La zona grigia dello strascico: il pesce illegale del Mediterraneo nei supermercati europei

La zona grigia dello strascico: il pesce illegale del Mediterraneo nei supermercati europei

Davide Mancini
Sara Manisera
Arianna Poletti

Quando Ahmed Taktak era poco più che un bambino, durante l’estate lasciava Tunisi per dare una mano allo zio, un pescatore artigianale che seguiva il ciclo delle stagioni del pesce. Ahmed percorreva la strada che dalla capitale porta alla città più popolosa del Sud, Sfax. Dal porto dove stazionano grandi navi merci, si imbarcava su un vecchio traghetto, lasciandosi alle spalle fumi, traffico e rumori. Sbarcava nel porticciolo di Sidi Yousef, dove attraccano ancora oggi le navi che trasportano da una costa all’altra i passeggeri diretti sulle isole di Kerkennah e i camion frigo carichi del pescato del giorno.

Un’ora di traghetto separa la città industriale di Sfax da tutt’altro panorama. A Kerkennah, i fumi delle industrie di Sfax in lontananza lasciano spazio a lunghe distese di sabbia che costeggiano palmeti sempre più secchi a causa della salinizzazione dei suoli. Qualche casa squadrata dall’intonaco bianco o ancora in cemento costeggia la strada che porta a Remla, la cittadina principale di quest’arcipelago circondato da acque basse e cristalline. La punta di uno dei due triangoli speculari che lo compongono indica Lampedusa, a soli 120 chilometri di distanza. Meno del tragitto Roma-Napoli.

A collegare le due isole principali, le uniche abitate, c’è un ponte. Sotto la passerella in cemento armato, l’acqua scorre da un lato all’altro secondo l’effetto delle maree, che a Kerkennah è visibile a occhio nudo. Quando, all’ora del tramonto, il mare si ritira, i pescatori si dirigono a raccogliere le nasse. I fondali poco profondi che circondano l’arcipelago, infatti, permettono di praticare tecniche ancestrali di pesca artigianale, «sostenibili e rispettose dei tempi del mare», spiega Ahmed.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

Proprio nel punto in cui le due isole si toccano, Ahmed Taktak possiede una “parcella di mare”. Per evitare conflitti, infatti, le famiglie di Kerkennah si sono divise l’ampia fascia di battigia lungo la costa dell’arcipelago, come fosse un grande campo. A segnare il confine con l’“appezzamento” vicino è una charfiya, ovvero una lunga distesa di foglie di palma piantate una accanto all’altra, all’interno delle quali i pesci restano intrappolati quando la marea si abbassa. Ancora oggi, Ahmed ricostruisce ogni anno la propria charfiya, anche se ormai «non conviene più». E ricorda: «Insieme a mio zio, da ragazzino pescavo tra i venti e i trenta polpi con le mani, solo camminando lungo la riva, ancora prima di salire in barca. Questo mare pullulava di vita, oggi non c’è più niente».

Affascinato dalle immagini colorate che vedeva su Rai 1, l’unico canale oltre alla TV di Stato tunisina disponibile nel Paese, negli anni ‘90 Ahmed tentava fortuna in Italia, seguendo la stessa rotta che oggi ripercorre per andare a pesca. Ma la vita in Europa si è rivelata più ostile del previsto e così, dopo vent’anni e un matrimonio, si è ritrovato al porto di partenza. Oggi solleva le reti come faceva suo zio. Ad aiutarlo, c’è un giovane apprendista che lo accompagna in barca in cambio di qualche dinaro. Le sue braccia forti, però, non sono più necessarie a sorreggere il peso delle reti, sempre più vuote.

Ahmed Taktak mentre installa una rete di tremaglio al tramonto a Kerkennah – Foto: Davide Mancini
Ahmed Taktak mentre installa una rete tremaglio durante i giorni di bassa marea – Foto: Davide Mancini

«Prima che io partissi per l’Italia, questo era il golfo più pescoso del Paese, perché molte specie del Mediterraneo vengono a riprodursi qui. Non lasciamo neanche più ai pesci il tempo di farlo. Peschiamo sempre, giorno e notte, quattro stagioni all’anno», spiega mentre ripulisce le reti dalla plastica e getta in acqua le lische dei pesci di piccola taglia mangiati dal granchio blu, una specie invasiva venuta dal Mar Rosso che i pescatori tunisini, per la sua voracità, hanno ribattezzato Daesh, come viene chiamato in arabo l’autoproclamato Stato islamico. «Non trovo più pesce, trovo solamente granchi. Porto cinquanta chili di Daesh ogni giorno, me ne prendono 20, mi pagano due dinari al chilo (60 centesimi di euro)». Lo stesso granchio viene esportato dalla Tunisia verso l’Asia, il Nord America o l’Australia in scatole di polistirolo. Il prezzo sul mercato internazionale è di 70 dollari al chilo.

Il ricatto dello strascico

Di pesca artigianale – spiega Ahmed Taktak – oggi non si vive più. Accanto alle piccole imbarcazioni in legno che ancora costellano le coste di Kerkennah, sono comparse barche lunghe meno di 10 metri, con motori più grandi, spesso cariche di frigo per il congelato a bordo. Sono registrate come vascelli per pesca artigianale, sfuggendo così alle restrizioni per la pesca industriale. Sul retro, una carrucola arrugginita stretta e lunga viene usata per calare le reti. «Le vedete queste?», fa notare Nagui, 63 anni, uno dei pescatori più esperti che, durante una giornata di tempesta, si aggira per il porto con un caffè in mano, gli stivali di gomma fino alle ginocchia e un turbante verde in testa. «Queste barche praticano la pesca a strascico», spiega, indicando tre imbarcazioni ferme nel porticciolo di Kraten, il villaggio più a Nord di Kerkennah.

La pesca a strascico consiste nel trainare una rete sul fondale, chiamata kiss in arabo, che significa “sacco”. La rete raccoglie tutto ciò che trova, senza distinzione, comprese alghe, specie sottotaglia e specie non commerciabili, distruggendo così l’ecosistema marino, specialmente quando praticata a basse profondità, come nel Golfo di Gabès.

Pescherecci perla pesca a strascico ormeggiati nel porto di Tunisi – Foto: Davide Mancini
Peschereggi per la pesca a strascico ormeggiati nel porto di Bizerte – Foto: Davide Mancini

Qui si trova una delle riserve più importanti del Mediterraneo di posidonia oceanica, una pianta acquatica che contribuisce a evitare l’erosione delle coste, chiamata dai pescatori “il polmone del mare”, e che oggi, strappata dalle reti, rischia di scomparire. Eppure la Tunisia ha messo al bando questa tecnica di pesca a basse profondità con la legge n. 94 del 1994. Ma sono sempre di più i pescatori che si riconvertono allo strascico illegale, mettendosi a servizio di un armatore che agisce in un clima d’impunità, ingranaggio di un sistema più grande: quello della pesca industriale.

La pesca a strascico

Nelle acque del Mediterraneo in cui si applica la legislazione dell’Ue, la pesca a strascico è vietata a meno di tre miglia nautiche dalla costa, o ad un profondità compresa tra zero e 50 metri, e oltre gli 800 metri. È inoltre vietata in habitat sensibili in cui esistono barriere coralline, prati di posidonia e in alcune aree marine protette designate. I fondali marini, una volta scossi dalle reti a strascico, impiegano tra i 7,5 e i 15 anni a recuperare la loro funzione nell’ecosistema marino, come il trattenimento della CO2. La pesca a strascico è la seconda tecnica più utilizzata nell’Unione europea, rappresentando il 32% delle catture di pesce. Ma contribuisce al 93% della pesca accidentale, in quanto è la pesca indiscriminata per eccellenza. Si stima che circa un milione di tonnellate di pesca accidentale (della quale la maggior parte viene rigettata in mare priva di vita) sia causata ogni anno dalla pesca a strascico praticata nell’Unione europea.

«Vent’anni fa, si poteva pescare a traino a una profondità maggiore di 15-20 metri. A praticarlo erano piccole barche artigianali, che uscivano la mattina con il tramaglio. Poi è iniziata la corruzione. Lo strascico dei pescherecci più grandi è entrato nel Golfo di Gabes, a basse profondità, dove c’erano le uova e molto pesce. Così i grandi pescherecci hanno iniziato a competere con i pescatori artigianali che, poco a poco, hanno iniziato anche loro a montare motori più potenti e fare strascico», riassume un commerciante europeo installatosi in Tunisia nel 1998. Nagui, volto del porto di Kraten, non si rassegna: «Siamo una delle ultime località che si oppongono allo strascico illegale, anche se non guadagnamo più da vivere». Il pescatore si ritiene fortunato: con il ricavato della sua pesca, anni fa è riuscito a costruire la casa dove abita ancora oggi.

I più giovani, invece, si ritrovano intrappolati in una sorta di circolo vizioso. A causa della pesca a strascico, unita al riscaldamento del Mediterraneo e all’arrivo di specie invasive come il granchio blu, lungo le coste tunisine pesce, molluschi e crostacei si sono fatti sempre più rari. «Negli anni ‘90, pescavo cinque o sei branzini», continua Ahmed Taktak, mostrando sul cellulare una vecchia foto di decine di spigole argentate accumulate in una cassa. «Oggi sono contento se ne trovo uno, perché riesco a guadagnarci da vivere per qualche giorno». In assenza del pescato sufficiente per sfamare la famiglia, allora, molti pescatori si mettono a servizio degli armatori dello strascico, finendo per contribuire loro stessi alla penuria di fauna marina. «Se il granchio blu ha invaso il Golfo di Gabes è anche perché abbiamo spezzato la catena alimentare. L’unico predatore di questa specie è il polpo, ma non fa in tempo a crescere che già finisce nelle loro reti», conclude Ahmed Taktak.

Il granchio blu

Il Portunus segnis, conosciuto come granchio blu, è una specie nativa dell’oceano Pacifico e Indiano, che si sta espandendo velocemente come specie invasiva nel Mar Mediterraneo. Con l’apertura del Canale di Suez alla fine dell’Ottocento comincia a notarsi la comparsa di questo granchio. Ma è con l’aumento delle temperature del Meditrraneo degli ultimi due decenni che il granchio blu trova un habitat ideale in alcune zone costiere poco profonde, come nel Golfo di Gabes. Questa specie è molto aggressiva e vorace, alimentandosi principalmente di altri crostacei, molluschi e pesci, che spesso sono a loro volta target dell’industria ittica. Negli ultimi anni, il granchio blu ha trovato un forte sbocco commerciale nei mercati asiatici, come in Corea del Sud e in Nord America, anche grazie a sostegni economici statali che hanno promosso la commercializzazione di questa specie per controllarne la proliferazione.

