Carlotta Indiano
Fabio Papetti
L'inchiesta in breve
- Lo smantellamento delle navi a fine vita è una pratica pericolosa per i lavoratori e l’ecosistema.
- Nel Nord globale, normative stringenti rendono poco conveniente la demolizione in cantieri regolamentati e ben attrezzati. Per questo motivo circa l’80% delle navi nel mondo finisce in cantieri di smantellamento nell’Asia meridionale e in Turchia
- Alang, Chittagong e Gadani sono le mete preferite dai proprietari delle navi. In questi cantieri i lavoratori rischiano la vita ogni giorno, estraendo pezzi di nave a mani nude ed entrando in contatto con diverse sostanze pericolose per la salute umana. Una su tutte l’amianto
- Complice una regolamentazione internazionale opaca, i proprietari delle navi si rivolgono a intermediari detti cash buyer che offrono “pacchetti ultimi viaggi” per navi che devono essere smaltite, aggirando le normative e procurando ulteriori danni con il solo obiettivo del profitto
La città del Gujarat rappresenta, insieme a Chittagong (Bangladesh) e Gadani (Pakistan), la destinazione finale per l’80% delle navi nel mondo. Si stima che circa il 90% delle navi di proprietà europea finisca in uno di questi cantieri nonostante, secondo la legge, non ce ne dovrebbe finire nessuna. In questi luoghi le condizioni precarie di lavoro portano alla morte non solo per incidenti ma anche per avvelenamento, attraverso il contatto diretto con le varie componenti tossiche all’interno delle navi, una su tutte l’amianto.
Questo materiale, particolarmente pericoloso per la salute specialmente quando movimentato, viene gestito con pochissima cura per la sicurezza. In alcuni casi i lavoratori rimuovono le fibre che contornano le tubature o le lastre metalliche delle imbarcazioni addirittura a mani nude.
I rottami degli oceani
Il 2 aprile 2022 sbarca a Chittagong la Race, una nave cargo battente bandiera liberiana. Ha vent’anni ed è pronta per essere smantellata: nel tempo ha cambiato nome e proprietario molte volte, si è chiamata Mineral Sines, e dal 2013 Abml Grace, quando ha indossato la bandiera maltese sotto la proprietà dalla società marittima italiana Cafiero Mattioli. Subito prima di essere spedita in Asia meridionale però, la nave ha cambiato ancora una volta bandiera e proprietà: nel 2020 è stata venduta alla Continental Vessel Brokering, che le ha assegnato la bandiera liberiana. Sulle implicazioni di questa compravendita torneremo più tardi.
Come centinaia di sue compagne, la Race viene spiaggiata nell’area intertidale, quel punto del litorale soggetto alle maree. Qui, per condizioni morfologiche e geografiche, si alza giornalmente una marea che copre centinaia di metri di spiaggia, permettendo alle navi di avvicinarsi. Quando le acque si ritirano, l’imbarcazione si trova sul basso fondale, pronta per essere smantellata. Il beaching, lo spiaggiamento, è il metodo utilizzato nei cantieri di smantellamento lungo le coste del Bangladesh, dell’India e del Pakistan. Il terreno su queste spiagge è fangoso, molto instabile e impedisce l’uso di macchinari come le gru, che servirebbero per sollevare i pezzi più grossi della nave.
Tecniche di smantellamento di una nave
I cantieri di smantellamento utilizzano il beaching, dove le condizioni lo consentono. Ma ci sono altri metodi che garantiscono diversi livelli di sicurezza ambientale e per i lavoratori. Il landing è il metodo utilizzato soprattutto in Turchia. Su queste spiagge le maree non sono considerevoli per cui la poppa rimane sempre in acque profonde. La prua, invece, viene trainata fino a raggiungere le linee di drenaggio, una sorta di “buche” dove vengono raccolti i materiali di scarto per essere trattati. Si tratta di un metodo top to bottom: si inizia a smantellare la nave dalla prua e man mano che si smantella la parte restante viene trascinata sulle piattaforme di cemento. Il landing è più sicuro del beaching ma non rappresenta una garanzia perché, in mancanza di controlli, i lavoratori continuano a smantellare le navi in maniera orizzontale, lasciando cadere pezzi in mare, dove non è più possibile recuperarli.
