Di vita e di guerra: le vittime invisibili

14 Luglio 2023 | di Eleonora Vio

Aoltre 500 giorni dall’inizio dell’aggressione russa su larga scala la fine della guerra è ancora un’incognita lontana. Per noi è arrivato, però, il momento di guardarsi indietro, per provare a capire le cause, e le conseguenze a lungo termine, di un conflitto mondiale che, in alcune aree dell’Ucraina, si protrae ormai da nove anni.

Cos’hanno in comune la distruzione e il saccheggio del patrimonio artistico e gli irreparabili danni ambientali commessi dall’esercito russo? Chi sono i difensori dell’identità culturale e territoriale ucraina trascurata per troppo tempo?

Anche se apparentemente lontani, gli attacchi deliberati contro l’arte e contro l’ambiente rientrano tra i crimini di guerra puniti internazionalmente e – sebbene la strada da fare sia ancora lunga – in tanti si stanno adoperando per difenderli e documentarli.

Di vita e di guerra: le vittime invisibili è un podcast di reportage e analisi, ma anche un viaggio intimo e personale intrapreso dalla giornalista Eleonora Vio che, muovendosi lentamente a bordo di un treno da est a ovest, presenta i lati poco raccontati della guerra più mediatica di sempre. Così facendo, si sofferma sulle storie e i punti di vista dei protagonisti di quella che è, a tutti gli effetti, una duplice lotta per la giustizia.

Ep. 1 – Il risveglio dell’identità ucraina

L’invasione del 24 febbraio 2022 è stata innescata da una premessa fondamentale: secondo Putin l’identità culturale ucraina non esiste, se non come parte integrante di quella russa. Ma il giorno che avrebbe dovuto segnare il tracollo dell’Ucraina ha finito per coincidere con il suo improvviso risveglio culturale. Chi da anni sta spingendo e lavorando per questo cambio di narrativa sono persone come Yulia Vaganova e Tetyana Pylypchuk, le direttrici, rispettivamente, del Museo Khanenko di Kyiv e del Museo Letterario di Kharkiv.

Ascolta su SpreakerSpotify

Ep. 2 – Storie di coraggio

Nonostante la guerra nell’est dell’Ucraina continuasse da otto anni e l’allarme di un’aggressione su larga scala fosse stato lanciato da tempo, il ministero della Cultura si è trovato impreparato di fronte alla brutalità e all’efferatezza dell’esercito russo. Per evitare la catastrofe, nella creazione di una vasta rete emergenziale per l’evacuazione e la salvaguardia del patrimonio artistico del Paese è stato fondamentale il ruolo di attori informali, come Milena Chornyi e Ihor Poshyvailo.

Ma se tante collezioni non sono andate perse o distrutte, il merito è anche di personaggi meno noti, come Marina Rhizenko, la guardiana del caveau del Museo regionale di Chernihiv, e Serhii Layevski, direttore del vicino Museo artistico.

Ascolta su SpreakerSpotify

Ep. 3 – La guerra contro l’ambiente

Non c’è dubbio che la guerra contro l’Ucraina prima di tutto sia una catastrofe umanitaria, ma – al pari di tante altre – si sta anche rivelando un disastro irreparabile per l’ambiente. Se, da un lato, l’ecosistema ucraino rischia di non essere più adatto alla vita di milioni di persone, dall’altro, la sua distruzione altro non è che l’ennesimo furto, e crimine, nei confronti di questo popolo. I terreni agricoli ucraini si sono trasformati in campi della morte; le foreste, se non sono state date alle fiamme, sono diventate nascondigli per le fosse comuni, e gli specchi d’acqua contaminati dal primo all’ultimo. Per non parlare della minaccia costante proveniente dalla Centrale nucleare di Energodar, fuori Zaporizhzhya.

Ne parliamo insieme a Kateryna Polyanska, giovane ricercatrice dell’organizzazione Environment People Law, a Viktor Karamuschka, capo del dipartimento di studi ambientali dell’Università nazionale of Kyiv-Mohyla Academy, e a Mycle Schneider, esperto di politiche nucleari.

Ascolta su Spreaker e Spotify

Ep. 4 – Un disastro difficile da misurare

Calcolare i danni ambientali sull’intero territorio ucraino con la guerra ancora in corso è già di per sé una missione impossibile. Se poi si considera che larga parte dei territori occupati, e poi liberati dall’esercito ucraino, sono stati minati dai russi prima di andarsene, ci potrebbero volere anni prima di avere un’idea precisa del disastro reale.

Per il momento, dei 50 miliardi di euro di danni stimati, i più evidenti sono quelli che interessano la contaminazione del suolo per via dei continui bombardamenti e dell’impressionante volume di scarti industriali e di mezzi militari distrutti e abbandonati ovunque. In questa puntata viaggeremo nella regione di Kharkiv, per seguire sul campo le analisi e i rilevamenti condotti dall’Ispettorato statale dell’ambiente.

Ascolta su Spreaker e Spotify

Ep. 5 – Il Donbass che non ti aspetti

Fabbriche e conflitto: la fama del Donbass è quella di un’estesa area industriale inquinata, devastata dalle divisioni etniche, dalla povertà e dalle violenze di una guerra che dura da oltre nove anni. Ma in pochi sanno che il Donbass racchiude anche una sua scena culturale ed è in questo episodio, grazie a tre personaggi diversissimi tra loro, che approfondiremo quest’altro mondo sommerso. Arif Bagirov è un ex media manager e coordinatore di tante evacuazioni da Severodonetsk; Rita Nikolaeva è la direttrice del Museo regionale di Kostantinovka, vicino a Bakhmut; e Vyacheslav Gutyrya è un artista eccezionale e un personaggio bizzarro, del tutto fuori dall’ordinario.

Ascolta su Spreaker e Spotify

Ep. 6 – La guerra dell’acqua e delle Montagne Sacre

Il viaggio attraverso il Donbass continua. Lasciate temporaneamente da parte l’arte e la cultura, stavolta affrontiamo come l’ambiente e la natura di questa regione martoriata siano in gravissimo pericolo a causa della guerra. Enormi danni sono già avvenuti e altri rischiano di avvenire, con conseguenze che già ora si estendono ben oltre l’area del Donbass.I tanti siti industriali, miniere e industrie chimiche disseminati per la regione erano già sull’orlo del collasso ecologico prima dei bombardamenti. Oggi è quasi impossibile sapere quanto profondo sia il danno aggiuntivo portato dalla guerra su vasta scala. Certo è che tonnellate di acque inquinate sono uscite dai siti di stoccaggio e le antiche foreste primordiali che erano l’unico polmone verde del Donbass sono state date alle fiamme e poi disseminate di mine.

Ascolta su Spreaker e Spotify

Ep. 7 – A caccia di opere trafugate

La protezione del patrimonio culturale e artistico dell’Ucraina passa inevitabilmente anche per la lotta al saccheggio e al traffico illecito di reperti archeologici e opere d’arte, un mercato sommerso e oscuro che è molto florido sia in Russia sia in Occidente.Gli oggetti preziosi saccheggiati durante l’invasione, infatti, stanno venendo trafugati sia verso est che verso ovest, e seguirne le tracce, in un ambiente che ha sempre protetto e favorito il riciclaggio di denaro sporco, non è per niente semplice. In questa puntata ne parliamo con Sam Hardy, criminologo inglese esperto di conflict antiquities, che racconta di come forze di invasione, criminalità organizzata e protezioni politiche si mescolino per favorire collezionisti senza scrupoli in tutto il mondo.

