Acque sporche: allevamenti intensivi e inquinamento al tempo della crisi climatica
Nel Bacino Padano, il sistema di allevamenti intensivi e le pratiche di irrigazione dei campi minacciano la qualità delle acque dei fiumi e delle falde, mentre i parametri della Direttiva Nitrati dell'UE sono spesso disattesi
01 Novembre 2023

Cecilia Fasciani
Fergal MacErlean

In Italia un bovino su quattro si trova nel territorio della regione Lombardia, un milione e mezzo di capi su un totale di circa sei milioni. In regione oggi sono presenti oltre 16.000 allevamenti di bovini. Tra le province lombarde il primato va a Brescia, che conta il 28% degli allevamenti e il 32% dei capi della regione. Nella classifica, alla Lombardia seguono il Veneto, il Piemonte, poi l’Emilia-Romagna, con oltre mezzo milione di bovini e più di un milione di suini allevati. Nella sola provincia di Modena, confinante con la regione lombarda, il numero di bovini si attesta attorno alle 100.000 unità.

Tutti questi animali, concentrati in relativamente poco spazio, producono alla fine carne, salumi e formaggi, le famose “eccellenze italiane”, ma producono anche enormi quantità di un sottoprodotto sempre più difficile da gestire, il letame. «In Lombardia vengono prodotti circa 23 milioni di tonnellate di letame all’anno tra bovini e suini, circa sei volte la produzione in peso di rifiuti solidi urbani della regione. Quello che una volta era l’oro dei campi oggi è diventato un rifiuto», spiega Damiano Di Simine, portavoce del comitato scientifico di Legambiente Lombardia.

Di Simine fa un’affermazione che pare ovvia, ma che in realtà sottintende una presa di posizione in contrasto con le politiche che la Regione Lombardia ha assunto ultimamente: «Per la normativa europea non è un rifiuto ciò che può essere utilizzato secondo buona pratica agronomica, e quindi il letame non acquisisce la qualifica di rifiuto se viene usato per, come si dice da queste parti, “ingrassare i campi”, cioè dare nutrienti, sostanza organica, azoto, fosforo, potassio alle colture».

L'inchiesta in breve
  • Gli animali presenti negli allevamenti intensivi, e soprattutto i bovini, concentrati in poco spazio producono enormi quantità di un sottoprodotto sempre più difficile da gestire, il letame
  • Un eccessivo spandimento di deiezioni animali sui terreni provoca un inquinamento specifico, quello da nitrati, che dal terreno si trasferisce alle acque anche attraverso pratiche di irrigazione dei campi che sono sempre meno sostenibili alla luce dei cambiamenti climatici in atto
  • In Italia un bovino su quattro si trova nel territorio della regione Lombardia, un milione e mezzo di capi su un totale di circa sei milioni: la Direttiva Nitrati in merito ai carichi di azoto viene disattesa in molti comuni delle province di Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova
  • A causa dell’eccessivo apporto di nutrienti, anche nei fiumi esiste un ritorno del processo di eutrofizzazione, soprattutto nel Bacino Padano: un processo anche questo legato al cambiamento climatico perché sta innalzando la temperatura e riducendo la quantità d’acqua disponibile nei fiumi
  • La mancanza di controlli puntuali, i processi di semplificazione in merito alle valutazioni ambientali dei piani urbanistici comunali e l’indifferenza da parte delle istituzioni preposte non sembrano indicare una volontà di invertire la rotta e ristabilire un equilibrio con l’ambiente circostante

Ma nel sistema di allevamento intensivo, prevalente nel nostro Paese, vengono prodotti talmente tanti liquami «che gli agricoltori in molte situazioni si trovano in difficoltà a trattarli e gestirli». Un eccessivo spandimento di deiezioni animali sui terreni provoca infatti non solo un odore insostenibile per chi si trova nella zona, ma anche un inquinamento specifico, quello da nitrati, che dal terreno si trasferisce alle acque.

Solitamente nelle acque sotterranee la concentrazione di nitrati è dell’ordine di pochi milligrammi per litro, in base al tipo di suolo e alle precipitazioni. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, concentrazioni di nitrati al di sopra dei 9 mg/l per le acque sotterranee e 18 mg/l per quelle superficiali, sono quasi sempre imputabili alle attività zootecniche o al massiccio uso di fertilizzanti azotati che vengono lavati via dalle piogge e trasferiti nelle acque, trasportate dal flusso di falda.