Una cesta di granchi blu in un’azienda esportatrice di Sfax – Foto: Davide Mancini
Foto: Davide Mancini

Un ingranaggio della pesca industriale

Se da una parte l’Unione europea continua ad abbattere i pescherecci italiani, spagnoli e greci in cambio di sovvenzioni nel tentativo di ridurre lo sforzo di pesca nel Mediterraneo e salvaguardare le specie a rischio, dall’altra la domanda del mercato europeo non è diminuita. Nel Paese nordafricano non viene consumata la grande varietà di pesce che si osserva nei mercati all’ingrosso dei porti tunisini: buona parte del pescato, infatti, viene esportato verso l’Ue, Italia in primis con il 42% delle esportazioni totali. «Indirizziamo il pescato secondo i gusti del cliente. In Spagna vendiamo i polpi più grandi, per esempio, mentre in Italia piacciono quelli più piccoli», racconta il direttore di una delle più importanti aziende di esportazione situata nel trafficato porto di Sfax, il più grande del Paese.

È qui che opererebbe la potente lobby dello strascico con barchette kiss, che da anni agisce al di sopra delle leggi in un clima di omertà, raccontano i pescatori di Kerkennah, e confermano altri operatori del settore: «Chi lavora con i kiss? Gli stessi armatori che praticano lo strascico [industriale]. I piccoli lavorano con i grandi!», afferma un esportatore tunisino basato in uno dei porti della costa più a nord, a circa 200 km da Sfax. Ma è nel porto di Sfax – una vera e propria piccola cittadina, con banche, poste, cantieri e supermarket al suo interno – che arriva il pescato del Golfo di Gabès, il mare più pescoso della Tunisia, compreso il pesce in arrivo dalle isole Kerkennah, poi rivenduto nei due grandi mercati all’ingrosso riservati ai commercianti e ai loro referenti: quello del pesce, e quello dei crostacei.

«Ogni mattina, un intermediario si presenta al porto e compra il nostro pesce per pochi dinari al chilo. Spesso non riceviamo nemmeno il pagamento subito, ma dopo che il pescato è stato rivenduto a un intermediario più grande», descrive Nagui, pescatore che ha visto cambiare il porticciolo di Kraten e, anche quando non è in mare, non abbandona mai il suo tipico turbante verde. Per le strade di Kerkennah si vedono sfrecciare camioncini frigo tutti uguali: raccolgono il pesce del giorno nei piccoli porti dell’arcipelago, e poi si imbarcano sul traghetto verso la città di Sfax.

A quel punto il pescato passa di mano in mano, da intermediario più piccolo a intermediario più grande, seguendo uno schema rodato. Arriva poi negli stabilimenti di una manciata di aziende esportatrici che commerciano con i Paesi del Sud dell’Europa, in particolar modo Italia e Spagna. Le principali – Golden Fish, Novogel, Ben Ayed Sea Food e poche altre, rappresentate dall’Utica, l’Unione tunisina dell’industria, del commercio e dell’artigianato – sono aziende tunisine classificate come totalmente esportatrici. Spesso hanno alle spalle capitale europeo e sono direttamente in contatto con i commercianti dall’altra parte del Mediterraneo.

Un granchio blu intrappolato in una rete a tremaglio. Questa specie invasiva è particolarmente dannosa per le reti tradizionali, che vengono danneggiate dalle chele del granchio – Foto: Davide Mancini
Un polipo moscardino trovato nella rete da Ahmed Taktak – Foto: Davide Mancini

A recuperare il pescato esportato, sono una manciata di grossisti alimentari. Citato da diverse aziende tunisine, tra questi c’è la società di distribuzione di prodotti ittici Marr, filiale del gruppo italiano Cremonini, colosso della ristorazione e servizi di catering. Che assicura a IrpiMedia: «I prodotti ittici importati dalla Tunisia rappresentano meno dello 0,2% dell’acquisto di ittico totale, e sono scortati da certificati di cattura emessi dalle autorità competenti e sottoposti ad un programma di verifiche alla ricezione». Marr inoltre specifica che l’azienda ha conseguito la certificazione secondo lo Standard MSC (Marine Stewardship Council), che dovrebbe garantire «la provenienza dei prodotti da zone di pesca gestite nel rispetto degli stock, habitat ed ecosistemi marini».

Il pescato entra così nei magazzini dei maggiori rivenditori italiani. La versione del manager di una delle grandi aziende presenti nel porto di Sfax, che accetta di parlare protetto dall’anonimato, è però molto diversa da quella ufficiale: è difficile verificare che quel pesce sia stato pescato rispettando le norme tunisine e europee. E nemmeno le certificazioni richieste dall’Ue sarebbero una garanzia: «Per vendere nei Paesi dell’Unione europea serve tracciabilità. Qui invece è tutto un teatro. Il sistema di controllo europeo è adatto alle grandi barche da pesca che operano nell’Atlantico, che rientrano con 40 tonnellate di pescato a volta. Io qui vendo un prodotto che mi arriva da 50 piccole barche diverse tutti i giorni, ciascuna con 40, 60 chili di pesce al massimo. E l’Ue chiude gli occhi», accusa dal suo ufficio il direttore dell’azienda. Punta il dito contro amministrazioni corrotte, veterinari inesistenti e mancanza di controlli a bordo e nei porti tunisini.

L’associazione degli imprenditori tunisini Utica, però, smentisce le accuse di pescatori e manager. Contattata da IrpiMedia, l’Utica garantisce che «i pescherecci sono tracciati da apparecchi di sorveglianza di tipo VMS (Vessel Monitoring Systems, un sistema che permette di tracciare le attività dei pescherecci, ndr)», che «hanno tutte le autorizzazioni sanitarie necessarie e il pescato viene controllato da un veterinario al porto». «I centri di spedizione sono egualmente oggetto di un controllo sanitario rigoroso, e si limitano a esportare i prodotti pescati da pescherecci recensiti e regolarmente registrati», fanno sapere.

L’associazione ammette però che «come ovunque, c’è chi prova a sfuggire alle regole. Ma i servizi competenti e le autorità locali perseguono le frodi». Anche il grossista Marr, che commercia il pescato tunisino in Italia, ribadisce: «Al fine di contrastare la pesca illegale, ai fornitori di prodotti ittici viene richiesto di sottoscrivere un accordo specifico di fornitura che prevede il rispetto della legalità in tutte le fasi del processo produttivo secondo le norme FAO, nonché il divieto di commercializzazione dei prodotti derivanti dalla pesca illegale».

L’UE e l’alibi dei controlli

Il sistema dei controlli, però, non sembra funzionare perfettamente come assicurano aziende e grossisti. A garantire, dovrebbe essere la Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (General Fisheries Commission for the Mediterranean, Cgpm), un organo regionale che raggruppa tutti i Paesi che si affaciano sul Mediterraneo e Mar Nero, più l’Unione europea.

Questa commissione ha l’obiettivo di gestire i controlli sugli stock di pesca del Mediterraneo, ma delega il monitoraggio e l’applicazione delle direttive alle autorità degli Stati membri. In Tunisia, quindi, alle autorità tunisine, le stesse che – anche grazie a cospicui finanziamenti italiani, come raccontato da IrpiMedia – pattugliano la rotta migratoria più trafficata del Mediterraneo Centrale.

Ahmed Taktak e il suo aiutante Mohamed si imbarcano per controllare le reti – Foto: Davide Mancini
Ahmed Taktak nella sua “parcella” di mare a Kerkennah – Foto: Davide Mancini

Seduto nel dehors di un caffè decorato con le tipiche piastrelle colorate in ceramica tunisina, Ahmed Taktak attende l’ora del tramonto per andare a recuperare le sue reti. Secondo il pescatore, il Mediterraneo centrale è un buco nero, e la pesca è solo uno dei tanti business informali o di contrabbando che legano la Tunisia alla Libia, all’Italia, alla Spagna, alla Grecia. «Basti pensare alla differenza di prezzo tra il carburante tunisino sovvenzionato e quello europeo…», sospira. In tanti, sull’isola, raccontano che alcuni piccoli pescherecci sarebbero addirittura proprietà di agenti della guardia costiera che dovrebbe controllarli e che, invece, secondo alcuni pescatori, parteciperebbe addirittura alla compra-vendita del pescato.

Nel Paese, eludere i controlli durante la pesca e nei porti sembra tutt’altro che complesso, specialmente nel Golfo di Gabes, dove agisce la lobby dello strascico. A raccontarlo è Abdelmadjid Dabbar, presidente dell’associazione Tunisie Écologie, che da anni, insieme all’ong FishAct, indaga sulla pesca illegale: «Nel 2018 abbiamo contato circa 450 imbarcazioni per lo strascico illegale solo nel governatorato di Sfax. Molte di queste barche non sono neanche registrate, e quasi mai appartengono ai pescatori che ci lavorano». Anche l’assistente di Ahmed Taktak, racconta, ha lavorato su un peschereccio a traino, per poi abbandonare perché «la paga del manovale era troppo misera, le reti cariche troppo pesanti». Il nuovo conteggio di pescherecci kiss, intanto, è salito a 576 negli ultimi due anni, secondo una ricerca svolta dalle organizzazioni FishAct e Environmental Justice Foundation.

A determinare la paga giornaliera di Ahmed, ancora prima del suo capo, è quindi il mercato internazionale dell’export, che sembra non solo tollerare, ma appoggiarsi alla zona grigia della pesca a strascico illegale: grandi quantità di pescato per prezzi bassissimi, in cui si mescolano catture regolari e irregolari. Per il fresco, per esempio, il prezzo si fa con una compravendita al telefono.

«A volte si fa prima della pesca, a volte si fa con l’asta», spiega un intermediario siciliano incontrato a Bizerte, da dove, ogni notte, risponde alle chiamate dei clienti per informarli sul pescato. «Da me arriva un rappresentante che raccoglie il pescato da più barche, e mi fa un prezzo. Io non parlo direttamente con i pescatori, ma con il grande armatore, o con l’intermediario che raccoglie dai piccoli pescatori».

Quando il pescato tunisino lascia il Paese con certificati di cattura spesso falsi o doppi, allora, le garanzie della sua provenienza sono ben poche. Il problema dei certificati di cattura è stato segnalato anche dalla Corte dei conti europea lo scorso settembre. La Corte dei conti sottolinea infatti che le certificazioni cartacee attualmente richieste sono facilmente falsificabili, e che si dovrebbe rendere obbligatorio un sistema digitalizzato comunitario (già esistente, ma non obbligatorio). Inoltre, i singoli Stati membri, non sono tenuti attualmente a confrontare tra loro i certificati di cattura a loro presentati dagli esportatori, perciò un solo certificato può essere usato più volte in diversi Paesi, eludendo i controlli degli enti nazionali responsabili dei i controlli.

Ad ammetterlo è proprio il direttore dell’azienda di esportazione, che confida: «Tutti sanno che anche chi fa strascico nel Golfo di Gabes vende alle aziende esportatrici. In teoria non potrebbero, perché non possiedono la documentazione necessaria per essere in regola. In pratica, però, la ottengono facilmente, perché esiste un traffico di certificazioni rilasciate dai veterinari, che non sono in numero sufficiente per rilasciare certificati al volume attuale di pescato. A quel punto come posso imporre le regole io, se arrivano con le carte e le certificazioni sufficienti per entrare nell’Ue?», si chiede.