Ascolta su Spreaker e Spotify

Ep. 8 – Crimini di guerra

«C’è poco da dire: questa è una guerra culturale. È una guerra per distruggere la nostra identità». Sono parole di Mariia Zadorozhna, di HERI (Heritage Emergency Response Initiative), organizzazione che, affianco ai Monuments Men del sergente-avvocato Vitaliy Tytych, sta cercando di raccogliere le prove che possano inchiodare la Russia ai crimini che sta compiendo in questa guerra di fronte a un tribunale internazionale.

Nell’ultimo episodio di questa stagione di Di Vita e Di Guerra cerchiamo di fare il punto di tutto quello che abbiamo ascoltato fino a qui. Tanto i crimini contro l’ambiente quanto quelli contro la cultura e l’identità ucraina sono molto difficili da quantificare però, e nonostante lo straordinario lavoro di Olga Zabramma, Mariia, Vitalii e tanti altri sarà molto difficile non solo fare in modo che tali crimini vengano riconosciuti, ma soprattutto far sì che la Russia ripaghi l’Ucraina dei danni causati dall’invasione.

Ascolta su Spreaker e Spotify

Di vita e di guerra è un podcast di IrpiMedia
Diretto da Angelo Miotto
Cura editoriale: Giulio Rubino
Prodotto, montato e sonorizzato da Riccardo Cocozza
Doppiaggio: Stefano Starna, Vanina Marini, Emily Moretti, Claudia Gatti
Musiche: Riccardo Cocozza, Yurii Gurzhy
Fotografie: Patrick Tombola
Local producer/Fixer: Illya Lukash, Yurii Larin, Tymofii Yefimov
Traduzioni: Caterina Dell’Asta Zakharova, Iryna Kolomychuk

 

La geopolitica del grano, dopo l’invasione dell’Ucraina

25 Novembre 2022 | di Vlad Odobescu

Per un agricoltore con 1.400 ettari di coltivazioni, le giornate di lavoro sono pesanti. Eppure, la domenica, Nicolae Sofrone per rilassarsi va comunque a visitare i suoi campi. Settantatré anni, parlantina sciolta, è sopravvissuto alla caduta delle ideologie in Romania. Ha vissuto la collettivizzazione delle fattorie e il razionamento dei beni di prima necessità imposto dal regime di Nicolae Ceaușescu negli anni Ottanta. Dopo la rivoluzione del 1989 ha costruito le sue imprese agricole, un passo alla volta, sulle rovine del totalitarismo.

I suoi appezzamenti si trovano nel sud-est della Romania. La terra è nera come Nero è il Mar che bagna quella zona. È ricca di humus, fosforo e ammoniaca, perfetta per far crescere grano, mais e orzo. Per Sofrone è un piacere camminare tra questi campi, soprattutto in una tranquilla giornata estiva, prima del raccolto.

Il progetto I Signori del grano

I Signori del grano è una serie sul divario crescente tra Stati ricchi e poveri nella disponibilità di risorse agricole scatenato dalla guerra in Ucraina. La serie è realizzata in collaborazione con Scena9 e NOW, grazie al sostegno di JournalismFund.

Quando l’agricoltore sale in macchina per rientrare a casa, però, la sua mente torna ad affollarsi delle preoccupazioni di tutti i giorni: quali saranno i prezzi del grano quest’anno? Quanto costeranno domani il gasolio e i fertilizzanti? Come affrontare un’altra siccità? Quest’anno è soddisfatto della qualità del raccolto, ma l’aumento dei costi di produzione impone di venderlo a un prezzo alto: rispetto allo scorso anno, il carburante si paga il doppio, i fertilizzanti quattro volte tanto. Per ora Soforone non è in perdita, ma chi può sapere quali sfide porterà il prossimo anno? Gli stessi dilemmi che affliggono i tavoli più importanti della politica internazionale – dai cambiamenti climatici, ai prezzi dell’energia, alle guerre – pesano anche qui, nei campi vicino alla foce del Danubio.

A causa dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, i prezzi del grano sono aumentati e gli agricoltori rumeni come Nicolae Sofrone hanno aumentato le vendite, ma hanno sofferto per l’aumento dei costi del carburante e dei fertilizzanti – Foto: Ioana Cîrlig

«La guerra ci ha avvantaggiato»

L’invasione russa dell’Ucraina si porta dietro conseguenze ancora difficili da immaginare per il mercato mondiale dei cereali. «Fino a quest’anno – spiega Sofrone – i prezzi del grano erano molto bassi, perché erano fissati da russi e ucraini». La guerra ha cambiato tutto: al netto del dolore che prova per i morti innocenti di questo conflitto, l’agricoltore rumeno riconosce che «in un certo senso la situazione ci ha avvantaggiato: i prezzi, infatti, sono aumentati. I russi hanno smesso di esportare [a causa delle sanzioni] e gli ucraini non sono più in grado di farlo». Il contadino, a pochi giorni dalla fine del raccolto, confessa che terrà il grado in magazzino, in attesa del momento migliore per venderlo sul mercato.

Un nuovo attore globale nel mercato del grano

Ucraina e Romania sono due Paesi produttori di cereali che condividono sia la stessa terra fertile, sia le stesse rotte per le esportazioni. Vendono i loro prodotti agli stessi mercati. L’invasione subita dalla Russia ha azzerato la capacità dell’Ucraina commerciare e raccogliere grano, trasformando la Romania – forte della sua stabilità politico-economica dettata dall’adesione a Nato e Ue – da esportatore di medie dimensioni in un attore di primo piano sullo scacchiere geopolitico dei cereali. Fra gennaio e aprile 2022 le esportazioni sono infatti cresciute del 41,6% rispetto al primo quadrimestre del 2021. Anche l’Italia ha comprato di più: il valore tendenziale dell’import dalla Romania indica per il frumento una crescita del 719%, per il grano del 48%. La percentuale sul totale è ancora bassa, ma indica comunque un cambiamento.

Nel 2021, la Romania è stata il quarto produttore di grano dell’Ue, dopo Francia, Germania e Polonia. Le 6,3 milioni di tonnellate esportate dalla Romania rappresentavano circa il 25% delle esportazioni dell’UE nella stagione precedente, secondo i dati pubblicati dalla Commissione europea.

All’inizio dell’anno le preoccupazioni suscitate dal conflitto in Ucraina hanno spinto alcuni Paesi della regione, come Ungheria e Bulgaria, a limitare le esportazioni di cereali. La Romania, al contrario, ha deciso di continuare a vendere.

Nel 2021, la Romania ha raccolto 11,3 milioni di tonnellate di grano, il risultato migliore da quando il Paese è diventato membro dell’Unione europea, nel 2007. Quest’anno il successo non si ripeterà. Secondo le prime stime, quest’estate la Romania avrebbe infatti prodotto 9,3 milioni di tonnellate di grano, a causa della forte siccità. Abbastanza per pensare comunque di esportare: il consumo interno si aggira intorno ai 3,5-4 milioni di tonnellate, afferma Gabriel Razi, analista del mercato agricolo e stima quindi che la Romania abbia circa 5,2 milioni di tonnellate da vendere all’estero. La cifra è tuttavia un quarto rispetto alle 20 milioni di tonnellate esportate l’anno scorso.

