normare anche le aree grigie che offuscano la transizione verde.

Al momento non c’è però da essere ottimisti: nel mercato finanziario le mele ammaccate troppo spesso nascondono un bluff.

CREDITI

Autori

Carlotta Indiano
Fabio Papetti

Editing

Lorenzo Bagnoli
Giulio Rubino

In partnership con

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De Tijd (Paesi Passi)
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Børsen (Danimarca)

Infografiche

Lorenzo Bodrero

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Una questione che brucia

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Una questione che brucia

Eleonora Vio

L’Estonia non è mai stata una meta di punta del turismo globale. Anche la capitale Tallinn, unica tappa estone del tour nordeuropeo, con l’avvento della pandemia si è svuotata dei visitatori stranieri. Ma, com’è successo in gran parte degli altri paesi europei, la chiusura dei confini esteri ha innescato negli abitanti della più lontana tra le repubbliche baltiche ed ex sovietiche la voglia di esplorare a fondo la propria terra. Così, una regione remota, ai più sconosciuta e per lungo tempo invisa anche agli stessi estoni, come quella nord-orientale di Ida Virumaa (o Ida Viru), a stragrande maggioranza russa, ha cominciato ad aprirsi a un turismo insolito.

“Industriale”, lo definiscono in molti, tra cui l’attivista ambientale e membro del comitato del Movimento Verde, Madis Vasser. Il paesaggio di Ida Viru è in effetti quanto di più artificioso si possa immaginare. Le stesse montagne e lagune che interrompono la noiosa continuità pianeggiante estone nelle sue propaggini orientali, più prossime a San Pietroburgo che a Tallinn, sono il risultato della mano dell’uomo. Qui, infatti, è stata una risorsa particolare, che, pur facendo parlare poco di sé, ha garantito stabilità e indipendenza energetica al Paese per cent’’anni, ad aver dato forma al paesaggio. Si tratta dell’industria di scisto bituminoso, una roccia sedimentaria ad alto contenuto energetico.

Scalare, sciare, andare in canoa o fare un pic-nic… sono alcune delle attività promosse dalle municipalità di Kivioli, Jõhvi, Kohtla-Järve e Narva, per attirare soldi e investimenti in una terra che, un po’ per i legami con la Russia e un po’ perché deve la sua sopravvivenza a un combustibile fossile obsoleto e inefficiente, è stata abbandonata a sé stessa. «Questi promontori, diventati il simbolo della regione, sono, in realtà, montagne di cenere di scisto, mentre lì c’è una cava convertita in centro sportivo» spiega Vasser, divertito dalle nostre espressioni. «A parte la montagna che brucia, che genera fumi e preoccupazione, le altre attrazioni stanno lì da anni e sembrano innocue».

Chiamate indistintamente montagne di cenere, consistono per la maggior parte in colline di semi-coke, ovvero residui di impianti di scisto di vecchia generazione. Il fenomeno di combustione spontanea, cui accenna Vasser, era comune in passato ma, grazie a decenni di copiose precipitazioni, oggi sembra quasi del tutto superato. C’è, però, ancora un promontorio da cui fuoriescono gas tossici, derivanti dalla combustione spontanea, generata dalla penetrazione dello scisto nelle pareti rocciose e dalla conseguente acidificazione del solfuro di ferro, avvenuta negli anni ‘60 e ‘70. Sul perché questa montagna – nota come aherainemägi in estone e come “vulcano” in tutte le altre lingue – stia ancora bruciando dopo così tanto tempo, non è dato saperlo. Tanto più che, come sostiene Michel Khangur, a capo dell’Istituto di Ecologia dell’Università di Tartu, «nessuno osa vedere cosa c’è dentro o pensare a delle soluzioni. Per spegnere quel fuoco ci servirebbe moltissima acqua, che, a sua volta, verrebbe contaminata con gravi conseguenze per l’ambiente». 

Sebbene le riserve di scisto si nascondano in tante parti del mondo, anche in Italia, sono in pochi i paesi che vi si sono affidati completamente, come l’Estonia. «Lo scisto bituminoso non ha nulla ha a che vedere con lo shale derivato dalla fratturazione idraulica (o fracking), come in molti credono» spiega Vasser, «ma consiste in una roccia sedimentaria e millenaria (costituita da una materia organica ricca di idrogeno e da una inorganica fatta, principalmente di calcare, nda), situata sul fondo degli oceani e portata in superficie dall’uomo, per ricavare sia elettricità che petrolio». Nel primo caso, la pietra è lasciata bruciare direttamente con una grandissima dispersione di anidride carbonica nell’atmosfera, mentre, nel secondo, è riscaldata ad alte temperature, generando, almeno inizialmente, un’intensità di carbonio tre volte inferiore.

Non poter condividere questo primato con nessuno, a malapena con Brasile e Cina, fa sì che gli studi in merito siano pochi e scarsamente approfonditi. È indubbio, comunque, che «la cenere diventi tossica quando entra in contatto con l’acqua», aggiunge Vasser. Un fenomeno, questo, cui assistiamo durante la terza tappa del tour, che prevede una sosta alle “lagune blu”, ovvero le distese d’acqua cristallina che circondano i maggiori complessi energetici del Paese tramite un complesso sistema di tubature. «Queste piscine sono altamente alcaline. Guai a toccarle, si rischia l’ustione», afferma Vasser, mentre coppie di fidanzati e famiglie con bambini, noncuranti del pericolo, in bilico come sono a pochi centimetri da acque corrosive e prive di recinzione, ridono e scattano foto a raffica.

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Foto: Antonio Faccilongo

L’Italia è il secondo Paese produttore di pomodori, dopo gli Usa. La Puglia produce più della metà dei pomodori in scatola italiani, in particolare nella zona di Foggia.

Foto: Antonio Faccilongo

Ida Virumaa, una regione in bilico

È indirettamente, solo dopo essere venuti a conoscenza delle sue peculiarità paesaggistiche, che IrpiMedia ha scoperto come Ida Viru sia stata scelta come sola beneficiaria del Just Transition Fund (JTF) in Estonia, un fondo da 17.5 miliardi di euro complessivi, istituito nel 2020 come uno dei pilastri del Green Deal, cioè la strategia di leggi e investimenti con cui l’Unione Europea punta ad azzerare le proprie emissioni inquinanti entro il 2050. Se nel resto d’Europa al centro del dibattito sulla transizione ecologica è soprattutto il carbone con le sue tante varietà, qui è lo scisto bituminoso, ovvero un combustibile fossile ad altissima intensità di carbonio. 

Negli anni Venti, quando gli standard ambientali erano ancora una chimera, agli abitanti di questo staterello incastrato tra il Mar Baltico e il gigante russo, non era sembrato vero di poter raggiungere l’autosufficienza energetica e, addirittura, di poter produrre elettricità in esubero da vendere altrove. In seguito, con la crisi energetica degli anni Trenta risultata dalla Grande Guerra, i russi non hanno avuto altra scelta se non sfruttare l’esperienza accumulata dal vicino estone e farla propria. Finché negli anni Cinquanta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, e ancora negli anni Sessanta e Settanta, l’industria di scisto non è diventata il cuore pulsante dell’Unione Sovietica. Se gli estoni venivano sradicati dalla loro terra e rieducati nei gulag siberiani, migliaia di cittadini russi prendevano il loro posto, contribuendo al sogno energetico e industriale di Ida Viru, ma cambiando, al contempo, il suo assetto demografico. Gli anni Ottanta hanno visto il boom della produzione, con 14mila impiegati e oltre 30 milioni di tonnellate di scisto estratte in un anno. Dai primi anni Novanta si è assistito, invece, a un costante tracollo, fino alle stime più recenti, risalenti al 2021, che contavano una forza lavoro di poco più di 4.700 dipendenti e circa 20 milioni di tonnellate di scisto in lavorazione in meno rispetto al passato.

Le deportazioni estoni

Il 23 agosto 1939, poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, l’Unione Sovietica e la Germania nazista strinsero il tristemente noto Patto di Molotov-Ribbentrop, con cui l’Europa centrale e orientale furono divise secondo aree di rispettiva influenza. Ecco perché, nonostante il governo estone avesse dichiarato la sua completa neutralità rispetto al conflitto, dopo ripetute minacce di aggressione all’Unione Sovietica non ci volle molto, per costringerlo a siglare un accordo di mutua assistenza militare e, così, a sparpagliare basi militari sul suo territorio. 

Da lì all’occupazione territoriale dell’Estonia, e delle vicine Lettonia e Lituania, fu un attimo. Il controllo sovietico su questa lingua di terra si tradusse in breve in uno dei capitoli più bui della recente storia europea. Con l’intento di seminare il terrore, di soffocare qualunque tentativo di resistenza interna e di minare per anni la società ed economia del Paese, l’Unione Sovietica organizzò almeno due massicce deportazioni, che videro migliaia di estoni abbandonare le proprie case e, solo in alcuni casi, farci ritorno alcuni decenni dopo. Si stima che al termine della Seconda Guerra Mondiale la popolazione estone fosse calata di quasi il 17.5%.

