Calabria, la seconda porta per l’Italia

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Calabria, la seconda porta per l’Italia

Carmen Baffi
Vincenzo Imperitura
Alfredo Sprovieri

Il naufragio avvenuto la notte fra sabato 25 e domenica 26 febbraio a 200 metri dalla spiaggia di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone, ha messo sotto i riflettori una rotta migratoria finora praticamente ignorata dall’opinione pubblica. Eppure la Calabria è il secondo approdo in Italia, dopo l’isola di Lampedusa. Dalla Turchia alla Calabria, la traversata dura dai cinque ai sette giorni di navigazione, il doppio di quella che dal Nord Africa porta alla Sicilia. Il tratto in mare è solo l’ultima estenuante parte di un viaggio che per migliaia di persone è iniziato mesi prima.

Sulle spiagge calabresi sono arrivati migranti dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iran, dal Pakistan e dall’Armenia: persone il più delle volte in fuga da una parte di pianeta in guerra da decenni. Sono anche arrivati cittadini ucraini, turchi, russi, egiziani, migranti a loro volta spesso coinvolti dai trafficanti nel trasporto degli altri profughi dalle coste meridionali della Turchia, trampolino di un continuo flusso di esseri umani a questa seconda porta d’ingresso in Italia.

L'inchiesta in breve
  • Per i migranti, la Calabria è la seconda porta d’accesso all’Italia. Nel 2022 gli arrivi sono stati più di 18mila, contro i 10mila del 2021. Anche prima della strage di Steccato di Cutro, la rotta dalla Turchia alla Calabria destava preoccupazioni: è molto più lunga e meno sorvegliata del triangolo tra Libia, Tunisia e Sicilia.
  • Il Governo Meloni ha dichiarato guerra agli “scafisti” ma in realtà già oggi tanti timonieri delle barche finiscono in carcere. Solo nel 2022 sono stati 61, secondo i dati del Tribunale di Locri. Su 29 procedimenti penali per traffico di esseri umani, il 65% è già a sentenza.
  • Ma gli scafisti non sono i trafficanti, per quanto il governo mescoli le responsabilità. E ci sarà mercato finché esisterà la domanda di oltrepassare i confini senza documenti. La rotta dalla Turchia alla Calabria, infatti, ha incrementato le partenze dopo che si sono ridotte le partenze verso la Grecia.
  • L’avamposto dell’accoglienza calabrese è Roccella Jonica, principale destinazione di chi sbarca in Calabria. L’arrivo di persone in stato di necessità è continuo, ma la struttura di prima accoglienza non è adeguata ai numeri.

Secondo i dati elaborati da Pagella Politica, nel 2022 in Calabria ci sono stati in tutto 18.092 sbarchi (tra autonomi, ovvero senza che le imbarcazioni di migranti siano state intercettate da altre navi, attraverso l’intervento della Guardia costiera o con l’aiuto delle ong), mentre in Sicilia, l’ingresso principale all’Europa, sono stati 78.586. Il tasso di crescita in Calabria è molto significativo, visto che nel 2021 gli approdi sono stati pochi più di 10 mila.

Dal primo sbarco nella Locride alla fine degli anni ‘90 a oggi, quasi niente in questo viaggio è cambiato. Medesima la rotta che collega le province sud orientali della Turchia a quelle della Calabria ionica così come identiche, ed estenuanti, continuano ad essere le modalità di questa traversata. Anche la zona di sbarco individuata dai trafficanti resta incatenata ai soliti posti: pochi chilometri di costa compresi tra Cirò e Le Castella e tra Monasterace e Palizzi, estremo pezzo meridionale delle province di Crotone e Reggio Calabria. Si tratta di un fenomeno radicato nel tempo, ma ogni anno affrontato dalle istituzioni alla stregua di una nuova emergenza in termini di sicurezza.

All’inizio fu Riace

Il primo luglio del 1998, un tecnico di laboratorio percorre in auto la strada che di solito dalla scuola in cui lavora lo riporta a casa. Solo all’apparenza si avvia un pomeriggio qualunque di un giorno qualsiasi della sua vita. A un certo punto della strada però vede qualcosa di inconsueto. Sulla spiaggia vicina a quella che 25 anni prima aveva restituito i famosi Bronzi, è approdato dalle coste turche un barcone carico di profughi curdi. Questo è l’inizio di una storia che conoscono tutti: quella di Mimmo Lucano e dell’accoglienza di Riace. Il borgo è uno dei tanti “paesi sdoppiati” della Ionica in cui il centro storico va verso lo spopolamento, mentre la vita si riorganizza a valle, lungo la costa. Le case vuote per ospitare i migranti non mancano. Lucano inizia poi a studiare alcune pratiche di accoglienza attuate in un altro Comune “sdoppiato”, Badolato. Da questo incontro nasce un percorso politico che lo porta a diventare sindaco nel 2004.

Per Riace, ottiene fondi regionali per la ristrutturazione delle case dismesse nel borgo e fornisce accoglienza e ospitalità ai rifugiati e ai richiedenti asilo che lavorano nel Comune attraverso laboratori artigiani e, nell’attesa dell’erogazione dei fondi, spendono per le proprie necessità una moneta locale creata ad hoc. Rieletto per un secondo mandato nel 2009, Lucano diventa sempre più conosciuto fino a quando, nel 2016, la rivista americana Fortune lo inserisce al quarantesimo posto fra i 50 leader più influenti al mondo. Nell’ottobre del 2017, però, la Procura di Locri lo iscrive nel registro degli indagati per truffa, abuso d’ufficio e peculato proprio nell’ambito della gestione del sistema d’accoglienza di Riace. Sostenuto da manifestazioni di solidarietà in tutta Italia, Lucano sarà comunque messo agli arresti domiciliari, sospeso dal ruolo di sindaco e subirà anche il divieto di dimora a Riace. Il 30 settembre 2021 il Tribunale di Locri lo condanna a 13 anni e 4 mesi di reclusione, praticamente raddoppiando le richieste del pubblico ministero e nel 2022 si apre il processo d’Appello a Reggio Calabria, con la procura generale che il 26 ottobre chiede 10 anni e 3 mesi per Lucano.

Qualunque sarà il suo verdetto finale, questo è comunque un processo giudiziario che porta con sé effetti incontrovertibili. Oggi a Riace arrivano alla spicciolata richiedenti asilo e rifugiati per i quali è scaduto il tempo di permanenza nelle strutture “ufficiali”. Cercano diritti basilari, soprattutto quello all’assistenza sanitaria. Per loro la destinazione è l’ambulatorio Jimuel, fondato nel 2017 dal medico anestesista Isidoro Napoli, per tutti Sisi. Insieme a lui una ventina di medici volontari, fra cui una cardiologa, due ginecologhe, un pediatra, un ecografista e diversi radiologi, presta la propria opera gratuita a chiunque ne abbia bisogno.

L’emergenza è in mare

Le barche che ingrossano la rotta turca sono nella maggioranza dei casi velieri monoalbero in vetroresina, rubati nei porti dell’Anatolia e poi guidati a motore. In condizioni ottimali potrebbero trasportare in sicurezza al massimo una ventina di persone e possono essere guidati per piccoli tragitti turistici anche senza disporre di una grossa esperienza nautica. Viaggiano invece per notti e giorni senza sosta, in media con dieci volte il carico di persone consentito, e non solo non possono contare su sufficienti presidi di salvataggio, ma spesso i migranti non sanno nemmeno nuotare.