In assenza di sufficienti controlli alla fonte, quindi, quali misure adottano i Paesi importatori, come l’Italia? Secondo il rapporto pubblicato da una coalizione di Ong internazionali che prende in esame il numero di certificazioni comunicate alla Commissione europea, si nota che l’Italia ha ricevuto 96.736 certificati di cattura nel periodo 2018-2019 (terza per numero dopo Spagna e Francia). Questi certificati, stando al documento ufficiale analizzato, sono stati tutti verificati dalle autorità italiane, ma solamente in un caso le autorità hanno richiesto di verificare l’attendibilità del documento cartaceo in quanto sospettoso.

L’installazione di una charfia nella “parcella di mare” di Ahmed Taktak – Foto: Davide Mancini
La tecnica di pesca passiva, riconosciuto come bene immateriale dall’UNESCO, sfrutta l’abbassamento della marea per canalizzare e intrappolare pesci e molluschi – Foto: Davide Mancini

A fine febbraio 2023, nel frattempo, la Commissione europea ha tentato di rispondere ai danni dello strascico nel Mediterraneo presentando un pacchetto di misure per fermare la pesca a strascico in aree protette entro il 2030, ma solo in acque europee.

«Chiederemo agli Stati membri di darci una tabella di marcia entro il 2024, crediamo siano tutti consapevoli della necessità di fare progressi sulla pesca sostenibile e la tutela degli ecosistemi, soprattutto nel Mediterraneo», si legge nel loro comunicato. Le misure introdotte dalla Commissione, però, hanno mandato su tutte le furie i pescatori dei Paesi dell’Ue che si affacciano sul Mediterraneo, compresa l’Italia, che puntano il dito contro la concorrenza “sleale” delle flotte dei Paesi a Sud, come la Tunisia. A servirsi dell’esternalizzazione della produzione lì dove i controlli si raggirano più facilmente, però, sarebbero proprio i grossisti europei, in cerca di margini di profitto migliori. In assenza di controlli sufficienti, il prezzo del pescato non tiene conto dei danni ambientali e sociali.

La pesca artigianale contro l’inquinamento

Nel frattempo, alcuni gruppi di pescatori o ex pescatori continuano a battersi per una pesca lenta, sostenibile e garante del futuro di un Mediterraneo già colpito dagli effetti devastanti della crisi climatica. Nella vicina città di Gabès – conosciuta per l’industria dei fosfati che scarica direttamente in mare, ed è responsabile dell’inquinamento del Golfo – un gruppo di pescatori si è auto-organizzato in comitato per opporsi agli armatori dello strascico. Anche a Kerkennah, nel porto di Kraten, sulla punta dell’isola, i membri dell’Associazione locale per lo sviluppo sostenibile e la cultura hanno ridipinto i depositi per le reti e gli affari da pesca con una serie di graffiti contro la pesca a strascico.

Solo in questo porto i pescherecci a traino sono la minoranza: «Noi proviamo a resistere al loro ricatto – racconta Ahmed Souissi, presidente dell’associazione e fiero abitante di Kerkennah che, a differenza di tanti altri giovani della sua generazione, ha deciso di non lasciare l’arcipelago dove è nato. Senza pesce i tunisini partiranno», è il monito di Ahmed Taktak, che conosce bene le difficoltà di chi sbarca in Italia, ma non biasima i giovani che si imbarcano dalle spiagge di un’isola sempre più vuota.

Mentre accende un fuoco per grigliare il pesce tra le palme, il pescatore ricorda le tante battaglie dei pescatori-cittadini di Kerkennah per salvare il fragile ecosistema dell’arcipelago. Delle luci in lontananza illuminano il mare all’orizzonte: non la città sulla costa di fronte, ma due piattaforme petrolifere offshore. «Nel 2016, un incidente in uno degli impianti della compagnia tuniso-britannica Thyna Petroleum Services ha causato una marea nera lungo le coste di Kerkennah. Noi pescatori siamo scesi in piazza a protestare e abbiamo bloccato la sede della compagnia», ricorda.

Secondo il pescatore, i danni di allora sono visibili ancora oggi e, insieme alla pesca a strascico, al riscaldamento delle acque e all’inquinamento del Golfo, il petrolio ha contribuito alla desertificazione dei fondali dell’arcipelago. «Anche se ci fermassimo adesso, ci vorrebbero decenni per recuperare la fauna persa, fauna che lo strascico continua a sradicare. Questi banditi del mare non distruggono solo la fauna, ma anche l’habitat. Come possiamo pensare che un domani ci sarà ancora pesce nel Mediterraneo se non ci saranno più le condizioni necessarie per la vita?», si chiede l’attivista Abdelmajid Dabbar di Tunisie Écologie, che ogni anno, durante le sue missioni in mare aperto, constata i danni di «politiche irresponsabili e inadeguate all’urgenza della situazione».

Come lui, Nagui, l’anziano pescatore del porto di Kraten, non ha dubbi: «La natura va rispettata o si vendica sempre», sospira mentre sorseggia il caffè freddo sotto il cielo plumbeo, di fronte al mare in tempesta che trascina a riva la plastica depositata sui fondali e fa dondolare le barche ferme al molo. Nagui, Ahmed e gli altri pescatori, abitanti di questo arcipelago un tempo incontaminato osservano impensieriti il Mediterraneo. Chi conosce il mare, come loro, sa che il fragile equilibrio tra uomo e natura si è rotto: «Ed è anche per questo, perché non c’è futuro su queste isole, che i nostri giovani partono».

CREDITI

Autori

Davide Mancini
Sara Manisera
Arianna Poletti

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Davide Mancini

Con il sostegno di

Salerno, Varna e Sousse il triangolo dietro i container di rifiuti bloccati in Tunisia

Salerno, Varna e Sousse il triangolo dietro i container di rifiuti bloccati in Tunisia

Sara Manisera
Arianna Poletti
RaiNews24

Il 2 novembre 2020 in Tunisia è stata aperta un’indagine per traffico di rifiuti dopo che – tra maggio e luglio 2020 – sono entrati nel Paese 282 container di rifiuti provenienti dall’Italia. A distanza di oltre sette mesi, 212 container sono ancora bloccati al porto di Sousse, 170 chilometri a sud della capitale Tunisi. L’inchiesta, dopo i primi arresti, sembra essersi arenata in Tunisia, mentre in Italia hanno cominciato a indagare anche due Direzioni distrettuali antimafia: quella di Salerno, porto dal quale sono partiti i rifiuti italiani, e quella di Potenza competente per il Vallo di Diano dove ha sede la società campana Sviluppo Risorse Ambientali. Nuovi documenti allargano il perimetro delle persone coinvolte: non più solo l’azienda campana, ma anche una calabrese con interessi che portano fino in Bulgaria. A questo si aggiunge una sorta di facilitatore dell’affare tra Italia e Tunisia, che a IrpiMedia spiega però di essere disposto a chiarire il suo ruolo solo alla magistratura. Una fonte vicino a una delle due inchieste italiane sostiene che la «mancata collaborazione» delle autorità tunisine stia impedendo alle autorità di andare avanti.

La normativa internazionale sui movimenti transfrontalieri dei rifiuti, sancita dalla Convenzione di Basilea, prevede che in un caso come questo i rifiuti sospetti debbano rientrare al Paese di partenza. Invece, da mesi, la Regione Campania, che ha autorizzato le spedizioni, e la società coinvolta, la Sviluppo Risorse Ambientali srl (SRA) di Polla, si rimbalzano la responsabilità. La Sviluppo Risorse Ambientali srl si è rivolta prima al Tar della Campania, poi a quello del Lazio per evitare di farsi carico dei costi del rimpatrio: entrambi i ricorsi sono risultati inammissibili. L’azienda è in attesa di una terza decisione dal tribunale di Roma.

Nel frattempo la Arkas, la società turca incaricata del trasporto e del noleggio dei container, ha inviato una richiesta di risarcimento danni del valore di circa 10 milioni di euro alla Regione Campania, al ministero dell’Ambiente italiano e alla società di Polla Sviluppo Risorse Ambientali. Secondo l’atto di citazione dei legali di Arkas, «la Regione Campania è responsabile per avere ritardato le procedure di rientro in Italia dei rifiuti sia prima che dopo le segnalazioni delle competenti autorità tunisine». Inoltre, Arkas sostiene che dopo il blocco dei container «c’è stata una fitta corrispondenza tra il Ministero dell’Ambiente italiano e il Ministero dell’Ambiente tunisino di cui l’esponente [Arkas, ndr] è tuttora all’oscuro e che dimostra il pieno coinvolgimento del Ministero italiano e la piena conoscenza da parte dello stesso dei termini della questione», ossia la permanenza dei container al porto di Sousse, con il conseguente danno per Arkas.

Solo nel 2019 la Regione Campania ha rilasciato autorizzazioni all’esportazione per oltre 500mila tonnellate di rifiuti. Com’è possibile che abbia potuto sbagliare una procedura così comune? Il dirigente Antonello Barretta, contattato da IrpiMedia, glissa e scarica la responsabilità sull’azienda di Polla che ha segnalato l’Agenzia per la Promozione dell’Industria di Sousse (API Sousse) come autorità competente per approvare l’esportazione. L’autorizzazione spetterebbe invece al focal point – il punto di contatto previsto dalla normativa internazionale sui rifiuti – in Tunisia. Nel frattempo, la Regione Campania ha annullato in autotutela i due decreti dirigenziali che autorizzavano la SRA a esportare in Tunisia.

Costruisci con noi l’informazione che meriti!

Sostieni l’edizione 2021 di IrpiMedia

Container dell’azienda turca Arkas in Tunisia – Foto: IrpiMedia

Mentre la Regione Campania e la ditta italiana continuano a dilatare i tempi, i 212 container contenenti 7.900 tonnellate di rifiuti restano nel porto di Sousse. I restanti 70 container sono invece depositati in un hangar a 15 chilometri dalla città, nel remoto villaggio agricolo di Moureddine, dove la ditta tunisina Soreplast suarl ha affittato un deposito.

Soreplast suarl, una società “totalmente esportatrice” tornata attiva due mesi prima della firma del contratto con la ditta di Polla Sviluppo Risorse Ambientale srl, a settembre 2019, avrebbe dovuto riciclare i rifiuti di tipo 191212 trasformandoli in tubicini di plastica per poi esportarli nuovamente. Ma per il responsabile della Convenzione di Basilea in Tunisia nei container non ci sarebbero rifiuti misti non pericolosi come dichiarato nei documenti di trasporto, bensì rifiuti domestici indifferenziati non riciclabili, destinati a inceneritore o alla discarica. Secondo il Ministero dell’Ambiente, inoltre, la Tunisia non ha impianti idonei al trattamento dei rifiuti. Quindi, secondo le convenzioni internazionali sui rifiuti, la spedizione della SRA è da considerarsi illecita e l’Italia se li deve riprendere.

Cosa sono i rifiuti 191212

Il numero 191212 indica la composizione del rifiuto secondo il Codice Europeo del Rifiuto (CER). Corrisponde alla dicitura: «Rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani». L’Italia produce circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani l’anno e dovrebbe riciclarne almeno il 65%, obiettivo che però non riesce a raggiungere. Come ci impone la legislazione europea, l’indifferenziata va infatti selezionata una o più volte per separare la frazione riciclabile dallo scarto finale, che andrà poi smaltito in discarica o incenerito. Ma questo ha un costo e in Italia mancano gli impianti necessari.