Con il metodo alongside la nave viene allineata alla banchina. Anche qui la nave viene smantellata top to bottom, dall’alto in basso, ma ogni pezzo viene smontato, sollevato e posizionato sulla banchina. Quando ormai lo scafo è quasi vuoto e facilmente sollevabile, viene portato in secco. Nei pressi della banchina l’acqua è abbastanza calma, per cui è più facile mettere delle bolle di protezione ai lati per prevenire cadute accidentali di materiale. Il quarto metodo di smantellamento è lo slipway, uno scivolo di cui è dotata la banchina grazie al quale si riesce a portare la nave a secco prima ancora di essere smantellata. Lo slipway si utilizza con navi di piccole dimensioni come pescherecci o navi minori, poiché gli scivoli sono in grado di sopportare pesi ridotti. Talvolta si alleggerisce la nave attraverso il metodo alongside per poi utilizzare lo scivolo. L’ultimo metodo prevede l’utilizzo di un bacino di carenaggio, una scatola di cemento in cui viene pompata l’acqua in modo da facilitare l’accesso della nave. Una volta entrata la nave, l’acqua viene espulsa e si può procedere con le operazioni di taglio e riciclaggio, senza il rischio di dispersione dei materiali. Ci sono anche bacini di carenaggio bagnati, cosiddetti wet dry dock, in cui l’acqua non viene espulsa: con questo metodo è stata trattata la Costa Concordia nel cantiere San Giorgio di Genova.
La lista europea di cantieri di smantellamento prevede l’utilizzo di diversi metodi: il landing è consentito in alcuni cantieri turchi, mentre altri cantieri come il Van Heyghen Recycling di Gent, utilizzano l’alongside. Alcuni metodi vengono anche combinati tra loro.
Una volta spiaggiata la nave, gli operai iniziano a setacciare i ponti, rimuovendo tutto ciò che può essere rivenduto, dai mobili alle radio, ai giubbotti di salvataggio. Poi inizia il processo di demolizione fisica della nave. Si tratta di una pratica pericolosa sia per la sicurezza dei lavoratori sia per l’ecosistema. Le squadre di demolitori cominciano a dissaldare la nave in grandi pezzi, che vengono trasportati a riva per il taglio secondario. I blocchi piombano sulla sabbia o nell’acqua sottostante utilizzando quello che in gergo tecnico, con forse un filo di ironia, chiamano il “metodo della gravità”: cioè semplicemente lasciandole cadere in mare. In questa fase schegge di vernice contenenti metalli pesanti e altri rifiuti si depositano sul fondo e risulta impossibile pulirli prima che la marea ritorni, portandoli via con sé.
Le acque di sentina, situate nella parte più bassa dello scafo della nave e che contengono gli scarti del motore, possono rilasciare in mare olio, sali inorganici, arsenico, rame, cromo, piombo e mercurio. Inoltre, se inalati, i fumi di scarico del motore rimasti intrappolati causano gravi danni alla salute. Raggiunte ormai le viscere della nave, gli operai si imbattono nell’amianto, un materiale considerato nell’800 un “minerale magico” per le sue capacità di utilizzo quasi illimitate.
Sicurezza inevasa
Per decenni con l’amianto infatti si è costruito di tutto. Era ovunque, dalle case ai giocattoli per bambini. Anche se nella quasi totalità dei Paesi del mondo è oramai stato rimosso, il mondo navale è molto in ritardo su questo come su altri aspetti.
Solo negli ultimi anni infatti sono state promulgate una serie di leggi che hanno riconosciuto la pericolosità dell’amianto anche nel mondo marittimo, soprattutto se già sotto processo di erosione. La Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas) ha vietato l’uso di amianto o materiali contenenti amianto sulle navi mercantili in tutto il mondo dal primo gennaio 2011. Una convenzione ratificata da 162 Paesi che però non trova ancora piena applicazione. La convenzione, infatti, fornisce delle linee guida che i vari Paesi possono interpretare in modo autonomo senza alcuna supervisione, applicando limiti diversi.