L’emergenza c’è insomma, ma è in mare, ed è di natura umanitaria. È difficile stabilire quanti eventi di naufragio siano avvenuti nei decenni di navigazione al largo delle coste italiane, anche perché sullo specchio d’acqua che fa da scenario a questo evento mancano le ong, a differenza della rotta dalla Libia alla Sicilia. La prima strage di cui si ha conoscenza risale al 2007, quando annegarono in sette a largo di Roccella Jonica, ma tragedie meno eclatanti per il numero di persone coinvolte sono purtroppo frequenti.

Operazioni di prima accoglienza al Centro di Roccella Jonica – Foto: Carmen Baffi

Mohamed Nasim è afghano ed è approdato vicino Crotone a metà giugno, in una giornata di mare calmo. Era fra i pochi a parlare inglese, perciò alla mediatrice culturale e al personale della Guardia di finanza che l’hanno interrogato e verbalizzato ha ricostruito al dettaglio le tappe del suo viaggio. Racconta di essere partito dal suo Paese per l’Iran, dove è rimasto tre mesi, per poi raggiungere Istanbul, dove è rimasto circa nove mesi. Per organizzare il viaggio ha ricevuto i contatti necessari da altri connazionali già arrivati in Europa. Ha avuto un numero di telefono che ha contattato, poi ha versato circa 10 mila euro da un conto corrente iraniano a un altro. Racconta che tramite sua madre i soldi sono stati spostati sul conto corrente di un “garante terzo” in Turchia, il quale liquiderà i trafficanti solo dopo il suo arrivo in Italia, elemento che differisce da quanto accade lungo la rotta del Mediterraneo Centrale. Alla domanda sul come siano stati avvertiti del suo arrivo risponde: «Loro lo sanno».

Racconta di essere partito da Bodrum, l’antica Alicarnasso. Nell’antichità era sede della tomba di Mausolo, una delle sette meraviglie del mondo, oggi è un porto turistico frequentato dalla borghesia turca. Dell’organizzazione ricorda «un uomo grande e grosso» che ha requisito i cellulari e distrutto le Sim card, minacciando che altrimenti sarebbero stati scoperti dalle polizie europee. Prima di andarsene, ha ordinato a tutti di restare sottocoperta e di muoversi il meno possibile per evitare di ribaltarsi. Le stanze erano tre, ognuna delle quali con venti persone. Per i primi tre giorni, i migranti non hanno potuto mangiare. Qualunque imbarcazione in quelle condizioni, è da considerare a rischio naufragio. A dirlo è la logica prima che i regolamenti internazionali. Ed è la regola, lungo la rotta dalla Turchia alla Calabria.

Scafisti VS trafficanti

Dalla politica da anni viene riproposta una soluzione che finora non ha risolto nulla: la caccia allo scafista. La parola indica chi guida le imbarcazioni, ritenuti parte dell’organizzazione criminale anche quando si tratta di un migrante che ha accettato il compito solo per pagare di meno. Durante il Consiglio dei ministri organizzato a Cutro il 9 marzo, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha annunciato il decreto legge per «sconfiggere la tratta di esseri umani responsabile di questa tragedia». Per gli scafisti, il decreto introduce il reato di «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina», con pene dai dieci ai 30 anni. «Il reato – ha aggiunto la presidente del Consiglio in conferenza stampa – verrà perseguito dall’Italia anche se commesso fuori dai confini nazionali».

Nelle parole della prima ministra non c’è distinzione tra trafficanti, cioè coloro che organizzano le traversate, e scafisti; né tra tratta di persone, reato previsto per chi forza o induce una persona a entrare in Italia illegalmente per sfruttarla, e traffico di esseri umani, che invece riguarda l’organizzazione dell’ingresso in Italia di persone prive di documenti. Per quest’ultima fattispecie, le pene per lo scafista sono già inquadrate dall’articolo 12 del Testo Unico Immigrazione. E già oggi nelle carceri di Locri e di Reggio Calabria sono diversi i detenuti, alcuni già condannati, per questo reato, circostanza che però non ha interrotto le partenze.

I presunti scafisti sono giovani, quasi tutti sotto i 30 anni. Al 29 di novembre del 2022, al Tribunale di Locri, competente per territorio nella zona con il maggior numero degli approdi di questa rotta, risultano 29 procedimenti penali svolti nel corso dell’anno con l’accusa di traffico di esseri umani. Di questi procedimenti, oltre il 65% è arrivato a sentenza con giudizio immediato, direttissimo o abbreviato e solo il 31% risulta in fase di indagini preliminari.

Dal 2009, le aggravanti previste per gli scafisti sono severe e di immediata verifica, come il favoreggiamento qualificato che scatta se le persone introdotte illegalmente in Italia grazie alla condotta dell’imputato siano più di cinque persone, e fanno sì che le pene e le multe comminate siano davvero significative: nei casi più estremi si arriva fino a 15 anni di carcere e un milione di euro di sanzione.

Secondo i dati della Procura le persone fermate o arrestate con questa accusa nella Locride sono in totale 61 nel 2022. La loro provenienza nel 2022 – a causa anche della guerra in Ucraina – è molto cambiata rispetto agli anni scorsi: vengono soprattutto dalla Turchia (34%) e dall’Egitto (21%), mentre in passato la nazionalità più frequente era ucraina. Nonostante i tentativi di coinvolgere le Direzioni distrettuali antimafia allo scopo di allargare le indagini e individuare i vertici delle organizzazioni, finora i risultati sono stati pochi.

Come è cambiata la migrazione dalla Turchia verso i Paesi europei

L’incremento delle partenze dalla Turchia si può spiegare per un concatenarsi di diversi fattori, spiega Luigi Achilli, ricercatore che insegna all’istituto universitario europeo (Eui) di Firenze che in questi anni ha lavorato sulla comparazione tra i traffici lungo il confine USA-Messico e lungo le rotte del Mediterraneo. «È come quando tappi una falla e l’acqua sgorga più forte da un’altra parte – spiega -. Negli scorsi anni, soprattutto quelli successivi alle crisi siriane, molti sono rimasti bloccati in Turchia e così ha ripreso vigore soprattutto la rotta del Mediterraneo centrale. Però in Libia le dinamiche sono cambiate e il business della migrazione si è trasformato in un business della detenzione». E la Libia è diventata un nuovo tappo.

Invece oggi in Turchia i controlli delle autorità di frontiera sono meno severi, soprattutto a seguito del terremoto dello scorso 6 febbraio, che ha provocato la morte di almeno 49 mila persone. Non ci sono grossi gruppi criminali, ma piccole organizzazioni che agiscono con il sostegno almeno di alcune autorità locali.

Nel 2016, l’Unione europea ha stretto un accordo con la Turchia affinché bloccasse i migranti sul proprio territorio, impedendo loro di prendere il mare. Finora la Grecia è stata nettamente la meta principale. Per ogni richiedente asilo respinto in Turchia dalle isole greche, l’accordo prevede anche che i Paesi europei avrebbero preso un richiedente asilo residente in Turchia. L’accordo ha portato fino al 2020 sei miliardi di euro nelle casse turche, a cui si è aggiunta la promessa di altri tre miliardi nel triennio 2021-2023. Evidentemente in questo momento è sufficiente per sigillare la rotta verso la Grecia, ma non verso l’Italia.

