Le navi a fine vita vengono smantellate principalmente in Asia meridionale e in Turchia. Ma raramente in questi cantieri ci sono standard di sicurezza adeguati. I lavoratori spesso si ammalano a causa delle sostanze tossiche contenute nelle carcasse delle navi. Una su tutte, l’amianto
La zona grigia dello strascico: il pesce illegale del Mediterraneo nei supermercati europei
Davide Mancini
Sara Manisera
Arianna Poletti
Quando Ahmed Taktak era poco più che un bambino, durante l’estate lasciava Tunisi per dare una mano allo zio, un pescatore artigianale che seguiva il ciclo delle stagioni del pesce. Ahmed percorreva la strada che dalla capitale porta alla città più popolosa del Sud, Sfax. Dal porto dove stazionano grandi navi merci, si imbarcava su un vecchio traghetto, lasciandosi alle spalle fumi, traffico e rumori. Sbarcava nel porticciolo di Sidi Yousef, dove attraccano ancora oggi le navi che trasportano da una costa all’altra i passeggeri diretti sulle isole di Kerkennah e i camion frigo carichi del pescato del giorno.
Un’ora di traghetto separa la città industriale di Sfax da tutt’altro panorama. A Kerkennah, i fumi delle industrie di Sfax in lontananza lasciano spazio a lunghe distese di sabbia che costeggiano palmeti sempre più secchi a causa della salinizzazione dei suoli. Qualche casa squadrata dall’intonaco bianco o ancora in cemento costeggia la strada che porta a Remla, la cittadina principale di quest’arcipelago circondato da acque basse e cristalline. La punta di uno dei due triangoli speculari che lo compongono indica Lampedusa, a soli 120 chilometri di distanza. Meno del tragitto Roma-Napoli.
A collegare le due isole principali, le uniche abitate, c’è un ponte. Sotto la passerella in cemento armato, l’acqua scorre da un lato all’altro secondo l’effetto delle maree, che a Kerkennah è visibile a occhio nudo. Quando, all’ora del tramonto, il mare si ritira, i pescatori si dirigono a raccogliere le nasse. I fondali poco profondi che circondano l’arcipelago, infatti, permettono di praticare tecniche ancestrali di pesca artigianale, «sostenibili e rispettose dei tempi del mare», spiega Ahmed.
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Proprio nel punto in cui le due isole si toccano, Ahmed Taktak possiede una “parcella di mare”. Per evitare conflitti, infatti, le famiglie di Kerkennah si sono divise l’ampia fascia di battigia lungo la costa dell’arcipelago, come fosse un grande campo. A segnare il confine con l’“appezzamento” vicino è una charfiya, ovvero una lunga distesa di foglie di palma piantate una accanto all’altra, all’interno delle quali i pesci restano intrappolati quando la marea si abbassa. Ancora oggi, Ahmed ricostruisce ogni anno la propria charfiya, anche se ormai «non conviene più». E ricorda: «Insieme a mio zio, da ragazzino pescavo tra i venti e i trenta polpi con le mani, solo camminando lungo la riva, ancora prima di salire in barca. Questo mare pullulava di vita, oggi non c’è più niente».
Affascinato dalle immagini colorate che vedeva su Rai 1, l’unico canale oltre alla TV di Stato tunisina disponibile nel Paese, negli anni ‘90 Ahmed tentava fortuna in Italia, seguendo la stessa rotta che oggi ripercorre per andare a pesca. Ma la vita in Europa si è rivelata più ostile del previsto e così, dopo vent’anni e un matrimonio, si è ritrovato al porto di partenza. Oggi solleva le reti come faceva suo zio. Ad aiutarlo, c’è un giovane apprendista che lo accompagna in barca in cambio di qualche dinaro. Le sue braccia forti, però, non sono più necessarie a sorreggere il peso delle reti, sempre più vuote.
«Prima che io partissi per l’Italia, questo era il golfo più pescoso del Paese, perché molte specie del Mediterraneo vengono a riprodursi qui. Non lasciamo neanche più ai pesci il tempo di farlo. Peschiamo sempre, giorno e notte, quattro stagioni all’anno», spiega mentre ripulisce le reti dalla plastica e getta in acqua le lische dei pesci di piccola taglia mangiati dal granchio blu, una specie invasiva venuta dal Mar Rosso che i pescatori tunisini, per la sua voracità, hanno ribattezzato Daesh, come viene chiamato in arabo l’autoproclamato Stato islamico. «Non trovo più pesce, trovo solamente granchi. Porto cinquanta chili di Daesh ogni giorno, me ne prendono 20, mi pagano due dinari al chilo (60 centesimi di euro)». Lo stesso granchio viene esportato dalla Tunisia verso l’Asia, il Nord America o l’Australia in scatole di polistirolo. Il prezzo sul mercato internazionale è di 70 dollari al chilo.
