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Ex Ilva di Taranto, transizione impossibile
Carlotta Indiano
Gli impianti industriali dell’ex Ilva sovrastano la città di Taranto, da nord ovest. Ilva è l’antico nome dell’isola d’Elba, dove gli Etruschi fabbricavano il ferro già 2.500 anni fa. Oggi la storia della più grande acciaieria d’Europa, nata a metà degli anni ‘60, è a una svolta obbligata: deve inquinare meno e, di conseguenza, ridurre l’impatto sulla salute dei tarantini. Obbligato, secondo gli esperti, sarebbe anche il modo di farlo: chiudere i vecchi altiforni, le torri di ferro che svettano all’orizzonte, seconde in altezza solo alle ciminiere con le punte striate di bianco e rosso, per cominciare davvero a produrre diversamente.
Si può raggiungere lo stabilimento solo in auto o con le navette che fanno da spola ai lavoratori che si alternano per mantenere accese le fornaci perenni degli altiforni. Si trovano in una zona detta area a caldo, il cuore pulsante dell’acciaieria, la cui produzione genera anche il maggiore impatto ambientale, provocato da diversi inquinanti, tra cui polveri, diossine e idrocarburi policiclici aromatici (alcuni dei quali potenzialmente cancerogeni), principalmente derivanti dalla lavorazione del carbone.
L’ex Ilva non si spegne mai: è l’unico impianto strategico di interesse nazionale in Italia e vanta questa eccezionalità per i suoi valori produttivi, la modalità di produzione a ciclo integrale – cioè completo, per cui partendo dalle materie prime come carbone e ferro, produce acciaio – e il numero di operai impiegati, circa 10 mila fino al 2017. Appena nato, era già il quarto polo siderurgico italiano, con cinque altiforni alti più di 40 metri.
Taranto fu scelta perché rispondeva a diversi requisiti, come la vicinanza con il porto, che avrebbe facilitato il trasporto e la spedizione di materiali. C’era inoltre la convinzione che avrebbe rappresentato la migliore forma di investimento per lo sviluppo economico del Sud Italia e avrebbe offerto la possibilità di sostituire le importazioni siderurgiche con la produzione interna. Così fu infranto il regio decreto del 1934 secondo cui gli stabilimenti industriali non potevano essere costruiti nei pressi di un centro abitato.
Secondo la Corte d’Assise di Taranto, la famiglia Riva – proprietaria dell’impianto tarantino tra il 1995 e il 2012 – ha prodotto danni irreparabili alla salute cittadina, tanto che ha condannato in primo grado 26 persone tra dirigenti, manager e politici per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari e all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro (a gennaio 2023, riporta Ansa, diversi hanno presentato ricorso).
All’inizio dell’indagine, nel 2012, la magistratura tarantina ha ordinato il sequestro dello stabilimento. In seguito, quello stesso anno, l’ex Ilva ha ottenuto lo status di impianto strategico e ha ricominciato a funzionare sotto la gestione di commissari straordinari. Questi devono eseguire una serie di rinnovamenti forzati che hanno lo scopo almeno di contenere i costi ambientali e mantenere l’occupazione. Nel 2017 è subentrata nella gestione la multinazionale dell’acciaio indiana ArcelorMittal, che tra 2020 e 2021 ha creato una nuova joint venture con Invitalia, agenzia del ministero dell’Economia. È la holding che controlla Acciaierie d’Italia Spa, la nuova Ilva, ed è al 62% privata e al 38% pubblica. Dal 2012 si attende il rilancio dell’ex Ilva, la sua rinascita come gigante dell’acciaio verde, ma la trasformazione industriale sembra ancora solo un miraggio, secondo esperti e lavoratori.