«Per le organizzazioni criminali – aggiunge Achilli – questo significa puntare sul viaggio che dalle coste sud orientali della Turchia arriva in Italia bypassando la Grecia, trovando qualcuno disposto a guidare le barche».
La guerra senza quartiere agli scafisti difficilmente sarà un deterrente per le partenze: «I trafficanti esistono e continueranno a esistere finché ci sarà criminalizzazione dell’immigrazione – continua Achilli -. Per la mia esperienza non bisogna guardare a sistemi verticistici e a grosse organizzazioni internazionali, ma a piccoli gruppi locali spesso composti a loro volta da migranti». Per quanto possano girare molti soldi in queste attività, invece che concentrarsi in organizzazioni verticistiche, si perdono in mille rivoli. «Per la criminalità organizzata – conclude – resta più conveniente il viaggio di una barca piena di cocaina invece che di persone povere».

Fame d’aria. La storia di Moussa, dall’Iran

A settembre è arrivata in Calabria una famiglia scappata dall’Iran senza documenti. Vista l’importanza della cifra sborsata in contanti per imbarcarsi in Turchia, i suoi componenti – padre, madre e due figli – pensavano di viaggiare senza troppe difficoltà tutti e quattro insieme. Invece la realtà li ha sopraffatti. Melina, Baar, Moussa e Agar sono arrivati a Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria su una barca omologata per dieci persone. Moussa, 24 anni, è già ingegnere nel suo Paese. Ha seguito le orme del padre e con lui è partito sperando di costruire un nuovo futuro in Europa. Il sogno è quello di una nuova vita in Francia, magari, come tanti connazionali in fuga.

Il suo respiro però si è fermato prima. Moussa è morto per raggiungere l’Europa, destino comune a quasi 25 mila persone che secondo il rapporto Ismu dal 2014 al 25 settembre 2022 sono morti o risultano dispersi nelle acque del Mediterraneo. Nelle pause di un pianto disperato, la madre ha raccontato che il ragazzo nella barca soffriva di mancanza d’aria già da ore, che insieme al marito ha chiesto molte volte di poter far spostare il ragazzo sopra coperta, ma che non gli è stato concesso. Dice che gli è morto fra le braccia, che ha dovuto persino lottare per difendere il suo corpo senza vita e non farlo buttare in mare. Arrivati a Roccella, ha deciso insieme al marito di testimoniare contro i tre presunti scafisti fermati dalle forze dell’ordine. Hanno detto di volerlo fare perché «a nessun figlio può essere impedito di raggiungere la terra desiderata».

Gli operatori della Croce Rossa locale, con l’avallo della Prefettura e l’intercessione della parrocchia, hanno fatto il possibile per affidarli alle cure di una famiglia del posto. I tre cittadini iraniani hanno dunque lasciato il Porto dopo poche ore e in poco più di due settimane hanno ricevuto l’ok per celebrare i funerali per Moussa nella chiesa di Roccella, dove il padre ha letto in farsi alcuni versi prima della benedizione della salma, prima che un imam amico di famiglia, in diretta telefonica, pronunciasse la preghiera di affidamento a Dio prevista dal Corano.

La coppia durante il funerale è rimasta tutto il tempo accanto al feretro, nel centro della navata principale della chiesa, non smettendo quasi mai di guardare la foto del figlio sulla bara, un’immagine nella quale Moussa è ritratto con un maglione giallo e un cappotto blu, sorridente. I cittadini di Roccella hanno messo insieme i fondi per l’inumazione e la sepoltura e Padre Francesco Carlino celebrando la funzione ha inteso ringraziarli dicendo: «Perdonaci Moussa, perdonaci perché la tua morte interroga le nostre coscienze assopite e ci dice di gridare ai nostri politici che è giunta l’ora di mettere fine a questo quotidiano massacro di vite».

Il centro nevralgico della prima accoglienza calabrese

Il centro nevralgico dei soccorsi e della prima accoglienza in Calabria è il Porto turistico delle Grazie di Roccella Jonica, in provincia di Reggio Calabria. Qui i 1.200 migranti arrivati nel 2020 sono diventati più di cinquemila nel 2021. Numeri già superati nei soli primi sei mesi del 2022 e in crescita esponenziale dalla seconda metà di agosto in poi, quando in questa struttura di prima accoglienza hanno cominciato a susseguirsi arrivi con un media registrata, nel periodo di punta fra il 18 agosto e il 22 settembre, di 50 persone ogni 24 ore. Il bilancio finale nel 2022 di Roccella Jonica si è attestato su 86 eventi di sbarco e 6.994 persone accolte. Se si tiene conto dei circa 20 sbarchi autonomi registrati, per la Questura si tratta di circa novemila persone arrivate in un anno in un paese che conta soli seimila abitanti.

L’attività di questo centro è stata avviata dalla prefettura di Reggio Calabria il 25 ottobre del 2021 e si avvale della presenza di diversi enti, istituzioni, organizzazioni e realtà associative. Innanzitutto, la Croce Rossa Italiana con il Comitato Riviera dei Gelsomini, che ha allestito una tensostruttura che può ospitare circa 150 persone e che impiega giornalmente dodici fra operatori e volontari. Si occupano della distribuzione di generi di prima necessità e di conforto al momento dell’arrivo al porto delle persone migranti, alla distribuzione dei kit igiene e vestiario forniti dalla Prefettura e a tutte le attività di supporto per gli accolti fino al loro successivo trasferimento in altre strutture.

La rotta dalla Turchia alla Calabria

La via marittima che collega la Turchia alla Calabria è solo l’ultimo tratto di diverse rotte migratorie le quali convergono nel Paese che collega Europa e Asia. Nel grafico, le nazionalità dei 6.994 migranti arrivati a Roccella Jonica (RC) nel 2022

Tutti i giorni è presente anche il personale di Medici Senza Frontiere, ong che opera un’equipe composta da un medico, un infermiere e due mediatori culturali. È anche presente personale dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (UNHCR) e sono operative anche due unità Save The Children con compiti di supporto psicosociale, di informativa legale e ascolto. Sono presenti anche due professionisti dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA, la vecchia EASO, ndr) con il compito di supporto nell’attività di informativa sull’asilo. Per quanto riguarda la sicurezza, le forze dell’ordine assicurano un presidio interforze h24 con tre equipaggi e, infine, con un team di undici unità, c’è anche Frontex, l’agenzia europea per il pattugliamento dei confini, a cui spetta il compito di intervistare i migranti, scambiare informazioni con le forze di polizia ed essere di supporto alla Polizia scientifica. Sono loro, con le difficoltà dettate dalla delicatezza dell’intervento e dalla scarsità di risorse a disposizione, a presidiare questa scalcinata porta d’Europa.

La giornata tipo al Porto delle Grazie inizia molto presto. Il primo approdo annunciato conta una cinquantina di persone da accogliere. Pochi uomini, di più le donne e tanti bambini, alcuni davvero piccolissimi. Una motovedetta della Guardia di finanza li ha intercettati a bordo di un’imbarcazione alla deriva subito dopo il sorgere del sole, a largo di Riace e appena dentro il limite delle acque territoriali. Li scorta in modo lento e vigile lungo la linea della costa, davanti a turisti e bagnanti che hanno imparato a considerare la scena come parte del paesaggio. Intanto al porto si mette in moto il meccanismo per l’accoglienza che, anche se ormai rodato, comporta sempre qualche nervosismo.