Il ricatto dello strascico
Di pesca artigianale – spiega Ahmed Taktak – oggi non si vive più. Accanto alle piccole imbarcazioni in legno che ancora costellano le coste di Kerkennah, sono comparse barche lunghe meno di 10 metri, con motori più grandi, spesso cariche di frigo per il congelato a bordo. Sono registrate come vascelli per pesca artigianale, sfuggendo così alle restrizioni per la pesca industriale. Sul retro, una carrucola arrugginita stretta e lunga viene usata per calare le reti. «Le vedete queste?», fa notare Nagui, 63 anni, uno dei pescatori più esperti che, durante una giornata di tempesta, si aggira per il porto con un caffè in mano, gli stivali di gomma fino alle ginocchia e un turbante verde in testa. «Queste barche praticano la pesca a strascico», spiega, indicando tre imbarcazioni ferme nel porticciolo di Kraten, il villaggio più a Nord di Kerkennah.
La pesca a strascico consiste nel trainare una rete sul fondale, chiamata kiss in arabo, che significa “sacco”. La rete raccoglie tutto ciò che trova, senza distinzione, comprese alghe, specie sottotaglia e specie non commerciabili, distruggendo così l’ecosistema marino, specialmente quando praticata a basse profondità, come nel Golfo di Gabès.
Qui si trova una delle riserve più importanti del Mediterraneo di posidonia oceanica, una pianta acquatica che contribuisce a evitare l’erosione delle coste, chiamata dai pescatori “il polmone del mare”, e che oggi, strappata dalle reti, rischia di scomparire. Eppure la Tunisia ha messo al bando questa tecnica di pesca a basse profondità con la legge n. 94 del 1994. Ma sono sempre di più i pescatori che si riconvertono allo strascico illegale, mettendosi a servizio di un armatore che agisce in un clima d’impunità, ingranaggio di un sistema più grande: quello della pesca industriale.
La pesca a strascico
Nelle acque del Mediterraneo in cui si applica la legislazione dell’Ue, la pesca a strascico è vietata a meno di tre miglia nautiche dalla costa, o ad un profondità compresa tra zero e 50 metri, e oltre gli 800 metri. È inoltre vietata in habitat sensibili in cui esistono barriere coralline, prati di posidonia e in alcune aree marine protette designate. I fondali marini, una volta scossi dalle reti a strascico, impiegano tra i 7,5 e i 15 anni a recuperare la loro funzione nell’ecosistema marino, come il trattenimento della CO2. La pesca a strascico è la seconda tecnica più utilizzata nell’Unione europea, rappresentando il 32% delle catture di pesce. Ma contribuisce al 93% della pesca accidentale, in quanto è la pesca indiscriminata per eccellenza. Si stima che circa un milione di tonnellate di pesca accidentale (della quale la maggior parte viene rigettata in mare priva di vita) sia causata ogni anno dalla pesca a strascico praticata nell’Unione europea.
«Vent’anni fa, si poteva pescare a traino a una profondità maggiore di 15-20 metri. A praticarlo erano piccole barche artigianali, che uscivano la mattina con il tramaglio. Poi è iniziata la corruzione. Lo strascico dei pescherecci più grandi è entrato nel Golfo di Gabes, a basse profondità, dove c’erano le uova e molto pesce. Così i grandi pescherecci hanno iniziato a competere con i pescatori artigianali che, poco a poco, hanno iniziato anche loro a montare motori più potenti e fare strascico», riassume un commerciante europeo installatosi in Tunisia nel 1998. Nagui, volto del porto di Kraten, non si rassegna: «Siamo una delle ultime località che si oppongono allo strascico illegale, anche se non guadagnamo più da vivere». Il pescatore si ritiene fortunato: con il ricavato della sua pesca, anni fa è riuscito a costruire la casa dove abita ancora oggi.