In Italia una legge simile alla controparte internazionale è in vigore dal 1992, ma c’è un’ambiguità: la legge prevede l’abolizione dell’amianto dalla costruzione di nuove navi e la bonifica di quelle precedenti alla legge, ma solo nei casi in cui l’amianto sia già in uno stato di frammentazione.
A questo si aggiunge il fatto che le navi portate a demolizione sono state costruite molto prima dell’entrata in vigore della legge, alcune hanno oltre 25 anni di servizio, con ancora al loro interno materiali tossici proibiti. Nello specifico, nell’ultimo anno sono aumentate del 21% le navi cargo e del 10% le petroliere che hanno più di 21 anni di età. Queste vecchie navi, alla fine della loro vita hanno accumulato al loro interno un’intera collezione di sostanze tossiche, in parte derivanti dall’uso che ne è stato fatto, in parte già presenti nella loro struttura.
L’esposizione all’amianto provoca un raro tumore detto mesotelioma i cui sintomi possono comparire anche dopo parecchi anni. Secondo l’avvocato Ezio Bonanni dell’Osservatorio nazionale amianto (Ona) l’emergenza epidemiologica è ancora in corso perché i tempi di latenza per un mesotelioma possono arrivare anche a sessant’anni. «Fino al 2028 ci sarà un aumento (dei tumori, ndr), dal 2028 al 2030 ci sarà il plateau e poi una discesa fino al 2050». Questo almeno per quanto riguarda l’Europa.
Gli operai nei cantieri di smantellamento del sud dell’Asia raramente smaltiscono l’amianto in modo sicuro e spesso lo scaricano frettolosamente nelle vicinanze dei cantieri, lo raccolgono per riutilizzarlo o lo rivendono nei mercati dell’usato. In Bangladesh, ad esempio, decine di laboratori trasformano lastre contenenti amianto in forni per cucinare nelle mura domestiche. In questo modo, l’amianto continua a contaminare sia i lavoratori sia le comunità adiacenti ai cantieri.
Tutte le pratiche descritte si consumano giornalmente in Asia, nonostante ci siano leggi internazionali che regolamentano i processi e i luoghi dove sarebbe lecito demolire le navi. Basti pensare che tra le leggi europee e internazionali coesistono quattro regolamentazioni, non tutte ancora in vigore. In questa giungla normativa in cui è difficile districarsi, l’industria sembra riuscire ancora a eludere la maggior parte dei divieti e limiti.
Doppio Standard
La prima legge internazionale che ha regolamentato lo smantellamento delle navi è la convenzione di Basilea, che si applica a qualsiasi movimento transfrontaliero di rifiuti pericolosi. Emanata nel 1989 e adottata nel 1992, classifica come rifiuto pericoloso tutte le navi destinate allo smaltimento, responsabilizzando gli armatori per la loro gestione. La convenzione stabilisce infatti che qualsiasi rifiuto pericoloso, prima di essere esportato, debba prima ricevere il «consenso informato preventivo» (Prior Informed Consent, in inglese) cioè l’approvazione da parte del Paese d’arrivo. Altro punto fondamentale nella convenzione di Basilea è l’obbligo di una gestione appropriata dei rifiuti pericolosi che il metodo del beaching (vedi box) non riesce a garantire. Alla Convenzione di Basilea si è aggiunto il Ban Amendment, un’ulteriore clausola che proibisce per le navi che operano in acque dei Paesi aderenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), come i Paesi europei, di essere smaltite al di fuori di paesi non Ocse, come India, Pakistan e Bangladesh.
Adottato nel marzo 1994, il Ban Amendment è entrato in vigore solo nel 2019 per contrastare il fenomeno del colonialismo dei rifiuti che vede Paesi soprattutto occidentali inviare materiali tossici nelle vecchie colonie in cambio della promessa di aiuti e accordi economici.