La ferrovia in disuso

La Romania, per l’Ucraina, non è solo un concorrente. In questo nuovo contesto geopolitico, è anche la porta d’uscita dei cereali ucraini verso il mercato globale. Svolge il ruolo di facilitatore per le esportazioni. Lungo il confine terrestre di 650 chilometri che divide i due Paesi, non ci sono mai stati grandi scambi commerciali dalla caduta dell’Unione sovietica in avanti. Il motivo principale è un’infrastruttura inadeguata per il trasporto su strada e su rotaia. Nemmeno le rotte marittime erano molto impiegate prima del conflitto provocato dalla Russia a febbraio 2022. La guerra ha imposto all’Ucraina un radicale cambio nella gestione della logistica.

«L’intero sistema ucraino di trasporto dei cereali è progettato per portare le merci dai luoghi di produzione, nel centro, nell’est e nell’ovest dell’Ucraina, ai porti sul Mar Nero», continua l’analista Razi. Solo che a maggio le forze russe hanno bloccato i porti dell’Ucraina, costringendo le merci a cercare altre vie per poter uscire. Il porto fluviale di Galați, città rumena sul Danubio che dista pochi chilometri da Moldavia e Ucraina, è diventato così un’alternativa. All’inizio, i treni ucraini passavano per la Moldavia e scaricavano le merci su chiatte, in modo che i cereali potessero prima raggiungere il Mar Nero e poi arrivare alle altre destinazioni, più a sud.

C’era però un problema: lo scartamento ferroviario impiegato in Moldavia e Ucraina, risalente ancora all’epoca sovietica, è più largo di quello che c’è in Romania e nel resto dell’Europa. Questo rendeva obbligatorio lo scarico della merce prima dell’arrivo al confine con la Romania. Per aggirare l’ostacolo, le autorità ferroviarie rumene hanno ricostruito una linea a scartamento largo dal confine con la Moldavia al porto danubiano di Galați, un percorso in disuso 22 anni.

Corsa al raccolto: da febbraio a fine ottobre 2022, 5,7 milioni di tonnellate di grano ucraino sono state trasportate attraverso Constanza – Foto: Ioana Cîrlig

Costanza, la guerra del grano sul Mar Nero

Nell’ultimo decennio il porto di Costanza, il più grande sul Mar Nero, è stato utilizzato per il flusso di merci provenienti o in partenza verso i Paesi dell’Europa centrale e orientale. Durante la precedente stagione agricola, circa 25 milioni di tonnellate di grano sono partite da Constanza. Quest’anno, il porto è diventato un punto di riferimento per le autorità rumene ed europee.

A metà luglio, momento della visita dei giornalisti, circa 700 mila tonnellate di grano erano già state lavorate e altre 400 mila erano stoccate nei silos. Camion ucraini incolonnati in file interminabili erano in attesa di arrivare ai depositi. L’area era in piena trasformazione per cercare di adattarsi ai nuovi volumi di merce. Dopo aver liberato la ferrovia dai vagoni arrugginiti, gli operai stavano riparando alcuni binari che portano sempre ai magazzini. Sopra, un ponte veniva riparato. Altrove, si stava costruendo un parcheggio per camion.

Da Ravenna alla contea di Timis

L’azienda italiana nell’elenco dei principali beneficiari di sussidi europei in Romania è la Emiliana West Rom. Il proprietario si chiama Luciano Martini, classe 1938. Martini è anche a capo di Unigrà, società del ravennate che opera nel settore della trasformazione e vendita di oli e grassi alimentari (producendo il 40% del suo fatturato da attività all’estero). Nel 2020 è stato nominato Cavaliere del Lavoro da Sergio Mattarella. Emiliana West Rom è in Romania dal 2000 e da anni è tra i maggiori beneficiari di fondi della Politica Agricola Comune UE in Romania, come già raccontava Osservatorio Balcani e Caucaso nel 2016.

«Proprio mentre l’Ucraina è in guerra e le vengono fornite armi, il porto di Constanza è in guerra commerciale – spiega Florin Goidea, all’epoca direttore del porto – e abbiamo bisogno di fondi». La riparazione delle linee ferroviarie era di vitale importanza per poter lavorare i cereali supplementari e allentare la pressione sulle strade di accesso. Dall’inizio della guerra fino alla fine di ottobre, 5,7 milioni di tonnellate di grano dall’Ucraina sono state trasportate attraverso il porto di Constanza.

Treni in soccorso: il ripristino della linea ferroviaria verso i silos nel porto di Costanza è iniziato nel giugno 2022 ed è costato oltre 30 milioni di euro – Foto: Ioana Cîrlig

L’accordo sul grano tra Russia e Ucraina, firmato a luglio e rinnovato a novembre per altri quattro mesi, ha permesso il passaggio di importanti volumi attraverso il Mar Nero ma sembra ancora fragile. La Russia si lamenta ripetutamente per il modo in cui viene attuato, sostenendo che i cereali raggiungono i Paesi occidentali invece di quelli più poveri in Africa o Medio Oriente. In questo contesto, i governi francese e rumeno hanno firmato un accordo che consente a un maggior numero di esportazioni di cereali dall’Ucraina di raggiungere l’Europa e oltre.

Esportare conviene

A Topraisar, piccolo Comune a pochi chilometri da Constanza, si trova la sede della Cooperativa Dobrogea Sud, cooperativa di agricoltori che prenda il nome della regione in cui si trova. Conta 52 membri e un totale di 19.500 ettari di terreni coltivabili. Solitamente, circa il 60% del raccolto viene destinato all’esportazione. Quest’anno, tuttavia, una quantità molto maggiore è stata inviata ai magazzini del porto. Il passaggio del grano ucraino ha reso più difficile il normale flusso di merci. «Avevamo previsto il blocco [del porto], quindi il grano è stato immagazzinato», afferma Ionuț Lungoci, amministratore delegato di Dobrogea Sud.

Pascoli nuovi: Ionuț Lungoci preferisce esportare la sua produzione alle vendite sul mercato interno, perché i clienti stranieri pagano puntualmente – Foto: Ioana Cîrlig

Nicolae Sofrone, anch’egli membro della cooperativa, conserva 3.600 tonnellate nel proprio deposito e immagazzina il resto del raccolto insieme ad alcuni soci. Nel frattempo, Ionuț Lungoci cerca di capire il momento migliore per la vendita. «In altri Paesi, il 50% della produzione viene venduto subito dopo il raccolto – racconta – ma gli agricoltori hanno anche un prezzo minimo garantito». Per ora sa che la maggior parte della produzione, se non tutta, sarà destinata all’esportazione. Questo perché otterrà un trattamento migliore dagli acquirenti all’estero, dal momento che lo Stato rumeno non gli offre alcun vantaggio, come ad esempio le sovvenzioni, per vendere in patria o a chi lavora il prodotto – i trasformatori del grano – nel mercato locale. «Per di più il trasformatore rumeno non paga in 24 ore – dice Lungoci -ma la multinazionale sì».