I più giovani, invece, si ritrovano intrappolati in una sorta di circolo vizioso. A causa della pesca a strascico, unita al riscaldamento del Mediterraneo e all’arrivo di specie invasive come il granchio blu, lungo le coste tunisine pesce, molluschi e crostacei si sono fatti sempre più rari. «Negli anni ‘90, pescavo cinque o sei branzini», continua Ahmed Taktak, mostrando sul cellulare una vecchia foto di decine di spigole argentate accumulate in una cassa. «Oggi sono contento se ne trovo uno, perché riesco a guadagnarci da vivere per qualche giorno». In assenza del pescato sufficiente per sfamare la famiglia, allora, molti pescatori si mettono a servizio degli armatori dello strascico, finendo per contribuire loro stessi alla penuria di fauna marina. «Se il granchio blu ha invaso il Golfo di Gabes è anche perché abbiamo spezzato la catena alimentare. L’unico predatore di questa specie è il polpo, ma non fa in tempo a crescere che già finisce nelle loro reti», conclude Ahmed Taktak.
Il granchio blu
Il Portunus segnis, conosciuto come granchio blu, è una specie nativa dell’oceano Pacifico e Indiano, che si sta espandendo velocemente come specie invasiva nel Mar Mediterraneo. Con l’apertura del Canale di Suez alla fine dell’Ottocento comincia a notarsi la comparsa di questo granchio. Ma è con l’aumento delle temperature del Meditrraneo degli ultimi due decenni che il granchio blu trova un habitat ideale in alcune zone costiere poco profonde, come nel Golfo di Gabes. Questa specie è molto aggressiva e vorace, alimentandosi principalmente di altri crostacei, molluschi e pesci, che spesso sono a loro volta target dell’industria ittica. Negli ultimi anni, il granchio blu ha trovato un forte sbocco commerciale nei mercati asiatici, come in Corea del Sud e in Nord America, anche grazie a sostegni economici statali che hanno promosso la commercializzazione di questa specie per controllarne la proliferazione.
Un ingranaggio della pesca industriale
Se da una parte l’Unione europea continua ad abbattere i pescherecci italiani, spagnoli e greci in cambio di sovvenzioni nel tentativo di ridurre lo sforzo di pesca nel Mediterraneo e salvaguardare le specie a rischio, dall’altra la domanda del mercato europeo non è diminuita. Nel Paese nordafricano non viene consumata la grande varietà di pesce che si osserva nei mercati all’ingrosso dei porti tunisini: buona parte del pescato, infatti, viene esportato verso l’Ue, Italia in primis con il 42% delle esportazioni totali. «Indirizziamo il pescato secondo i gusti del cliente. In Spagna vendiamo i polpi più grandi, per esempio, mentre in Italia piacciono quelli più piccoli», racconta il direttore di una delle più importanti aziende di esportazione situata nel trafficato porto di Sfax, il più grande del Paese.
È qui che opererebbe la potente lobby dello strascico con barchette kiss, che da anni agisce al di sopra delle leggi in un clima di omertà, raccontano i pescatori di Kerkennah, e confermano altri operatori del settore: «Chi lavora con i kiss? Gli stessi armatori che praticano lo strascico [industriale]. I piccoli lavorano con i grandi!», afferma un esportatore tunisino basato in uno dei porti della costa più a nord, a circa 200 km da Sfax. Ma è nel porto di Sfax – una vera e propria piccola cittadina, con banche, poste, cantieri e supermarket al suo interno – che arriva il pescato del Golfo di Gabès, il mare più pescoso della Tunisia, compreso il pesce in arrivo dalle isole Kerkennah, poi rivenduto nei due grandi mercati all’ingrosso riservati ai commercianti e ai loro referenti: quello del pesce, e quello dei crostacei.
«Ogni mattina, un intermediario si presenta al porto e compra il nostro pesce per pochi dinari al chilo. Spesso non riceviamo nemmeno il pagamento subito, ma dopo che il pescato è stato rivenduto a un intermediario più grande», descrive Nagui, pescatore che ha visto cambiare il porticciolo di Kraten e, anche quando non è in mare, non abbandona mai il suo tipico turbante verde. Per le strade di Kerkennah si vedono sfrecciare camioncini frigo tutti uguali: raccolgono il pesce del giorno nei piccoli porti dell’arcipelago, e poi si imbarcano sul traghetto verso la città di Sfax.
A quel punto il pescato passa di mano in mano, da intermediario più piccolo a intermediario più grande, seguendo uno schema rodato. Arriva poi negli stabilimenti di una manciata di aziende esportatrici che commerciano con i Paesi del Sud dell’Europa, in particolar modo Italia e Spagna. Le principali – Golden Fish, Novogel, Ben Ayed Sea Food e poche altre, rappresentate dall’Utica, l’Unione tunisina dell’industria, del commercio e dell’artigianato – sono aziende tunisine classificate come totalmente esportatrici. Spesso hanno alle spalle capitale europeo e sono direttamente in contatto con i commercianti dall’altra parte del Mediterraneo.