«Una piattaforma raccoglie l’indifferenziata e seleziona la parte pregiata, che sarà consegnata ad un consorzio nazionale, mentre la parte residuale, il cosiddetto scarto, viene bollato con il codice 19 – spiega Claudia Silvestrini, direttrice del consorzio Polieco -. Il rifiuto 19 può essere inviato ad un’altra piattaforma che lo riseleziona oppure viene spedito in altri Paesi, dove poi bisogna vedere se l’impianto finale esiste ed è in condizione di riceverlo». Dalla Campania proviene il 95% dei 191212 esportati da tutta Italia, che a loro volta rappresentano il 17% del totale dei rifiuti mandati all’estero. A riceverli sono principalmente Spagna, Portogallo, Danimarca ed Est Europa.

Leggi anche

L’ultimo viaggio

Le navi a fine vita vengono smantellate principalmente in Asia meridionale e in Turchia. Ma raramente in questi cantieri ci sono standard di sicurezza adeguati. I lavoratori spesso si ammalano a causa delle sostanze tossiche contenute nelle carcasse delle navi. Una su tutte, l’amianto

Venezia, l’addio mai detto alle grandi navi

La costruzione di un porto temporaneo a Venezia per accogliere le grandi navi ha riaperto un dibattito che lacera la città da decenni, tra chi si batte per la salvaguardia della laguna e chi spinge per la crescita economica a tutti i costi

Droni al fronte

In Ucraina i velivoli senza pilota sono armi e mezzi di propaganda. Le organizzazioni di volontari in Ucraina hanno cambiato la loro natura per rifornirli all’esercito di Kyiv

Un contratto tra l’azienda calabrese e quella campana

A richiedere alla Regione Campania l’autorizzazione all’export è stata la Sviluppo Risorse Ambientali srl, una società di Polla che raccoglie e ricicla i rifiuti urbani dalla provincia di Salerno e da altre regioni, come la Basilicata e la Calabria. Ed è proprio una ditta calabrese a cedere alla Sviluppo Risorse Ambientali srl il contratto stipulato il 10 settembre 2019 con la tunisina Soreplast: si tratta della Eco Management S.p.a di Soverato, in provincia di Catanzaro. Come si legge sul contratto ottenuto da IrpiMedia, è la società calabrese ad aver affidato per prima all’azienda tunisina le operazioni di «conferimento, selezione e avvio al recupero di rifiuti speciali CER 191212» per un quantitativo di 10.000 tonnellate mensili fino a un tetto massimo di 120.000 tonnellate. La Sviluppo Risorse Ambientali recupera quindi un accordo già stipulato, pagando 50 mila euro alla Eco Management per l’intermediazione più 22 euro a tonnellata per la cessione, e firmerà un secondo contratto con la Soreplast il 30 settembre 2019.

Lo conferma ad IrpiMedia lo stesso Alfonso Palmieri, membro del consiglio di amministrazione della ditta di Polla, che sostiene di esser entrato in contatto prima con Francesco Papucci, uno dei soci della Eco Management spa, poi con l’amministratore Innocenzo Maurizio Mazzotta, perché la ditta calabrese convogliava per conto di Corepla (il Consorzio Nazionale per la Raccolta, il Riciclo e il recupero degli imballaggi in Plastica) una parte degli imballaggi verso la ditta campana.

Ma chi c’è dietro la ditta Eco Management spa? E perché la società calabrese firma un contratto che viene ceduto il 16 settembre 2019, dopo solo sei giorni, alla società campana SRA?

I legami con la Bulgaria

La Eco Management spa è un’azienda nata nel 2015 che si occupa della raccolta dei rifiuti solidi urbani e industriali e della lavorazione dei rifiuti differenziati di diversi Comuni della zona di Soverato, in provincia di Catanzaro. La società è stata interessata lo scorso ottobre da due incendi, presso l’impianto di trattamento dei rifiuti a Squillace. L’amministratore delegato della Eco Management è Innocenzo Maurizio Mazzotta, ex vice presidente del cda della Schillacium spa, un’azienda di rifiuti fallita nel 2017.

Tra i soci della Eco Management, oltre a membri della famiglia Mazzotta e della famiglia di Francesco Papucci di Soverato, compaiono nomi di azionisti bulgari. Tra questi c’è Yordanova Lyubka e la società Europe Waste Managment S.A. con sede a Varna. Come dimostrano le immagini girate da RaiNews24, presso lo stesso indirizzo dell’azienda bulgara esiste solo una casella postale e un ufficio vuoto dove hanno sede altre sei società, tutte riconducibili ad investitori italiani. Innocenzo Mazzotta risulta inoltre essere all’interno di un’altra società bulgara di rifiuti, la Cafren Recycle SA, insieme a Dimitar Stefanon Georgiev e Yulianov Zhelyazkova.

Proprio la Bulgaria, insieme ad altri Paesi dell’Europa dell’Est come la Romania, è finita al centro degli ultimi grandi scandali di traffico illecito di rifiuti provenienti dall’Italia. Il meccanismo usato in Bulgaria assomiglia a quello della vicenda tunisina: nel Paese balcanico che sembrava essersi trasformato nella destinazione preferita dagli italiani sono state esportate tonnellate di rifiuti CER 191212 destinati ad operazioni di riciclo più convenienti, in realtà inesistenti.

Come in Tunisia, i recenti scandali ambientali legati al traffico illecito di rifiuti hanno portato alle dimissioni dell’ex ministro dell’ambiente bulgaro Neno Dimov. Mustapha Laroui, ex ministro dell’ambiente tunisino, è stato arrestato il 21 dicembre 2020, un mese dopo l’apertura di un’inchiesta giudiziaria per traffico illecito di rifiuti ancora in corso. «Dopo gli scandali del 2019-2020 in Europa dell’Est, e in particolar modo in Bulgaria, gli imprenditori dei rifiuti cercano nuove rotte che sembrano portare verso il Nord Africa e l’Africa subsahariana», spiega ad IrpiMedia Claudia Salvestrini, direttrice del Consorzio Polieco (Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni a base di polietilene, ndr).

Le dimissioni di Neno Dimov

Neno Dimov è stato ministro dell’Acqua e dell’Ambiente in Bulgaria tra il maggio 2017 e il gennaio 2020. È stato arrestato con l’accusa di aver lasciato senz’acqua i 122mila abitanti di Pernik, deviando l’acqua proveniente dall’unica fonte di approvvigionamento – la diga di Studena – verso un centro abitato più piccolo e alcuni complessi industriali. Dopo l’arresto, ha rassegnato le sue dimissioni dalla carica di ministro. Dalla crisi idrica di Permik, l’indagine bulgara si è poi allargata anche allo scandalo della gestione dei rifiuti.

Come hanno in precedenza raccontato Occrp, Rise Romania, Bivol e Irpi in un’inchiesta transnazionale del 2019, la Bulgaria, insieme alla Romania, è stata per anni la destinazione finale di rifiuti italiani erroneamente classificati e destinati a diventare combustibile per cementifici e centrali termoelettriche, invece di essere stoccati in discarica come sarebbe previsto dalla normativa. Proprio la città di Permik è stata una delle mete principali dei rifiuti italiani, entrati nel Paese grazie anche al contributo di organizzazioni criminali e broker compiacenti. Secondo le accuse, Dimov sarebbe stato al corrente del traffico di rifiuti.

Macchinari italiani spediti in Tunisia

L’Eco Management spa non si limita però a cedere il contratto alla Sviluppo Risorse Ambientali. A marzo 2020, a qualche settimana dal primo decreto della Regione Campania che autorizza le spedizioni di rifiuti 191212 dal porto di Salerno verso Tunisia, è la stessa società calabrese a fornire alla Soreplast i macchinari necessari per poter giustificare le operazioni di riciclo: una pressa per rifiuti del 1996, cabina e nastro di selezione e altro materiale per un totale di 104.500 euro a carico dell’azienda tunisina, confermano quattro fatture ottenute da IrpiMedia.

I container contenenti i macchinari partono dal porto di Salerno, ma questa volta approdano a La Goulette (il porto di Tunisi) dove restano fermi due mesi. I macchinari inviati dall’Eco Management alla Soreplast si trovano oggi nel deposito di Sidi El Hani (30 km da Sousse) in un secondo capannone affittato da Moncef Noureddine, proprietario della ditta tunisina, per poter scaricare il contenuto dei 212 rimasti bloccati al porto. I rappresentati della Sviluppo Risorse Ambientali srl hanno dichiarato durante la conferenza stampa del 6 febbraio che la Soreplast al momento della firma del contratto disponeva di una parte dei macchinari necessari per procedere al riciclo. Ma quando il contratto viene ceduto alla ditta di Polla, il 16 settembre 2019, i macchinari spediti dalla Eco Management non hanno ancora lasciato la Calabria.

Chi ha facilitato l’affare?

Da una mail inviata a SRA il 27 gennaio 2021 risulta che l’affare tra la società calabrese Eco Management spa e la tunisina Soreplast suarl «sia stato concluso per il tramite dell’intermediazione» di un certo Paolo Casadonte. Originario di Montepaone, in provincia di Catanzaro, Casadonte in Tunisia è proprietario della G.C. Service sarl, attiva da aprile 2019 ma già in default secondo la visura consultata da IrpiMedia tramite il Registro Nazionale delle Imprese Tunisine. Casadonte, detto “Paul” tra i suoi contatti a Sousse, ha già lavorato nel Paese nordafricano nell’ambito dei rifiuti metallici e conosce personalmente il proprietario della ditta tunisina che avrebbe dovuto smaltire i rifiuti, Moncef Noureddine.

Un’ulteriore conferma del ruolo di Casadonte in questo affare risulta dalla delega, pubblicata sui social network, che Antonio Cancro, amministratore della società campana, fornisce a Casadonte perché possa recarsi a ritirare il plico contenente i documenti di notifica e il contratto presso la sede dell’Agenzia della Promozione Industriale (API) di Sousse. Contattato sulla vicenda, Casadonte risponde attraverso il suo avvocato Serena Riccio chiarendo che «Casadonte non è stato consulente, né intermediario di queste società e che la contrattualistica o eventuali dichiarazioni a riguardo è disposto a fornirle agli organi competenti».

Nonostante manchino ancora molti elementi per far chiarezza, questo primo export di rifiuti dalla Campania verso la Tunisia sembra essere l’apripista di una nuova destinazione dei rifiuti italiani.

Costruisci con noi l’informazione che meriti!