Il sogno dell’acciaio verde
Nel 2021, lo stabilimento di Taranto di Acciaierie d’Italia ha prodotto quattro milioni di tonnellate di acciaio, scese a 3,1 nel 2022, vale a dire circa il 16% dell’intera produzione italiana. L’acciaieria ha un’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che permette la produzione fino a sei milioni di tonnellate. Il documento autorizza l’esercizio di un impianto industriale a determinate condizioni che garantiscono la conformità a requisiti di prevenzione e riduzione dell’inquinamento. Significa che la dirigenza di allora, ArcelorMittal, ha ottenuto per l’area a caldo un tetto di emissioni di polveri, uno dei principali macroinquinanti, di 3.092 tonnellate annue. È un quantitativo molto elevato, rispetto alla capacità produttiva dimostrata da quando ArcelorMittal è entrata nella gestione.
Le valutazioni di impatto nel diritto ambientale
Nel diritto ambientale, esistono tre valutazioni di impatto: la Valutazione ambientale strategica (Vas), la Valutazione di impatto ambientale (Via) e l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). La Vas e la Via assicurano che piani, programmi e progetti siano realizzati nel rispetto dei principi di tutela dell’ambiente, della qualità della vita e dello sviluppo sostenibile, mentre l’Aia, essendo un’autorizzazione, valuta le condizioni in cui lavora un impianto. Vas e Via sono preventive, integrano cioè considerazioni nell’adozione di un piano e valutano le possibili conseguenze derivanti dalla realizzazione di un progetto. L’Aia è finalizzata alla prevenzione e riduzione dell’inquinamento generato dall’esercizio delle principali installazioni industriali.
Nonostante la produzione sia in calo da anni, è improbabile che Acciaierie d’Italia voglia ridimensionare la produzione e – di conseguenza – ridurre il tetto di emissioni climalteranti previste. La dirigenza sogna un rilancio in grande. Dopo aver completato tutte le modifiche per il risanamento ambientale, previste dal piano industriale del 2017 da completarsi entro il 2023, auspicano di poter produrre ancora di più, fino 9,5 milioni di tonnellate di acciaio nel 2025.
L’Aia in vigore oggi scadrà il 23 agosto 2023 e, secondo le procedure, almeno sei mesi prima il gestore deve richiedere il riesame per il rinnovo. Fonti vicine agli enti di controllo sostengono che Acciaierie d’Italia abbia inviato già la nuova richiesta al ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase, ex Mite) senza aprire la conferenza dei servizi, necessaria per accogliere le osservazioni degli enti di controllo ambientale e dei soggetti interessati. Nella nuova Aia ci saranno i nuovi livelli produttivi e la soglia emissiva consentita, ma è improbabile che ci sia una modifica concreta delle attuali autorizzazioni.
L’ex Ilva di Taranto nel 2021
Insieme a chimica, ceramica, carta, vetro, cemento e alle fonderie, le acciaierie appartengono ai settori industriali che emettono il 64% delle emissioni di CO2 dell’industria italiana. Sono i settori più energivori, che in inglese vengono definiti con la formula hard to abate, difficili da abbattere. La Federazione imprese siderurgiche italiane (Federacciai), di cui fa parte anche Acciaierie d’Italia, punta a una riconversione dell’intero settore per poter raggiungere gli obiettivi del Fit for 55, il pacchetto di riforme ambientali e sociali promosse dalla Commissione europea a luglio. Prevede che gli Stati membri riducano le loro emissioni del 55% entro il 2030 per poi raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.
Per l’ex Ilva è una sfida difficile: aumento della produzione e trasformazione ecologica possono andare insieme? A sentire le posizioni ufficiali dell’azienda sì, con la produzione dell’acciaio verde a zero emissioni. Però tra il presidente Franco Bernabè, nominato a seguito dell’ingresso di Invitalia, e l’amministratrice delegata Lucia Morselli, manager nominata da ArcelorMittal, a leggere tra le righe non sembra sempre che le tappe intermedie per raggiungere l’obiettivo siano le stesse.