Il vincolo geografico del Ban Amendment è però facilmente aggirabile: se una nave a fine vita si trova in acque internazionali, ad esempio, può facilmente finire in Paesi non appartenenti all’Ocse. «Una nave diventa rifiuto pericoloso ed è coperta dalla Convenzione di Basilea solo quando l’armatore dichiara che sta andando ad essere smantellata, è sufficiente che l’armatore menta all’autorità portuale del Paese dove si trova e dichiari che la nave in realtà non sta facendo l’ultimo viaggio ma cambia rotta perchè deve essere riparata», spiega a IrpiMedia Nicola Mulinaris dell’ong Shipbreaking Platform, che da anni si batte contro le esportazioni di navi a fine vita nel Sud dell’Asia.
Anche quando le autorità competenti ricevono informazioni relative a un possibile raggiro da parte degli armatori, quasi mai riescono a far valere la convezione: «Perseguire l’armatore non succede nel 99% dei casi, sia per mancanza di conoscenza della legislazione da parte dell’autorità, sia per mancanza di risorse umane nei Paesi competenti. Ma anche per una vera e propria connivenza delle autorità con l’industria marittima», prosegue Mulinaris.
Le diverse leggi internazionali
Convenzione di Basilea 1989. In vigore dal 1992. I Paesi che esportano materiali pericolosi e rifiuti devono notificarlo al Paese importatore indicando la quantità e la natura del rifiuto. Il Paese che importa deve acconsentire con un’approvazione scritta.
Basel Ban Amendment 1995. In vigore dal 2019. Il divieto proibisce l’esportazione di materiali pericolosi, incluse le navi destinate allo smantellamento, da Paesi appartenenti all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) a Paesi non membri.
EU Waste Shipment Regulation. In vigore dal 2006. Regola le navi che diventano rifiuto in acque territoriali europee. Rappresenta l’applicazione della Convenzione di Basilea in Europa.
Hong Kong Convention 2009. Entrerà in vigore il 26 giugno 2025, dopo la ratifica del Bangladesh il 26 giugno 2023. Regolamenta l’intero ciclo di vita della nave in modo che arrivi alla fase di smantellamento in sicurezza e senza procurare danni ai lavoratori e all’ambiente. Prevede per le navi di nuova costruzione l’inventario dei materiali pericolosi sempre presente a bordo.
European Ship Recycling Regulation 2013 (EU SRR). In vigore dal 2019. Si applica solo alle navi battenti bandiera europea. Applica la Hong Kong convention in Europa ma rende la convenzione più stringente. Include, all’interno della lista dei materiali pericolosi vietati sulle navi, tre nuove sostanze rispetto alla Hong Kong convention. Impone alle navi europee di essere smantellate in cantieri inseriti in una specifica lista di cantieri verificati, quasi tutti in Europa.
L’altro ostacolo per la convenzione di Basilea è l’Organizzazione marittima internazionale (Imo), un’agenzia delle Nazioni Unite per la sicurezza in mare, che dal 2004 ha negoziato un’altra convenzione sotto la spinta della stessa industria marittima. Nel 2009 infatti viene emanata dall’organo ONU la convenzione di Hong Kong che entrerà in vigore a giugno 2025 dopo la recente ratifica del Bangladesh e della Liberia avvenuta il 26 giugno scorso.
Al momento della stesura Lee Adamson, portavoce dell’Imo fino al 2020, dichiarò che le nuove norme erano necessarie al fine di dare indicazioni specifiche ad un settore, quello delle navi a fine vita, che fino ad allora non ne aveva avute. Interrogata da IrpiMedia, l’Imo ha infatti precisato che la Convenzione di Basilea regolamenta solo il trasporto dei rifiuti pericolosi, annoverando tra questi le navi a fine vita ma, a differenza della Convenzione di Hong Kong, non è specifica per il settore navale.
La convenzione di Hong Kong non proibisce lo smantellamento della nave nei cantieri dei Paesi non Ocse. Ne regolamenta però i processi, obbligando le navi ad avere una lista dei materiali pericolosi (list of hazardous materials, LHM in inglese) a bordo, così da facilitare la scelta delle tecniche e dell’equipaggiamento da usare durante lo smantellamento.