Sostieni l’edizione 2021 di IrpiMedia
La replica dei legali di SRA

1. La Convenzione di Basilea non contempla – in una vicenda quale la presente – l’obbligo di rimpatrio.
Tanto poiché pur volendo qualificare la fattispecie in termini di spedizione illegale (art. 9 Convenzione di Basilea), come fatto in un primo momento dalla Regione Campania, il rimpatrio nel luogo di origine è previsto solo e a condizione che ricorrano entrambi i seguenti presupposti (art. 9, comma 2, Conv. cit.):
– Sussista la responsabilità del notificatore;
– Non sia possibile smaltire i rifiuti in altri impianti del luogo di destinazione secondo mezzi ecologicamente sostenibili.
In difetto di ciò trovano applicazione i commi 3 e 4 del citato testo.
Ovvero:
– lo smaltimento nel luogo di origine (comma 3: allorquando sussista la responsabilità del notificato);
– la soluzione sul piano diplomatico (comma 4: nei casi in cui non sia possibile individuare responsabili).
Nel nostro caso è palmare che la S.R.A. non è responsabile di alcunché, laddove la possibilità di smaltire alternativamente i rifiuti non è stata previamente riscontrata.

2. La Convenzione di Basilea, inoltre, non vieta l’ingresso in Tunisia né dei rifiuti pericolosi, né dei rifiuti Y46.
La circostanza è palese dal testo della Convenzione nonché a più riprese affermata dalla Regione Campania e dal Ministero della Transizione Ecologica nei propri atti ufficiali (nonché in quelli processuali).
Gli stessi organi nazionali e regionali italiani escludono a priori che si tratti di rifiuti pericolosi e urbani.
Inoltre, occorre evidenziare è da dicembre che con plurimi atti ufficiali spediti alla Presidenza del Consiglio, alla Regione, alla Tunisia e a vari Ministeri la S.R.A. (che, per inciso, ha apposto i sigilli a ciascuno dei 282 containers, nonché è in possesso di circa 2.500 reperti fotografici dei rifiuti spediti e dei relativi certificati di analisi di laboratori indipendenti) chiede una caratterizzazione in contraddittorio del rifiuto, inspiegabilmente negata.
Ad oggi in assenza di caratterizzazione ci si chiede come possa affermarsi (almeno non seriamente) che i rifiuti de quo non sono idonei e che non esistono impianti alternativi in Tunisia.
Ed è paradossale che la Regione Campania abbia previsto la caratterizzazione del rifiuto quale attività prodromica ed imprescindibile, non appena i rifiuti faranno (o almeno dovessero fare) ingresso in Italia.
La domanda è: non si poteva farlo (o pretenderlo) prima?

3 L’unico testo che vieta i rifiuti sub 2. è la Convenzione di Bamako che, però, non essendo mai stata firmata dall’Italia, non è applicabile nel nostro Paese (e non può esserne certo imposta la sua applicazione, trattandosi di norma inter alios, ovvero solo tra gli stati suoi firmatari).
La circostanza è pacificamente ammessa in più atti anche processuali dall’Avvocatura Generale dello Stato nonché da quella Distrettuale di Napoli nei vari processi tuttora in corso.

4. La richiesta di rimpatrio tunisina poggia in sostanza sulla errata individuazione del Focal Point estero da parte della sola Regione Campania (la S.R.A. è stata sempre estranea a tale scelta, né il procedimento amministrativo di autorizzazione è frutto dell’autogestione del privato), non nuova a spedizioni transnazionali, e sulla presunta violazione della Convenzione di Bamako.
La Tunisia addirittura è arrivata a contestare alla Regione di non essere andata sul sito web della Convenzione di Basilea (accessibile tramite Google) ove risulta a chiare lettere il rispettivo Focal Point.
In tale contesto, anche alla luce di quanto sopra è da escludere ogni responsabilità della mia assistita come pure l’obbligo di rimpatrio.
E tanto è vero che il Tribunale Civile di Roma ha, valutato la documentazione, sospeso l’escussione delle polizze fideiussorie di circa 7.000.000 di Euro.
Tanto dovevo perché sia fatta luce sulla vicenda in una prospettiva serena e veritiera, nell’interesse Vostro e di tutti i cittadini.

CREDITI

Autori

Sara Manisera
Arianna Poletti
RaiNews24

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

In collaborazione con

Inkyfada

Foto copertina

Lo scalo merci del porto di Sousse, Tunisia
(Liz Miller/Shutterstock)

Arresti eccellenti e aziende fantasma: il traffico di rifiuti tra Italia e Tunisia

Arresti eccellenti e aziende fantasma: il traffico di rifiuti tra Italia e Tunisia

IrpiMedia
Inkyfada

Duecentoottantadue container di balle di rifiuti italiani arrivati a Sousse, città a 170 km a sud-est da Tunisi, sono al centro di uno scandalo politico in Tunisia. Dall’altro lato del Mediterraneo, la vicenda ha portato prima alle dimissioni e poi all’arresto dell’ex ministro dell’ambiente, Mustapha Laroui, il 21 dicembre 2020. Appena due mesi prima, il 2 novembre, il governo tunisino annunciava l’apertura di un’inchiesta giudiziaria per traffico di rifiuti, ancora in corso.

Sulla lista degli indagati non appare solo il nome dell’ex ministro dell’ambiente, ma anche quello del suo capo di gabinetto, dei direttori dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED) e di quella per la Protezione dell’ambiente (ANPI). Oltre a tre funzionari della dogana, il responsabile di un laboratorio di analisi e un impiegato delle poste, risulta essere indagato anche Beya Ben Abdelbaki, console tunisino a Napoli. Per il giudice di Sousse incaricato del dossier, Tarek Saied, sono tutti accusati di aver favorito l’arrivo di 7.900 tonnellate di rifiuti non riciclabili sul suolo tunisino.

I 282 container, partiti dal porto di Salerno tra il 22 maggio e il 20 luglio 2020, contengono tonnellate di rifiuti classificati come 191212, un codice che per il catalogo europeo corrisponde alla dicitura «rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani». Per la ditta che li ha prodotti, la Sviluppo Risorse Ambientali di Polla, piccolo comune di 5mila abitanti in provincia di Salerno, si tratta di rifiuti derivati dalla lavorazione industriale dell’immondizia differenziata. Sono stati inviati in Tunisia, sostiene l’azienda, per un secondo trattamento di valorizzazione in nome della «maggior economicità del processo di recupero rispetto al paese d’origine», si legge sulle carte che accompagnano le spedizioni, ottenute da IrpiMedia.

Per il rappresentante del Ministero dell’Ambiente tunisino Abderrazak Marzouki, invece, nei depositi non arriva materiale riciclabile ma solo «scarti di rifiuti urbani e misti, impossibili da valorizzare» e quindi destinati allo smaltimento in discarica o all’incenerimento, come spiega lui stesso sulla base delle analisi condotte dal tribunale di Sousse in un’email inviata il 15 dicembre 2020 alla Regione Campania e a Sergio Cristofanelli, funzionario del Ministero dell’Ambiente italiano.

Secondo il regolamento europeo sui rifiuti 1013 e la convenzione di Basilea che regola i movimenti transfrontalieri tra un Paese Ue e un Paese extra Ue, l’Italia può esportare rifiuti di questo tipo solo se effettivamente destinati al riciclo. Spetterebbe proprio ai due rappresentanti della Convenzione di Basilea – i cosiddetti focal points italiano e tunisino, dipendenti dai rispettivi ministeri dell’Ambiente – autorizzare o rifiutare la spedizione. Invece la procedura non viene rispettata: i container lasciano il porto di Salerno con il beneplacito della Regione Campania, ma senza l’accordo delle autorità competenti, cioè i rappresentanti della Convenzione di Basilea. A consentire la spedizione è un funzionario dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED) della regione di Sousse, oggi in manette. Ad attenderli, c’è una società fantasma che dichiara di esportare plastica e che tra luglio e settembre, prima che l’affare diventi pubblico, ha già ricevuto un totale di 230 mila euro dall’azienda campana Sviluppo Risorse Ambientali.

Secondo il regolamento europeo sui rifiuti 1013 e la convenzione di Basilea che regola i movimenti transfrontalieri tra Paesi UE ed extra Ue, l’Italia può esportare rifiuti di questo tipo solo se effettivamente destinati al riciclo

Insieme ai colleghi tunisini di Inkyfada, IrpiMedia ha indagato su chi sono i protagonisti di quella che in Tunisia è già diventata l’inchiesta giudiziaria più delicata del 2021.

A ricevere i rifiuti, un’azienda fantasma che non può riciclarli

A firmare il contratto con la Sviluppo Risorse Ambientali il 30 settembre 2019 è la ditta tunisina Soreplast, di proprietà di Mohamed Moncef Noureddine, da più di dieci anni nel campo dei rifiuti. Dieci giorni prima del mandato d’arresto inviato dal procuratore di Sousse, il proprietario fugge in Germania.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

La famiglia Noureddine, connessa agli ambienti della dittatura di Ben Ali e tutt’ora vicina al mondo politico, è molto influente nella regione di Sousse. La ditta di Moncef Noureddine viene fondata nel 2009 ma multata dalla dogana nel 2012 per aver falsificato dei documenti sulle quantità delle merci che trattava. Da quel momento, smette ufficialmente di lavorare e non dichiara più nulla al fisco, anche se un ex collega di Mohamed Moncef Noureddine sa che «ogni tanto ottiene qualche commissione in nero sul mercato locale». Ufficialmente Soreplast torna attiva a novembre 2019, due mesi dopo la firma del contratto con la Sviluppo Risorse Ambientali. È allora che il proprietario tenta di mettersi in regola e dichiara al fisco le entrate dell’anno precedente: 1 milione e 300 mila dollari, riporta un documento bancario visionato da IrpiMedia.

Il contratto con Soreplast – firmato durante la prima visita in Tunisia di Alfonso Palmieri, proprietario della Sviluppo Risorse Ambientali ai locali della ditta, come conferma ad IrpiMedia la stessa SRA durante una conferenza stampa a Polla – prevede un tetto massimo di 120 mila tonnellate di rifiuti da esportare a sud del Mediterraneo, divisi in tranches minori. Le tonnellate autorizzate dalla Regione Campania con due decreti dirigenziali – uno del 14 aprile, l’altro dell’8 luglio – sono 12 mila in totale, di cui 7.900 sono arrivate in Tunisia prima che le spedizioni venissero bloccate. Le balle di rifiuti misti sono state trasportate via mare da Salerno a Sousse in 282 containers, di cui solo 70 sono stati trasportati presso i locali di Soreplast. I restanti 212 sono ancora bloccati al porto, sotto sequestro: ogni giorno di sosta dei container costa 26 mila euro alla regione Campania.

Ad attraversare il Mediterraneo con i carichi di rifiuti sono due navi della compagnia turca Arkas, prima la Martine A e poi la Mehmet Kahveci. Tra le condizioni del contratto, si legge nel documento ottenuto da IrpiMedia, i rifiuti fuoriusciti dalla Sviluppo Risorse Ambientali di Polla dovranno essere riselezionati e, per la parte non recuperabile, smaltiti a carico dell’impianto. Il prezzo è 52 euro per ciascuna tonnellata fatta arrivare al porto di destinazione, a cui vanno sommati 85 euro per il trattamento di riciclo: «Un prezzo più che conveniente», conferma un tecnico dei rifiuti incontrato da IrpiMedia in Tunisia.