Le forze dell’ordine pattugliano entrambi i lati dello spazio adibito alla prima accoglienza. Lo spazio è off-limits per i giornalisti, ma sulle sue criticità si esprime chiara una relazione ispettiva del Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia) di Reggio Calabria datata 5 luglio 2022. Un documento che parla di clima «assolutamente invivibile durante il periodo estivo, tanto da costringere i migranti a trascorrere la notte all’esterno», in una piccola pineta «attigua alle ridicole mura perimetrali, assolutamente inefficaci ed inefficienti, che favoriscono l’allontanamento arbitrario degli ospiti». 

Migranti radunati sulla banchina del Porto di Roccella Jonica – Foto: Carmen Baffi

Il rapporto, corredato di foto, mette in fila le numerose falle rilevate dal sindacato di polizia all’interno della tensostruttura e racconta anche di un tentativo di fuga di massa esacerbato dalle condizioni di invivibilità. «Esasperazione determinata da attese snervanti, da caldo asfissiante e dai ritardi alle operazioni di identificazione a loro volta alimentate dalla farraginosa difficoltà di reperire mediatori culturali. Mediatori che vedono un contratto rinnovato, ma non perfezionato dalla Corte dei conti con parallelo devastante effetto nelle realtà periferiche: costringere i locali utilizzatori di quel servizio – ufficio immigrazioni – a reperire volta per volta, in occasione di sbarchi, interpreti di varie lingue e dialetti e richiedere le necessarie autorizzazioni preventive in Prefettura per “contratti occasionali” di lavoro».

Secondo il Siulp di Reggio Calabria, impattanti sulla normale regolarità del servizio sono anche i miasmi causati dal mancato adeguamento fognario: vengono anche segnalate e puntualmente fotografate buche scavate con le mani per tentativi di fuga favorite dalla scarsa illuminazione, tutto in una forbice tra personale operante e ospiti migranti che si presenta troppo larga, con gli operatori della Polizia di stato e dei Carabinieri (uno ogni circa 15 ospiti, secondo il rapporto) «sottoposti a condizioni di lavoro disumane e indegne, con i colleghi costretti ad una esposizione continua al sole anche per più di 12 ore al giorno».

Negli ultimi mesi si accoda la serie di operazioni ispettive intraprese dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Il lavoro di monitoraggio della struttura ha fatto emergere che come a Lampedusa «si è in procinto di realizzare a Roccella Jonica un punto di crisi sul modello “hotspot”, per il quale sarebbero in corso di esecuzione le attività necessarie» e «una gestione che risponde come di consueto ad una logica emergenziale, informale e scarsamente strutturata, tanto da un punto di vista materiale quanto procedurale, che implica, naturalmente, la contrazione dei diritti delle persone ospitate all’interno della struttura».

Il clima di tensioni e stress è palpabile già al mattino del nostro arrivo, quando gli operatori chiamati a fare le pulizie dopo la notte – a garantire cioè che le panche e le brande occupate dai migranti arrivati la notte prima siano pronte per quelli che stanno arrivando – sollecitano ad alta voce l’aiuto dei mediatori culturali e degli agenti: è un’operazione che va fatta presto e bene, e non può permettersi resistenze. Dopo un po’ di discussioni si procede con i primi aiuti umanitari, le interviste e le foto, si prosegue con i tamponi e le visite mediche. Si impartiscono e ricevono ordini, file di persone esauste si spostano caracollando. Il caldo è davvero asfissiante, e solo la pineta attigua alla struttura riesce a dare qualche cono d’ombra di riparo, che in poco si riempie di colori e di voci.

Poco dopo le due del pomeriggio, approda un’altra imbarcazione: il termometro segna 38 gradi, l’umidità percepita è sfiancante. Il gruppo di nuovi arrivati, stipato su un piccolo veliero con bandiera statunitense, viene scortato fino alla banchina Sud, proprio davanti al tendone allestito dalla Croce Rossa. Qualche ora più tardi, la Guardia costiera scorta un nuovo veliero, poco più che un rottame, intercettato a oltre 70 miglia al largo della costa. Sono passate da poco le 18:00, non c’è stato nemmeno il tempo di ripulire il piazzale dalle coperte termiche e dai beni di prima necessità utilizzati per il gruppo precedente. Questa volta arrivano in 76, in prevalenza siriani, partiti dalla spiaggia di Abdeh, in Libano, un porto anomalo rispetto alla rotta consuetudinaria. Tra loro ci sono una ventina di bambini, tre hanno meno di un anno.

Il sole tramonta ma gli sbarchi non si fermano. Una motovedetta della Guardia di finanza sta trainando l’ennesimo piccolo veliero. Quando i due natanti rientrano, è da poco passata l’una del mattino. Il monoalbero viene svuotato dei suoi passeggeri poco alla volta, lentamente. Le luci sono fioche e riflettono i propri raggi dal mare nero. All’interno e all’esterno dell’imbarcazione i viaggiatori appaiono immobili, stipati letteralmente come tonni. Questa volta sono in 85: tanti adolescenti non accompagnati e diversi anziani che hanno fatto l’ultima parte del viaggio in coperta, viste le temperature più rigide della notte. I più piccoli vengono fuori dalla pancia della barca per ultimi, stretti al collo dei soccorritori, alle 2:30 del mattino.

Fino a notte tarda il piazzale del porto è ancora in piena attività: qui davvero non ci si riposa mai. La segnalazione dell’ennesimo barchino è arrivata dai mezzi aerei che monitorano questa porzione di Mediterraneo. Ad uscire questa volta sarà una pattuglia della Capitaneria. Manca qualche minuto alle tre del mattino, una nuova giornata di questa storia infinita sta per cominciare.

CREDITI

Autori

Carmen Baffi
Vincenzo Imperitura
Alfredo Sprovieri

Editing

Lorenzo Bagnoli

Video

Carmen Baffi

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Foto di copertina

Migranti in attesa di essere sbarcati al porto di Roccella Jonica
(Carmen Baffi)

Il rimpatrio dopo l’abbandono, storia degli equipaggi bloccati 13 mesi a Oristano

Il rimpatrio dopo l’abbandono, storia degli equipaggi bloccati 13 mesi a Oristano

Lorenzo Bagnoli

Dopo oltre un anno all’ormeggio del porto di Oristano, le portacontainer General Shikhlinsky e Khosrov Bey sono libere di lasciare la Sardegna. Soprattutto possono finalmente rientrare in patria i 12 membri dei due equipaggi rimasti a bordo per tutto questo tempo. Nel momento dell’arrivo al porto delle due imbarcazioni, tra il 23 e il 24 giugno 2020, erano 29 i marittimi. Molti hanno deciso di rientrare a casa, rischiando di perdere lo stipendio. Gli altri invece hanno resistito: «Ognuno per i suoi motivi», dice il capitano di fregata Matteo Gragnani, che guida la capitaneria di porto di Oristano. La Guardia costiera sarda ha tenuto sotto continuo controllo la situazione, coordinando l’assistenza e i rifornimenti di acqua e viveri ai marinai. «L’ultimo rifornimento di acqua e viveri l’abbiamo fatto a inizio settembre», racconta il capitano Gragnani.