A recuperare il pescato esportato, sono una manciata di grossisti alimentari. Citato da diverse aziende tunisine, tra questi c’è la società di distribuzione di prodotti ittici Marr, filiale del gruppo italiano Cremonini, colosso della ristorazione e servizi di catering. Che assicura a IrpiMedia: «I prodotti ittici importati dalla Tunisia rappresentano meno dello 0,2% dell’acquisto di ittico totale, e sono scortati da certificati di cattura emessi dalle autorità competenti e sottoposti ad un programma di verifiche alla ricezione». Marr inoltre specifica che l’azienda ha conseguito la certificazione secondo lo Standard MSC (Marine Stewardship Council), che dovrebbe garantire «la provenienza dei prodotti da zone di pesca gestite nel rispetto degli stock, habitat ed ecosistemi marini».
Il pescato entra così nei magazzini dei maggiori rivenditori italiani. La versione del manager di una delle grandi aziende presenti nel porto di Sfax, che accetta di parlare protetto dall’anonimato, è però molto diversa da quella ufficiale: è difficile verificare che quel pesce sia stato pescato rispettando le norme tunisine e europee. E nemmeno le certificazioni richieste dall’Ue sarebbero una garanzia: «Per vendere nei Paesi dell’Unione europea serve tracciabilità. Qui invece è tutto un teatro. Il sistema di controllo europeo è adatto alle grandi barche da pesca che operano nell’Atlantico, che rientrano con 40 tonnellate di pescato a volta. Io qui vendo un prodotto che mi arriva da 50 piccole barche diverse tutti i giorni, ciascuna con 40, 60 chili di pesce al massimo. E l’Ue chiude gli occhi», accusa dal suo ufficio il direttore dell’azienda. Punta il dito contro amministrazioni corrotte, veterinari inesistenti e mancanza di controlli a bordo e nei porti tunisini.
L’associazione degli imprenditori tunisini Utica, però, smentisce le accuse di pescatori e manager. Contattata da IrpiMedia, l’Utica garantisce che «i pescherecci sono tracciati da apparecchi di sorveglianza di tipo VMS (Vessel Monitoring Systems, un sistema che permette di tracciare le attività dei pescherecci, ndr)», che «hanno tutte le autorizzazioni sanitarie necessarie e il pescato viene controllato da un veterinario al porto». «I centri di spedizione sono egualmente oggetto di un controllo sanitario rigoroso, e si limitano a esportare i prodotti pescati da pescherecci recensiti e regolarmente registrati», fanno sapere.
L’associazione ammette però che «come ovunque, c’è chi prova a sfuggire alle regole. Ma i servizi competenti e le autorità locali perseguono le frodi». Anche il grossista Marr, che commercia il pescato tunisino in Italia, ribadisce: «Al fine di contrastare la pesca illegale, ai fornitori di prodotti ittici viene richiesto di sottoscrivere un accordo specifico di fornitura che prevede il rispetto della legalità in tutte le fasi del processo produttivo secondo le norme FAO, nonché il divieto di commercializzazione dei prodotti derivanti dalla pesca illegale».
L’UE e l’alibi dei controlli
Il sistema dei controlli, però, non sembra funzionare perfettamente come assicurano aziende e grossisti. A garantire, dovrebbe essere la Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (General Fisheries Commission for the Mediterranean, Cgpm), un organo regionale che raggruppa tutti i Paesi che si affaciano sul Mediterraneo e Mar Nero, più l’Unione europea.
Questa commissione ha l’obiettivo di gestire i controlli sugli stock di pesca del Mediterraneo, ma delega il monitoraggio e l’applicazione delle direttive alle autorità degli Stati membri. In Tunisia, quindi, alle autorità tunisine, le stesse che – anche grazie a cospicui finanziamenti italiani, come raccontato da IrpiMedia – pattugliano la rotta migratoria più trafficata del Mediterraneo Centrale.