Dallo statuto societario risulta che al momento della firma del contratto la Soreplast sia una società uninominale che si occupa di «riciclaggio e recupero dei rifiuti post-industriali, plastica e materiali vari». Secondo la ditta italiana, i rifiuti inviati in Tunisia, una volta recuperati, avrebbero dovuto essere trasformati in tubicini di plastica per poi essere riesportati, non è specificato verso dove. Soreplast, infatti, risulta essere una società «totalmente esportatrice»: almeno il 50% di quello che produce deve essere inviato all’estero e non può entrare sul mercato locale.

Leggi anche

L’ultimo viaggio

Le navi a fine vita vengono smantellate principalmente in Asia meridionale e in Turchia. Ma raramente in questi cantieri ci sono standard di sicurezza adeguati. I lavoratori spesso si ammalano a causa delle sostanze tossiche contenute nelle carcasse delle navi. Una su tutte, l’amianto

Venezia, l’addio mai detto alle grandi navi

La costruzione di un porto temporaneo a Venezia per accogliere le grandi navi ha riaperto un dibattito che lacera la città da decenni, tra chi si batte per la salvaguardia della laguna e chi spinge per la crescita economica a tutti i costi

Droni al fronte

In Ucraina i velivoli senza pilota sono armi e mezzi di propaganda. Le organizzazioni di volontari in Ucraina hanno cambiato la loro natura per rifornirli all’esercito di Kyiv

Il proprietario di Soreplast, in un documento inviato alla ditta italiana e ottenuto tramite accesso agli atti alla Regione Campania, dichiara di aver già valorizzato le prime 1.900 tonnellate di rifiuti esportate con la prima spedizione del 26 maggio 2020. Di queste, 1840 tonnellate sarebbero state recuperate, ma dei tubicini di plastica ottenuti dal “processo di valorizzazione” non c’è traccia. L’azienda tunisina, infatti, non possiede i macchinari necessari per trattare migliaia di tonnellate di rifiuti misti, come invece dichiara. A confermarlo è il rappresentante della Convenzione di Basilea in Tunisia, Abderrazak Marzouki, in una mail confidenziale inviata al Ministero dell’Ambiente italiano il 23 novembre 2020: «La società non dispone dei mezzi materiali e umani né della tecnologia necessaria per riselezionare i rifiuti importati da Sviluppo Risorse Ambientali», afferma Marzouki. Lo sostiene anche il rapporto della commissione d’inchiesta del parlamento tunisino istituita ad hoc per il caso dei rifiuti italiani: «Soreplast non è in grado di procedere al riciclo dei rifiuti arrivati in Tunisia, il che fa sorgere dubbi rispetto alla veridicità delle operazioni di recupero che l’azienda intende realizzare».

L’entrata (sx) del deposito a Moureddine dove è stato scaricato (dx) il contenuto di 69 containers – Foto: IrpiMedia/Inkyfada

I container scaricati in mezzo al nulla: che fine hanno fatto i rifiuti?

A Soreplast non mancano solo i macchinari necessari alla valorizzazione, ma anche lo spazio dove depositare i rifiuti. La sede dell’azienda nella zona industriale di Sousse è composta da un ufficio e un piccolo magazzino dove è stato depositato il contenuto di un solo container. I restanti 69 sono stati scaricati in un secondo deposito affittato da Soreplast a 15 chilometri da Sousse, a Moureddine. In questo villaggio di 5mila abitanti in piena campagna, accanto al capannone contenente i rifiuti si trova un edificio in costruzione, senza tetto né finestre, con mattoni e sabbia ancora impilati di fronte ad una lamiera che funge da porta. Una targa indica: «Soreplast, azienda sotto controllo doganale». Nel villaggio agricolo tutti sono a conoscenza del caso: «Abbiamo visto arrivare i container», racconta una donna mentre sorveglia un gruppo di pecore al pascolo proprio di fronte al deposito. Un passante punta il dito contro la targa Soreplast: «Quest’edificio è stato costruito sei mesi fa in tutta fretta, prima non c’era».

Secondo Alfonso Palmieri della Sviluppo Risorse Ambientali, quando si reca in Tunisia «c’era un capannone grigio e rosso, come si vede nelle foto delle emittenti tunisine, con macchine installate, nastri di selezione, pressa compattatrice e un guardiano».

Moncef Mohamed Noureddine affitta anche un secondo deposito nella località di Sidi El Hani (30 km da Sousse), un villaggio da meno di tremila abitanti in un mucchio di case sparse intorno alla strada che da Sousse porta a Kairouan, importante città dell’entroterra tunisino. Rimasto inutilizzato, nel capannone di Sidi El Hani Soreplast avrebbe dovuto scaricare il contenuto dei 212 container bloccati al porto. Entrambi i depositi sono situati accanto a due centri di raccolta dei rifiuti gestiti dall’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED), l’ente ministeriale che in Tunisia tratta i rifiuti. Quello di Moureddine dista solo dieci minuti di auto dalla discarica statale del governatorato di Sousse, dove vengono interrati i rifiuti urbani provenienti da tutta la regione.

Secondo la testimonianza di un attivista per i diritti ambientali attivo nella regione, che preferisce rimanere anonimo per paura di ritorsioni, non è un caso: «Mohamed Moncef Noureddine intendeva trasportare i rifiuti arrivati dall’Italia direttamente in discarica, senza procedere ad alcuna operazione di riciclo», racconta l’attivista.

A marzo 2020 Soreplast ha effettivamente firmato un accordo per avere accesso alla discarica di Sousse dove, secondo il decreto dirigenziale della Regione Campania, avrebbe dovuto smaltire la parte non riciclabile dei rifiuti in arrivo da Polla. Secondo i documenti visualizzati da IrpiMedia sull’effettivo smaltimento dei primi 70 container, almeno 129 tonnellate di scarti provenienti dal deposito di Moureddine sarebbero già finite nella discarica poco lontana, ma non appaiono sul registro dell’ente che la gestisce, l’ANGED. Il sindaco di Moureddine, contattato da IrpiMedia, nega qualsiasi coinvolgimento e afferma di non avere idea di che fine abbiano fatto.

La discarica regionale di Sousse per i rifiuti urbani di Ouled Laya, a dieci minuti di auto da Moureddine – Foto: IrpiMedia/Inkyfada

Si sospetta quindi che siano stati inviati in Tunisia rifiuti non riciclabili per essere direttamente interrati in discarica, senza procedere alle operazioni di riciclo che ne giustificano l’esportazione, violando le norme europee sul movimento transfrontaliero di rifiuti, la Convenzione di Basilea e quella di Bamako (un trattato firmato dai Paesi africani che impedisce l’arrivo sul continente di rifiuti che non siano smaltiti in maniera ecologica).

Soreplast, che si occupa di polimeri, cioè plastica, non è in grado di riciclare i rifiuti con codice 191212 ricevuti da Sviluppo Risorse Ambientali. Per poter ricevere i rifiuti campani, l’azienda tunisina dichiara il falso in dogana, presentando una richiesta di autorizzazione allo sbarco con un codice diverso da quello presente sulle carte che accompagnano i container. Soreplast prova così a far passare i rifiuti di tipo 19, misti, come pura plastica, si legge nel documento doganale. La ditta tunisina deposita anche delle analisi a sostegno della sua dichiarazione, ma il direttore del laboratorio in questione si trova oggi in detenzione, sospettato di averne falsificato i risultati. A fine settembre 2020, l’azienda fa un ultimo tentativo: cambia il proprio oggetto sociale e su carta diventa una «ditta per il riciclo e la valorizzazione dei rifiuti urbani». Troppo tardi.

Cosa sono i rifiuti non pericolosi classificati con codice CER 191212 e Y46?

Il primo, 191212, indica la composizione del rifiuto secondo il Codice Europeo del Rifiuto (CER). Corrisponde alla dicitura: «Rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani». L’Italia produce circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani l’anno e dovrebbe riciclarne almeno il 65%, obiettivo che però non riesce a raggiungere. Come ci impone la legislazione europea, l’indifferenziata va infatti selezionata una o più volte per separare la frazione riciclabile dallo scarto finale, che andrà poi smaltito in discarica o incenerito. Ma questo ha un costo e in Italia mancano gli impianti necessari.

«Una piattaforma raccoglie l’indifferenziata e seleziona la parte pregiata, che sarà consegnata ad un consorzio nazionale, mentre la parte residuale, il cosiddetto scarto, viene bollato con il codice 19 – spiega Claudia Silvestrini, direttrice del consorzio Polieco -. Il rifiuto 19 può essere inviato ad un’altra piattaforma che lo riseleziona oppure viene spedito in altri Paesi, dove poi bisogna vedere se l’impianto finale esiste ed è in condizione di riceverlo». Dalla Campania proviene il 95% dei 191212 esportati da tutta Italia, che a loro volta rappresentano il 17% del totale dei rifiuti mandati all’estero. A riceverli sono principalmente Spagna, Portogallo, Danimarca ed Est Europa.

Il codice Y46 invece fa riferimento alla classificazione stabilita dalla Convenzione di Basilea sui movimenti transfrontalieri e corrisponde alla dicitura di “rifiuti urbani”. L’Y46 implica un potenziale rischio di pericolosità. «I rifiuti così contraddistinti richiedono quindi un controllo speciale», spiega Silvestrini, ed è per questo che insieme ai documenti di spedizione parte un certificato di analisi rilasciato da un laboratorio napoletano che ne attesta la non pericolosità. Il codice Y46 è quello più prossimo al CER 191212.

Per Claudia Salvestrini, direttrice del Consorzio Polieco (Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni a base di polietilene, ndr), «il fatto che un materiale prevalga non rende i rifiuti riciclabili: posso avere un carico di sola plastica di cui solo il 2% è riciclabile». Secondo l’esperta, le foto del contenuto dei container non lasciano dubbi: «Si tratta chiaramente di rifiuti mescolati di provenienza urbana». Per Salvestrini, il codice CER 191212 non aiuta a definire chiaramente il contenuto dei container ma, al contrario, rappresenta una sorta di «insalata russa dei rifiuti», perché la sua definizione apre a tante modalità di conferimento e ingloba sia un rifiuto urbano ancora riciclabile, sia lo scarto finale da mandare in discarica o da incenerire, il cosiddetto «ultimo nastro». «L’azienda di Polla potrebbe aver mescolato insieme allo scarto dei rifiuti urbani anche rifiuti di altra provenienza, ammassati vecchi tipo ecoballe o rifiuti di altre piattaforme che hanno preso fuoco, per poi inviare tutto in Tunisia», spiega ancora Salvestrini.

La procedura: chi autorizza la spedizione verso la Tunisia?

Ma allora, perché la regione Campania autorizza questa spedizione transfrontaliera? Al di là della composizione non chiara dei rifiuti esportati, è la stessa procedura che sembrerebbe esser stata raggirata. Antonio Barretta, dirigente per la Regione Campania della Direzione Generale per il Ciclo integrato delle Acque e dei Rifiuti e responsabile del procedimento, non si rivolge infatti al rappresentante italiano della convenzione di Basilea sui movimenti transfrontalieri di rifiuti, ma al Consolato tunisino di Napoli.