Il primo episodio di deportazione di cui si ha un riferimento scritto, grazie alle lettere del funzionario staliniano Andrei Zhdanov, risale alla notte tra il 13 e il 14 giugno 1941. Centinaia di famiglie furono svegliate di soprassalto al suono di urla e di ripetuti colpi alla porta. Un nuovo decreto li dichiarava in arresto o li costringeva all’espulsione immediata. Avevano a disposizione solo un’ora per fare le valigie, mentre tutte le proprietà venivano requisite all’istante. Nel giro di qualche ora il regime riempì almeno 490 carrozze ferroviarie e, da lì alla mattina del 16 giugno, gli storici stimano che quasi 10,000 persone furono allontanate senza motivo dalle loro case. Donne, bambini, anziani e malati inclusi.

Se questa deportazione di massa è la prima in ordine temporale, la più vasta e scioccante risale a qualche anno dopo, precisamente al 25 marzo 1949, quando 20,000 persone – quasi il 3% dell’intera popolazione estone dell’epoca – furono prelevate dalle loro case, caricate sui treni e spedite con la forza in alcune aree remote della Siberia.

Entrambi gli episodi oggi vengono ricordati e osservati come giorni di lutto nazionale.

Oggi Ida Viru, al pari di altre regioni carbonifere europee, porta i segni dell’incapacità del suo governo di proporre in tempo alternative e soluzioni a una necessità di transizione energetica, ma anche economica e sociale, che risale a molto prima che il Sistema di Scambio di quote di emissione dall’Unione Europea (ETS), volto a ridurre la produzione di gas serra responsabili del riscaldamento globale, si facesse sentire. 

Se è stato, infatti, solo nel 2019 che il prezzo dell’anidride carbonica è passato da 5 a 25 euro a tonnellata, sfiorando i 90 euro attuali, il divario tra le fabbriche, la dirigenza e le istituzioni era giunto a un punto di non ritorno ben prima di allora. «Con la proclamazione del nuovo stato nazione, molte persone non si sono più sentite benvolute, perché costrette a parlare un’altra lingua e a sposare una cultura diversa, e questo ha portato alla ghettizzazione dell’area», spiega il coordinatore locale del JTF, e impiegato del Ministero delle Finanze responsabile di questo, come degli altri fondi europei, Ivan Sergejev. «Nonostante il tentativo di integrazione successivo, Ida Viru è rimasta una realtà a sé. Sembra di essere in Russia, senza esserci davvero, con la consapevolezza di essere in Europa, ma con i dovuti distinguo». 

La signora Salme sull’uscio della sua serra. Suo marito, un ex operaio nella fabbrica di Kivioli, è allo stadio terminale di un cancro alla prostata. Per chi vive nei pressi di questi impianti c’è un’aspettativa di vita bassissima – Foto: Antonio Faccilongo

Nel caso estone c’è una questione di natura sociale, che accomuna Ida Viru alle altre regioni in transizione, ma anche aspetti che la rendono unica e speciale. Nell’area con il più alto tasso di disoccupazione (prima della pandemia di Covid-19 si aggirava attorno al 10,2% a dispetto del 5,3% della media nazionale, nda) e i salari più bassi del Paese (1.161 contro 1.448 euro, nda), l’industria di scisto rappresenta un’oasi a cui è difficile, nonostante tutto, rinunciare, dato che garantisce stipendi medi pari a 1.663 euro al mese e, con essi, uno standard di vita ben al di sopra della media. Ma c’è anche, e soprattutto, una motivazione politica dietro quest’apparente impasse istituzionale. «I politici hanno deciso di non toccare la questione il più a lungo possibile, perché la gran parte dei lavoratori è di provenienza russa, e fanno leva su un argomento banale: se tocchiamo l’industria di scisto rischiamo che queste persone si rivoltino e che magari la Russia ci invada», spiegava Vasser qualche mese fa, quando la minaccia russa era meno sentita rispetto a ora. «Questa inazione non ha fatto che alzare la tensione». Mentre gli impianti funzionano a capacità ridotta e fanno difficoltà a imporsi sul mercato, perché l’elettricità che producono è molto costosa, la forza lavoro viene lasciata a casa sempre più spesso, senza possibilità di ripiego.

Kivioli

Da nessuna parte il tracollo è così evidente come a Kivioli, termine che in lingua estone indica la roccia che brucia, ovvero la pietra di scisto, ma che identifica anche una cittadina sonnolenta, fondata ai primi del Novecento come pied-à-terre dei minatori e delle loro famiglie, trasferitesi lì per contribuire alla riuscita di quest’industria. I monologhi di chi ha superato la mezza età, e quegli anni di frenesia li ricorda bene, non trovano alcun corrispettivo nell’aria deprimente che vi si respira. Se non fosse per le montagne e le cave di scisto, così lontane ormai dalla quotidianità degli abitanti da essere diventate grottesche attrazioni turistiche, sarebbe impossibile associare quella realtà agreste, priva di brio e socialità, a un centro di progresso e avanguardia. 

Di proprietà dell’azienda privata Alexela dal 2013, la centrale e raffineria di Kivioli è un simulacro del suo glorioso passato. Anche se fuori piove a dirotto, i pochissimi operai che si intravedono nel palazzo a più piani che ospita generatori e fornaci, un luogo cupo, frastornante e puzzolente, preferiscono inzupparsi a turno sui davanzali, piuttosto che esporsi di continuo a quel tormento. Poco più in là, seguendo all’inverso la lavorazione dello scisto, c’è uno stabile alto una decina di metri, dove le pietre sono lasciate scivolare sopra un rullo che sale lentamente dal basso verso l’alto e, al termine, fatte cadere all’interno di un tubo, che le conduce ai forni. 

Non c’è nessuno in giro, a parte il caporeparto assegnatoci come guida dall’azienda, che non sembra molto invogliato a parlare. Effettivamente, c’è poco da dire. Una polvere fina e compatta si appiccica sui vestiti, sulla faccia, sulle scarpe. L’atmosfera è da tempesta di sabbia, pur trovandosi ai rigidi margini settentrionali d’Europa. È appena fuori di lì, dove i camion scaricano lo scisto trasportato dalle cave poco distanti, che Leho Tinas, impiegato alla fabbrica di Kivioli da 34 anni, riassume tutto in un’unica frase: «Mi stanno facendo impazzire».

Kivioli, Estonia. Veduta notturna dell’impianto di Kivioli. Il fumo di scarico viene da uno dei tubi connessi alle fornaci della centrale elettrica – Foto: Antonio Faccilongo

Macchinario per la raccolta delle rocce di scisto usate nell’impianto di Kivioli. Ampie aree della regione sono state deforestate per permettere la raccolta di queste rocce – Foto: Antonio Faccilongo

Se l’operaio russo si riferisce alla distanza che si è creata tra lavoratori e dirigenza rispetto al passato, quando si lavorava per un obiettivo comune, dall’esterno il primo pensiero va all’ambiente malsano, in cui lui e i suoi colleghi trascorrono gran parte del tempo. Oggi l’industria di scisto, concentrata interamente a Ida Viru, conta per il 50% della CO2 prodotta in Estonia. Pro capite, il Paese è al terzo posto in Europa per emissioni con 11.3 tonnellate (contro le circa 26 tonnellate degli anni Novanta, nd), pur contribuendo appena allo 0.06% delle emissioni globali.

Sono quattro le compagnie che estraggono scisto bituminoso in Estonia. In ordine di grandezza, la più importante è la statale Eesti Energia Kaevanduste AS, seguita con notevole distacco dalle private VKG Viru Keemia Grupp, Kiviõli Keemiatööstuse OÜ e AS Kunda Nordic Cement. Quest’ultima non utilizza lo scisto per scopi energetici, ma per la produzione di cemento, quindi non è oggetto di questa ricerca. Dal 2019, data spartiacque per il destino dei combustibili fossili in Europa, la fabbrica di Kivioli ha smesso di produrre elettricità, se non in piccolissime quantità, grazie al gas di scisto, ottenuto dalla raffineria al suo interno.