Se la Romania vuole conservare una quantità maggiore di prodotto, deve aiutare gli agricoltori e i produttori alimentari locali, afferma Lungoci. La crisi ucraina ha evidenziato molti di questi problemi e ha trasformato la Romania da Paese produttore di medio livello a hub strategico per l’intera regione. Si tratta solo di un cambiamento temporaneo o sarà duraturo?

Nuovi ruoli per vecchi magazzini: i magazzini Anghel Saligny nel porto di Constanza sono stati costruiti all’inizio del XX secolo e hanno una capacità di 30mila tonnellate ciascuno – Foto: Ioana Cîrlig
La guerra ha anche mostrato un’opportunità per lo sviluppo di nuove industrie tra Ucraina e Romania, sostiene Gabriel Razi. «L’Ucraina è ricca di beni a cui non abbiamo avuto accesso finora e potremmo invece sviluppare molte cose – afferma – come ad esempio un’industria dell’etanolo e lo sviluppo della zootecnia basata sull’enorme eccedenza di mais in Ucraina [per i mangimi]». Se la Romania riuscirà a trovare il suo ruolo strategico, potrebbe diventare un grande centro industriale per la lavorazione primaria dei cereali ucraini. «Penso – conclude Razi – che vedremo un flusso di merci a lungo termine dall’Ucraina».

Foto di copertina: Una nave per il trasporto di grano nel porto di Costanza a giugno 2022 – Ioana Cîrlig
Traduzione e adattamento: Paolo Riva
Editing: Lorenzo Bagnoli
Con il supporto di: Journalismfund.eu

L’Ucraina, gli anarchici e la guerra

19 Agosto 2022 | di Dario Nincheri

Il primo marzo del 2022, un contatto straniero mi ha messo a conoscenza via Telegram dell’attivazione di una rete di reclutamento per anarchici europei disposti ad andare a combattere in Ucraina. L’ultima volta che degli anarchici presero parte a una guerra sul suolo europeo fu nel 1936: quell’estate i primi anarchici italiani arrivarono a Barcellona, per aiutare gli spagnoli a proteggere la Repubblica e i suoi valori dall’assalto dei fascisti di Franco. Quei volontari diedero vita a un’esperienza tanto importante quanto evocativa, a cui parteciparono personaggi iconici della cultura europea del Novecento, da George Orwell a Ernest Hemingway, passando per i fotografi Robert Capa e Gerda Taro (che durante quella guerra morì).

La storia non si fa attraverso paragoni azzardati, l’Ucraina del 2022 non è la Spagna del 1936. Ciononostante una componente antiautoritaria e dichiaratamente anarchica è indubbiamente presente nella vasta compagine dell’autodifesa del Paese (in inglese Territorial Defense Forces, Tdf, ndr). Per quanto non si conoscano esattamente i modi di reclutamento e le stime parlino di circa 150 volontari effettivamente partiti, il solo fatto che, nel cuore dell’Europa, ci sia qualcuno disposto ad arruolarsi sotto le insegne rosse e nere dell’anarchia, costituisce un fatto di indubbio interesse.

Di vita e di guerra, il podcast sulla guerra in Ucraina di IrpiMedia

Dal 12 agosto è disponibile il podcast di Eleonora Vio sul conflitto in Ucraina, Di vita e di guerra. Nelle due puntate del 19 agosto ci si concentra sulle forze territoriali di difesa, in particolare esplorando i loro collegamenti con l’estrema destra.

Gli anarchici alla guerra, una storia riluttante

Anarchismo e difesa dei confini e dello status quo democratico sono compatibili? Secondo il pensiero anarchico, il concetto di patria da difendere è inaccettabile, l’ordinamento democratico capitalista è indifendibile e l’antimilitarismo è una pratica fondante. Tuttavia la Guerra civile spagnola ha segnato un precedente nella storia dell’anarchismo, anche se novant’anni fa la situazione al di là dei Pirenei era decisamente inconsueta: «Sono stato settantacinque giorni in trincea con gli anarchici. Li ammiro. Gli anarchici catalani sono una delle avanguardie eroiche della rivoluzione occidentale. È nato con essi un nuovo mondo che è bello servire», scriveva Carlo Rosselli in una corrispondenza per Giustizia e Libertà il 6 novembre 1936, descrivendo una situazione politicamente inedita per l’Europa continentale.

Un bot (da robot, in questo contesto inteso come un programma che esegue azioni automatiche e ripetitive) su Telegram per il reclutamento di anarchici nel conflitto in Ucraina.

Un bot (da robot, in questo contesto inteso come un programma che esegue azioni automatiche e ripetitive) su Telegram per il reclutamento di anarchici nel conflitto in Ucraina

Dopo la temporanea sconfitta delle forze golpiste di Franco, infatti, la Confederazione nazionale del lavoro (l’organizzazione anarco-sindacalista, Cnt) e la Federazione anarchica iberica rifiutarono di assumere il potere che il presidente della Generalitat, il governo catalano, gli offrì, preferendo organizzare un fronte antifascista popolare incaricato di svolgere le funzioni di polizia ed esercito. I lavoratori, inoltre, requisirono spontaneamente le imprese e, influenzati dalle idee libertarie, procedettero alla collettivizzazione e alla gestione diretta delle fabbriche, dando vita a quello che George Orwell definì «uno stato di cose che mi appariva di colpo come qualcosa per cui valesse la pena combattere».

Fu per difendere quel sogno che partirono molti degli anarchici europei, un sogno lontano nel tempo e nello spazio che, al giorno d’oggi, non pare materializzarsi in nessun luogo d’Europa.

Il contributo anarchico alla guerra civile spagnola

Durante le prime fasi della guerra civile spagnola, a Barcellona, furono i militanti anarchici ad avere ragione della ribellione militare franchista. Organizzati nel loro sindacato, la Cnt (Confederacion National del Trabajo), diedero in quel frangente vita a un vasto movimento tendente alla collettivizzazione dei mezzi di produzione e all’edificazione, su quella base, di una nuova economia e di una nuova società.
Allo scoppio della guerra la Catalogna era una delle zone più industrializzate della Spagna e, tra i suoi lavoratori, erano forti le idee di ispirazione libertaria, trapiantate dai contadini dell’Andalusia e della Murcia che lì si erano spostati per lavorare, tanto che la stragrande maggioranza degli operai sindacalizzati aderiva alla Cnt.

Dopo aver cacciato i franchisti, forti della vittoria, gli anarchici occuparono in breve tempo la maggioranza delle fabbriche (18 mila in tutto il Paese di cui tremila solo a Barcellona), senza che le autorità fossero in grado di opporsi. Tra i loro obiettivi c’era anche quello di dimostrare l’efficienza e la funzionalità del sistema libertario di organizzazione del lavoro, perciò, anche per difendere ciò che avevano ottenuto, parteciparono al governo autonomo Catalano con una larga rappresentanza.