Seduto nel dehors di un caffè decorato con le tipiche piastrelle colorate in ceramica tunisina, Ahmed Taktak attende l’ora del tramonto per andare a recuperare le sue reti. Secondo il pescatore, il Mediterraneo centrale è un buco nero, e la pesca è solo uno dei tanti business informali o di contrabbando che legano la Tunisia alla Libia, all’Italia, alla Spagna, alla Grecia. «Basti pensare alla differenza di prezzo tra il carburante tunisino sovvenzionato e quello europeo…», sospira. In tanti, sull’isola, raccontano che alcuni piccoli pescherecci sarebbero addirittura proprietà di agenti della guardia costiera che dovrebbe controllarli e che, invece, secondo alcuni pescatori, parteciperebbe addirittura alla compra-vendita del pescato.
Nel Paese, eludere i controlli durante la pesca e nei porti sembra tutt’altro che complesso, specialmente nel Golfo di Gabes, dove agisce la lobby dello strascico. A raccontarlo è Abdelmadjid Dabbar, presidente dell’associazione Tunisie Écologie, che da anni, insieme all’ong FishAct, indaga sulla pesca illegale: «Nel 2018 abbiamo contato circa 450 imbarcazioni per lo strascico illegale solo nel governatorato di Sfax. Molte di queste barche non sono neanche registrate, e quasi mai appartengono ai pescatori che ci lavorano». Anche l’assistente di Ahmed Taktak, racconta, ha lavorato su un peschereccio a traino, per poi abbandonare perché «la paga del manovale era troppo misera, le reti cariche troppo pesanti». Il nuovo conteggio di pescherecci kiss, intanto, è salito a 576 negli ultimi due anni, secondo una ricerca svolta dalle organizzazioni FishAct e Environmental Justice Foundation.
A determinare la paga giornaliera di Ahmed, ancora prima del suo capo, è quindi il mercato internazionale dell’export, che sembra non solo tollerare, ma appoggiarsi alla zona grigia della pesca a strascico illegale: grandi quantità di pescato per prezzi bassissimi, in cui si mescolano catture regolari e irregolari. Per il fresco, per esempio, il prezzo si fa con una compravendita al telefono.
«A volte si fa prima della pesca, a volte si fa con l’asta», spiega un intermediario siciliano incontrato a Bizerte, da dove, ogni notte, risponde alle chiamate dei clienti per informarli sul pescato. «Da me arriva un rappresentante che raccoglie il pescato da più barche, e mi fa un prezzo. Io non parlo direttamente con i pescatori, ma con il grande armatore, o con l’intermediario che raccoglie dai piccoli pescatori».
Quando il pescato tunisino lascia il Paese con certificati di cattura spesso falsi o doppi, allora, le garanzie della sua provenienza sono ben poche. Il problema dei certificati di cattura è stato segnalato anche dalla Corte dei conti europea lo scorso settembre. La Corte dei conti sottolinea infatti che le certificazioni cartacee attualmente richieste sono facilmente falsificabili, e che si dovrebbe rendere obbligatorio un sistema digitalizzato comunitario (già esistente, ma non obbligatorio). Inoltre, i singoli Stati membri, non sono tenuti attualmente a confrontare tra loro i certificati di cattura a loro presentati dagli esportatori, perciò un solo certificato può essere usato più volte in diversi Paesi, eludendo i controlli degli enti nazionali responsabili dei i controlli.
Ad ammetterlo è proprio il direttore dell’azienda di esportazione, che confida: «Tutti sanno che anche chi fa strascico nel Golfo di Gabes vende alle aziende esportatrici. In teoria non potrebbero, perché non possiedono la documentazione necessaria per essere in regola. In pratica, però, la ottengono facilmente, perché esiste un traffico di certificazioni rilasciate dai veterinari, che non sono in numero sufficiente per rilasciare certificati al volume attuale di pescato. A quel punto come posso imporre le regole io, se arrivano con le carte e le certificazioni sufficienti per entrare nell’Ue?», si chiede.
In assenza di sufficienti controlli alla fonte, quindi, quali misure adottano i Paesi importatori, come l’Italia? Secondo il rapporto pubblicato da una coalizione di Ong internazionali che prende in esame il numero di certificazioni comunicate alla Commissione europea, si nota che l’Italia ha ricevuto 96.736 certificati di cattura nel periodo 2018-2019 (terza per numero dopo Spagna e Francia). Questi certificati, stando al documento ufficiale analizzato, sono stati tutti verificati dalle autorità italiane, ma solamente in un caso le autorità hanno richiesto di verificare l’attendibilità del documento cartaceo in quanto sospettoso.
A fine febbraio 2023, nel frattempo, la Commissione europea ha tentato di rispondere ai danni dello strascico nel Mediterraneo presentando un pacchetto di misure per fermare la pesca a strascico in aree protette entro il 2030, ma solo in acque europee.