Il 16 marzo, Barretta scrive una mail al consolato per verificare che l’autorità tunisina a cui rivolgersi per ottenere le autorizzazioni necessarie all’export sia effettivamente l’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (ANGED), come indicato dall’azienda campana. Spetterebbe in realtà al rappresentante della convenzione di Basilea presso il ministero dell’Ambiente, ma il consolato tunisino conferma che l’autorità competente è l’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Rifiuti nella figura di Makram Baghdadi, un semplice assistente dell’amministrazione di Sousse.

Secondo il rapporto della commissione parlamentare d’inchiesta, già a fine febbraio, prima dell’ok da parte della regione Campania, Makram Baghdadi ha firmato tutte le autorizzazioni necessarie alla Soreplast per importare rifiuti. Per questo oggi è indagato.

Chi è Sviluppo Risorse Ambientali

La Sviluppo Risorse Ambientali srl è un’azienda di selezione, recupero, valorizzazione, trasformazione e smaltimento di rifiuti con sede a Polla, in provincia di Salerno, a ridosso del parco del Cilento e Vallo Di Diano. Sul sito dell’azienda si legge che la ditta «non è una semplice azienda operante nel campo del trattamento dei rifiuti ma è parte integrante dei grandi sistemi di recupero e riciclo». Si occupa della raccolta differenziata di diciotto Comuni nel parco del Cilento. L’amministratore unico della società è Antonio Cancro ma la società è controllata dal gruppo Palmieri nella persona di Alfonso Palmieri che possiede il 90% delle quote societarie, oltre ad essere anche amministratore della Kyklos Ambiente srl, un’altra azienda di recupero e riciclaggio di rifiuti solidi. Il restante 10% è di Federico Palmieri.

Chi è Alfonso Palmieri? E qual è la storia della Sviluppo Risorse Ambientali? L’azienda nasce nel 2008 dalla cessione di un ramo della Fond.Eco srl alla Sviluppo Risorse Ambientali, azienda dove ci sono stati diversi roghi, l’ultimo lo scorso agosto. Le aziende Fond.Eco, Sviluppo Risorse Ambientali e la ditta Palmeco srl con sede a Battipaglia sono tutte indirettamente riconducibili a Tommaso Palmieri, padre di Alfonso.

La FondEco e la Sra, e con loro Tommaso ed Alfonso Palmieri, circa cinque anni fa sono finite al centro di una inchiesta giudiziaria condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Salerno. Per i magistrati, Tommaso Palmieri era a capo di un’organizzazione che riciclava ingombranti provenienti anche dalla vicina Basilicata. Per la Dda furono commesse irregolarità nello smaltimento dei rifiuti. In alcuni casi la raccolta era avvenuta senza le prescritte autorizzazioni. Stando a quanto sostenuto dall’accusa, in un sito di Polla deputato a ricevere e smistare il risultato della differenziata, arrivavano anche rifiuti “sporchi”, con varie tipologie mischiate tra loro.

Al termine dell’inchiesta sono stati emessi 41 avvisi di garanzia nei confronti anche di alcuni collaboratori dell’azienda ed amministratori comunali. Il processo di primo grado dinanzi ai giudici della seconda sezione penale di Salerno è iniziato alla fine del 2016 e per alcuni reati già si profila la prescrizione. Al processo per associazione per delinquere e smaltimento illegale di rifiuti sono stati indagati tra gli altri Tommaso e Alfonso Palmieri, Antonio Cancro, amministratore unico della Sviluppo Risorse Ambientali e Luigi Cardiello, detto «Re Mida» che, dagli anni ‘90, è stato indagato da diverse Procure per smaltimento illecito dei rifiuti.

Una volta ottenuta la conferma del consolato, in Italia la procedura avanza spedita.

Il 30 marzo, in piena pandemia, lo stesso dirigente regionale scrive al Ministero dell’Ambiente italiano chiedendo se ci sono particolari restrizioni al trasferimento dei rifiuti dall’Italia alla Tunisia, ma non ottiene risposta. Passano quindici giorni e il 14 aprile 2020, un decreto della giunta regionale autorizza l’azienda campana al trasporto verso Sousse delle prime 230 spedizioni per 6mila tonnellate di rifiuti. Ne seguirà un secondo, l’8 luglio, per le restanti 6 mila tonnellate delle 12 mila previste. Lo stesso giorno, dall’altra parte del Mediterraneo, nell’ufficio della direzione della dogana si tiene una riunione che riunisce diciassette dirigenti e funzionari tra l’ANGED, il Ministero dell’Industria e la dogana. Due settimane prima, il capo settore della dogana di Moureddine si è reso conto che il contenuto dei container non corrisponde a ciò che dichiara Soreplast, e lo segnala ai suoi superiori. Durante la riunione dell’8 luglio, per la prima volta viene menzionato il rischio di traffico illecito. I container vengono così bloccati al porto. 

Il caso scoppierà solo a novembre, quando il canale tunisino El-Hiwar Ettounisi trasmette un servizio sull’arrivo dei rifiuti italiani. Prima di allora, il ministero dell’Ambiente tunisino non interviene né sollecita i rappresentanti della Convenzione di Basilea, l’autorità di riferimento. I 212 container mai scaricati restano fermi al porto e la regione Campania richiama più volte Sviluppo Risorse Ambientali, chiedendo di sbloccare la situazione. «La ditta Soreplast ha assicurato che la prossima settimana provvederà alle operazioni di ritiro e lavorazione dei rifiuti. A tal proposito, un nostro amministratore unico ha delegato un dipendente perché si rechi a Sousse per assistere alle operazioni di riciclo», risponde l’azienda di Polla alla Regione in una mail. Ma i rifiuti rimangono lì.

«C’è un inizio di contaminazione dei rifiuti liquidi, di percolato e delle emissioni gassose che costituiscono un rischio per la salute pubblica e per l’ambiente», scrive invece Abderrazak Marzouki, vicedirettore del dipartimento prevenzione dei rischi del Ministero dell’Ambiente tunisino al funzionario del Ministro dell’Ambiente italiano Sergio Cristofanelli in uno scambio di mail confidenziali.

Passano diverse settimane e le autorità italiane non rispondono, poi il 27 novembre qualcosa si sblocca e iniziano a collaborare. Con la mediazione delle autorità della convenzione di Basilea – a cui si sarebbe dovuto far riferimento fin dal principio – le discussioni avanzano sul piano della diplomazia: il dossier è oggi nelle mani dei rispettivi ministri degli Esteri.

Nel frattempo, su richiesta della Tunisia, la Regione Campania ha chiesto a Sviluppo Risorse Ambientali di riprendersi i rifiuti. Attraverso il suo avvocato, l’azienda italiana ha però fatto sapere che non ha alcuna intenzione di farlo a meno che sia completamente risarcita o dallo Stato tunisino o da quello italiano. Il 2 febbraio, però, il Tar ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato da Sviluppo Risorse Ambientali.

CREDITI

Autori

IrpiMedia
Inkyfada

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Tunisia, la mattanza degli squali

Tunisia, la mattanza degli squali

Cecilia Anesi
Giulio Rubino

Porto di Kelibia, nord-ovest della Tunisia. Di fronte, l’isola di Pantelleria e a poco meno di cento miglia nautiche Mazara del Vallo, la punta più occidentale del sud della Sicilia. È uno dei tratti di mare dove si pescano gli squali, a 400 metri di profondità.

È il 3 aprile 2020. Non è ancora sorto il sole, ma al mercato del pesce del porto non si dorme. Una dozzina di grossi squali, sanguinanti, pescati e riversati su dei bancali di legno, attirano l’attenzione e la curiosità dei compratori. Sono tutti requin griset, come li chiamano i pescatori qui, in italiano detti “capopiatto” e in latino Hexanchus griseus. Giacciono appoggiati in bella mostra a pancia in giù, pronti ad essere acquistati da intermediari che poi li distribuiranno ai supermercati. Tutt’attorno, in una morsa, una quarantina di uomini con mascherine: siamo in pieno lockdown, ma la pesca non si ferma. Neppure quella allo squalo.

Lo squalo capopiatto non è, in Tunisia, una specie protetta. In Europa la sua pesca è regolamentata e limitata, ma trattandosi di una specie molto migratoria è difficile che si possa proteggere efficacemente se non si armonizzano le legislazioni. Secondo l’Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura) il suo stato di conservazione è Near Threatened, che vuol dire meno in pericolo di altre specie, ma comunque in declino.

IrpiMedia è gratuito

Fai una donazione per sostenere un giornalismo indipendente

Localizzazione di Kelibia, Tunisia 

In tutto il Sahel tunisino, la regione costiera che va dal golfo di Hammamet fino a quello di Gabès, lo squalo è parte della cucina tradizionale. Con i numeri delle catture in costante crescita e nessuna vera e propria distinzione fra la cattura di specie protette e quelle invece consentite, questa pratica rischia però di distruggere per sempre non solo gli squali, ma tutte le riserve ittiche del Paese. Su circa 63 specie di squalo presenti, oltre il 40% rientrano nella categoria protetta. Per Kelibia, piccola cittadina famosa per le sue spiagge meravigliose, la pesca è una delle principali fonti di reddito, specialmente da quando il turismo internazionale soffre di alterne fortune. Da qui andando a sud fino a Zarzis, accanto all’isola di Djerba, la pesca è un’attività di primaria importanza.

Ci sono migliaia di barche da pesca nel Golfo di Gabes, che catturano squali ogni giorno. E se la maggior parte delle catture registrate avviene per errore (bycatch è il termine tecnico, “catture accessorie”) non mancano barche che cercano attivamente squali di grosse dimensioni. Queste flotte di pescatori utilizzano i palangari (lunghe reti attaccate tra loro e con lenze nel mezzo) per catturare gli squali e mentre a sud si catturano solo durante certe stagioni, a nord, a Kelibia, la caccia avviene durante l’intero arco dell’anno. Nonostante la carne di squalo non sia particolarmente redditizia dal punto di vista commerciale, e la maggior parte delle specie siano protette.

Con i numeri delle catture in costante crescita e nessuna vera e propria distinzione fra la cattura di specie protette e quelle invece consentite, questa pratica rischia però di distruggere per sempre non solo gli squali, ma tutte le riserve ittiche del Paese

Il palangaro

Il palangaro – detto anche palamito o coffa – è una tipologia di rete da pesca. È costituita da un cavetto detto “lenza madre” a cui si applicano in tutto fino a duecento “braccioli” (lenze più piccole), alla cui estremità è applicato un amo con un’esca. I “braccioli” sono disposti a distanza regolare l’uno dall’altro. I palangari tradizionali hanno in tutto cento ami. A intervalli regolari vengono posizionati galleggianti e piccole boe satellitari che permettono il posizionamento a giusta profondità dell’attrezzo e il suo recupero qualora la lenza madre si spezzasse. Il palangaro “derivante” (detto così perché in balìa delle correnti marine) di regola, ha una lunghezza massima di 50 chilometri dall’inizio alla fine. Viene “calato” la sera in mare a circa 20-25 metri dalla superficie e il suo recupero – che in gergo è definito “allestire” – avviene la mattina presto.