In questi lunghi mesi per poter sbarcare a terra, anche solo per qualche ora, dovevano accordarsi con la polizia di frontiera del porto sardo per ottenere lo shore pass, una sorta di permesso di soggiorno giornaliero, senza il quale diventerebbero migranti irregolari. Ora resteranno a bordo ancora solo il cuoco e il comandante della General Shikhlinsky in attesa dei nuovi equipaggi che sostituiranno i marittimi rientrati a casa. In dieci hanno completato le procedure di rimpatrio il 10 settembre. Tutti quelli rimasti così a lungo a bordo sono azeri.

Le due imbarcazioni erano state messe sotto sequestro conservativo dal tribunale di Oristano perché l’armatore delle portacontainer, la compagnia di navigazione turca Palmali, non pagava i loro stipendi da mesi. La compagnia ha debiti in tutto il mondo e a febbraio 2021 risultavano 13 gli equipaggi ufficialmente “abbandonati” da Palmali nei porti di mezzo Mediterraneo.

Il sequestro conservativo permette alla lista di creditori di rivalersi nei confronti del loro debitore congelando almeno alcuni dei suoi beni. Nella lista dei creditori ci sono quasi sempre anche gli equipaggi, che stando in mare spesso si rassegnano a vedere i loro stipendi pagati in ritardo, per quanto – spiegano i sindacati dei marittimi – di solito i primi creditori siano porti e agenzie marittime. In questi lunghi mesi di isolamento nelle assolate gabbie di ferro galleggianti delle due portacontainer, i marittimi hanno potuto contare solo sulla la Capitaneria di porto di Oristano per i rifornimenti di acqua, gasolio e cibo, in due occasioni chiedendo aiuto anche alla Caritas, mentre la società Ivi Petrolifera ha donato loro gasolio per l’elettricità.

Norme e numeri dell’abbandono

La Convenzione internazionale sul lavoro marittimo del 2006 prevede che un equipaggio sia tecnicamente abbandonato quando ha stipendi arretrati di minimo due mesi, quando la compagnia navale non paghi le spese di rimpatrio dei marinai oppure abbia lasciato un equipaggio senza la necessaria assistenza per poter svolgere i lavori di manutenzione a bordo. Perché scattino tutte le procedure che seguono all’abbandono, però, è necessario il riconoscimento formale o dello Stato di cui la nave batte bandiera oppure delle autorità del porto in cui si trova l’imbarcazione. Questi passaggi burocratici spesso richiedono mesi.

Mano a mano che il tempo passa, i debiti dell’armatore aumentano sempre di più, non solo verso l’equipaggio ma soprattutto con le agenzie che si occupano di servizi portuali. A quel punto una nave può essere messa sotto sequestro per una decisione delle autorità portuali, della magistratura, oppure a tutela di qualche creditore. Nel momento in cui c’è un sequestro conservativo, l’equipaggio può lasciare la nave.

C’è sempre una componente di rischio ad abbandonare un’imbarcazione: le convenzioni internazionali richiedono che gli equipaggi non la lascino mai, per motivi di sicurezza. Una nave abbandonata infatti è come minimo un pericolo in termini ambientali, di certo rappresenta un rischio difficile da contenere, come nel caso dell’esplosione al porto di Beirut innescata proprio dal carico depositato in un magazzino proveniente da una nave abbandonata. Il paradosso è che nel caso in cui un armatore dovesse tornare in possesso delle proprie navi e diventare di nuovo solvente allora i marittimi che sono scesi potrebbero perdere il salario per non aver rispettato i termini del contratto.

Una volta conclamato l’abbandono, le clausole sociali a tutela dei marittimi stipulate dall’armatore spesso non sono adeguate per garantire il rimpatrio di tutti. Capita anche che la polizza assicurativa che dovrebbe coprire quest’eventualità scada durante la procedura di formalizzazione dell’abbandono. In queste situazioni è come se le navi diventassero fantasma: per quanto ci siano sulla carta armatore, gestore e polizza assicurativa, queste entità o si sono dileguate, o sono in bancarotta, o il contratto che le vincola all’imbarcazione è scaduto.

I dati sui numeri di abbandoni nel mondo sono spesso poco affidabili: ILO, l’organizzazione mondiale del lavoro, li raccoglie in un database congiunto insieme all’IMO, l’organizzazione marittima mondiale. Anche il sindacato Itf (International Transport Workers Federation, sindacato internazionale dei lavoratori dei trasporti) cerca, per quanto possibile, di tenere il conto dei casi di abbandono. La capacità dei marittimi di intergaire con i sindacati però dipende molto dai loro Paesi di provenienza: mentre in Europa c’è una certa attenzione al rispetto delle convenzioni internazionali a tutela dei lavoratori, in altri contesti è molto più difficile. Il settore navale è una delle sacche di schiavitù moderna più grande al mondo, e moltissimi marinai non hanno idea di quali sarebbero i loro diritti, né sanno di potersi rivolgere a un sindacato internazionale.

Secondo uno studio di Lloyd’s List, il quotidiano specializzato della compagnia assicurativa inglese, solo il 27% dei casi di abbandono viene risolto. Negli altri le posizioni debitorie non vengono risolte così gli equipaggi restano senza salario e le navi sotto sequestro.

Qualcuno tra i membri dei due equipaggi, a luglio 2020, aveva inoltrato un appello al presidente dell’Azerbaijan Ilham Aliyev attraverso l’agenzia di stampa turca Deniz Haber: «Chiediamo aiuto al presidente Aliyev. Vogliamo tornare nel nostro Paese dalle nostre famiglie. Non riceviamo uno stipendio da 10 mesi». È stato l’unico momento in cui si sono rivolti alla stampa. Per il resto silenzio. «Sono stati sempre i marittimi a mantenere un contatto con l’armatore – commenta Livia Martini, ispettrice dell’Itf che ha seguito il caso -.Ci sono evidentemente degli elementi che non conosciamo».

A smuovere questa situazione ferma per 13 lunghi mesi ci ha pensato l’ufficio legale della Palmali che ha scritto all’avvocato del sindacato dei marittimi affermando che la compagnia avrebbe pagato i debiti per i quali era scattato il sequestro della nave. Secondo quanto risulta al sindacato, gli ultimi dieci che hanno lasciato l’Italia hanno già ottenuto le paghe mentre gli altri le riceveranno nei prossimi mesi.

«Continuano ad avere fiducia nella società nonostante tutto», ricordava a giugno Francesco Di Fiore, coordinatore degli ispettori dell’Itf a Genova. Eppure, ricordava Di Fiore, alle email del sindacato Palmali non ha mai risposto. Non è stato possibile mettersi in contatto con il comandante ancora a bordo della General Shikhlinsky per chiarire informazioni in merito alle comunicazioni di Palmali. Nemmeno la compagnia di navigazione ha risposto alle nostre domande.

Gli abbandoni dei marittimi della Palmali sono tra i più clamorosi sia per il numero di navi coinvolte, sia per l’importanza della compagnia in questione. Stupisce che sia ancora vivo un così forte legame tra i marittimi e l’armatore, l’imprenditore turco-azero Mübariz Mansimov Gurbanoğlu. Bloomberg riporta che il 26 gennaio, quando l’armatore si trovava in carcere in Turchia, diversi equipaggi abbandonati avevano ricevuto una lettera a sua firma: «Non avete ricevuto i vostri salari, e avete sperimentato carenze di cibo e carburante. Quando sento tutto questo, mi sento malissimo». In chiusura: «Vi prego una cosa, per favore prendetevi cura delle navi e siate pazienti».

