La mafia di Zawiya

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La mafia di Zawiya

Lorenzo Bagnoli

Ossama Milad Rahuma è il carceriere del centro di detenzione dei migranti di Zawiya, in Libia occidentale. I prigionieri lo chiamano “Ossama Zawiya”. Basso di statura, corpulento, barba sale e pepe appena accennata e la testa rasata, Ossama Milad è il direttore della struttura, ufficialmente riconosciuta dal Ministero dell’Interno libico. Il Ministero fa parte del Governo di accordo nazionale (Gna), che è l’esecutivo di base a Tripoli, sostenuto dalle Nazioni Unite.

Di “Ossama Zawiya” si parla nell’ultimo report del 2019 firmato dal Gruppo di esperti dell’Onu sulla Libia. Il centro di detenzione è di particolare rilievo perché ricavato in un’ex base militare adiacente alla raffineria della città, a meno di tre chilometri dal porto. Il centro per gli analisti dell’Onu «è uno snodo per traffici illeciti dove i migranti sono soggetti a varie forme di abusi». Qui i migranti sono vittime di «sfruttamento sessuale e violenza, pestaggi, fame e altri trattamenti degradanti». È luogo di tortura, prosegue l’Onu, attraverso il quale il gruppo paramilitare di cui fa parte Ossama estorce denaro in cambio della libertà dei migranti.

Eppure continua ad essere utilizzato di frequente come centro dove portare i migranti intercettati dalla Guardia costiera libica. L’ultimo episodio risale al 2 luglio, ricorda l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), quando 23 persone sono state riportate al centro di detenzione. La stessa Oim ha più volte chiesto la chiusura del centro di detenzione. Nonostante il Direttorato per combattere l’immigrazione irregolare (Dcim), sezione del Ministero dell’Interno libico che sovraintende la gestione dei centri di detenzioni, voglia chiudere il centro al-Nasr dal 2018, la struttura è ancora aperta.

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Il carceriere e il clan

Ossama è uno dei luogotenenti di Shuhada al-Nasr, fazione militare di carattere tribale che conta circa 3000 affiliati. È il responsabile di ciò che avviene a terra, nel centro di detenzione. Il responsabile di ciò che avviene in mare è invece, il guardacoste Abdulrahman Milad detto al-Bija, nome ormai noto in Italia, che sarebbe imparentato direttamente con lo stesso Ossama. Al vertice, a guidare la milizia, Mohammed Koshlaf. Il sistema criminale costruito a Zawiya prevede da un lato la gestione del contrabbando di gasolio (con i guardacoste in prima fila) e dall’altro i pagamenti di riscatti dei familiari dei migranti affinché possano lasciare il centro di detenzione.

La parte dell’organizzazione che si occupa delle azioni in mare rappresenta la sezione di Zawiya della Guardia costiera libica. Nel dicembre 2017 l’International maritime organization (Imo) delle Nazioni Unite ha assegnato alla Libia una Search and rescue zone (Sar), area di mare sotto la responsabilità dei guardacoste libici per quanto concerne le operazioni di pattugliamento e salvataggio. Una porzione è affidata anche agli uomini della Brigata al-Nasr. Affinché il riconoscimento di tale area avvenga, è necessario prima di tutto che un Paese sia dotato di Maritime rescue coordination center (Mrcc), ovvero un centro direzionale in grado di gestire i salvataggi e in secondo luogo che disponga di una flotta in grado di farsi carico delle operazioni di recupero in mare.

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Il sostegno di Roma

In entrambe le circostanze l’aiuto italiano è stato fondamentale per la Libia: già dai tempi di Gheddafi, Roma aveva in essere un accordo programmatico per donare motovedette classe Bigliani a Tripoli, con annesso programma di addestramento dei guardacoste. Formazione e istituzione della Guardia costiera libica sono state finanziate attraverso il Fondo fiduciario Africa-Europa per un totale di 91,3 milioni di euro, a copertura degli anni 2017-2021. Invece la formalizzazione della richiesta all’Imo per istituire la Sar libica è stata promossa dall’Italia durante diversi meeting dell’Imo a Londra e finalizzata a dicembre 2017. In contemporanea, il Ministero dell’Interno all’epoca guidato da Marco Minniti, cominciava a finanziare attraverso il Fondo fiduciario Africa-Europa la realizzazione della sede del Mrcc di Tripoli. Sulla sua esistenza o meno, allo stato attuale, c’è ancora poca chiarezza: la sede formale è all’aeroporto di Mitiga ma gli operatori delle ong sostengono di non ricevere mai risposte.