Forni elettrici Vs Afo5
Franco Bernabè è un manager di società di Stato con una lunghissima esperienza. L’11 febbraio, durante un incontro privato e informale a cui, insieme a Bernabè, hanno partecipato anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano e il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e altre istituzioni locali, si è parlato della possibilità di introdurre la tecnologia Direct reduced iron (Dri). Prevede l’uso di un materiale ferroso ridotto (preridotto) attraverso l’utilizzo di energie rinnovabili, da utilizzare poi nei forni elettrici, due in questo caso, per la produzione di circa 2,5 milioni di tonnellate ciascuno.
Il preridotto ha una serie di vantaggi dal punto di vista dell’impatto sulle emissioni climalteranti: può essere caricato negli altiforni per diminuire il consumo di carbone, oppure nei forni elettrici in sostituzione del rottame, con il vantaggio di non avere gli stessi elementi chimici inquinanti di quest’ultimo. Per abbattere ancora di più le emissioni, all’alimentazione a gas dovrebbe sostituirsi quella a idrogeno verde. Però entrambe le tecnologie sono costose e il preridotto della qualità adatta al forno elettrico è anche difficile da reperire.
Per decenni i cittadini del quartiere Tamburi di Taranto, il più vicino ai parchi minerari dell’ex Ilva, hanno convissuto con la polvere che, trasportata dal vento, finiva per ricoprire tutto con una patina rossastra. L’immagine del 1 agosto 2015 mostra la vicinanza delle gru e degli accumuli di materie prime ai complessi popolari: le prime case del quartiere sorgono a poco più di 200 metri, mentre a 500 metri si trova la Scuola Secondaria di I grado Ugo de Carolis. La situazione è cambiata tra il 2018 e il 2020 quando, a seguito delle inchieste della magistratura, i parchi minerari sono stati coperti con due immensi capannoni lunghi 450 metri e larghi 250 per una superficie complessiva di 250.000 metri quadrati
Inoltre, mentre uno dei forni verrebbe costruito per Acciaierie d’Italia, il secondo sarebbe previsto nei pressi del porto di Taranto o della Zes, la zona economica speciale, dunque all’esterno del perimetro dell’acciaieria. Le Zes sono sempre collegate a un’area portuale e ricevono importanti benefici fiscali e semplificazioni amministrative. Non è però chiaro quale sarà l’azienda che potrebbe gestire il secondo forno elettrico. Una parte del prodotto del processo produttivo fuori dagli stabilimenti ex Ilva dovrebbe rifornire le acciaierie del triangolo Brebemi (Brescia – Bergamo – Milano) che non consumano solo rottami e che hanno subito un calo nell’approvvigionamento in seguito al conflitto russo-ucraino e all’arresto dell’acciaieria di Mariupol (fino al 2021 l’Ucraina era il maggior Paese esportatore verso l’Italia).
Smantellati tutti gli altiforni, la disponibilità di acciaio da vendere sul mercato per Acciaierie d’Italia si limiterebbe a 2,5 milioni di tonnellate, cioè a quell’unico forno elettrico costruito per la decarbonizzazione del sito.
Se Bernabè spinge sui forni elettrici, l’amministratrice delegata Lucia Morselli mette sul tavolo anche un’altra priorità: aumentare la produzione dell’area a caldo. «Facciamoci una ragione del fatto che l’area a caldo di Taranto è la più pulita d’Europa», ha dichiarato l’ad il 19 gennaio, al Tavolo di lavoro al ministero dell’Industria e del made in Italy (Mimit), il vecchio ministero dello Sviluppo economico. «Uno degli investimenti che faremo e inizieremo quest’anno è il rifacimento di Altoforno 5», ha aggiunto.
Detto Afo5, è una delle chiavi per ottenere un aumento di produzione nel corso del 2023 del 10-15%, come promesso dall’azienda. «Perché rifarlo? – si è chiesta Morselli al Mimit – Perché per arrivare alla conclusione del piano illustrato dal presidente Bernabè serve continuare a produrre e se Afo4 è a posto, appena rifatto, Afo2 è in condizioni più delicate». In altri termini, quello che dice Morselli è che oggi funziona a pieno regime solo uno dei cinque altiforni dell’ex Ilva, Afo4, mentre Afo2, l’altro funzionante, è in condizioni precarie.