Nel frattempo, nelle campagne, la collettivizzazione delle terre procedeva a ritmo anche più serrato. Persino i contadini, che in massa si erano opposti al golpe sostenuto qui anche dalla Guardia civil, erano infatti per la maggioranza inquadrati nella Cnt.
In Catalogna era quindi in atto una vera e propria rivoluzione, calamita per gli anarchici di tutta Europa. Un’esperienza che però fallì e non soltanto per la vittoria finale della guerra civile che fu di Franco, ma anche, o forse soprattutto, per i contrasti interni al Fronte popolare spagnolo. I Repubblicani democratici e i comunisti, che erano appoggiati dall’Unione sovietica, si opponevano, infatti, all’unificazione tra la lotta di resistenza a Franco e una rivoluzione sociale che non volevano. Con il progredire della guerra, il governo e i comunisti furono in grado di fare leva sul loro accesso alle armi sovietiche per ripristinare il controllo politico e per tentare di obbligare le milizie anarchiche a inquadrarsi all’interno dell’esercito regolare. I contrasti esplosero durante le giornate di maggio del 1937, quando i comunisti cercano di conquistare militarmente il controllo degli edifici pubblici di Barcellona, difesi dagli anarchici, arrestandone e fucilandone i dirigenti.

Per questo la galassia antagonista europea si domanda come fanno gli anarchici a muoversi in un contesto dove ci sono altre milizie irregolari, anche con simpatie fasciste come il Battaglione di Azov. La domanda è frutto della tendenza contemporanea all’uniformazione del tutto a una sua parte, pratica tossica madre di ogni luogo comune. Per eluderla bisogna partire da alcuni fatti. Come in tutti gli Stati europei, gruppi di estrema destra sono presenti nel panorama politico ucraino e, nonostante una scarsa rappresentanza parlamentare, essi hanno avuto un ruolo importante durante le rivolte di Euromaidan.

Alcuni di questi gruppi si sono trasformati in milizie paramilitari più o meno tollerate dalle istituzioni, con tutto il bagaglio di responsabilità politiche che questo comporta. Sono responsabilità che ricadono sul governo e sulla contingenza, non sulla generalità del Paese: combattere in Ucraina non vuol dire combattere a fianco dei fascisti. Inoltre, l’eco sproporzionato che si continua a dare a queste bande rischia di essere niente di più che una grossa cassa di risonanza per gruppi marginali che, solitamente, fanno della propria sovra rappresentazione un cardine importante di propaganda.

Il legame storico tra gli anarchici e l’Ucraina

Quando si affronta l’importanza del passato nella formazione di parte del moderno pensiero politico ucraino – sia in patria che all’estero – si fa un gran parlare di Stepan Bandera e dei suoi partigiani filonazisti. Pochi però ricordano che Huljajpole’, cittadina non lontano da Mariupol, è il luogo del mondo che, nel 1889, ha dato i natali a Nestor Makhno, figura storica dell’anarchismo mondiale e padre della Machnovščina, primo tentativo d’applicazione su larga scala dei principi dell’autogoverno anarchico.

L’Ucraina era allora un Paese a maggioranza contadina, con una abnorme sproporzione nella concentrazione del potere. In quel contesto Makhno espropriò i latifondi ai grandi proprietari terrieri e li diede in autogestione ai braccianti, organizzandoli secondo i principi dell’anarco-comunismo. Il sistema, avverso a qualsiasi forma di autorità costituita, ebbe una forte eco internazionale, prima di essere percepito come una minaccia dai bolscevichi che ebbero un ruolo importante nella sua distruzione.

La storia della Machnovščina, la storia di Stepan Bandera

L’area controllata dalle bande rivoluzionarie anarchiche della Machnovščina tra il 1918 e il 1921 copriva una regione popolata da sette milioni di abitanti in un’area di 280 km di profondità per 250 di larghezza. L’estremità meridionale toccava il mare di Azov, raggiungendo il porto di Berdiansk e la sua capitale era Gulyai-Polyé, un grosso borgo di 20-30 mila abitanti.

Per la prima volta nella storia, in Ucraina, i principi del comunismo libertario furono applicati sul terreno. Le terre disputate agli antichi proprietari terrieri furono coltivate in comune dai contadini, raggruppati in comuni o liberi soviet di lavoro dove i principi di fratellanza e di uguaglianza dovevano essere rispettati. Tutti, uomini e donne, dovevano lavorare secondo le loro forze e i cittadini eletti alle funzioni di gestione amministrativa agivano a titolo temporaneo e poi riprendevano il loro lavoro abituale a fianco degli altri membri della comunità.

Quando i partigiani machnovisti penetravano in una località, affiggevano dei manifesti, in cui si poteva leggere: «La libertà dei contadini e degli operai appartiene a loro stessi e non può subire restrizione alcuna. Tocca ai contadini e agli operai stessi agire, organizzarsi, intendersi fra di loro, in tutti i campi della loro vita, come essi stessi ritengono e desiderano (…). I machnovisti possono solo aiutarli dando loro questo o quel parere o consiglio (…). Ma non possono, e non vogliono, in nessun caso, governarli».

Machno rifiutò sempre di porre la sua armata sotto il comando supremo di Lev Trotsky, capo dell’Armata Rossa, dopo la fusione in quest’ultima delle unità di guardie rosse. I contrasti con i sovietici aumentarono fino a che, alla fine di novembre del 1920, gli ufficiali dell’esercito machnovista di Crimea furono invitati dai bolscevichi a partecipare a un consiglio militare che, in realtà, era un agguato. Mentre loro venivano arrestati dalla polizia politica e fucilati un’offensiva in piena regola veniva lanciata contro Gulyai-Polyé, che cadde dopo nove mesi.

Stepan Bandera è considerato in Ucraina un patriota della Seconda guerra mondiale, ma è anche un criminale di guerra accusato di essere filonazista e corresponsabile dello sterminio di polacchi ed ebrei.

A capo del movimento nazionalista ucraino Oun, Bandera combatté prima contro i polacchi, poi contro l’Armata rossa al fianco dei nazisti e, alla fine, contro gli stessi tedeschi finendo anche nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Ma come poteva combattere contro i tedeschi se era un filonazista? chiedono in maniera retorica i suoi difensori a oltranza.

Il personaggio, in realtà, era più che controverso. Il nazionalismo fu il suo faro più potente, alleato con i tedeschi per combattere l’Armata rossa non esitò a rivoltarsi contro i nazisti quando questi divennero un ostacolo per l’indipendenza della nazione, così come i suoi uomini non esitarono a portare avanti una pianificata pulizia etnica in Galizia e Volinia uccidendo più di 50 mila polacchi. Accecati dall’unico obiettivo della causa nazionale lui e i suoi partigiani non ebbero remore ad accondiscendere l’alleato di turno, tanto che sono accusati di aver contribuito allo sterminio della popolazione ebraica di quelle zone durante la loro alleanza con i nazisti.

Liberato dai tedeschi nel 1944 perché conducesse azioni di sabotaggio contro l’Armata rossa, Stepan Bandera, a guerra finita, riparò in Germania Ovest e morì assassinato a Monaco di Baviera nel 1959 in circostanze mai del tutto chiarite.

All’interno dell’esperienza makhnovista si trovavano, però, già alcune delle criticità ascrivibili all’interventismo anarchico odierno. Quando un secolo fa l’impero Austro-ungarico e la Germania invasero l’Ucraina, infatti, Makhno e i suoi si lanciarono in un’accanita guerriglia per opporsi all’invasione, ma la loro organizzazione militare continuò ad avere una natura gerarchica che, in quanto tale, era difficile da conciliare con gli ideali anarchici. Inoltre, allora come oggi, rivendicazioni etniche e culturali giocarono un ruolo importante accendendo, nel campo libertario, accesi dibattiti sulla loro opportunità.