«Non abbiamo alcun supporto economico né dalle banche, che non vogliono neppure sentirci nominare, né dai proprietari, che non si fidano di mettere soldi, adesso che la situazione dal punto di vista ambientale è così imprevedibile», spiega con tono rassegnato Priit Oruma, il direttore esecutivo della raffineria, mentre giocherella nervosamente con una pepita di scisto. «Significa che il destino di 500 lavoratori, di cui 300 residenti nella nostra zona, è in bilico. Così, anche il futuro della nostra cittadina». Per ora, Kivioli sta dedicando l’intera estrazione – più o meno il 10% dell’ammontare nazionale, pari a un milione di tonnellate l’anno – alla produzione di olio di scisto. Eesti Energia, e in misura sensibilmente inferiore anche VKG, continua a ricavare elettricità dallo scisto, per garantire stabilità energetica durante i momenti di necessità, come quando il mercato schizza alle stelle durante l’inverno, o durante la recente e prolungata crisi del gas mondiale. Il salto col passato è comunque evidente. Dal 2018 al 2020 la produzione è crollata di due terzi, con EE che è passata da garantire a ciascuna abitazione da 9TW a 3.8TW, a estrarre 6.4 milioni di tonnellate di scisto contro i 16 milioni di prima, e a ridurre la forza lavoro da 4500 a 3000 unità. 

Un canale artificiale usato per una cava di estrazione dello scisto nell’impianto di Kivioli. La grande necessità di acqua per questa industria contribuisce ad aggravare l’inquinamento della zona – Foto: Antonio Faccilongo

«Come azienda guardiamo ai profitti e, per questo, abbiamo deciso di interrompere l’utilizzo dello scisto come fonte di elettricità cinque, forse dieci anni prima della scadenza imposta dalle autorità, per focalizzarci, invece, sull’olio di scisto», dichiara Priit Luts, addetto stampa dell’azienda. «Nel mercato c’è grande richiesta di questa risorsa. Se non la produciamo noi, chi? E con quale impatto ambientale?»

L’olio di scisto prodotto oggi in Estonia è venduto quasi per intero all’estero come combustibile per il trasporto marittimo internazionale. Sebbene anche a questo settore sia stato richiesto recentemente di conformarsi alle misure globali volte alla riduzione delle emissioni di CO2, il suo viaggio verso un reale cambiamento è ancora lungo. L’80% del commercio mondiale avviene, infatti, via mare, grazie a flotte di enormi navi cargo difficilmente rimpiazzabili in poco tempo. Per questo, nel trovare alternative sostenibili, non è facile mettere d’accordo tutti. Anche nella migliore delle ipotesi, il trasporto marittimo continuerà a rappresentare un business sicuro almeno fino al 2040, data auspicata per la fine della produzione di olio di scisto. Ed è in quest’ottica che va interpretata la costruzione di Enefit 280 ad Auvere (piccolo centro nell’estremo nord-est del Paese non lontano da Narva), un nuovo impianto di proprietà di Eesti Energia, azienda che già annovera nel suo arsenale, noto come Enefit Power, tre centrali termoelettriche, tre fabbriche di olio di scisto e due miniere, destinato ad aprire tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024.

Veduta di una delle montagne di cenere di Auvere formata dai residui della lavorazione dello scisto. La cenere delle fornaci viene miscelata ad acqua e trasportata da tubi in cima alla montagna. Le ceneri sedimentano in alto mentre le acque scendono a formare le “lagune blu”, estremamente alcaline e tossiche – Foto: Antonio Faccilongo

Auvere

All’entrata del gigantesco quartier generale della compagnia, che a breve ospiterà anche questo nuovo impianto, si prova una sensazione di inferiorità, mista a spaesamento. Dal palazzo di vetro a più piani dove si adoperano i vari dirigenti, tutti estoni, in giacca e cravatta, si passa all’enorme area di produzione, che in una mattinata IrpiMedia ha percorso solo in minima parte, e a bordo di un pulmino, data la sua vastità. Il sistema ferroviario è direttamente collegato alla stazione termoelettrica più nuova e all’avanguardia tra tutte, Auvere, che ha preso il nome dal vicino paesino e, oltre a bruciare olio di scisto, grazie a un sistema ibrido usa anche gas di scisto e biomassa. I tubi intrecciati sopra di noi che trasportano le pietre di scisto sono scintillanti, come se fossero stati appena lustrati; i macchinari e i generatori in funzione lavorano a pieno regime, pur senza avere l’aria minacciosa di quelli di Kivioli; e i pochi operai con cui ci è dato parlare, ne monitorano il funzionamento stando seduti davanti ai monitor nelle stanze di controllo. Andrey Zaitsev, capo del Sindacato dei Lavoratori, racconta che è “orgoglioso di lavorare lì e di fornire da 27 anni alla sua gente elettricità,” che per lui è l’essenza della vita stessa. «Non abbiamo fonti di energia alternativa e senza questo impianto, e senza lo scisto bituminoso, saremmo in costante black out», racconta con enfasi.

Se non stupisce che la dirigenza di Enefit faccia quel che può per attirare profitto, anche costruire un nuovo impianto, la posizione dello stato, proprietario di una compagnia che pur opera secondo leggi private, è meno ovvia. Nel 2020, mentre siglava accordi verdi con la Commissione Europea, il governo ha deciso di investire 125 milioni di euro in Enefit 280. «Fanno leva sul fatto che, così facendo, creeranno nuovi posti di lavoro e contribuiranno in qualche modo alla riduzione delle emissioni, ma per noi è molto grave», spiega Maris Pedaja, l’esperta di just transition del Movimento Verde. «Com’è possibile che la Commissione Europea investa soldi nella transizione a Ida Viru e, al contempo, chiuda un occhio rispetto al coinvolgimento di uno dei suoi membri in un impianto, che rischia di metterla a repentaglio?». Non è stato possibile porre questa o altre domande alla Commissione, perché ci è stato risposto che il dialogo con il Ministero delle Finanze estone – incaricato di gestire i fondi europei, tra cui quelli per la transizione – è ancora in fase preliminare.

Il caposquadra di un gruppo di minatori controlla la stabilità di uno dei tunnel – Foto: Antonio Faccilongo

Se non stupisce che la dirigenza di Enefit faccia quel che può per attirare profitto, anche costruire un nuovo impianto, la posizione dello stato, proprietario di una compagnia che pur opera secondo leggi private, è meno ovvia. Nel 2020, mentre siglava accordi verdi con la Commissione Europea, il governo ha deciso di investire 125 milioni di euro in Enefit 280.

«Com’è possibile che la Commissione Europea investa soldi nella transizione a Ida Viru e, al contempo, chiuda un occhio rispetto al coinvolgimento di uno dei suoi membri in un impianto, che rischia di metterla a repentaglio?»

«Fanno leva sul fatto che, così facendo, creeranno nuovi posti di lavoro e contribuiranno in qualche modo alla riduzione delle emissioni, ma per noi è molto grave», spiega Maris Pedaja, l’esperta di just transition del Movimento Verde. «Com’è possibile che la Commissione Europea investa soldi nella transizione a Ida Viru e, al contempo, chiuda un occhio rispetto al coinvolgimento di uno dei suoi membri in un impianto, che rischia di metterla a repentaglio?». Non è stato possibile porre questa o altre domande alla Commissione, perché ci è stato risposto che il dialogo con il Ministero delle Finanze estone – incaricato di gestire i fondi europei, tra cui quelli per la transizione – è ancora in fase preliminare.

Foto: Antonio Faccilongo

L’Italia è il secondo Paese produttore di pomodori, dopo gli Usa. La Puglia produce più della metà dei pomodori in scatola italiani, in particolare nella zona di Foggia.

Foto: Antonio Faccilongo

Se si guarda al suo intero ciclo vitale, e quindi alla questione dal punto di vista ambientale, l’olio di scisto genera dal 25 al 75% di CO2 in più rispetto agli altri carburanti liquidi. Michel Khangur, dell’Università di Tartu, sostiene, che «le emissioni sarebbero del 40% più alte di quelle prodotte per ricavare elettricità dallo scisto (che sappiamo essere già molto alte, nda), perché per ricavare l’olio dalla pietra si ha bisogno di energia, proveniente dallo scisto stesso. Successivamente, lo scisto deve essere raffinato per ottenere il carburante e questo processo richiede ulteriore energia, che, a sua volta, genera nuova CO2.»  Dato, però, che buona parte dell’anidride carbonica è rilasciata quando l’olio di scisto viene bruciato nei motori delle navi, in mare aperto e, quindi, fuori dall’Estonia, quella anidride carbonica non viene conteggiata tra quella prodotta dal paese baltico. Questo “scarico” di responsabilità aiuta la retorica dei promotori dello scisto, che sostengono che l’Estonia abbia già fatto fin troppo rispetto ai limiti posti dall’UE. Infatti, con la proclamazione dell’indipendenza, il paese ha dimezzato la produzione di scisto, per poi subire un’altra brusca frenata nel 2019, per un crollo complessivo di quasi il 70% delle emissioni (da 40 milioni a 15 milioni di tonnellate di carbonio), già ben più alto della riduzione del 55% rispetto al 1990 richiesta dall’Unione Europea. Se, però, si considera il target finale di 2.2 milioni di tonnellate di carbonio, la strada è ancora lunga.