In realtà, il mantenimento dei vecchi altiforni sembra in contraddizione con gli obiettivi green che si pone Bernabè. Afo5, chiuso dal 2015, come tutti gli altiforni non è al passo con gli ultimi accorgimenti possibili per ridurre le emissioni: in termini di materie prime, la polvere utilizzata nell’agglomerato costa di meno, ma produce diossina nella lavorazione. Per l’alimentazione di un altoforno delle dimensioni del gigante Afo5, inoltre, sono necessarie almeno due cokerie – gli impianti da cui si produce il coke, residuo del carbon fossile che si usa come combustibile nella fusione di metalli – che sprigionano il benzene, i cui scarichi in aria sono causa di inquinamento.
Non solo: Afo5 è stato cannibalizzato nel tempo per far funzionare altri impianti. Ci vorrebbero almeno tre o quattro anni per rimetterlo in piedi e far ripartire una macchina che da sola produrrebbe a pieno regime il 40% dell’intero stabilimento, circa cinque milioni di tonnellate di acciaio. Il rischio è che questa scelta ritardi ulteriormente la transizione ecologica di un settore già considerato difficile da decarbonizzare.
Un rigassificatore nel porto di Taranto
Afo5 non è l’unica struttura su cui vuole puntare Morselli. Tra gli investimenti illustrati dall’amministratrice delegata al tavolo con il Mimit c’è anche la realizzazione di un rigassificatore galleggiante, una nave in grado di convertire il gas naturale liquefatto (gnl) che arriva da altre navi metaniere. Il passaggio fino agli stabilimenti dovrebbe avvenire attraverso impianti Snam, in collaborazione con il porto di Taranto. La proposta di un rigassificatore a Taranto era già stata rigettata nel 2006 dal ministero dell’Ambiente la cui Valutazione di impatto ambientale (Via) aveva sottolineato più di quaranta criticità ambientali sul progetto.
In verità, secondo fonti interne, a Taranto non c’è più un problema di approvvigionamento di gas naturale, che viene rifornito storicamente da Eni e il cui prezzo sta anche lentamente scendendo. C’è semmai un problema di fatture non pagate: a ottobre 2022, a seguito dei debiti contratti da Acciaierie d’Italia nei confronti del Cane a sei zampe, circa 300 milioni, il fornitore ha lasciato l’azienda senza metano. Con il rigassificatore, si aumentano e diversificano le fonti di approvvigionamento. In questo modo, Acciaierie d’Italia sarebbe in grado di scegliere di volta in volta il fornitore più conveniente.
Già in passato, ultimo caso con il piano industriale del 2017, le promesse di rinascita si sono sono infrante, sia per crisi congiunturali (come quella dell’acciaio in Europa nel 2019 dovuta alla debolezza del comparto automobilistico in Germania, e la seconda nel 2022 in seguito all’invasione russa dell’Ucraina), sia per mancanza di investimenti verso una concreta trasformazione dell’ex Ilva, a dispetto dei piani industriali.
I veri costi del rilancio
«Lo stabilimento – racconta il delegato dell’Unione sindacale di base (Usb) Alessandro D’Amone – è in una condizione irreversibile. Siccome da tempo non vengono fatti gli investimenti e le manutenzioni, l’impianto è arrivato in una condizione dove si possono mettere tutti i soldi che vuoi ma non saranno mai sufficienti a ottenere una risoluzione seria e netta dell’intero contesto impiantistico e del ciclo produttivo». «Facciamo denunce tutti i giorni – prosegue – anche stamattina (19 ottobre 2022, ndr) abbiamo denunciato il crollo di un soffitto in una palazzina dove sono ubicati degli uffici. A testimonianza che non solo sulla parte impiantistica ma anche sulle strutture non c’è manutenzione, né ordinaria, né straordinaria».