Documenti ottenuti da IrpiMedia nel 2019 testimoniano come le comunicazioni sulle operazioni di salvataggio, almeno all’epoca, venissero diramate dal centro libico con alcuni appunti in italiano (in quel caso “giu”, abbreviazione di “giugno”, mese in cui è avvenuta l’operazione) e una stringa numerica identificativa in progressione con quella del centro di coordinamento di Roma. Secondo le ong impegnate nei salvataggi sono dati che testimoniano come la Guardia costiera libica, in ogni suo dipartimento, risponda in realtà al coordinamento di Roma, proprio perché senza l’intervento italiano non esisterebbe nemmeno la Guardia costiera libica. Un gruppo di organizzazioni guidato da Statewatch, associazione inglese che riunisce accademici ed esperti di diritti umani, già a marzo ha indirizzato un esposto all’Imo per chiedere la revoca della Sar libica, a cui ha fatto seguito a giugno una lettera aperta destinata al segretario generale dell’organizzazione, Kitack Lim.

Foto scattata all’interno del centro di detenzione / Per gentile concessione di Giulia Tranchina

Cos'è il Fondo fiduciario Africa-Europa
Il Fondo fiduciario Africa Europa è uno strumento messo in piedi dalla Commissione europea nel novembre 2015 allo scopo di finanziare progetti di cooperazione internazionale volti a combattere «le radici dell’immigrazione irregolare». Il fondo, a cui partecipano sia i Paesi membri, sia la Commissione con un suo budget, ha a disposizione 4.5 miliardi di euro.

Dentro la prigione

Quello che avviene dentro le alte mura color sabbia del centro di detenzione di Zawiya è competenza di Ossama Milad. Il centro è diventato appannaggio del gruppo da quando la Brigata ha preso il controllo della raffineria, a partire dal 2014, anno nel quale Mohammed Koshlaf è stato ufficialmente insignito del ruolo di Petroleum Facility Guard, guardia di sicurezza dell’impianto. Erano le settimane appena precedenti “operazione Libya Dawn”, nome che definisce la coalizione sfilacciata e ingombrante di milizie islamiste che si sono schierate a supporto del Gna di Tripoli e hanno preso il controllo sulla zona costiera prossima al confine con la Tunisia. Quel momento ha segnato l’ingresso in politica, in grande stile, della Brigata Shuhada al-Nasr come garante del governo di Tripoli a Zawiya. Con Libya Dawn è iniziata la suddivisione della Libia in due aree di influenza: a ovest, il governo di Fayez al Serraj e a est quello del Generale Khalifa Haftar.

Con Libya Dawn è iniziata la suddivisione della Libia in due aree di influenza: a ovest, il governo di Fayez al Serraj e a est quello del Generale Khalifa Haftar

Giulia Tranchina, avvocato di Wilson Solicitors che si occupa di diritti umani, è spesso in contatto con i migranti nella prigione di Zawiya. In questi anni ha ricevuto diversi video che testimoniano le violenze avvenute al centro di detenzione, da pestaggi a sparatorie. Ha avuto anche conferma di due omicidi di due migranti che tentavano di fuggire dal centro, ai primi di giugno. Alcuni di coloro che sono riusciti a lasciare la Libia in quelle settimane hanno condiviso con lei alcuni video, risalenti all’inizio di giugno, in cui si vede Ossama Milad camminare su e giù per la struttura di Zawiya. Si percepisce uno stato di tensione, anche se non si possono vedere chiari episodi di violenza. Dai loro racconti sembra che Ossama, in uno scatto d’ira, abbia rotto l’impianto di depurazione dell’acqua appena fornito dall’Oim.