Navi in secca

Le navi appartenenti alla società Palmali di Mübariz Mansimov abbandonate da mesi nei porti del Mediterraneo

Il caso della Palmali da un lato racconta del sistemico sfruttamento dei lavoratori del mare, dall’altro s’intreccia con un intrigo internazionale al cui centro stanno Mübariz Mansimov Gurbanoğlu e le sue relazioni pericolose con Turchia, Russia e Azerbaijan. Relazioni per le quali due volte è finito in carcere e per le quali spesso a pagare sono stati anche i suoi equipaggi. Eppure la sua figura emana carisma e raccoglie consensi quanto un leader politico.

L’oligarca turco-azero Mübariz Mansimov Gurbanoğlu

Il gruppo Palmali è stato costituito nel 1998. Inizialmente era una società che si occupava di servizi per le navi che attraversavano il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli. Poi, con gli anni, è cresciuta fino a diventare una compagnia di navigazione con una sua flotta che opera dai porti del Mediterraneo, del Mar Nero e in importanti scali fluviali tra Mar Caspio e Russia. Ha uffici in Russia, Azerbaijan, Ucraina, Grecia, Romania, Turchia, Georgia, Malta, Singapore. La sua ascesa è stata favorita dal legame dell’azero Mübariz Mansimov, il fondatore del gruppo, con il presidente Recep Tayyip Erdoğan e con la società petrolifera azera Socar. Nel 2006 Mansimov ha acquisito anche la cittadinanza turca, aggiungendo un secondo cognome: Gurbanoğlu.

Nessuno si sarebbe potuto immaginare che nel giro di qualche anno quel rapporto si sarebbe deteriorato fino al punto che, il 15 marzo 2020, Mansimov venisse arrestato con l’accusa di appartenere al movimento di Fethullah Gülen, FETO, cioè il gruppo politico-spirituale accusato da Ankara di aver ideato il tentativo di colpo di Stato del 2016 in Turchia, e poi condannato a cinque anni di prigione. L’unica traccia di una sua appartenenza ai gulenisti sarebbe un viaggio in Pennsylvania, dove si trova ancora Gülen. Un anno dopo, il 5 marzo 2021, gli sono stati concessi gli arresti domiciliari. Su Youtube si trovano video di celebrazione del suo rilascio prodotti dalla televisione azera Aktual Tv. Il movimento in suo sostegno anche sui social è stato molto nutrito. Come sottolinea il quotidiano online statunitense specializzato in Medio e Vicino Oriente Al-Monitor, Mansimov già nel 2019 aveva subito un processo per presunti legami con FETO e a maggio 2019 la stessa procura aveva chiesto la sua archiviazione.

Marzo 2021, celebrazioni per la liberazione di Mübariz Mansimov a un anno dall’arresto per la sua presunta partecipazione al colpo di stato in Turchia nel 2016

Prima della carriera da imprenditore Mansimov, nativo di Baku, è stato soldato dell’Armata rossa e agente dei servizi segreti sovietici (non il Kgb, secondo quanto ha detto a Forbes). La sua carriera da imprenditore inizia negli anni delle privatizzazioni post-sovietiche, momento in cui ha acquistato le prime navi a poco prezzo, grazie alle sue entrature.

Oggi i suoi interessi spaziano dalla compagnia marittima ai resort, dal settore immobiliare a quello dei media, fino al calcio: è proprietario del Khazar Lankaran, squadra di calcio della prima divisione azera. Nei primi anni Duemila è rientrato nei progetti di sviluppo più importanti sull’asse Turchia-Azerbaijan, in particolare nella realizzazione del gasdotto Trans Anatolian Pipeline (Tanap), 1.850 chilometri di struttura che porta il gas azero in Europa. Il Tap, la Transadriatic pipeline, il gasdotto che dalla Puglia arriva all’Albania, è il suo tratto finale ed è operativa dalla fine del 2020. Palmali dal 2006 al 2018 ha trasportato anche il petrolio prodotto dalla Socar in Azerbaijan e distribuito alla Turchia attraverso l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Tutti affari dove, come ha rivelato la testata The Black Sea, anche la famiglia del presidente Erdoğan aveva un interesse diretto.

I legami con Erdoğan

I nomi di Mansimov e di Palmali nel 2017 erano emersi dai Malta Files – primo di una serie di leak riguardanti documenti contabili e del registro imprese maltese – come personaggio al centro di alcuni affari poco trasparenti con la famiglia Erdoğan. Affari che si muovevano offshore, tra compagnie maltesi (il gruppo Palmali nell’arcipelago maltese ha 56 aziende) e una holding anonima sull’Isola di Man riconducibile alla famiglia del presidente turco. Dai documenti dei Malta Files si scopre che Mansimov ha ceduto gratis la petroliera Agdash alla Pal Shipping Trader One, ex società marittima maltese legata ai familiari del presidente turco la cui sede di Istanbul è registrata direttamente presso Palmali. Ha anche fornito le petroliere utilizzate dal gruppo BMZ di cui è proprietario il figlio di Erdoğan, Bilal.

Gli interessi di Mübariz Mansimov vanno dalla compagnia marittima ai resort, dal settore immobiliare a quello dei media, dal calcio al petrolifero, compreso il Tap, la parte finale del gasdotto Azerbaijan-Italia che comprende il tratto tra l’Albania e la Puglia

Dal 2018, però, Palmali ha iniziato a perdere le commesse con la compagnia di Stato azera che si è anche rivolta alla corte internazionale per gli arbitrati commerciali di Londra, alla luce di «violazioni degli impegni» contrattuali della società turca. In due comunicati stampa di novembre 2020 e gennaio 2021 Socar afferma di aver recuperato complessivamente 112,5 milioni di euro in due arbitrati.

Nel 2018 in Turchia era in pieno svolgimento la ritorsione del governo di Ankara contro i presunti responsabili del tentativo di golpe. Oltre a incarcerare oppositori politici, avvocati, membri di organizzazioni internazionali, giornalisti, curdi, Erdoğan si è rivalso anche nei confronti di vecchi alleati e imprenditori fino a poco tempo prima considerati a lui vicini. L’arresto di Mansimov – la prima volta nel 2019 – è stato uno dei più clamorosi. Le cause legali che sono scaturite in seguito a cui si sono aggiunti altri arbitrati con banche e clienti storici hanno prosciugato i conti del Gruppo Palmali, almeno stando a quello che è possibile ricostruire attraverso i comunicati del gruppo turco. Mansimov e il suo staff, raggiunti via email, non hanno voluto rilasciare commenti.

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Nell’ultimo comunicato stampa disponibile sul sito, datato 2 giugno 2020, il gruppo ribadisce tuttavia di non essere in bancarotta e sottolinea l’estraneità di Mansimov alle accuse. Il comunicato riporta inoltre che le imputazioni non sono mai state formalizzate di fronte a un tribunale. Agenzie di stampa internazionali, come Reuters e la turca Deniz Haber, riportano però che a Rostov la controllata locale di Palmali ha subito una condanna per bancarotta e 46 navi sono state vendute all’asta a ottobre 2020 per ripagare il creditore. Fatto sta che almeno una parte dei marittimi rimasti a Oristano sono stati pagati.