«Dal punto di vista del legislatore l’interpretazione e l’applicazione della convenzione di Basilea è il divieto: non possiamo portare una nave in Bangladesh per lo smantellamento», spiega a IrpiMedia l’avvocato Francesco Del Freo, esperto di diritto penale transnazionale. «Con la convenzione di Hong Kong la nave non viene considerata pericolosa in sé, ma ha delle componenti tossiche che vengono riconosciute e registrate dalla A alla Z», aggiunge Del Freo.
La Convenzione di Hong Kong non vieta il beaching e non prevede standard ambientali o lavorativi specifici, limitandosi a fare affidamento sulle leggi nazionali di ogni Paese. Non richiede di notificare il Paese ricevente e quindi toglie la possibilità di negare alle navi-rifiuto di raggiungere le coste. A differenza della convenzione precedente, inoltre, non include nel suo campo di applicazione la gestione dei rifiuti pericolosi a valle dell’impianto, per cui i materiali pericolosi registrati e riportati nella lista presente a bordo verranno smaltiti secondo le normative interne dei vari Paesi, contravvenendo allo spirito stesso del Ban Amendment, che vieta l’export di rifiuti pericolosi da paesi Ocse a paesi non Ocse.
Il mercato dei cantieri
La convenzione di Hong Kong lascerebbe quindi liberi i proprietari di scegliere il cantiere a cui vendere la propria nave per trarne il profitto maggiore. Contrariamente a quanto si possa pensare, infatti, le navi da rottamare hanno ancora un valore notevole, a seconda del mercato di destinazione.
Ad oggi sono i cantieri in Asia a fornire il prezzo migliore: i cantieri in Turchia riescono a pagare circa 325 dollari per tonnellata, mentre Pakistan e India si aggirano intorno ai 525 dollari per tonnellata. Il Bangladesh è attualmente il porto più conveniente, con navi che vengono acquistate a circa 600 dollari a tonnellata. Il totale, per navi da cargo medio grandi, può facilmente arrivare a 5-10 milioni di dollari.
I prezzi dipendono dalla domanda in loco delle aziende siderurgiche, che comprano rottami per la fabbricazione di nuovo acciaio, ma anche dalle condizioni di lavoro nei cantieri di demolizione. Rinunciando, infatti, a una serie di precauzioni, attrezzature e diritti per i lavoratori, le compagnie di smantellamento asiatiche riescono a garantire prezzi più che competitivi. Non c’è da stupirsi quindi se i proprietari delle navi scelgono i cantieri asiatici rispetto ai corrispettivi europei, i cui prezzi variano dai 50 ai 150 euro a tonnellata, avendo spese molto più alte.
Peter Wyntin, responsabile delle misure di sicurezza, ambientali e di salute di uno dei cantieri autorizzati dall’Ue, il Van Heyghen Recycling di Gent, Belgio, spiega il perchè di questa scarsa competitività: «Solo per togliere materiali come l’amianto la nave deve essere inserita all’interno di una struttura, simile ad un bozzolo, a tenuta stagna da cui non può uscire nessuna sostanza», dice a IrpiMedia, «solo questo fa aumentare di molto i costi di smaltimento». In Ue infatti i cantieri devono essere in grado di contenere tali rifiuti, oltre ad aderire agli standard di sicurezza e ai diritti dei lavoratori.
I cantieri autorizzati secondo le norme Ue a smaltire le navi sono sottoposti a scrutinio della Commissione e vengono inseriti all’interno della lista europea delle strutture di riciclaggio, che viene aggiornata in continuazione sulla base di segnalazioni, positive o negative da parte di terzi come ong, e risultati di ulteriori controlli. Aggiornata ad aprile 2022, ad oggi la lista include un totale di 45 cantieri, di cui 35 in Ue, nove in Turchia, tre nel Regno Unito e uno negli Stati Uniti.