Transizione più di nome che di fatto

Nonostante, come si è visto, vi siano ancora margini di profitto, le maglie europee si fanno sempre più strette attorno ai combustibili fossili. Ecco perché, già in tempi non sospetti, Eesti Energia ha pensato di diversificare il suo operato vendendo la sua expertise all’estero. Dopo un tentativo non riuscito in Utah, negli Stati Uniti, il colosso estone ha guidato un progetto di estrazione di olio di scisto in Giordania e, in questo momento, è coinvolto in un’operazione chiamata REM nel deserto del Negev, in Israele, a fianco di un imprenditore australiano, noto fino a poco prima solo per le sue aziende vinicole. Mentre Vasser, del MV, insinua che, «se le alternative dovessero venire meno», ad esempio nel caso in cui la Russia decidesse di chiudere i rubinetti di gas e petrolio, «alcuni paesi potrebbero prendere in considerazione di usare anche una fonte di energia sporca come lo scisto», l’intento dichiarato è di riciclare quanta più plastica possibile, mischiandola all’olio di scisto secondo un processo di pirolisi.

Senza entrare in dettagli eccessivamente tecnici, questo riutilizzo e trasformazione dello scisto, per il cui sviluppo l’Estonia non può chiedere fondi diretti a un’Europa dichiaratamente contraria ai combustibili fossili, è parte della strategia adottata dall’industria energetica, per accaparrarsi una fetta dei 340 milioni messi in palio dal Just Transition Fund. Sebbene ancora i finalisti non siano stati scelti, e tutto dipenda da quanti posti di lavoro ciascuna azienda sarà in grado di creare, IrpiMedia ha ricevuto direttamente dal Capo del Dipartimento Normativo di Eesti Energia, Andres Tropp, la lista dei progetti in lizza. Più di uno assomiglia a REM. Sia Kivioli e VKG, grazie a un esperimento congiunto chiamato Waste2Oil, che Enefit Power puntano sul riciclo di grandi quantità di plastica, facendo uso delle risorse esistenti e vantandosi di non dipendere dalla produzione di nuovi combustibili fossili. «Abbiamo macchine speciali in grado di risucchiare la plastica di tutta Europa», raccontava Oruma, direttore esecutivo della raffineria di Kivioli, l’estate scorsa, mentre tutto attorno a lui faceva pensare il contrario. «Possiamo produrre olio di scisto dai residui di olio e dalla plastica, mischiandoli con la cenere delle nostre montagne. È la luce in fondo al tunnel. Abbiamo solo bisogno di tempo per dimostrare che si tratta di un’industria pulita».

Il tempo non manca fino al 2040, ma c’è da capire se questi diciotto anni saranno utilizzati per creare valide alternative per l’ambiente e per la popolazione di Ida Viru, o ancora, come il governo ha fatto finora, serviranno a soddisfare solo le esigenze di pochi. Quello che salta all’occhio è che, «Questa non è una transizione che si lascia alle spalle i combustibili fossili», spiega Silver Sillak, ricercatore e membro del Movimento Verde, «ma una transizione dall’energia ottenuta tramite scisto», il più inquinante tra i combustibili, «verso sostanze chimiche basate a loro volta sullo scisto». Cosciente del ruolo centrale che svolge in un momento di tanta insicurezza come quello attuale, l’industria fossile è riuscita ad appropriarsi del concetto di energia circolare, sbarazzandosi quasi del tutto del tema della sostenibilità, per mettere ancora al centro soldi e profitto.

Per quanto orgoglioso del ruolo che ha svolto per così tanti anni, il sindacalista Zaitsev non vede il domani con ottimismo. «Non so cosa accadrà di qui al 2050 ma, di certo, non voglio assistere al momento in cui tutte queste persone verranno mandate via e l’intera regione collasserà per via della disoccupazione e della chiusura della fabbrica», afferma con un tono improvvisamente amareggiato, abbandonando il piglio risoluto di poco prima. 

Così, mentre a Kivioli l’era dello scisto come motore dell’economia locale sembra già lontana, nemmeno a Enefit Power è tutto oro quel che luccica.

CREDITI

Autori

Eleonora Vio

Editing

Giulio Rubino

Immagini

Antonio Faccilongo

Con il supporto di

Il green deal bulgaro tra oligarchi, frodi e operai sfruttati

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Il green deal bulgaro tra oligarchi, frodi e operai sfruttati

La centrale di carbone di Bobov Dol. Golemo Selo, Bulgaria

Daniela Sala
Eleonora Vio

«Quando a scuola ci chiedevano di dipingere, disegnavo sempre casa mia sovrastata dall’impianto termoelettrico». Georgi Stefanov, sessantaduenne dall’aria scarmigliata, gli occhi malinconici e un sorriso stanco ma mai forzato, scosta le tende al primo piano della casa di famiglia, dove vive e dove all’epoca sedeva a fare i compiti, mentre i genitori lavoravano nelle miniere poco distanti. Oltre gli alberi da frutto e le file di ortaggi di cui Stefanov si prende cura ossessivamente durante il giorno, l’orizzonte è una linea di terra dura e piatta, su cui si staglia Lei, la centrale di Bobov Dol.

«Se è vero che le sue linee geometriche rendevano il compito abbastanza facile, il motivo principale, per cui mi ostinavo a riprodurre quest’impianto, è perché era al centro della mia vita», dice Stefanov, mantenendo il tono di voce monocorde, tipico dei tanti uomini che, come lui, si sono temprati in tanti anni di socialismo e non smettono di rimpiangerlo. Stefanov è un ex minatore figlio di minatori, e uno dei 420 abitanti rimasti a Golemo Selo, un piccolo villaggio appartenente alla municipalità di Bobov Dol, il cui destino è indissolubilmente intrecciato a quello dell’impianto a carbone più grande del sud-ovest del Paese.

L’attività mineraria in Bulgaria è cominciata nel 1891 nella lingua di terra che da Pernik, città a una trentina di chilometri da Sofia, si estende fino a includere l’intera provincia di Kyustendil, che comprende Bobov Dol e altre sette municipalità. «Quando ci siamo trasferiti in questa casa nel 1970, era tutto un via vai di camion stracolmi di materiale edile», ricorda Stefanov. Uomini provenienti da ogni angolo del blocco sovietico furono richiamati qui per costruire tra il 1973 (anno dell’inaugurazione della prima caldaia) e il 1975 (inaugurazione della terza, e ultima, caldaia) il mega complesso termoelettrico (TPP) ancora attivo. L’unica differenza è che oggi la centrale conta cinque ciminiere per via dell’acquisizione di due nuove unità, dopo che l’impianto è stato dato in concessione all’oligarca Hristo Kovachki nel 2008.

Una foto d’archivio della centrale di Bobov Dol. L’impianto è stato inaugurato nel 1973 e ha attirato lavoratori da tutta l’Unione Sovietica.

Una foto d’archivio della centrale di Bobov Dol. L’impianto è stato inaugurato nel 1973 e ha attirato lavoratori da tutta l’Unione Sovietica.

Se già allora un Paese marginale sotto ogni punto di vista cominciava ad assicurarsi la sua indipendenza sotto il profilo energetico, oggi il carbone costituisce il 40% del mix energetico e fornisce il 48% dell’elettricità del Paese. In parte, ciò è ancora dovuto alla regione del sud-ovest, ben rappresentata dalle miniere, dalla centrale termoelettrica di Bobov Dol e dal Distretto di Teleriscaldamento di Pernik in mano a Kovachki, il magnate bulgaro dal passato e presente misteriosi.

Indagato a più riprese per evasione fiscale e per riciclaggio di rifiuti illegali provenienti dall’Italia, Kovachki è anche il protagonista della campagna di privatizzazione del settore energetico, avvenuta nei primi anni 2000. Soprattutto, però, l’industria carbonifera bulgara dipende dal distretto di Stara Zagora, 240 km a est di Sofia, che conta diverse miniere e un vasto impianto a conduzione statale, Maritza East, oltre a numerose centrali private (tra cui la più vecchia, gestita da Kovachki stesso).

Bobov Dol, la città degli sfruttati

Camminando per la cittadina di Bobov Dol, che oggi conta non più di 4000 abitanti, non si vede nemmeno una traccia del fermento del passato, durato con alti e bassi fino all’inizio di questo secolo. Lungo il viale principale, i pochi superstiti sono accasciati su panchine traballanti, o si trascinano fino a uno dei due scalcinati bar lungo la piazza principale. La gente non ha più molto da dirsi ed è affidato all’alcool l’ingrato compito di riempire il vuoto che li circonda.

«Benvenuti a Robov Dol», sbiascica qualcuno. Robov Dol significa la città degli sfruttati.