L’esatta ubicazione del centro di detenzione di Zawyia / IrpiMedia

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L’indagine italiana

In questi anni le testimonianze dei migranti hanno permesso di ricostruire l’esistenza di una stanza delle torture all’interno della prigione, accanto a quelli che sono i padiglioni ufficiali. Nessuno è mai riuscito a fotografarne l’interno. La porta resta sempre chiusa e le chiavi del lucchetto sono solo in possesso di Ossama o dei suoi scagnozzi. Di loro si è occupata anche la magistratura italiana, in un’indagine condotta prima dalla procura di Agrigento e poi dalla Dda di Palermo a seguito dello sbarco della Alex & Co, barca a vela della ong Mediterranea, ad agosto 2019.

L’indagine italiana individua tre ragazzi, due egiziani e un guineano, che per lasciare il centro di detenzione e pagare il loro riscatto accettano di lavorare per Ossama. È l’unico modo per andarsene da Zawiya senza pagare. Il guineano si chiama Mohammed Condè detto Suarez mentre i due egiziani sono Hameda Ahmed (26 anni) e Mahmoud Ashuia (24 anni). Secondo quanto riportano i migranti sentiti dagli investigatori siciliani, si sono macchiati di «violenze fisiche o sessuali, fino a giungere alla perpetrazione di veri e propri atti di tortura, talora culminati in omicidi», di cui alcuni sarebbero avvenuti in questa stanza segreta.

Migranti all’interno del centro detentivo di Zawiya / Per gentile concessione di Giulia Tranchina

Per quanto è possibile riscontrare dai social network, a marzo l’Agenzia anti-immigrazione irregolare, corpo del Ministero dell’Interno di Tripoli, ha organizzato una visita al centro per sanificarlo in vista dell’emergenza Covid, per la quale anche il Fondo fiduciario ha programmato fondi extra. Insieme alle forze dell’ordine c’erano anche membri con indosso una giacca dell’Oim. Sono gli unici titolati a fare visite all’interno del centro, ma devono sempre annunciarsi e ottenere un’autorizzazione. In questo modo diventa pressoché impossibile poter raccogliere prove di abusi, di cui restano sempre solo tracce nei telefoni dei migranti che con coraggio e fortuna riescono a filmare di straforo quanto accade nei centri.

Nell’indagine italiana si fa cenno a un altro container all’interno della struttura, con il marchio dell’Oim. Nell’inchiesta si legge che «non è dato sapere, allo stato, se fosse in disuso e utilizzato dalla criminalità locale». In merito, l’agenzia delle Nazioni Unite ha precisato a Redattore sociale che «non esiste un nostro container a Zawya e non risultano persone con quei nomi che lavorano per conto dell’Organizzazione».

ll 28 maggio scorso il Gup di Messina ha emesso la sentenza di condanna a vent’anni di carcere per i tre ex aiutanti di Ossama

Il 28 maggio scorso il Gup di Messina ha emesso la sentenza di condanna a vent’anni di carcere per i tre ex aiutanti di Ossama. Le tre persone, arrivate in Italia dopo essere state salvate da un naufragio della nave Alex & Co dell’ong Mediterranea, sono state ritenute colpevoli di associazione a delinquere finalizzata alla tratta di persone, alla violenza sessuale, alla tortura, all’omicidio e al sequestro di persona a scopo di estorsione. Per questo il Gup ha assecondato le richieste di pena proposte dai pm della Dda di Palermo.

Perché l’organizzazione criminale di Zawiya è una mafia

C’è un certo ricambio tra le fila di questa sorta di caporali: al posto dei tre ragazzi arrestati in Italia, oggi ci sono due persone marocchine. Dell’organizzazione sotto Ossama fanno poi parte altri tre uomini: un sudanese, indicato nell’indagine siciliana come Papa Adjasko e due di nome Mohammed, uno egiziano e l’altro libico. Quest’ultimo indossa sempre una mimetica ed è incaricato di gestire le relazioni con i giornalisti. È il secondo di Ossama.

L’organizzazione criminale di Zawiya si configura come una mafia: gli aderenti appartengono tutti a un gruppo tribale, Awlad Bu Hmeira, emerso come gruppo di potere dopo la caduta di Gheddafi. La sua sfera d’influenza include un’altra città importante per l’Italia, Sabratha. Questa città è stata per anni tra i principali luoghi di partenza dei migranti. Il clan più forte da quest’anno è tornato a essere quello dei Dabbashi, storici alleati dei Koshlaf, che per tre anni sono stati defilati a causa dell’emergere di altri gruppi armati.