Vista dai lavoratori, l’ex Ilva di Taranto non sembra uno stabilimento pronto a cambiare pelle. Giulia Novati, collaboratrice di Ecco, il think tank italiano che si occupa di ambiente, sul programma di decarbonizzazione dell’industria ritiene che «con la sola manutenzione ordinaria, gli impianti non vanno oltre il 2028 (2032 riferisce invece Acciaierie d’italia, ndr), quindi quello che proponiamo come riconversione sarebbe proprio la chiusura, lo smantellamento completo degli altiforni e la ricostruzione di nuovi impianti».
Sui costi della riconversione, la previsione del think tank Ecco nel report di agosto 2022 indica numeri elevati: la tecnologia Dri è molto cara, così come quella per ottenere idrogeno verde, che per mantenere un’acciaieria come l’ex Ilva avrebbe bisogno di investimenti tra gli 8,2 e 8,9 miliardi di euro. A questi «andrebbero aggiunti i costi relativi ovviamente alla dismissione degli altiforni e degli impianti esistenti. E poi ci sono anche i costi relativi all’adattamento impiantistico, modifiche di layout e a una eventuale bonifica del sito che noi nella nostra stima non abbiamo. Noi abbiamo fatto una previsione con il terreno già pronto per costruire», conclude Novati.
Nonostante lo scenario da missione impossibile, il presidente di Acciaierie d’Italia Bernabè sostiene che il 2023 potrebbe essere l’anno della svolta. «Do atto all’amministratore delegato Lucia Morselli di aver condotto l’azienda in una situazione di grande drammaticità. La situazione di Acciaierie d’Italia è assolutamente più complessa di tutte quelle che io ho vissuto in precedenza», ha ammesso in Commissione industria al Senato, a fine gennaio. Però l’impianto di Taranto «oggi è probabilmente tra i più ambientalmente compatibili dell’industria Siderurgica internazionale» tanto da far sognare un Piano di decarbonizzazione fondato su quattro pilastri: il rispetto dell’ambiente, l’occupazione, la sostenibilità economica e la crescita.
Salute e lavoro all’ombra dell’ex Ilva
«Le emissioni nell’aria dell’impianto ex Ilva, se tradotte in concentrazioni di polveri sottili (PM), sono causa di eccessi di mortalità e altri impatti negativi sulla salute, con relativi costi economici». Lo scrive l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) in un report del 2021 commissionato dalla Regione Puglia per monitorare le condizioni di salute della città. «Data l’importanza dello stabilimento ex Ilva per l’economia locale – prosegue il rapporto -, è necessario affrontare il problema in un quadro più ampio, andando oltre i confini geografici della città di Taranto e del Sito di interesse nazionale (Sin) e adottando un modello sanitario più completo». Nonostante i limiti delle emissioni siano a norma di legge, c’è sempre grande apprensione sulle conseguenze dell’ex Ilva sulla salute dei tarantini.
Al problema ambientale si lega anche quello occupazionale. I lavoratori sono molto critici verso la gestione di ArcelorMittal: sostengono che dopo una lunghissima trattativa per sottoscrivere un patto con i sindacati, l’azienda non ha mai davvero voluto mantenere il livello occupazionale promesso.
«Appena firmato il contratto, ArcelorMittal mostra subito il suo volto – racconta il delegato dell’Unione italiana lavoratori metalmeccanici (Uilm) Davide Sperti -. A ottobre 2017, il colosso dell’acciaio invia una procedura ex articolo 47, cioè la cessione di ramo d’azienda, dove dichiara 3.300 esuberi solo a Taranto, assumendo 7.600 lavoratori».
In pratica, ha dimostrato di non essere interessata a mantenere davvero i 10 mila dipendenti previsti. Dall’ingresso della proprietà indiana ci sono stati diversi altri esuberi congiunturali, come li chiama la proprietà, legati cioè a condizioni che vanno al fuori della fabbrica, ma i reintegri promessi non ci sono mai stati. E la minaccia di andarsene lasciando a casa migliaia di persone è una delle armi per negoziare condizioni favorevoli.