IrpiMedia ha raccolto varie testimonianze tra i residenti di questa e di altre municipalità limitrofe e in molti sembrano discordare su come e quando possa essere iniziato il tracollo economico della regione. C’è chi, soprattutto tra gli anziani ex minatori, non riesce a guardare oltre la fine del socialismo e chi, tra i trenta-quarantenni rimasti senza lavoro e senza speranze, vede nella privatizzazione dell’impianto e nella mancanza di investimenti da parte di Kovachki, l’inizio del declino.

Hristo Kovachki

«La fonte della ricchezza di Kovachki rimane un mistero», afferma il report di Greenpeace, Financial Mines, citando un documento confidenziale dell’Ambasciata statunitense in Bulgaria, fatto trapelare a giugno 2009. Grazie a canali preferenziali e a rapporti privilegiati con personaggi chiave del sistema politico e finanziario bulgaro (in primis Ivaylo Mutafchiev della First Investment Bank – FIB), «Hristo Kovachki è emerso come l’attore principale della campagna di privatizzazione del settore energetico», iniziata nel 2000 e terminata nel 2008.

Proprio alla fine del 2008, però, dopo che la procura statale ha aperto un’inchiesta fiscale nei suoi confronti, Kovachki è stato condannato per evasione e i suoi beni temporaneamente congelati, per essere di lì a poco spostati offshore. Quando una nuova legislazione ha limitato il ruolo di tutti gli enti che, pur operando all’interno del settore energetico bulgaro, risiedevano in paradisi fiscali all’estero, le compagnie di Kovachki sono state trasferite verso imprese di facciata con sede in Inghilterra e a Cipro. Da quel momento, il magnate ha dichiarato di volersi allontanare dal business energetico. Peccato che, in alternativa, si sia dato alla politica e che «a oggi mantenga alcune posizioni chiave, proprio lì dove stanno le miniere e le centrali termoelettriche di sua proprietà», secondo Greenpeace.

Se, continua il report, «in un certo senso, i reclami di Kovachi hanno un fondo di verità – e lui non è il proprietario formale di questo impero energetico (sulla carta le compagnie appartengono, infatti, al Consortium Energy JSC), ne è piuttosto il rappresentante e “parafulmine”». Di fatto, comunque, ad oggi il magnate controlla dodici impianti energetici, di cui più di metà a carbone.

Le ambiguità inerenti alle sue attività non si fermano qui. Anzi, proprio quest’anno il portale investigativo bulgaro Bivol ha rivelato la fitta trama di riciclaggio di rifiuti illegali tra Italia – dove a essere coinvolte sono ‘ndrangheta e Camorra – Romania e Bulgaria, rappresentata proprio da Kovachki e dal suo esteso complesso minerario. La foga dell’oligarca nel lanciarsi in nuovi progetti energetici sembrerebbe legarsi ad alcune delle considerazioni dell’inchiesta lanciata da Greenpeace due anni fa. Secondo la stessa, «l’impero del magnate sta subendo una forte flessione, con accatastamenti di passività che ammontano a 575 milioni di euro e strutture produttive deprezzate e obsolete. La liquidazione di alcuni dei suoi asset è sul tavolo, come già si sta verificando con alcune miniere di carbone, tra cui quelle sotterranee di Bobov Dol».

Come se non bastasse, Greenpeace aveva già previsto allora «come i licenziamenti di massa dei dipendenti avrebbero causato sia la disoccupazione di intere municipalità che la dubbia riabilitazione di vecchie miniere. E come l’azienda non si sarebbe fatta scrupoli a calpestare gli interessi pubblici, nel momento in cui non fosse più riuscita a rimettersi in piedi».

Quando l’impero di Kovachki sembrava ormai spacciato, è arrivata, però, la Commissione Europea a ribaltare ancora una volta la situazione, prima con il Green Deal e poi con svariati miliardi a sostegno di progetti volti a supportare la transizione energetica. È in questo contesto che si inserisce la piattaforma Brown to Green, voluta e sponsorizzata dal braccio destro, nonché volto pubblico e più presentabile, del magnate, Kristina Lazarova.

Una cosa è certa. Il punto di non ritorno è stata la chiusura definitiva delle miniere sotterranee di carbone a dicembre 2018. «Il 98% della nostra economia dipendeva dall’estrazione di carbone, ma invece di trovare delle alternative in tempo, si è pensato bene di chiudere le miniere sotterranee da un giorno all’altro e di abbandonare duemila persone al proprio destino» afferma la sindaca Elza Velichkova, intervallando meccanicamente a ogni tiro di sigaretta un sorso di caffè. «Bobov Dol è l’esempio europeo di quello che non dev’essere fatto».

Se ai massicci tagli del personale si somma l’esodo di tutti quei giovani che sono fuggiti altrove per l’assenza di opportunità, non si fatica a capire il perché dello scenario desolante.

The (un)just transition

«Cosa distingue la nostra dalle altre regioni carbonifere d’Europa?», sbuffa la sindaca Velichkova. «Semplice. Qui la transizione dal carbone non ha avuto nulla di giusto».

A cosa si riferisce Velichkova? Per capirlo, facciamo un passo indietro.

La Bulgaria è uno dei Paesi europei a più alta intensità energetica, ovvero – secondo l’indicatore che rapporta il consumo energetico al Pil – consumerebbe 3,6 volte in più rispetto alla media europea, per convertire l’energia in prodotto interno lordo, e quindi per far funzionare i vari settori e servizi. Inoltre, emette 4,4 volte di emissioni di CO2 in più, principalmente a causa del carbone. Uno spreco energetico, questo, che si traduce in costi spropositati per lo Stato.

La situazione si è fatta particolarmente critica, da quando, con il Protocollo di Parigi, l’anidride carbonica – di cui il carbone è il principale responsabile – è stata identificata come la prima causa del riscaldamento globale e il costo delle emissioni di CO2, a carico dei Paesi e degli impianti che eccedono i limiti, è passato dai 5 euro del 2017 ai 25 euro del 2019 (e ai quasi 30 euro di dicembre 2020).

Un edificio abbandonato nei pressi della centrale di Bobov Dol.
Golemo Selo, Bulgaria

Un edificio abbandonato nei pressi della centrale di Bobov Dol. Golemo Selo, Bulgaria

«All’incirca tre anni fa, quando nessuno in Bulgaria ne parlava, ho sfidato i miei capi, dicendo che era arrivato il momento di affrontare l’elefante nella stanza», racconta Georgi Stefanov, portavoce di WWF Bulgaria, da non confondere con l’omonimo abitante di Golemo Selo. «Non c’era più tempo da perdere; dovevamo focalizzarci sul vero problema, cioè il settore carbonifero, causa dei due terzi delle emissioni di CO2 riportate annualmente nel nostro Paese».

Prendendo esempio da altri Stati, il WWF ha introdotto, primo in Bulgaria, il concetto di transizione verso forme di energia più pulita e, poi, col passare del tempo, di transizione giusta, termine cui fa riferimento anche la sindaca di Bobov Dol, che si riferisce a un cambiamento energetico positivo non solo per l’ambiente, ma anche per l’assetto sociale ed economico delle comunità interessate.

È il 2019 quando il WWF riesce ad attirare l’attenzione di alcuni interlocutori strategici; in primis, di Hristo Kovachki. Le decisioni prese dal magnate fino ad allora, a partire dalla chiusura delle miniere sotterranee a fine 2018, non possono essere ricondotte a politiche verdi ma, piuttosto, a considerazioni di natura economica, essendo diventato il carbone sempre meno redditizio.

«Dopo che Kovachki ha tagliato i suoi dipendenti per ragioni economiche – non sapremo mai di quante persone si tratti, perché lui a Bobov Dol è il dio indiscusso e nessuno osa parlargli alle spalle – siamo riusciti a convincerlo della bontà della transizione», spiega Stefanov del WWF. «Abbiamo iniziato col dirgli che se lui, proprietario di 11 impianti sparsi per il Paese, voleva mantenere un ruolo di primo piano nella produzione energetica, doveva pensare a delle alternative. La svolta è avvenuta, però, quando gli abbiamo riferito che, se si fosse convertito a fonti di energia pulite, la Commissione Europea avrebbe aperto il portafogli».

Per questo, anche il cambio di rotta successivo intrapreso da Kovachki, suggellato con la creazione della piattaforma Brown to Green, sembra avere poco o nulla a che fare con i principi etici. Piuttosto, sarebbe da ricondursi al Green Deal europeo, con l’istituzione del Just Transition Fund a gennaio 2020, e ai 1,1 miliardi di euro stanziati per la Bulgaria, previa consegna di un piano strategico nazionale, da investire nelle due regioni carbonifere di Pernik-Kyustendil e Stara Zagora.