Il complotto Socar-Lukoil

Mansimov ha dichiarato in più occasioni di aver lavorato per il bene di Turchia e Azerbaijan. In ogni comunicazione, sua o della Palmali, ci sono una accanto all’altra le bandiere dei due Paesi. Tante navi della flotta Palmali sono intitolate a eroi di guerra dell’Azerbaijan. Nella capitale Baku, Mansimov è un’icona popolare, un personaggio che incarna lo strettissimo legame tra Azerbaijan e Turchia.

Per fare un esempio di quanto sia duraturo, nel 1991 il governo di Ankara è stato il primo a riconoscere l’indipendenza di Baku. Il mito nazionalista turco sostiene che Azerbaijan e Turchia siano «una nazione, due Stati»: il refrain è insegnato nelle scuole ai bambini azeri, è ribadito in ogni incontro pubblico tra i presidenti Ilham Aliyev e Recep Tayyip Erdogan, è anche il titolo di una canzone della popstar azera Taleb Tale. A fine del 2020 si è trasformato nel sostegno diplomatico e militare durante l’occupazione militare del Nagorno-Karabakh, regione a maggioranza armena in cui oggi regge un cessate-il-fuoco in cui è la Russia a fare da garante. Nei mesi della guerra Mansimov e Palmali hanno pubblicato sui social fotografie e messaggi di sostegno agli “eroi” azeri.

Al di là della propaganda nazionalista, però, c’è un lato economico molto più delicato nella triangolazione Azerbaijan-Mansimov-Turchia. La Compagnia petrolifera e del gas della Repubblica dell’Azerbaijan, Socar, in Turchia ha 18 miliardi di investimenti (dati del 2018), possiede una società petrolchimica, Petkim, e una raffineria, Star. Dai FinCEN Files, cita il Times of Malta, emergono operazioni sospette di una holding maltese di Petkim, con cui è stata pagata sia Palmali, sia una società petrolifera sotto sanzione negli Stati Uniti per aver trasportato prodotti petrolifera dalla Siria, aggirando l’embargo delle Nazioni unite.

Gli abbandoni dei marittimi della Palmali sono tra i più clamorosi sia per il numero di navi coinvolte, sia per l’importanza della compagnia in questione

La relazione apparentemente solidissima tra la galassia di Socar e Mansimov non si è interrotta dopo le inchieste transnazionali, né dopo le sanzioni di soggetti e aziende vicini o in affari con entrambe. È stato solo dopo il suo arresto di marzo, che l’imprenditore turco-azero ha accusato i manager di Socar di essere vicino al movimento di Gulen e la società ha contro-accusato l’imprenditore. In una lettera dell’11 febbraio 2020, postata su Instagram dopo l’incarcerazione, Mansimov si rivolgeva a Erdogan e ad alcuni dei più importanti ministri della Turchia per denunciare quello che lui definiva un complotto contro di lui. Già a dicembre 2019 sosteneva di essere stato informato dell’esistenza di un complotto contro di lui ordito da Socar insieme a un’altra società con la quale Palmali ha lavorato spesso: la russa Lukoil.

Il fronte russo

Il presidente e principale azionista di Lukoil è un altro imprenditore con doppia cittadinanza, il russo-azero Vagit Alekperov. È almeno dal 2006 che Lukoil punta sulla Turchia come uno dei principali mercati sui quali investire. Secondo Mansimov il motivo del complotto ordito da Socar e Lukoil sarebbe una crescente popolarità in Azerbaijan (non particolarmente gradita al dittatore Ilham Aliyev) e gli arbitrati internazionali irrisolti con le due compagnie petrolifere.

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Tra i più agguerriti creditori del Gruppo Palmali, in realtà, va aggiunta la banca russa Sberbank, istituto di credito sotto sanzioni statunitensi dal 2014 a seguito dell’impegno a sostenere investimenti russi in Crimea. Lo scontro giudiziario si è svolto ancora una volta a Malta, dove Sberbank nel 2019 ha fatto causa per insolvenza fraudolenta a due compagnie russe della galassia Palmali. La banca aveva prestato alle società 164 milioni di euro, mai restituiti. Prima che si concludesse la procedura arbitrale, però, Mansimov ha ceduto le quote societarie e le ipoteche delle navi messe a garanzia del prestito a un’altra società di cui è proprietario, riporta MaltaToday. Lo scopo era sostanzialmente svuotare le controllate di Palmali indebitate per evitare che i creditori potessero rivalersi. Il tribunale maltese aveva concesso un sequestro conservativo, a cui immediatamente Mansimov aveva fatto appello per difetto di giurisdizione. Ad aprile 2021 la corte maltese ha risolto la questione in favore di Sberbank.

Nel 2018 un arbitrato identico era stato aperto da Sberbank alla corte di Londra, in cui venivano chiesti a Palmali anche 24 milioni di dollari di tasse doganali mai pagate in Russia. Ad aprile 2020 Sberbank aveva ottenuto un decreto di sequestro, contro il quale Palmali due mesi dopo afferma di aver fatto appello.

Così i creditori stanno cercando di sottrarre a Palmali la propria flotta. Ci riusciranno? Forse. Una nave fermata già tre volte a Novorossiysk, porto russo sul Mar Nero, a marzo 2021 è stata fermata una quarta. Nonostante i documenti disponibili agli ispettori del porto riportasse come gestore la società turca ADMR Shipping & Trade Limited, l’equipaggio a bordo diceva di avere ricevuto l’incarico dalla Palmali.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Giulio Rubino

Foto

La nave General Shikhlinsky, Mübariz Mansimov, il Presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan/FleetMon, Palmali, Kafeinkolik

Migranti in Grecia: geopolitica, violenze e fake news

17 Aprile 2020 | di Lorenzo Bodrero, Matteo Civillini

A fine febbraio, quando Recep Tayyip Erdoğan ha rimosso il divieto di attraversamento del confine con la Grecia, si è aggiunto un nuovo drammatico capitolo alla crisi dei migranti al confine con la Turchia. Decine di migliaia di rifugiati hanno raggiunto i check point disseminati lungo gran parte della frontiera nella speranza di entrare in Europa. Gli scontri con le polizie di entrambi i Paesi hanno causato decine di feriti e almeno due morti.

A lungo il leader turco aveva minacciato una mossa simile, diventata realtà dopo l’uccisione di 33 soldati turchi durante un attacco aereo a Idlib, in Siria.

Secondo il ministro della difesa turco, come riportato dal giornale Daily Sabah, quasi 150 mila migranti sarebbero riusciti ad attraversare il confine. Alla pressione esercitata dai rifugiati, si aggiungono ulteriori preoccupazioni dal lato greco: Ekathimerini, il più importante quotidiano di Atene, cita «autorità greche» secondo le quali la Turchia avrebbe un piano per «spingere i migranti affetti da Covid-19 ad attraversare il confine».

Tutti i limiti dell’accordo Ue-Turchia

La crisi e gli scontri in corso sul confine tra Grecia e Turchia altro non sono che la pietra tombale sul già fragile e costoso tentativo, da parte dell’Unione europea, di “gestire” il flusso migratorio che dalla Siria porta in Europa.

Memore della crisi migratoria del 2015, l’anno successivo la Ue chiuse un accordo da tre miliardi di euro alla Turchia (poi diventati sei) per «dissuadere i migranti dal percorrere rotte irregolari».