«Chiederemo agli Stati membri di darci una tabella di marcia entro il 2024, crediamo siano tutti consapevoli della necessità di fare progressi sulla pesca sostenibile e la tutela degli ecosistemi, soprattutto nel Mediterraneo», si legge nel loro comunicato. Le misure introdotte dalla Commissione, però, hanno mandato su tutte le furie i pescatori dei Paesi dell’Ue che si affacciano sul Mediterraneo, compresa l’Italia, che puntano il dito contro la concorrenza “sleale” delle flotte dei Paesi a Sud, come la Tunisia. A servirsi dell’esternalizzazione della produzione lì dove i controlli si raggirano più facilmente, però, sarebbero proprio i grossisti europei, in cerca di margini di profitto migliori. In assenza di controlli sufficienti, il prezzo del pescato non tiene conto dei danni ambientali e sociali.
La pesca artigianale contro l’inquinamento
Nel frattempo, alcuni gruppi di pescatori o ex pescatori continuano a battersi per una pesca lenta, sostenibile e garante del futuro di un Mediterraneo già colpito dagli effetti devastanti della crisi climatica. Nella vicina città di Gabès – conosciuta per l’industria dei fosfati che scarica direttamente in mare, ed è responsabile dell’inquinamento del Golfo – un gruppo di pescatori si è auto-organizzato in comitato per opporsi agli armatori dello strascico. Anche a Kerkennah, nel porto di Kraten, sulla punta dell’isola, i membri dell’Associazione locale per lo sviluppo sostenibile e la cultura hanno ridipinto i depositi per le reti e gli affari da pesca con una serie di graffiti contro la pesca a strascico.
Solo in questo porto i pescherecci a traino sono la minoranza: «Noi proviamo a resistere al loro ricatto – racconta Ahmed Souissi, presidente dell’associazione e fiero abitante di Kerkennah che, a differenza di tanti altri giovani della sua generazione, ha deciso di non lasciare l’arcipelago dove è nato. Senza pesce i tunisini partiranno», è il monito di Ahmed Taktak, che conosce bene le difficoltà di chi sbarca in Italia, ma non biasima i giovani che si imbarcano dalle spiagge di un’isola sempre più vuota.
Mentre accende un fuoco per grigliare il pesce tra le palme, il pescatore ricorda le tante battaglie dei pescatori-cittadini di Kerkennah per salvare il fragile ecosistema dell’arcipelago. Delle luci in lontananza illuminano il mare all’orizzonte: non la città sulla costa di fronte, ma due piattaforme petrolifere offshore. «Nel 2016, un incidente in uno degli impianti della compagnia tuniso-britannica Thyna Petroleum Services ha causato una marea nera lungo le coste di Kerkennah. Noi pescatori siamo scesi in piazza a protestare e abbiamo bloccato la sede della compagnia», ricorda.
Secondo il pescatore, i danni di allora sono visibili ancora oggi e, insieme alla pesca a strascico, al riscaldamento delle acque e all’inquinamento del Golfo, il petrolio ha contribuito alla desertificazione dei fondali dell’arcipelago. «Anche se ci fermassimo adesso, ci vorrebbero decenni per recuperare la fauna persa, fauna che lo strascico continua a sradicare. Questi banditi del mare non distruggono solo la fauna, ma anche l’habitat. Come possiamo pensare che un domani ci sarà ancora pesce nel Mediterraneo se non ci saranno più le condizioni necessarie per la vita?», si chiede l’attivista Abdelmajid Dabbar di Tunisie Écologie, che ogni anno, durante le sue missioni in mare aperto, constata i danni di «politiche irresponsabili e inadeguate all’urgenza della situazione».
Come lui, Nagui, l’anziano pescatore del porto di Kraten, non ha dubbi: «La natura va rispettata o si vendica sempre», sospira mentre sorseggia il caffè freddo sotto il cielo plumbeo, di fronte al mare in tempesta che trascina a riva la plastica depositata sui fondali e fa dondolare le barche ferme al molo. Nagui, Ahmed e gli altri pescatori, abitanti di questo arcipelago un tempo incontaminato osservano impensieriti il Mediterraneo. Chi conosce il mare, come loro, sa che il fragile equilibrio tra uomo e natura si è rotto: «Ed è anche per questo, perché non c’è futuro su queste isole, che i nostri giovani partono».
CREDITI
Autori
Davide Mancini
Sara Manisera
Arianna Poletti
Editing
Giulio Rubino