Il complesso carbonifero di Maritza East, a Stara Zagora, conta all’incirca 12 mila dipendenti (e possibili elettori). Per questo, in zona, il Governo si fa carico dei debiti degli impianti in perdita, pur di non mettere la parola “fine” all’industria carbonifera. Ma nel sud-ovest la situazione è molto diversa. Qui l’impero di Kovachki, tra passività di centinaia di miliardi di euro e strutture produttive deprezzate e obsolete, non avrebbe retto la chiusura delle miniere sotterranee, se non fosse stato per quest’ultima allettante àncora di salvezza.

Ecco perché quella che la sindaca Velichkova definisce come transizione ingiusta è, in realtà, noncuranza del destino della propria gente. Anche in seguito è difficile scorgere in Kovachki e nella sua squadra la volontà di fare del bene alla comunità, quanto, invece, l’ennesima possibilità di arricchirsi.

Dentro l’impero dell’oligarca
All’interno della centrale di Bobov Dol, fra l’eredità degli anni 70 e gli improbabili piani di rilancio verso l’idrogeno

Una miniera di carbone esaurita di recente nei pressi della città di Pernik e chiusa all’inizio del 2020. Pernik, circondata da miniere di carbone, nel 2015 risultava essere la città più inquinata d’Europa. Pernik, Bulgaria

Daniela Sala
Eleonora Vio

L’estate scorsa, quando abbiamo scritto per la prima volta a Kristina Lazarova, a capo del direttivo della centrale di Bobov Dol dal 2017 e fondatrice dell’iniziativa Brown to Green sponsorizzata da Kovachki, non ci aspettavamo granché. Invece, è stato sorprendente ricevere di lì a poco un’email entusiasta, in cui lei stessa ci invitava a visitare il complesso. Trattandosi di un’occasione imperdibile, di lì a una settimana abbiamo noleggiato una macchina e ci siamo dirette alla centrale.

Solo dopo aver zigzagato per un po’ tra i corridoi spogli, la porta si è aperta su una stanza luminosa e ben arredata. Seduta accanto al Direttore dell’impianto Emil Hristov, c’era Lazarova, una donna giovane, dallo stile sobrio e i modi eleganti. Mantenendo i convenevoli al minimo e promettendoci una lunga chiacchierata alla fine del tour, è stata lei a invitare il capo ingegnere a mostrarci la struttura.

In una visita durata oltre un’ora, siamo state condotte dalla stanza dei macchinari, dove le turbine e i generatori degli anni ’70 di origine russa, polacca e ungherese, producono l’elettricità richiesta dalle compagnie private secondo un sistema centralizzato, fino al luogo dove vengono raccolte le ceneri del carbone impiegato. Per poi passare alla stanza dove le pepite di carbone rimbalzano sui tubi metallici, prima di essere gettate nei forni incandescenti, e a un androne umido sotterraneo, dove il carbone viene macerato. A parte il capo ingegnere, che mima istrionicamente tutti i passaggi del processo, all’interno delle sale dei macchinari non c’è nessuno.

Intercettiamo un gruppo di lavoratori dall’aria annoiata all’interno della sala di controllo, che per lo stile retrò ricorda la centrale di Chernobyl, e una manciata di altri uomini all’esterno che fumano. Ma dei 1400 addetti che dovrebbero lavorare lì, a detta del Direttore, ne intravediamo non più di quindici.

Durante la visita alla centrale non ci fanno parlare con nessun operaio, ma anche all’esterno la missione è tutt’altro che semplice. Finché un dipendente non si fa avanti qualche giorno dopo, sotto anonimato. Lo incontriamo di sera in un bar appartato.

Si fa chiamare Stoyan, ha quarant’anni e lavora alla centrale di Bobov Dol da più di venti. «Per me la centrale così com’è non può continuare a funzionare. I lavori di manutenzione sono tenuti al minimo ed è chiaro che non si pensa a lungo termine», racconta. «Bruciamo carbone di bassissima qualità, perchè quello di buona qualità veniva estratto dalle miniere sotterranee, e ciò vuole dire venire a contatto continuamente con l’anidride solforosa (SO2), che è pericolosissima».

L’area dell’impianto di Bobov Dol dove viene macinato il carbone.
Golemo Selo, Bulgaria

L’area dell’impianto di Bobov Dol dove viene macinato il carbone. Golemo Selo, Bulgaria

«Il piano per la centrale di Bobov Dol era la progressiva chiusura (tra 2008 e 2014) delle strutture dedicate alla combustione del carbone e la sostituzione con moduli a gas», riporta Greenpeace, e conferma anche il direttore dell’impianto, Emil Hristov. «Ma la privatizzazione ha alterato i piani». Mentre la European Environment Agency (EEA), l’agenzia europea per l’ambiente, nel 2011 valutava la centrale di Bobov Dol tra le trenta più inquinanti di tutta l’UE, nel 2012 sono stati applicati dei filtri, che non sembrano essere, però, sufficienti.

Stoyan rincara la dose. «I filtri sono bucati e respiriamo SO2 tutto il tempo», racconta. «Ci hanno dato delle mascherine ma, per proteggerci, servirebbero protezioni speciali, invece quelle distribuite sono le più economiche». Se qualcuno osa parlare, viene zittito. «Da quando c’è stata la privatizzazione, il numero di dirigenti è rimasto lo stesso, mentre gli operai sono stati tagliati e il numero di addetti alla sicurezza è aumentato in modo impressionante», afferma Stoyan. «Non sanno nulla del lavoro che facciamo e si divertono a minacciarci».

Gli operai sono sottoposti a varie forme di pressione. Come riporta un altro ex operaio, sempre in forma anonima, «è prassi che, in tempo di elezioni, il capo turno venga da te e ti dica per chi votare. Non possono sapere se lo fai per davvero ma… alla fine lo fai, è successo anche a me». I salari sono così bassi – si passa dai 7-800 lev (360-410 euro) per gli ultimi arrivati ai 1000 lev (515 euro) di stipendio base, fino ai 1200-1300 lev (615-665 euro), per chi ha accumulato decenni di esperienza, e ai 1500-1700 lev (770-870 euro) per i capoturno – che 50 lev (25 euro) in più per il voto combinato, non si buttano.

In tanti se ne sono andati dalla centrale negli anni, ma tanti altri sono rimasti. Questo perché, come Stoyan, non intendono trasferirsi a vivere altrove e, a Bobov Dol e dintorni, anche volendo, non troverebbero altre opportunità di lavoro. Oppure, sono prossimi alla pensione. Pur essendo al corrente dei rischi, Stoyan ha insistito per parlare con noi. «Non ho niente da perdere; questo lavoro fa schifo e se mi licenziano pazienza», commenta, prima di voltare le spalle e andarsene.

Brown to green

La visita alla centrale di Bobov Dol si è conclusa, come da programma, con l’intervista «all’economista, ambientalista e politologa» – per sua stessa definizione – Kristina Lazarova. «Nel 2017 sono stata invitata a condurre la squadra di dirigenti dell’impianto, perché i proprietari avevano deciso che volevano avviare la transizione verso combustibili più puliti e verso il biocarburante», racconta. Per poi andare più a fondo sui reali motivi di questo cambiamento: «Sebbene dal 2010 al 2020 la posizione del governo bulgaro sia rimasta inflessibile riguardo alla necessità che le centrali continuassero ad alimentarsi a carbone il più a lungo possibile, abbiamo deciso di adottare altri carburanti per via dell’alto costo delle emissioni di CO2».

Nel frattempo, a fine 2019, WWF Bulgaria aveva messo a punto tre possibili scenari, contenuti nel report Just Transition, Development Scenarios for the Coal-mining regions in south-west Bulgaria, dove prefigurava l’unico futuro possibile per il sud-ovest: un futuro verde, rispettoso delle esigenze delle comunità coinvolte. Essendo l’intera area sotto il monopolio di Kovachki, il WWF si è mosso per convincerlo a mettere in piedi una struttura che, sfruttando i fondi europei, promuovesse il cambiamento.

Cos'è il Just Transition Fund

Con circa il 40% di energia prodotta a carbone, la Bulgaria è ben oltre la media europea del 24% ed è anche uno dei Paesi con l’indotto occupazionale indiretto più alto derivato dal carbone.

Istituito nel gennaio 2020, il Just Transition Fund (JTF) è uno dei pilastri del Green Deal, la strategia fatta di nuove leggi e investimenti con cui l’Unione Europea punta ad azzerare le proprie emissioni inquinanti entro il 2050, reiterando l’impegno preso con gli Accordi di Parigi del 2015.

Il JTF mira a garantire una transizione equa per le comunità locali dipendenti dal carbone e, oltre alla sostenibilità ambientale, punta anche allo sviluppo economico e sociale. Si tratta di 17,5 miliardi di euro complessivi (7,5 dal budget europeo, più 10 dal Next Generation EU Recovery Instrument), divisi tra un minimo di 108 regioni europee, individuate dalla Commissione, in 21 Paesi.