L’ennesimo piano di rilancio dell’ex Ilva, immaginato su un arco temporale di dieci anni, «prevede la completa eliminazione delle emissioni climalteranti dello stabilimento di Taranto», chiosa Bernabè. Costa cinque miliardi di euro, cifra «insostenibile», per usare le stesse parole di Bernabè, per una società che lo scorso anno ha fatturato 3,5 miliardi di euro.
Quanto incassa Acciaierie d’Italia per salvare l’ex Ilva
Se non ci arriva la proprietà, ci pensa lo Stato. In Francia, come raccontano i partner di Disclose, senza l’intervento pubblico, il gruppo ArcelorMittal minaccia di uscire dagli stabilimenti, lasciando potenzialmente un enorme problema occupazionale. In Italia, dove ArcelorMittal rappresenta il 62% di Acciaierie d’Italia, la strategia è la stessa, almeno dal 2017. E i soldi pubblici sono arrivati eccome in questi anni e non solo per la riconversione green.
Alcuni dati si possono ricavare dal Registro nazionale degli aiuti di Stato, uno strumento a cura del Mimit e l’Agenzia territoriale per la coesione, attivo dal 2017. Riporta che dal 2021, Acciaierie ha ottenuto in totale 709 milioni sotto forma di garanzie bancarie, sconti in bolletta e ammortizzatori sociali. Ci sono poi 150 milioni previsti per le bonifiche dell’area contaminata del polo industriale per i quali si è discusso, lo scorso anno, di modificare la destinazione d’uso e allocarli per progetti di investimenti sugli impianti. Il decreto Aiuti bis approvato dal governo uscente di Mario Draghi ad agosto 2022 permette a Invitalia di «sottoscrivere aumenti di capitale o diversi strumenti comunque idonei al rafforzamento patrimoniale sino all’importo complessivamente non superiore a un miliardo di euro per il 2022 per assicurare la continuità del funzionamento produttivo dell’impianto siderurgico di Taranto della società Ilva Spa».
Un mese dopo, a settembre 2022, il Consiglio dei ministri ha approvato anche il decreto Aiuti ter che introduce altre misure per l’applicazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e prevede, per l’ex Ilva di Taranto, un altro miliardo per la decarbonizzazione.
L’ultimo contributo, firmato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è del marzo 2023 ed è stato soprannominato Salva-Ilva. È il quattordicesimo di questo genere. Nel decreto ci sono 680 milioni di euro con i quali Acciaierie dovrà prima di tutto pagare i fornitori con i quali continua a indebitarsi, come ad esempio Eni per il gas. Ma non c’è solo il lato economico. Ripropone infatti anche lo scudo penale per chi è coinvolto nella gestione dell’azienda, una misura introdotta la prima volta nel 2015 che, pur di garantire la continuità produttiva, impedisce che si prendano misure per contrastare presunti illeciti amministrativi e penali eventualmente commessi nella gestione dell’impianto durante l’attuazione delle prescrizioni ambientali.
C’è di più: in caso di sequestro, alcune decisioni saranno prese non dal tribunale di Taranto ma da quello di Roma. La proroga dello scudo era stata stralciata nel 2019, ma da allora era stato al centro di uno scontro con i legali di ArcelorMittal, in quanto la sua decadenza avrebbe potuto spingere l’investitore privato a rescindere il contratto. Il Gip di Taranto aveva già sollevato dubbi sulla costituzionalità della misura, poi in seguito leggermente modificata e ora tornata di attualità. Dallo scorso anno, in Costituzione ci sono anche due articoli che si occupano della tutela ambientale e che potrebbero essere utilizzati per ribadire i dubbi sull’incostituzionalità della norma.
CREDITI
Autori
Carlotta Indiano
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