Secondo l’associazione di categoria tedesca Vdr (German Shipowner’s Association), che sostiene apertamente l’implementazione della Convenzione di Hong Kong «la capacità di riciclaggio dei cantieri attualmente inclusi nell’elenco dell’Ue copre solo una frazione delle navi a fine vita battenti bandiera dell’Ue».
Tra le proposte della Vdr sottoposte alla Commissione europea in merito alla modifica della legislazione comunitaria c’è infatti quella di aggiungere «nell’elenco tutti gli impianti di riciclaggio presenti in Paesi non Ocse che soddisfino gli standard Ue».
Peter Wyntin dal suo cantiere in Belgio non sembra essere d’accordo. Il problema non sarebbe dovuto all’inadeguatezza dei cantieri di riciclo, quanto al numero effettivo di navi che vengono portate nei porti europei. «Non ci sono più navi che vengono riciclate qui. Pensate che la capacità dei cantieri europei è di 1,3 milioni di tonnellate annue, ma ad oggi se va bene smaltiamo 100 mila tonnellate l’anno, e al massimo siamo arrivati al 30% di capacità», dice con una smorfia sul viso.
Alla nostra richiesta di commento, la Vdr ci ha invitato a rivolgerci direttamente ai loro rappresentati in Europa, l’European Community Shipowner Association (ECSA).
Vizio di forma
L’80% delle navi nel mondo e circa il 90% delle navi europee riesce ad arrivare indisturbata nei lidi asiatici lasciando così i cantieri europei convenzionati a secco. Ma com’è possibile questa dinamica? L’inghippo sta nella bandiera.
Quando la Race sbarca a Chittagong batte bandiera liberiana. Secondo fonti di IrpiMedia confermate dai database marittimi, la nave avrebbe cambiato bandiera passando da Malta alla Liberia per aggirare la EU SRR (vedi box – Le diverse leggi internazionali) il primo aprile 2020. In quel momento si chiama ancora ABML Grace, cambierà nome cinque mesi dopo, passando dalla società italiana Cafiero Mattioli alla Continental Vessel Brokering con sede in Texas, USA.
La legge europea lascia la giurisdizione della nave al Paese di cui questa batte bandiera e quindi crea un cavillo che permette di aggirare facilmente la regolamentazione. «In questo caso basterà cambiare la bandiera dell’imbarcazione che si vuole demolire subito prima di effettuare l’ultimo viaggio così da evitare i problemi legali», spiega Nicola Mulinaris. Sono le cosiddette bandiere di convenienza con cui si immatricolano navi in Paesi che garantiscono una procedura veloce senza bisogno di adempiere ad alcuna clausola. Paesi come St. Kitts and Nevis, Palau e Tuvalu, che offrono dei “pacchetti ultimi viaggi” per navi che devono essere smaltite senza dover avere né un’azienda in loco a cui è registrata la nave, né vincoli di nazionalità per i proprietari della nave. Nella maggior parte dei casi però non sono i proprietari a mettere in atto queste pratiche, «quasi tutte le navi che finiscono in Asia meridionale passano per i cash buyer», dice Mulinaris, che si occupano di tutte le procedure riguardanti l’ultimo viaggio. Alla nostra richiesta di commento la società Cafiero Mattioli non ha risposto.
L’ultimo viaggio della nave
Il fine ciclo vita di una nave non varia solo in base all’età dell’imbarcazione. Mantenere una nave è dispendioso per cui l’intero processo di smantellamento è soggetto alle fluttuazioni del mercato. Quando il mercato legato a una tipologia specifica di navi va male, gli armatori sono più incentivati alla rottamazione. Lo smantellamento delle navi da crociera, per esempio, è stato influenzato dalla pandemia. Stessa sorte è toccata alle navi con container a bordo che hanno visto diminuire il proprio mercato. Quando gli armatori smettono di guadagnare dall’utilizzo della nave, come l’affitto degli spazi container a bordo, decidono di anticipare lo smantellamento. Altro fattore è il prezzo offerto dai cantieri. Quando diminuiscono le navi da smantellare si alza il prezzo per cui gli armatori sono incentivati ancora una volta ad anticipare la rottamazione della propria nave.