L’internazionalismo moderno

Ai giorni nostri le cose sono ancora meno chiare, per il contesto politico che è anni luce lontano da un orizzonte rivoluzionario ma, soprattutto, per via dell’indeterminatezza che si accompagna all’approcciarsi alle problematiche degli uomini attraverso canali virtuali. Un bot di Telegram, infatti, non è un compagno che condivide informazioni ed esperienze, ma uno strumento freddo e dalla limitata attendibilità. Seguendo un link presente nel messaggio che avevo ricevuto, infatti, sono stato catapultato in un mondo parallelo dove ragazzi da tutto il mondo chiedono informazioni su come arruolarsi e su come raggiungere il teatro di guerra. A rispondergli ci sono più voci – supposte dal campo – che non mancano di fornire tutti i dettagli, assieme a manuali di guerriglia. Secondo la Croce nera di Dresda, un collettivo anarchico tedesco, sono oltre 150 i combattenti internazionali sul fronte ucraino riconducibili all’area anarchica o genericamente antiautoritaria.

Un gruppo di anarchici in una foto recuperata su un canale Telegram
Un gruppo di anarchici in una foto recuperata su un canale Telegram

Il Black head quarter è l’aggregativo on line delle iniziative del Resistance Committee, che in rete si presenta così: «Il Comitato di resistenza è uno spazio di dialogo e di coordinamento per iniziative anarchiche, libertarie e antiautoritarie. Crediamo che l’Ucraina e tutta l’Europa orientale debbano essere libere dalla dittatura». L’obiettivo dichiarato è chiaro ed esplicito: «Il nostro compito è quello di unire gli sforzi dei combattenti contro l’autoritarismo. Aspiriamo a influenzare il futuro dell’Ucraina e dell’intera regione, a proteggere le libertà già esistenti e a contribuire alla loro estensione. Siamo nemici del dominio imperialista, che è adesso presente nel paese per tramite del brutale esercito putinista». È manifesta anche la loro discontinuità con l’apparato statale: «Se lo stato ucraino oggi partecipa a questa lotta non significa che noi siamo diventati dei suoi sostenitori», viene più volte ribadito.

Secondo il Black head quarter oggi, in Ucraina, varie componenti antiautoritarie partecipano attivamente alle principali sfere di resistenza contro l’aggressione, sia nel teatro della guerra che nell’ambito del volontariato civile e dei media. Uno dei compiti principali del Comitato di resistenza è assicurare la comunicazione e il coordinamento fra i diversi gruppi e gli individui coinvolti nel conflitto. Tra le molteplici funzioni che mettono a disposizione c’è il loro canale Telegram, attraverso il quale utenti anonimi si sono occupati (soprattutto nelle fasi iniziali dell’invasione) anche del reclutamento e della formazione di nuovi volontari.

Il libro che mi viene inviato quando chiedo chiarimenti sulla preparazione è un volume di 300 pagine piene zeppe di tattica militare e tecniche di guerriglia urbana. Proviene dall’esercito americano, è ben fatto e chiaro in ogni sua parte. Un po’ meno chiari sono invece gli obiettivi politici di chi me lo manda, per questo forse sono così tante le domande degli utenti. «Non vogliamo difendere nessuno stato. Siamo anarchici e siamo contrari a qualsiasi confine tra nazioni. Ma siamo contrari a questa annessione, perché stabilisce solo nuovi confini e la decisione in merito è presa esclusivamente dal leader autoritario Vladimir Putin», scrive Bohdan, un anarchico ucraino impegnato sul fronte.

Le perplessità tra chi si approccia alla questione non sono poche e, a fronte degli intenti politici dichiarati e delle azioni rivendicate dai gruppi, che mappano i loro interventi e i loro sabotaggi con tanto di immagini geolocalizzate, la risposta dei comitati anarchici europei è poco compatta, se non addirittura critica. Nonostante raccolte di fondi da destinare alle brigate anarchiche appaiono un po’ dappertutto nel network libertario europeo (217.400 euro raccolti soltanto dalla Anarchist Black Cross Dresden), non manca, infatti, chi solleva dubbi circa l’opportunità di tutta quanta l’operazione.

La copertina del libro, di produzione americana, di tattica militare e guerriglia urbana inviato su uno dei canali Telegram
La copertina del libro, di produzione americana, di tattica militare e guerriglia urbana inviato su uno dei canali Telegram
Una pagina del libro, di produzione americana, di tattica militare e guerriglia urbana inviato su uno dei canali Telegram
Una pagina del libro, di produzione americana, di tattica militare e guerriglia urbana inviato su uno dei canali Telegram

La Federazione anarchica italiana (Fai), per esempio, ha una posizione ben precisa a riguardo: «Manteniamo ferma la nostra posizione di rifiuto della guerra e ci riconosciamo nell’idea di disfattismo rivoluzionario, intendendo per disfattismo una posizione rivoluzionaria di fronte alla guerra, quella di coloro che lottano per la disfatta del governo e della classe dominante del proprio paese», recita il manifesto antimilitarista che mi mandano dal comitato centrale quando chiedo di commentare la scelta dei compagni volontari in Ucraina. La dirigenza della Fai si sente poi di precisare che «nonostante da alcuni singoli e gruppi che si dichiarano antiautoritari, libertari o anarchici giunge, già da prima dell’invasione russa dell’Ucraina, una forte critica al nostro tradizionale antimilitarismo, noi restiamo fermi sulle nostre posizioni e facciamo nostro l’International Anarchist Manifesto against the War del 1915: dobbiamo dichiarare ai soldati di tutti i Paesi, che credono di stare combattendo per libertà e giustizia, che il loro eroismo e il loro valore non serviranno che a perpetuare l’odio, la tirannia e la miseria».

Punti di contatto tra la Fai e gli anarchici ucraini si ravvisano nei giudizi sul governo Zelensky, anche se le conclusioni raggiunte sono diverse: «Rifiutiamo la narrazione di una guerra fra libertà e dittatura. Da questo punto di vista, l’Ucraina di Zelensky è veramente una piccola Russia, con un governo autoritario, una cerchia di oligarchi che saccheggia il paese, una repressione verso tutte le forme di protesta e verso le minoranze che la guerra ha reso più dura», dice la Federazione anarchica italiana, mentre una voce libertaria combattente sul fronte ha dichiarato alla stampa francese: «Lo stato ucraino è totalmente corrotto e potremmo stare qui a elencare i suoi fallimenti per giorni, ma al suo interno ci sono aree di libertà, perché gli oligarchi che si contendono il potere non possono controllare tutto».

Un gruppo di combattenti anarchici in una foto recuperata su un canale Telegram
Un gruppo di combattenti anarchici in una foto recuperata su un canale Telegram

Anche nell’area di movimento italiana il dibattito è serrato: «Qui la Fai non c’è – mi dice un amico vicino ad ambienti libertari del nord-est -, però ti posso dire che, per i compagni, la guerra in Ucraina è un argomento tanto divisivo quanto lo è stata la gestione della pandemia».

A prescindere dalle opportunità ideologiche, in questo contesto una domanda sembra essere la più stringente di tutte quante, e la pone un ragazzo tedesco in calce alle decine di commenti che accompagnano una foto con dei ragazzi armati sotto la bandiera rossa e nera: «Chi ci dice che siete davvero anarchici? O che siete davvero voi quelli della foto? Potrei stare parlando con chiunque, anche con un bot o con dei mercenari russi».