3 ottobre, dieci anni dopo la strage

A Lampedusa morirono 368 persone, 20 le disperse, partite da Misurata, in Libia. Ci fu sgomento e si gridò che non sarebbe accaduto mai più. Ma il film dell’ultimo decennio è andato diversamente

Drones on the frontlines

In Ukraine, unmanned aircraft vehicles are weapons of propaganda. Volunteer organisations have altered drones to supply them to the army in Kyiv

Gli scatti su Facebook prova della mattanza

Le prove della mattanza degli squali a Kelibia sono ingenuamente scattate dagli stessi pescatori. Quella stessa mattina del 3 aprile, ad esempio, un profilo Facebook chiamato “Il marinaio di Kelibia” pubblica un video dei venti squali capopiatto esposti al mercato del porto. Dietro, un edificio riconoscibile in foto pubblicate dal profilo Facebook ufficiale del mercato del pesce del porto: Il Marchi. Dai social network si evince che è in questo magazzino che viene venduto tutto il pesce raccolto dalla flotta di Kelibia, squali inclusi. Il pesce si può acquistare di persona, oppure online direttamente dal sito de Il Marchi che, pubblicizza, può farlo arrivare fresco in qualsiasi parte del Paese entro 24 ore.

Un grosso squalo è anche un trofeo; sbarcato sulle banchine del porto attira curiosi e, soprattutto, clienti. È anche per questo che i pescatori tunisini tendono a mettere sui social network tutte le fotografie di squali che pescano e che riportano a riva, tanto i capopiatto, quanto quelle di specie espressamente protette, che non possono essere in alcun modo catturate ne tantomeno commercializzate. Come gli squali bianchi, i mako, gli squali grigi, le mante, le razze, i pesci chitarra: tutti pesci protetti anche in Tunisia che vengono ugualmente presi ed esposti come macabri trofei. Una ricerca sui profili Facebook legati al porto di Kelibia e alle aziende di pesca della zona rivela un bollettino di morte per squali, razze ed elasmobranchi di ogni tipo. Solo nel 2019, stando a i post, sono stati catturati ed esposti squali bianchi, mako, anche un esemplare di diavolo di mare, una manta abbastanza rara. Andando indietro nel tempo, non si contano i casi di specie protette finite nel mercato del pesce locale.

Vuoi fare una segnalazione?

Diventa una fonte. Con IrpiLeaks puoi comunicare con noi in sicurezza

Gli scatti dei pescatori su Facebook / IrpiMedia. Scorri le immagini

«La maggior parte degli squali pescati in Tunisia sono pescati per errore, ma c’è un 20% che invece è proprio pesca illegale. Ci sono due flotte pescherecce che li vanno a cercare, una è quella di Kelibia e una è quella di Zarzis, nel sud, vicino alla Libia».

Sami Mhenni

Houtyat

Mediterraneo zona di pesca e di incroci pericolosi

Secondo Sami Mhenni, presidente e fondatore di Houtyat, associazione che si occupa di ricerca e sensibilizzazione rispetto al problema della pesca delle specie protette, la maggior parte delle catture avviene per errore e il mercato interno assorbe la quasi totalità del consumo di carne di squalo. Ma non a Kelibia e Zarzis: «È qui che avviene la maggior parte della pesca illegale allo squalo», spiega Jamel Jrijer, marine program manager al WWF nord-Africa. «La maggior parte degli squali pescati in Tunisia avviene per errore, ma c’è un 20% che invece è proprio pesca illegale. Ci sono due flotte pescherecce che li vanno a cercare, una è quella di Kelibia e una è quella di Zarzis, nel sud, vicino alla Libia».

Houtyat ha raccolto alcune testimonianze tra i pescatori, ma nessuno vuole metterci la faccia per paura di ritorsioni: il tratto di mare tra Kelibia e la Sicilia non è solo la zona dove si pescano gli squali. È anche la zona dove si incontrano le due flotte pescherecce, quella tunisina e quella siciliana: i tunisini vendono soprattutto tabacco e pesce di contrabbando ai siciliani. Diversi studi dimostrano che una quota importante di ciò che viene venduto in Italia come pesce spada in realtà è squalo: le due specie hanno infatti una tipologia di carne apparentemente simile, almeno a uno sguardo inesperto. L’ipotesi è quindi che parte di questo finto pesce spada sia in realtà squalo pescato dai tunisini e venduto di contrabbando.

La zona grigia delle catture non dichiarate

Alla vendita all’estero si aggiunge il ricco mercato delle pinne di squalo, usate in Asia o nei ristoranti cinesi d’Europa per preparare zuppe considerate una leccornia. Secondo Fabrizio Serena, Co-Regional Vice Chair dello IUCN Shark Specialist Group for Mediterranean e Ricercatore dell’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), il problema principale è la mancanza di informazione e preparazione, tanto nei pescatori, quanto nelle autorità che sarebbero preposte al controllo. «I pescatori non sanno riconoscere quali specie sono protette – spiega – i regolamenti si aggiornano di continuo ed è necessario prevedere dei programmi di informazione diretti a loro. Il Gfcm (Consiglio generale della pesca nel Mediterraneo) sta lavorando molto sui Paesi del Nord Africa. Dovevo io stesso fare un intervento proprio in Tunisia questa primavera, ma la pandemia ci ha bloccato».

La Tunisia non fa parte dell’Unione europea naturalmente, ma tramite il Gfcm recepisce in teoria il regolamento stabilito dalla convenzione di Barcellona, che stabilisce quali specie devono essere rilasciate immediatamente, vive, e quali devono essere perlomeno registrate e la loro cattura accidentale comunicata alle autorità preposte. La registrazione però non avviene, anche perché non tutte le catture “accidentali” avvengono in buona fede. Jamel Jrijer ci racconta che ci sono almeno due attori che rendono più difficile l’adozione di misure a tutela degli squali: gli intermediari che rivendono il pesce a supermercati e hotel e i pescatori di frodo veri e propri. Questi ultimi non hanno problemi a mettersi contro le autorità. Sono compatti e protetti. «Sono come una mafia – spiega Jamel – ben organizzati: se vengono attaccati dal governo o dai media, rispondono. E hanno entrature in alto, hanno l’appoggio dei sindacati, che in Tunisia sono fortissimi, tanto da decidere chi deve guidare un ministero e come». Chi ha provato ad opporsi, o anche solamente a controllare i pescherecci e a sequestrare gli squali pescati, ha fatto una brutta fine. Quei guardacoste che ci hanno provato, ci spiegano gli attivisti locali, sono stati picchiati e le loro auto sono state date alle fiamme.

Il Consiglio generale della pesca nel Mediterraneo

Il Consiglio generale della pesca nel Mediterraneo è un organismo che regolamenta la pesca nel Mediterraneo. Ne fanno parte 23 Paesi che si affacciano su questo mare, più l’Unione Europea. Il Gfcm ha il potere di introdurre regolamentazioni vincolanti per i suoi membri per tutto quanto riguarda la pesca e l’acquacoltura. Ha competenza per tutto il Mediterraneo e per il Mar Nero.

«I pescatori non sanno riconoscere quali specie sono protette – spiega – i regolamenti si aggiornano di continuo ed è necessario prevedere dei programmi di informazione diretti a loro».

Fabrizio Serena

IUCN e CNR

Vuoi fare una segnalazione?

Diventa una fonte. Con IrpiLeaks puoi comunicare con noi in sicurezza

Omertà e complicità tra pescatori di frodo e intermediari

Quel che è certo, è che c’è molta omertà. Gli intermediari che acquistano lo squalo da porti come Kelibia, sanno che le specie sono protette e che potrebbero incorrere in problemi. Allora, per farle entrare nel circuito legale, tagliano gli squali a pezzi così da venderli mischiati a specie non protette o a fare passare le fette come pesce spada. Ristoranti, supermercati, catene di grande distribuzione e hotel che acquistano poi questi pezzi di squalo, sanno bene cosa acquistano. E lo fanno perché conviene: la carne di squalo ha un ottimo rapporto peso – prezzo. È una carne economica rispetto ad altri pesci. Così, con il diffondersi dei pacchetti turistici all inclusive offerti da molti hotel di zona, un grosso squalo può rappresentare al contempo un significativo risparmio economico per “riempire” un buffet di pesce e un’attrazione turistica vera e propria.

Gli intermediari che acquistano lo squalo da porti come Kelibia, sanno che le specie sono protette e che potrebbero incorrere in problemi. Allora, per farle entrare nel circuito legale, tagliano gli squali a pezzi così da venderli mischiati a specie non protette o a fare passare le fette come pesce spada

Naturalmente per fermare chi pesca di frodo non basta certo una campagna d’informazione rivolta ai pescatori. Secondo Fabrizio Serena, però, nella maggior parte dei casi adottare misure repressive nei confronti dei pescatori potrebbe essere addirittura controproducenti.

«Il rischio di sanzioni, che in Italia possono anche andare nel penale, desta molte preoccupazioni nei pescatori – spiega Serena -. Noi chiediamo invece un sistema simile a quello che già esiste per tartarughe e mammiferi marini, dove il pescatore può comunicare alla capitaneria di porto la cattura. Questa a sua volta contatta il più vicino istituto di ricerca, che procede alla registrazione e alla liberazione dell’esemplare catturato. Se non si fa così il pescatore che prende lo squalo, per evitare problemi, finisce per venderlo illegalmente».

L’importanza della protezione della specie

La popolazione di squali del Golfo di Gabès è una risorsa preziosa e tutelarla è importante per tutto il Mediterraneo, ma in particolare per gli stessi pescatori tunisini. Lo squalo, chiarisce Fabrizio Serena, è un predatore apicale, in cima alla catena alimentare del mare e la sua scomparsa può avere effetti devastanti sugli stock di pesce della zona. «In North Carolina quando hanno sterminato gli squali grigi che tenevano sotto controllo la popolazione delle rinottere (una specie di razza, ndr) queste si sono moltiplicate enormemente, distruggendo del tutto gli stock di capesante da cui i pescatori dipendevano», aggiunge il ricercatore. Risultato: l’intera industria è fallita.

Gli stessi squali grigi, assieme ai Mako, ai pesci chitarra e pesci violino che nel nord del Mediterraneo sono già considerati localmente estinti, hanno nel Golfo di Gabès il loro habitat di riproduzione e sono una preziosissima risorsa faunistica per la Tunisia. Proteggerli non sarebbe nemmeno particolarmente difficile.

Secondo il dati del Wwf che IrpiMedia ha potuto consultare, una porzione significativa degli squali presi per errore nelle reti e nei palangari viene ritrovata viva, e potrebbe essere facilmente rilasciata. Eppure, in contrasto con le raccomandazioni del Gfcm, la ricerca rileva che il 100% di questi esemplari viene abbattuta e commercializzata.

IrpiMedia è gratuito

Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi Giulio Rubino

Editing

Lorenzo Bagnoli