I cash buyers
La Continental Vessel Brokering che ha acquistato la Race dalla Cafiero Mattioli è un cash buyer: un intermediario che si occupa di comprare le navi per far compiere loro l’ultimo viaggio.
Tra l’azienda marittima e il cash buyer possono esserci due tipi di vendite: as is where is, cioè l’acquisto della nave esattamente dov’è situata nel momento della vendita da parte del cash buyer, e l’upon delivery, dove l’armatore stesso consegna la nave in un luogo scelto dal cash buyer. La maggior parte degli armatori però preferisce il primo metodo, l’as is where is, anche se l’offerta è più bassa. Questo tipo di accordo infatti libera i proprietari delle navi da qualsiasi fardello burocratico e giudiziario, lasciando al cash buyer tutte le responsabilità dell’ultimo viaggio. «La pratica è particolarmente conveniente ai proprietari delle navi che in questo modo posso dichiarare di non aver avuto nulla a che fare con la vendita di rifiuti e di non sapere la destinazione ultima della nave, non avendo di fatto avuto contatti con i cantieri», dice Mulinaris.
Una volta ottenuta l’imbarcazione, il cash buyer pensa a cambiare la bandiera della nave, se inizialmente di un Paese europeo, in una di convenienza a cui non si applicano le diverse regolamentazioni, né quella Europea né quella di Basilea.
«È indiscutibile che i proprietari delle navi, una volta compresi i limiti delle due regolamentazioni europee, siano in grado di aggirare in maniera legale le leggi attraverso il cambio di bandiera o la vendita delle imbarcazioni con la tecnica del as is where is», ammette Nikos Mikelis, ex direttore Imo per l’inquinamento marino e il riciclo navale. Durante il suo periodo all’Imo, Mikelis ha sponsorizzato la Hong Kong convention come regolamentazione in grado di «aggiustare il tiro» nell’industria del riciclaggio e fornire standard ambientali per tutti i cantieri nel mondo. Dopo la sua dipartita dall’Imo, nel 2012 decide di andare nel settore privato e diventa consulente e direttore non esecutivo di Global Marketing Systems (GMS) che, con circa un terzo delle navi sul mercato globale comprate, 40% se si considerano anche le navi di dimensioni minori, rappresenta oggi il più grande cash buyer al mondo.
Interrogata da IrpiMedia rispetto al ruolo di Mikelis da ex direttore dell’Imo a consulente di Gms, l’Imo ha risposto che «le persone che lavorano per l’Imo sono dipendenti pubblici internazionali e non sono legate a società private mentre lavorano all’Imo. Una volta in pensione dall’Imo, possono decidere liberamente cosa fare». In quanto a Gms, la compagnia di base a Dubai è guidata dal fondatore Anil Sharma che più volte ha supportato la ratificazione della convenzione di Hong Kong, affermando che «ci sono cantieri sicuri e cantieri non a norma in tutto il mondo, non è [un discorso] a livello di Paese ma a livello di cantiere».
I cantieri principali a cui Gms vende le navi sono nei porti di Chittagong (Bangladesh), Gadani (Pakistan) e Alang (India). Proprio sulle spiagge della città indiana sono collocati anche i cantieri del Leela group, società per lo smaltimento delle navi posseduta dal fratello di Anil, Komalkant Sharma.
Lidi mai raggiunti
Negli anni, Gms è stata spesso menzionata in processi giudiziari in tutto il mondo in casi di violazione delle regolamentazioni sullo smaltimento di rifiuti pericolosi. Già nel 2008 la società di Dubai è stata accusata dalla statunitense Environment protection agency (Epa) di aver gestito, tramite l’affiliata Global shipping LLC, l’acquisto di un transatlantico con l’obiettivo di demolirlo in un cantiere asiatico, in violazione della legge USA sul controllo sulle sostanze tossiche.