Una domanda questa a cui, purtroppo, si può rispondere solo con un atto di fede, pratica che, a quanto pare, è poco compatibile con l’anarchia.

Foto: Un gruppo di combattenti anarchici in una foto recuperata su un canale Telegram
Editing: Lorenzo Bagnoli

Di vita e di guerra: storie dal fronte ucraino

9 Agosto 2022 | di Eleonora Vio

Questo progetto nasce da un imprevisto. Sebbene la giornalista investigativa Eleonora Vio abbia una lunga esperienza in zone ostili e di conflitto, questa volta era diretta in Donbass, per provare a raccontare una storia diversa, particolare e di approfondimento. Per lei la guerra, non quella scoppiata il 24 febbraio ma quella che si prolunga in Ucraina dal 2014, andava analizzata non solo nei suoi sviluppi militari, ma anche in quanto causa scatenante di un imminente disastro ecologico nel bacino carbonifero del Don. L’inchiesta che Eleonora voleva scrivere su questo tema, avrebbe costituito un altro tassello di un progetto di IrpiMedia, che l’ha già vista impegnata in Bulgaria ed Estonia.

Improvvisamente l’emergenza ucraina cancella i piani costruiti da tempo da Eleonora – e dal suo collega fotografo e videomaker, Patrick Tombola. I due si trovano così catapultati dalla sera alla mattina sul filo del fronte. Tra i bombardamenti e l’avanzata delle truppe russe, i due giornalisti diventano testimoni oculari della capacità con cui la popolazione locale, pur incapace di dare un senso agli avvenimenti, si organizzi e reagisca con caparbietà e decisione.

Dal caso prende forma un reportage a puntate con testimonianze in presa diretta e interviste in studio o registrate da Eleonora sul campo, che racconta come, dopo la confusione e il panico delle prime 48-72 ore, un Paese europeo e moderno, al pari del nostro, sia stato costretto a cambiare volto repentinamente e assumere un assetto da guerra. La confusione è tanta, come pure le domande cui sembra impossibile, ancora oggi, dare risposta. Mettendo insieme i vari tasselli, cercheremo di dare un senso a un evento che ha sconvolto la vita di tutti, entrando già nella storia.

Ep. 11 – L’esodo

Dopo quasi un mese di lavoro sul campo, Eleonora decide che è arrivato il momento di tornare a casa. I racconti di chi ha impiegato giorni e giorni per fare rientro la preoccupano, ma per una serie di circostanze fortuite raggiunge l’Italia in poco più di 48 ore. Abbastanza per rendersi conto di come la guerra ha il potere di avvicinare le persone, da un lato, e di creare distanze incolmabili, dall’altro. Nel frattempo Eleonora ha conosciuto virtualmente Oksana, una signora ucraina residente in Italia e bloccata a Kherson, ovvero la prima città a cadere nelle mani russe nel corso di questa aggressione, durante quella che doveva essere una breve visita alla madre malata. Il racconto personale di Eleonora e quello di questa signora si intrecciano, mettendo in evidenza le analogie, ma soprattutto le differenze tra loro e i mondi a cui appartengono. In quella che è lecito definire una “missione suicida”, alla fine Oksana riesce a fuggire dall’Ucraina. Ma, anche a distanza di un migliaio di chilometri, mentre ha apparentemente ripreso la sua vita “normale”, non riesce a trovare pace.

Ascolta su Spotify

Ep. 10 – Kharkiv, la verità sotto attacco

Fino a qui Eleonora e Patrick hanno viaggiato ed esplorato l’Ucraina sotto attacco insieme. A metà marzo i due si separano. Eleonora se ne va (racconteremo il suo esodo nella prossima puntata, nd), mentre Patrick decide di rimanere e, nelle undici settimane e mezzo che trascorrerà nel Paese, racconterà le varie fasi del conflitto a Kharkiv tramite alcuni suoi emblematici personaggi. Questo reportage visivo è diventato un documentario prodotto da Channel 4 e PBS Frontline, intitolato Ukraine: Life Under Attack, a cui Patrick ha lavorato insieme al collega Yassir Mani Benchelah. In questa puntata Eleonora intervista Patrick e ripercorre con lui l’evoluzione di un polo importante sia dal punto di vista commerciale che intellettuale, diventato col passare del tempo una città fantasma, svuotata nelle strade come nello spirito. Il finale è amaro. Per chi ha vissuto la guerra a lungo e dal di dentro, come Patrick, ciò che al suo ritorno a casa più gli ha fatto male è stato realizzare come tante persone mettano in discussione non solo la realtà dei fatti ma, con essa, il suo stesso lavoro e quello dei giornalisti che ogni giorno rischiano la vita per documentarla.

Ascolta su Spotify

Ep. 9 – Kharkiv, la realtà capovolta dove i bambini fanno da esempio per tutti

Anche Kharkiv, la seconda città più grande dell’Ucraina, a soli 40 chilometri a sud del confine russo, è stata colpita all’alba del 25 febbraio. E non ha mai smesso di essere bombardata da allora, tanto da costringere la gente a fuggire, o a ritirarsi a vivere sottoterra per settimane, mesi. A Kharkiv, dove gran parte della popolazione parla russo, e ha parenti, figli e amici dall’altra parte del confine, l’aggressione è stata interpretata come una pugnalata fratricida. Il dovere di non soccombere alla paura e all’invasione nemica si manifestano giorno dopo giorno nelle situazioni più impensabili, come quella in cui Eleonora e Patrick si sono trovati immersi a inizio marzo. Una mattina hanno seguito il Dottor Juriy, oftalmologo al Centro Medico Prenatale di Kharkiv, durante il suo giro di visite quotidiane e hanno scoperto una realtà drammatica e surreale, dove i parametri normali erano stati capovolti, e i neonati indifesi facevano da esempio di resilienza per gli altri.

Ascolta su Spotify

Ep. 8 – L’ombra della catastrofe atomica

Uno dei rischi più grandi, per l’Ucraina come per il resto del mondo, connesso a questa guerra, è il rinnovato rischio rappresentato dalla minaccia nucleare. Non tanto quello rappresentato dall’uso di armi atomiche in guerra, quanto quello, ben più probabile, connesso alle centrali attive in Ucraina che rischiano di trovarsi in mezzo ai bombardamenti. Per capire cosa questo e altri scenari potrebbero significare, parliamo oggi con qualcuno che queste conseguenze le ha in mente ogni giorno: Olga Kosharna, esperta di energia nucleare. Dopo aver lavorato molti anni presso l’Autorità Nazionale dei Regolamenti per la Sicurezza Nucleare in Ucraina e all’Istituto di Ricerca Strategica sulla Sicurezza Nucleare, oggi Olga è una ricercatrice indipendente e svolge consulenze per vari enti sia statali che indipendenti. Ascolta su Spotify

Ep. 7 – La storia che rischia di ripetersi

Il popolo ucraino conosce meglio di ogni altro in Europa quali possano essere le conseguenze di un incidente nucleare. L’ombra di Chernobyl ha infatti pesato su questo conflitto fin dall’inizio, e la sicurezza delle centrali attive, come dei depositi delle scorie che ancora risalgono all’incidente di quasi quarant’anni fa, rappresentano una delle principali preoccupazioni delle forze di difesa ucraine. Eleonora questa realtà ce l’ha presente da prima dell’inizio della guerra, ed è per questo che aveva già programmato di intervistare Yakovlev Yevgeniy Alexandrovich, l’ormai ultraottantenne idrogeologo che nel lontano 1986 lanciò l’allarme prima della catastrofe di Chernobyl. Dopo aver parlato con lui, seguiremo il viaggio di Eleonora e Patrick verso Zaporizhzhya, dove si trova la più grande centrale nucleare d’Europa, mentre il fronte si avvicinava sempre più pericolosamente. Ascolta su Spotify

Ep. 6 – Cittadini, volontari, estremisti. Chi combatte per l’Ucraina?