Si occupano del traffico di petrolio via terra, secondo le Nazioni Unite. Una delle brigate dei Dabbashi è nota per essere stata, almeno in una prima fase, responsabile della sicurezza dell’impianto di Mellitah, gestito al 50% da Eni e al 50% dalla Noc, la società petrolifera della Libia. Tra i primi gruppi ad aver beneficiato del Memorandum Italia-Libia del 2017 ci sarebbero proprio loro, secondo quanto ha riportato Associated Press nel 2017.

Al vertice della Brigata Shuhada al-Nasr, insieme a Mohammed Koshlaf ci sono i fratelli Nuri e Abdallah e i cugini Walid Khamza e Samir, oltre ad al Bija e Ossama. Bija e Mohammed Koshlaf sono in giro dal 2011, quando, poco più che ventenni, hanno partecipato alle rivolte contro Gheddafi. Riporta l’ultimo report Onu che Walid Koshlaf è colui che ricicla il denaro sporco, provento di estorsioni ai migranti e contrabbando di gasolio.

Come tutte le milizie in guerra, la Brigata Shuhada al-Nasr ha un disegno politico che in questo caso è conservare potere e indipendenza

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Come tutte le milizie in guerra, la Brigata Shuhada al-Nasr ha un disegno politico che in questo caso è conservare potere e indipendenza. L’organizzazione ha come sponsor alla Camera dei rappresentanti di Tobruk Ali Abu Zriba, definito dagli esperti dell’Onu il «più influente tra i membri della tribù». Quando Koshlaf si toglie la mimetica è spesso insieme al deputato. Altro personaggio frequentato dal contrabbandiere è il sindaco di Zawiya, Jamal Bahr. Il giornale libico al Marsad a ottobre dello scorso anno ha pubblicato un’inchiesta sull’inaugurazione di un nuovo centro medico al-Naser, nella città di Zawiya alla quale ha preso parte anche Mohammed Koshlaf.

Tra i politici di spicco che fanno visita all’uomo forte di Zawiya, al Marsad ha anche scovato a dicembre 2019 Khalid al-Mishri, capo dell’Alto Consiglio di Stato della Libia, organismo di supporto al Governo di accordo nazionale, ed ex membro della Fratellanza musulmana in Libia. È uno dei principali uomini di Stato, negoziatore tra Haftar e Serraj e tessitore della nuova alleanza con la Turchia.

La legittimazione della Brigata Suhada al-Nasr

Nonostante i vertici siano sotto sanzione delle Nazioni Unite e dell’Unione europea dal 2018, quindi, la Brigata Suhada al-Nasr è riconosciuta e legittimata dal governo di Tripoli, vista la sua importanza strategica in tempo di guerra. Questo potere permette loro di rimanere impuniti, come dimostra l’episodio del presunto mandato di arresto per Bija di cui è stata data notizia a ottobre 2019. Sembrava che il Ministero dell’Interno di Tripoli volesse esautorare almeno il capo dei guardacoste, il personaggio più in vista della Brigata anche sui media internazionali. Invece Agenzia Nova ha potuto verificare con un funzionario della Guardia costiera che in realtà non c’è alcun mandato di arresto

L’ultima apparizione di Bija è stata in una tv libica il 6 luglio. Ha detto di essere pronto a parlare con la Corte penale internazionale, che sulla situazione in Libia ha aperto un’indagine nel 2019. A giugno, in un video postato sui social, Bija ha inoltre ringraziato la Turchia per il supporto alla popolazione di Zawiya.

Il 22 giugno lo stesso sindaco di Zawiya Bahr ha incontrato una delegazione dell’agenzia della cooperazione turca per discutere nuovi possibili progetti. Sono due ulteriori segnali dello spostamento netto della città di Zawiya e del suo gruppo politico-criminale sotto l’influenza turca. Ankara è ormai il principale sponsor del governo di Fayez al-Serraj, scalzando l’Italia da quella posizione di privilegio. Come ha raccontato Nello Scavo su Avvenire, dal 2017 Zawiya è stata la città libica che ha ottenuto la parte più consistente dei fondi destinati alla Libia. Il vento, però, è cambiato. I potenti di Zawiya non s’interessano più dell’Italia.

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli

Editing

Giulio Rubino