Nell’agosto 2016 invece viene coinvolta nel caso della piattaforma petrolifera FPSO NORTH SEA PRODUCER, di proprietà della joint venture Maersk-Odebrecht. La piattaforma era ormeggiata nei mari inglesi prima di essere venduta alla Conquistador shipping corporation, società basata a St. Kitts e Nevis. La Maersk aveva avvertito che la Northsea producer sarebbe stata trasportata in Nigeria dove avrebbe continuato ad operare. In realtà la piattaforma non si è mai bagnata nei mari nigeriani ma è stata invece direttamente trasportata a Chittagong, dove è stata poi smantellata. Solo successivamente si è venuto a sapere che la Conquistador shipping corporation era una società fittizia creata da Gms, cosa di cui la Maersk era al corrente fin dall’inizio della trattativa.
In più, le carte che accompagnavano la piattaforma non riportavano la presenza dei vari materiali tossici presenti a bordo, di fatto violando la legge europea sullo smaltimento dei rifiuti. A novembre 2016, la Corte suprema del Bangladesh ha dichiarato l’importo, lo spiaggiamento e la demolizione della piattaforma come azioni illegali. Ad oggi, proseguono le indagini da parte delle autorità inglesi e danesi per dimostrare la responsabilità dei vari attori coinvolti. Interpellata da IrpiMedia sulle diverse azioni condotte nel campo dello smaltimento delle navi, Gms non ha risposto.
Una questione di peso
Diverse critiche sono state mosse alla maglia larga della convenzione di Hong Kong voluta dall’Imo che permetterebbe di fatto azioni finora illegali secondo le altre regolamentazioni internazionali. Il problema però è strutturale e dipende proprio da come vengono “pesati” i diversi Stati membri di Imo all’interno dell’organizzazione. Ogni Stato membro dell’Imo deve infatti versare, come fondo per l’organizzazione, un importo proporzionale al peso in tonnellate della propria flotta, così da far pagare di più a chi ha maggiori interessi a livello marittimo.
Questo però, se preso in considerazione assieme al fenomeno delle bandiere di convenienza, produce un’aberrazione democratica che può essere difficile da intuire ad un primo sguardo. Se il peso decisionale su ogni regolamentazione è proporzionale al peso delle flotte di ogni Paese, significa che Paesi che mantengono registri navali poco controllati, aperti e favorevoli ai desideri dell’industria, finiscono per avere più influenza sia di quelli che cercano di regolamentare il settore, sia di quelli che sono danneggiati da pratiche irresponsabili a livello ambientale e lavorativo.
Basti pensare che attualmente tre Stati membri (Panama, Marshall Island e Liberia) possiedono formalmente il 42% delle flotte nel mondo. Ma non è in questi Paesi che si concentra il capitale e la proprietà reale delle flotte.
L’industria navale riesce quindi, tramite un gioco di specchi, a mantenere i suoi capitali e operazioni nei Paesi occidentali e a forzare le leggi di quegli stessi Paesi per voce di altri, minuscoli, che hanno visto nel diventare “paradisi fiscali delle bandiere navali” una delle poche fonti sicure di introiti. Non a caso il progresso nella ratifica della convenzione di Hong Kong è arrivato proprio con l’entrata in gioco della Liberia. «La Liberia ha la flotta, il Bangladesh gli apparati di demolizione», dice l’avvocato Del Freo «È come avere uno sfasciacarrozze e fare l’accordo con la Fiat».
Facilitate a ripetere il processo di riciclo e profitto innescato dalla rottamazione delle navi, le singole aziende saranno incentivate a continuare le pratiche considerate illegali sotto la convenzione di Basilea. Chi ne farà le spese saranno il mondo marino e la schiera di lavoratori per noi anonimi che quotidianamente affolla le spiagge metalliche dell’Asia.
Sulle storie dei lavoratori nei cantieri navali in Bangladesh uscirà un report di Human Rights Watch e dell’ong Shipbreaking Platform il 28 settembre.
CREDITI
Autori
Carlotta Indiano
Fabio Papetti
Ha collaborato
Vedat Oruc
Zeynep Sentek
Craig Shaw