Per la Carta delle Nazioni Unite l’Ucraina – come ogni altro Paese che abbia aderito al protocollo – ha il diritto di utilizzare tutte le armi a sua disposizione per auto-difendersi. Per quanto la forza militare ucraina si sia irrobustita molto dall’umiliazione subita in Crimea nel 2014 in poi, il 24 febbraio si è trovata impreparata di fronte all’esercito russo, uno dei più potenti al mondo, che contava, già allora, quasi due milioni di uomini. Così, oltre a mettere in campo l’intero esercito, composto da 200mila soldati attivi e almeno 300 mila riservisti, le autorità Ucraine, da subito, hanno voluto allargare le loro forze volontarie e paramilitari. Cercheremo di capire chi sono, da dove arrivano e in cosa credono le Forze Territoriali di Difesa, che in poco più di un mese sono riuscite a reclutare oltre 37 mila membri attivi e 130 mila volontari. E, grazie a un ospite di rilievo, faremo anche un po’ di chiarezza sulle sorti del tanto discusso Battaglione Azov, il cui orientamento resta uno dei punti più efficaci della propaganda filorussa.

Ascolta su Spotify

Ep. 5 – Dnipro si mobilita

Lo shock iniziale lascia spazio alla voglia di darsi da fare e di resistere. Incoraggiati dalle parole del Presidente ucraino Zelensky, che li invita a difendere in massa il proprio Paese dall’aggressore, i cittadini ucraini si mobilitano come possono. C’è chi si registra tra le Forze Territoriali di Difesa, un corpo volontario diventato parte dell’esercito ufficiale da gennaio di quest’anno; chi raccoglie beni di prima necessità per le forze armate e le famiglia in difficoltà, e chi passa le giornate ad assemblare e testare bombe molotov. Eleonora osserva sbalordita come una città di (allora) un milione di abitanti, in seguito svuotata di almeno un terzo della sua popolazione, e simile in tutto e per tutto a qualunque moderno centro europeo, non si sia fatta abbattere della paura, ma abbia, invece, sfruttato la rabbia condivisa per reagire, dimostrando ammirabile unità e compattezza.

Ascolta su Spotify

Ep. 4 – Vita da fixer, tra impegno morale e professionale

Allontanarsi da Mariupol per Eleonora significa anche rinunciare all’unica persona cui pensava di poter fare affidamento, la sua fixer, Diana. Ma, arrivata a Dnipro, s’imbatte subito e fortuitamente in Catherine Leonova, giornalista, video-maker, ufficio stampa per l’esercito e tanto altro. Seppure esperienze di quel tipo non le manchino, con lo scoppio della nuova guerra Catherine non pensa a documentare l’accaduto ma a supportare il più possibile chi ha bisogno. Sono le persone vicine a lei a convincerla che il miglior modo per aiutare la sua gente e l’esercito è fare da “fixer” ai giornalisti stranieri che arrivano giorno dopo giorno, per raccontare il conflitto nelle sue tante sfaccettature. La propaganda esiste, da ambo le parti, ma come dice Catherine: “Solo uno stupido potrebbe negare che è la Russia il colpevole”.

Ascolta su Spotify

Ep. 3 – 48 ore per capire

Rendendosi conto che, se la situazione dovesse precipitare, rischierebbe di rimanere incastrata, senza possibilità di andarsene, nella città strategica e insidiosa di Mariupol, schiacciata tra il Mare di Azov e le repubbliche separatiste filorusse del Donbass, Eleonora decide di andarsene da lì. Nonostante le raccomandazioni dell’unità di crisi e dei governi a non muoversi, sfida il pericolo, trova un autista e si mette in macchina. Dopo 5 ore di viaggio trascorse in allerta e in silenzio, arriva a Dnipro, terza città per grandezza dell’Ucraina. Anche qui, la mattina del 24 febbraio, sono state registrate varie esplosioni. Intorno regna il caos. Non avendo ancora un’idea precisa di cosa potrebbe succedere, Eleonora si organizza e si prepara, come se, a breve, dovesse verificarsi il peggio.

Ascolta su Spotify

Ep. 2 – Perché andare, perché restare

Fare il giornalista significa prima di tutto immedesimarsi nei panni di chi legge, vede o, come in questo caso, ascolta, e fornirgli strumenti per capire la realtà che lo circonda. Ecco perché, dopo un attacco “frastornante”, nel vero senso della parola, dove siete stati trascinati, inconsapevolmente, da Eleonora nell’istante che per molto tempo farà da spartiacque alla nostra storia recente, qui la nostra protagonista non è più narratrice testimone ma ospite e intervistata. A posteriori Eleonora cerca di rispondere alle domande che avrebbe posto lei a chi si fosse trovato nei suoi panni e cerca di colmare alcuni vuoti e informazioni, cui non aveva avuto nemmeno il tempo di pensare durante quella notte e quel giorno, nella frenesia del lì e ora. A intervistarla, Giulio Rubino, editor di questo podcast, che ha seguito Eleonora dall’inizio, prima che la guerra stravolgesse tutto.

Ascolta su Spotify

Ep. 1 – La notte che cambiò tutto

Un conto è sapere che la guerra potrebbe scoppiare da un momento all’altro, un altro svegliarsi nel cuore della notte al suono delle esplosioni. La giornalista freelance Eleonora Vio (assieme al compagno fotografo e videomaker Patrick Tombola) si trovava a Mariupol – città del sud-est dell’Ucraina, diventata tristemente nota per il carico di violenze e devastazione crescente perpetrato nelle settimane seguenti dalle forze russe – quando è iniziato il conflitto. A distanza di pochi minuti da quell’attimo che ha cambiato la storia del mondo, Eleonora prova a raccontare in presa diretta cosa si prova a essere coinvolti in prima persona in un evento così grande, assurdo e spaventoso, tanto da non essere stato, realisticamente, considerato come possibile, finché non è avvenuto. Un evento che, senza bisogno di troppa analisi, da subito delinea un prima e un dopo nella storia di Eleonora, e di tutti.

Ascolta su Spotify

Di vita e di guerra – Trailer 2

Di vita e di guerra – Trailer 1

Di vita e di guerra è un podcast di IrpiMedia
Autori: Eleonora Vio
Diretto da: Giulio Rubino
Prodotto, montato e sonorizzato da: Riccardo Cocozza
Doppiaggio: Stefano Starna, Vanina Marini
Fotografie: Patrick Tombola
Musiche originali: Riccardo Cocozza

Colonna Sonora:

XLR:840 – Replicant. Part 2
TIMOFIY STARENKOV – AI Access Denied
ДУХОВКА – Время
HRCRX – Mineral