L’accordo prevedeva, tra le altre cose, che i migranti già in Europa fossero distribuiti tra gli Stati membri e che per ogni rifugiato accolto nell’Unione un migrante economico facesse ritorno in Turchia. I Paesi maggiormente ostili alle politiche di accoglienza e redistribuzione in Europa , come Ungheria e Polonia, si sfilarono dall’accordo mentre la maggior parte dei rimanenti fece di tutto pur di accoglierne il meno possibile. Una percentuale irrisoria di migranti fece rientro in Turchia, mentre le partenze verso la Grecia si facevano sempre più numerose.

Quel trattato si dimostrò fragile fin da principio.

Ai limiti tecnici dell’accordo, la cui esecuzione si basa sulla volontà di Erdoğan di rispettarlo, si aggiungono quelli politici. Da allora, infatti, la Turchia si trova nel mazzo una carta da giocarsi nel momento più opportuno. Aprire il confine con la Grecia a 3,6 milioni di rifugiati (stime delle Nazioni Unite) significa tenere sotto scacco la Ue. Dal 2016 a oggi si sono moltiplicati i campi profughi e i campi di detenzione per migranti sulle isole greche orientali di Lesvos, Chios e Samos, dove si stima oltre 40 mila migranti vivano in precarie condizioni igieniche e sanitarie.

Una partita su più fronti

La decisione da parte di Erdoğan di aprire i confini con l’Europa arriva da lontano. Ciò a cui il sultano tiene maggiormente è l’esito positivo del conflitto in Siria, così da alimentare il suo progetto di “Grande Turchia” di ottomana memoria.

La partita si gioca nella parte nord-occidentale a maggioranza curda del Paese guidato da Bashar al-Assad, in quella zona-cuscinetto di cui la città di Idlib è il fulcro. È da qui che proviene la stragrande maggioranza dei rifugiati che oggi affollano il confine con la Grecia, spinti all’esodo dalle bombe turche e siriane.

Al tavolo siede anche Vladimir Putin, storico alleato del leader siriano. È lui ad aver concesso ad Ankara il territorio intorno a Idlib, in segno dei buoni ma altalenanti rapporti con Erdoğan.

Le tensioni tra i due sono però più aspre in Libia dove la Turchia sostiene il Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Sarraj, impegnato contro l’avanzata del generale Khalifa Haftar, sostenuto invece dalla Russia. In cambio del suo appoggio militare alla Libia, il sultano ha ottenuto un accordo per l’esplorazione congiunta Turchia-Libia delle acque intorno a Cipro che da un lato gli consente un ampio controllo dei flussi commerciali ma, dall’altro, aumenta le tensioni con la Grecia – storica rivale – e quindi con la Ue.

«Tutti questi fronti aperti nello stesso momento mettono la Turchia in una posizione di isolamento, dalla quale cerca di uscire solo rilanciando la posta in gioco», scrive Il Fatto Quotidiano.

Il copione turco coinvolge prima la Nato, poi l’Unione Europea. Qualora non venisse concesso il supporto contro la Siria, Ankara ha minacciato l’Alleanza atlantica, di cui fa parte, di far saltare l’accordo di difesa per Polonia e Paesi baltici contro la Russia.

Infine, incassato anche il «no» europeo al sostegno nella guerra contro il regime di Assad, e all’indomani dell’uccisione di 33 soldati turchi durante un raid aereo a Idlib, Erdogan ha calato l’asso e dichiarato aperto il confine con l’Europa.

Tensioni al confine, morti e falsa propaganda

Del trasporto di decine di migliaia di persone dai campi profughi dell’entroterra turco verso la Grecia se ne fanno carico direttamente le autorità turche. Le stesse che, prima di riempire pullman offerti gratuitamente, alimentavano false speranze nei confronti dei migranti, affermando che il passaggio verso l’Europa fosse finalmente libero. Tutt’altro.

La Grecia ha infatti blindato i propri confini il 28 febbraio, il giorno dopo il “via libera” di Erdoğan. Esercito e forze speciali elleniche dispiegate lungo il confine hanno bloccato migliaia di migranti utilizzando lacrimogeni e armi caricate a salve. Secondo Amnesty International sarebbero almeno due le vittime tra i rifugiati durante gli scontri della prima settimana di marzo avvenuti lungo il fiume Evros.

Intanto, la propaganda di destra ha colto l’occasione per alimentare politiche anti-immigrazione. Il trucco è semplice: sfruttare il malcontento verso i migranti e gli scontri per diffondere falsa informazione.

Ne è un esempio un tweet lanciato dalla nota troll americana Amy Wek.

Utilizzando le immagini registrate durante gli scontri avvenuti presso la città di Pazarkule, sponda turca, tra polizia e migranti dove una bambina è sospesa dai genitori sopra del fumo, afferma che i rifugiati non sono altro che «soldati invasori» e che fanno piangere i bambini deliberatamente e in favore di telecamera, così da accaparrarsi le simpatie dei cittadini europei per entrare in Europa.

Un tweet che è stato visualizzato più di 750 mila volte e che è stato poi rilanciato da diversi partiti europei e siti web di destra.

Una ricerca di Borders Newsroom, un’iniziativa di Lighthouse Reports, e della piattaforma Pointer e condotta con la tecnica di reverse engineering, dimostra però la natura propagandistica del tweet (il video è disponibile con sottotitoli in italiano, nda).

L’analisi mostra infatti che i migranti immortalati nel video sono stati bersaglio di gas lacrimogeni sia da parte della polizia greca sia di quella turca e che la bambina viene sì deliberatamente esposta al fumo di brace rovente ma come un modo per attenuare gli effetti dei lacrimogeni.

La “tolleranza zero” dell’Europa

Con l’arrivo in Europa, soprattutto in Germania, di circa un milione di rifugiati nel 2015 a seguito della guerra in Siria, l’Unione europea ha visto un radicale cambio di direzione prendere forma al suo interno sul tema accoglienza.

Dall’accordo del 2016 alle politiche della “tolleranza zero” in Paesi come Ungheria e Polonia, passando per il blocco dei porti nel Mediterraneo e l’ostilità verso le navi delle Ong, fino al blocco dei confini messo in atto dalla Grecia.

È un ribaltamento senza precedenti della storia politica del Vecchio continente in materia di migranti, legittimato, infine, dalle parole di Ursula Van Der Leyen: «Grazie alla Grecia per essere il nostro scudo», ha detto la presidente della Commissione europea lo scorso 4 marzo in visita alla città di Kastanies, sulla frontiera di terra greco-turca. Aggiungendo: «Chi cerca di mettere alla prova l’unità dell’Europa resterà deluso. Manterremo la linea e la nostra unità prevarrà».

Il piano annunciato dalla Van Der Leyen prevede il dispiegamento di 100 guardie di frontiera da affiancare a quelle greche, l’invio di 700 milioni di euro per aiuti umanitari e l’arrivo di navi, aerei ed elicotteri da utilizzare via acqua e via terra.

Il nuovo corso europeo è al centro delle critiche di molte organizzazioni umanitarie. Amnesty International ha definito «inumani» i provvedimenti della Grecia, non da ultimo quello di sospendere le richieste di asilo a partire dal 1 marzo. Secondo Emergency «è ora che l’Europa cambi rotta: o mette il rispetto dei diritti umani come base irrinunciabile del suo agire o sarà definitivamente morta. Non ci sono più scorciatoie possibili».

Foto: un momento degli scontri tra migranti e polizia greca presso Pazarkule, città di frontiera con la Turchia – deepspace/Shutterstock

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