Alla Bulgaria spetterà il 6,7% del Fondo, pari a 1,1 miliardi (di cui 505 milioni dal budget Ue e 673 dal Next Generation EU). Una cifra insufficiente, secondo il Ministero dello Sviluppo regionale e dei Lavori Pubblici, per cui la transizione impatterà direttamente 8.800 persone e ne coinvolgerà indirettamente oltre 94 mila, con un costo sociale di almeno 1,2 miliardi di lev (circa 600 milioni di euro) all’anno.

Il costo della transizione dal carbone ad altre forme di produzione energetica è stimato in 20 miliardi di euro per i prossimi dieci anni. Per questo motivo, la Bulgaria dovrebbe avere almeno 33 miliardi di euro da investire, per potersi avvicinare agli obiettivi ambientali fissati dal Green Deal.

«Il 7 aprile abbiamo lanciato Brown to Green con un duplice scopo», continua Lazarova. «Da un lato, passare dal carbone all’energia verde e, dall’altro, sviluppare la regione rispondendo ai bisogni della gente dal punto di vista occupazionale». Se i motivi di questa piccola rivoluzione sono vari, è evidente, però, come Brown to Green rappresenti, oggi, l’unico tentativo concreto, da parte bulgara, di venire incontro alle richieste europee.

Anche se il settore privato non può accedere direttamente ai sussidi del JTF, ciò non vuol dire che manchino i soldi per supportare l’iniziativa. «Questa piattaforma potrà ottenere prestiti tramite partnership private con le regioni e le municipalità interessate e, visto che sta già coinvolgendo tutti gli attori principali (tra cui Ong, sindacati e imprese), e cercando di individuare con loro i problemi e le possibili soluzioni», dice Stefanov del WWF, «non credo proprio sarà un problema».

Lazarova non fa mistero del fatto che Brown to Green sta guardando a tutte le possibili fonti di finanziamento – non solo al JTF ma anche a InvestEU e Horizon Plus –, tant’è che ha coinvolto vari esperti del mondo dell’ambiente e della finanza, tra cui il Viceministro dell’Energia, Zhecho Stankov, e la Viceministra del Ministero dello Sviluppo Regionale e dei Lavori Pubblici, Denitsa Nikolova. «Stiamo anche cercando di attirare investitori stranieri (di recente sembra abbiano stretto un accordo con il colosso tedesco Siemens, nda)», dice, «e stiamo pensando di chiedere un prestito alla Banca Mondiale».

La sala di controllo dell’impianto di Bobov Dol.
Golemo Selo, Bulgaria

La sala di controllo dell’impianto di Bobov Dol. Golemo Selo, Bulgaria

Verso l’idrogeno

In ballo ci sono tante idee, ma nulla di preciso. «Abbiamo varato diverse opzioni ma nessuna è a emissioni zero», si difende Lazarova. «L’alternativa migliore è comprare turbine nuove per produrre idrogeno, che è un carburante pulito, e utilizzare questa fonte energetica al 50%, assieme al 50% di gas naturale. Inoltre, vorremmo usare l’energia solare per produrre elettricità e sfruttare la parte non adatta alla rete energetica, per produrre dell’altro idrogeno».

Lazarova pensa in grande. «Qualora non si possa bruciare, stiamo anche pensando di immagazzinare l’idrogeno all’interno di una stazione di stoccaggio. So che suona come un concetto esotico per la Bulgaria, ma non per noi», aggiunge. Nel frattempo a settembre Brown to Green è entrata a far parte della Pure Hydrogen Alliance, istituita dalla Commissione Europea con il fine di stabilire un’agenda di investimenti e di supportare l’ampliamento della catena del valore dell’idrogeno in Europa. Un sistema industriale il cui valore è stimato attorno ai 430 miliardi di euro.

Anche se, in nome di certi obiettivi, il WWF non si esprime sulla condotta dei suoi partner, come emerge dalla posizione volutamente ambigua verso Kovachki e Brown to Green, Stefanov negli ultimi mesi si è fatto più cauto. «Come per la combustione dei rifiuti illegali all’interno delle ex miniere sotterranee, che dicono sia stata interrotta, ma non ne abbiamo la certezza, vogliamo procedere con cautela anche con i piani verdi. Non crediamo, finché non vediamo».

Di certo l’iniziativa sta raccogliendo grande supporto, come dimostrano le lettere d’interesse firmate dai sindacati, dalle imprese coinvolte nel settore energetico e dai Ministeri dell’Energia e dello Sviluppo Regionale. Se, pubblicamente, i rapporti tra Kovachki e le istituzioni non sono dei migliori, proprio per via dei ripetuti scandali di cui si è macchiato l’oligarca, da qualche mese sembra esserci una certa cooperazione tra i due proprio nell’ambito di questa piattaforma.

Se tanto ci dà tanto, senza rinunciare alle proprie partite personali, nessuno vuole perdere la sua grande occasione di mettere le mani sull’invitante torta europea.

La truffa milionaria sulle emissioni

Le ipotesi di finanziamenti europei fanno gola agli oligarchi del Paese, che si preparano a spenderli secondo un piano di sviluppo tenuto segreto alla popolazione

Georgi Stefanov (65) nel giardino di casa. Il padre aveva partecipato alla costruzione della centrale negli anni ’70. Da allora vive qui, a pochi passi dalla centrale stessa. Golemo Selo, Bulgaria

Daniela Sala
Eleonora Vio

Stefanov sembra aver ragione a non volersi sbilanciare troppo in favore di Kovachki. Dopo il taglio dei dipendenti, visto che i conti ancora non tornavano, l’oligarca ha trovato, infatti, un altro modo per fare cassa.Ogni impianto che  emette CO2 deve presentare ogni anno alla Executive Environment Agency (EEA), ovvero un istituto appartenente al Ministero dell’Ambiente bulgaro, un report in cui documenta le tonnellate di anidride carbonica prodotte. Per ognuno di essi sono registrate la quantità di combustibile utilizzato, il valore calorifico netto per ogni specifico combustibile e il fattore di emissione usato per calcolare, per l’appunto, le tonnellate di CO2 prodotte.

Si tratta di dati pubblici e, analizzandoli, emerge come per gli impianti gestiti da Kovachki ci sia qualcosa che non torni. Ce ne dà conferma Peter Seizov, esperto di sostenibilità ambientale che da anni, come consulente, si occupa di analizzare questi report e di calcolare la media nazionale del fattore di emissione della lignite.

Quando Seizov apre il foglio di calcolo relativo alla centrale di Bobov Dol, risaltano immediatamente alcuni riquadri rossi. Nel 2018 e 2019, nonostante l’impianto continuasse a usare la stessa lignite di bassa qualità, il valore del fattore di emissione è inspiegabilmente variato, precipitando da 102 a 72,19. «I valori in rosso non li ritengo verosimili e li escludo dal calcolo della media nazionale. Come consulente, il mio compito è assicurarmi che i dati a livello nazionale siano affidabili», spiega. Per Hristo Kovachki, proprietario dell’impianto, manipolare il fattore di emissione si traduce in un risparmio diretto sul costo delle quote di emissioni, pari – solo nel 2019 – a oltre 9 milioni di euro.

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La truffa sulle emissioni di CO2

Introdotto nel 2005, il Sistema per lo scambio delle quote di emissione (conosciuto con l’acronimo inglese ETS, Emissions Trading Scheme) è il primo strumento concreto di applicazione del Protocollo di Kyoto e obbliga le aziende che producono energia elettrica e termica, come pure i settori industriali ad alta intensità energetica, a rendicontare l’ammontare di CO2 emessa annualmente.

Ogni azienda è tenuta ad acquistare un numero di quote, pari alle tonnellate di CO2 emessa, all’interno di un mercato borsistico comune, dove le emissioni hanno un prezzo variabile. Recentemente il sistema è stato riformato e dal minimo storico dei circa 5 euro a quota del 2017, il prezzo si è assestato tra i 25 e i 30 euro, diventando una significativa leva di contenimento del cambiamento climatico. Successivamente i dati delle singole aziende sono aggregati a livello nazionale: ogni Paese deve infatti attenersi entro i limiti fissati a livello europeo.

Come si calcolano le emissioni?

A differenza dei gas inquinanti, le emissioni di CO2 non vengono misurate, ma stimate attraverso un calcolo matematico che tiene conto, per gli impianti termoelettrici, di tre parametri fondamentali: la quantità di combustibile bruciato, il valore calorifico (ossia la quantità di energia prodotta per chilo di combustibile usato) e uno specifico fattore di emissione (che corrisponde alle tonnellate di CO2 prodotte per ogni tonnellata di combustibile bruciato).

Mentre i piccoli produttori usano valori standard di riferimento, i grandi impianti, come TPP Bobov Dol, hanno diritto a calcolare un proprio valore col supporto di un laboratorio accreditato o del proprio laboratorio interno.

Anche se la nostra ricerca si è dovuta fermare qui, poiché le nostre ripetute richieste di chiarimenti non hanno portato a nulla, è bene tenere presente che ogni report annuale sulle emissioni, prima di essere ufficialmente presentato e reso pubblico dall’EEA, dev’essere approvato da un verificatore autorizzato, scelto dall’operatore dell’impianto.

Le agenzie bulgare accreditate sono tre: SGS, Green and Fair e GMI verifier. La terza è operativa da solo due anni, cioè da quando ha sostituito Green and Fair nella verifica dei report degli impianti del suo unico cliente, il magnate Kovachki. Magari è solo una coincidenza, ma è proprio da allora che i valori delle emissioni della centrale di Bobov Dol – e delle altre appartenenti all’oligarca – sono incredibilmente mutati.

Il sindaco di Golemo Selo, Vasil Vasev, mostra i valori raccolti dall’autorità ambientale e quelli di diossina, particolarmente elevati. La cittadina di Golemo Selo si trova a poche centinaia di metri dalla centrale a carbone di Bobov Dol.
Golemo Selo, Bulgaria

Il sindaco di Golemo Selo, Vasil Vasev, mostra i valori raccolti dall’autorità ambientale e quelli di diossina, particolarmente elevati. La cittadina di Golemo Selo si trova a poche centinaia di metri dalla centrale a carbone di Bobov Dol. Golemo Selo, Bulgaria

Il misterioso piano strategico nazionale

Tornando al Just Transition Fund, per accedere agli 1,1 miliardi di euro (pari a 6,7% del totale, di cui 505 milioni derivanti dal budget Ue e 673 dal Next Generation EU) stanziati dalla Commissione, la Bulgaria deve presentare un piano strategico nazionale che affianchi alla sostenibilità ambientale, occupazione e fine della povertà per tutti.

Di questo piano sembrano essere tutti all’oscuro a parte gli ideatori e IrpiMedia, che l’ha ottenuto grazie a una fonte anonima.

Sebbene il piano debba essere sviluppato in stretta cooperazione con le realtà territoriali interessate – cioè quella di Pernik-Kyustendil e di Stara Zagora –, la sindaca di Bobov Dol, le Ong ambientaliste e i sindacati non solo non sono stati invitati al tavolo di discussione, ma non ne hanno ancora visto una copia.

«Quando (a luglio 2020) è emerso che i soldi stanziati dalla Commissione sarebbero stati il doppio di quelli proposti inizialmente, il governo ha cominciato a capirne il potenziale e a cambiare prospettiva su come potessero essere investiti a Stara Zagora», dichiara Stefanov del WWF. «Di lì a poco è cominciato un vero e proprio testa a testa con il sud-ovest».

Per poter contare sulla massima riservatezza, il governo si è avvalso di una task force ristretta, di cui fanno parte solo il vice Primo ministro, Tomislav Donchev, il viceministro dell’Energia, Zecho Stankov, e la viceministra delle Sviluppo regionale, Denitsa Nikolova. Sia Nikolova che Stankov hanno declinato ripetute richieste di intervista da parte di IrpiMedia.

Nonostante il JTF abbia implicazioni di tipo ambientale, economico e sociale, la questione sembra avere, infatti, prima di tutto forti risvolti politici e, per questo, si è deciso di confinarla, almeno per il momento, al solo tavolo dei ministri.

Il dato forse più importante che emerge dalla bozza, e che preoccupa gli addetti ai lavori della regione di Stara Zagora, è il tentativo di estendere i fondi a più aree di quelle previste dalla Commissione. La motivazione sarebbe che «la transizione avrà un impatto non solo regionale ma, imponendo una trasformazione dell’intera economia del Paese, anche nazionale».

Alle tre province di Stara Zagora, Kyustendil e Pernik andrebbero aggiunte non solo Haskovo, Yambol and Sliven, già implicitamente incluse in quanto ospitanti il 25% della forza lavoro impiegata nel complesso di Maritsa East, ma anche Varna, Haskovo, Pernik, Burgas, Lovech and Targovishte, visto che uno degli indicatori per l’allocazione dei fondi è l’intensità delle emissioni di gas serra, e tutte queste province sforano il limite.

Già così si arriva a un totale parziale di 12 province. Ma non è tutto. Nella bozza si propone di includerne altre 7, identificate come zone ad alta intensità industriale. Eppure, è una precisa richiesta della Commissione europea che i fondi del JTF siano usati solo nelle aree direttamente colpite dalla dismissione del carbone, cioè le due menzionate più volte, visto che per le regioni limitrofe è previsto l’accesso ad altri fondi europei.

«Una della scuse che abbiamo sentito più spesso», afferma Rumyana Grozeva, dirigente dell’Agenzia regionale per lo sviluppo economico di Stara Zagora (SZEDA), «è che 1,1 miliardi di euro sarebbero troppi per solo tre o sei province, ma non è vero. Abbiamo davvero bisogno che gli investimenti siano concentrati qui, dove l’impatto derivante dalla chiusura delle miniere e delle centrali sarà più severo, e temiamo che, invece, finiscano per essere dispersi».

I fondi europei fanno indubbiamente gola al governo bulgaro. Che, da un lato, tenendo i piedi in più scarpe, punta a non scontentare gli elettori in vista delle consultazioni politiche del 2021; e, dall’altro, fa il gioco della ristretta cerchia elitaria che gli sta intorno, ma anche di coloro cui dice di volersi opporre.

A spiegare bene le ambiguità dietro il Just Transition Fund è un avversario politico del Presidente Boyko Borissov, ovvero il leader della Coalizione Verde in lizza alle prossime presidenziali, Vladislav Panev. «Il JTF rappresenta una bella opportunità, perché si tratta – pur sempre – di investimenti da miliardi di euro», afferma Panev, «ma è anche una minaccia, perché è facile che questi soldi siano usati malamente e finiscano solo nelle tasche degli oligarchi, minando una sana competizione».

«Se i fondi Ue dovessero arricchire solo poche persone», conclude Panev, amaramente, «penso semplicemente che sarebbe meglio non riceverli».

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I volti della transizione energetica

I volti della transizione energetica

#GreenWashing

Se ci sia luce in fondo al tunnel della pandemia non è ancora chiaro. Un anno dopo l’inizio della peggiore crisi sociale ed economica dei nostri tempi, l’idea di “recovery” e ricostruzione resta tuttora tanto vaga quanto urgente. Ma rispetto alla precedente crisi economica, dalla cui terribile gestione non ci siamo mai veramente ripresi, questa volta l’Europa, pur non senza incertezze e difficoltà, ha messo in campo uno sforzo economico senza precedenti, potenzialmente in grado non solo di rilanciare l’economia del continente, ma di dar nuova vita al suo progetto politico e alla sua visione del futuro.

Concordi nell’obiettivo, ci sono però in campo agende molto diverse per quanto riguarda le priorità. Appena prima che queste priorità venissero buttate all’aria dal Covid, infatti, l’Unione Europea aveva scelto di mettere la battaglia per il clima e la decarbonizzazione in cima alla lista, presentando giusto a dicembre 2019 il suo green deal, un ampio piano di investimenti che dovrebbe provare a dare risposta al crescente problema dei cambiamenti climatici.

Con i lockdown e il conseguente tracollo delle economie europee sembrava che l’ambizioso piano sarebbe stato messo in soffitta in attesa di tempi migliori, a favore di un approccio più tradizionale al motto di «prima l’economia poi il clima».

Alla fine però l’impegno a favore di un sistema economico più verde sembra aver prevalso, e l’ambizioso Next Generation Eu fund dovrebbe, almeno su carta, continuare in larga parte il processo delineato dal Green Deal.

Ma i settori industriali che più di tutti dovrebbero trasformarsi in questo processo, in particolare quello energetico, non si sono lasciati cogliere impreparati, e da molto tempo hanno iniziato un frenetico processo di lobbying teso a rendere il cambiamento il più gattopardesco possibile.

Il messaggio è semplice: convincere tutti che il cambiamento richiede una lunga fase di “transizione” che passi sempre attraverso le vecchie strutture (fonti fossili, gas metano, ecc.), e che queste strutture necessitino anche di ulteriori investimenti per favorirne la lenta transizione a un “verde” ancora del tutto ipotetico. Il rischio concreto è che la parte del leone dei nuovi finanziamenti europei finisca nelle stesse mani di sempre, a vantaggio di progetti dagli orizzonti ristretti il cui obiettivo è molto più salvare il presente che non preparare il futuro.

IrpiMedia, assieme ad altri partner europei, ha deciso di intraprendere una serie di inchieste sui progetti di greenwashing che tenteranno di accreditarsi in tutta Europa per ricevere fondi comunitari.

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