Nelle acque destinate al consumo umano il valore limite stabilito dalla legge per i nitrati è di 50 mg/l. I limiti normativi, secondo la United States Environmental Protection Agency (EPA), sono già troppo alti per proteggere efficacemente i neonati. Infatti il livello massimo per proteggere i bambini fino a sei mesi di vita dovrebbe restare sotto i 10 mg/l, perché sono ancora sprovvisti dell’enzima necessario a compensare gli effetti di un’eccessiva ingestione.

Bovini e azoto, il triste primato della Lombardia

I numeri sull’impatto degli allevamenti di bovini e bufalini in Lombardia rispetto al resto d’Italia

Infatti, secondo diversi studi scientifici, i nitrati, una volta ingeriti dall’organismo umano, reagiscono formando le nitrosammine, che possono avere conseguenze potenzialmente cancerogene. A concentrazioni elevate, una volta veicolati nel sistema circolatorio i nitrati possono causare un aumento anomalo di metaemoglobina, che può compromettere l’apporto di ossigeno ai tessuti mettendo in pericolo soprattutto i bambini. Proprio allo scopo di proteggere le acque dall’inquinamento causato dai nitrati di origine agricola, nel 1991 l’Unione europea ha approvato la Direttiva Nitrati: gli Stati membri sono tenuti ad attivare programmi di monitoraggio delle acque con tempistiche precise su tutto il territorio nazionale. In Italia la direttiva è stata recepita nel Decreto Legislativo del 2006, secondo cui le Regioni italiane sono le amministrazioni responsabili dell’attuazione degli obblighi della Direttiva Nitrati.

I limiti fissati dalla direttiva sono ben precisi: ogni agricoltore deve avere un piano agronomico per i propri fertilizzanti e liquami, e non può usare più di 340 chilogrammi di azoto per ettaro, che corrisponde ai requisiti nutrizionali delle colture. In zone sensibili (ZVN), in cui ad esempio c’è il rischio di una perdita di azoto in falda, questa soglia viene dimezzata: non si possono usare più di 170 chilogrammi di azoto per ettaro. Ma nel triangolo tra Brescia, Mantova e Cremona, dove si trova la più alta densità di allevamenti, la concentrazione dei nitrati nelle acque superficiali e di falda è ben al di sopra dei parametri ammessi dalla direttiva europea: «Quasi ovunque in Pianura Padana siamo ben oltre i 10 mg/l di nitrati, mentre in modo più o meno diffuso capita anche di superare la soglia dei 50. Per le acque superficiali quello che ci preoccupa maggiormente sono i processi di eutrofizzazione, ossia una forte diminuzione di ossigeno e moria di pesci i cui effetti a cascata arrivano fino all’Adriatico. Mentre se parliamo di acque di falda, ci preoccupa soprattutto l’impatto dei nitrati sulla salute umana», denuncia Di Simine.

Soprattutto in regione Lombardia, dove anche la densità di unità di bovino adulto (UBA) per ettaro (fra i 2,8 e i 3) è al di sopra dei massimi consentiti dalla direttiva (1,5 massimo 2), le quantità di nitrati sono altissime. «Nelle zone ad alta intensità di allevamento, su base comunale si misurano anche 5-6-7 UBA per ettaro, completamente fuori scala rispetto alla capacità delle colture di assorbire l’azoto».

Inoltre, secondo le denunce raccolte da Di Simine, non solo i limiti sono spesso superati, ma ci sono frequenti casi di pratiche completamente illecite: «Gli agricoltori, approfittando di un momento di distrazione di chi fa i controlli, aprono il fondo della cisterna e tutti i liquami vanno a finire nella roggia che passa nelle vicinanze. Io ho una cronologia di eventi di questo genere che è infinita. Purtroppo, accadono in modo sistematico, specialmente nella pianura bresciana, mantovana e cremonese», continua.

La Lombardia alla prova della Direttiva Nitrati

Quello dei nitrati, dell’insostenibilità di alcune forme di agricoltura, è una questione di cui si parla da anni. Le istituzioni sono a conoscenza del danno che arrecano alle acque di queste regioni ma non sembrano esserci segnali di voler invertire la rotta né, tantomeno, controllare chi si sente assolto da un clima di impunità. E oggi, mentre la situazione si sta aggravando ulteriormente a causa del cambiamento climatico in atto, le regioni più colpite come la Lombardia chiedono ulteriori deroghe per innalzare le soglie di legge anche nelle zone vulnerabili.

Damiano Di Simine è tra le persone che nel 2019 si sono rivolte direttamente alla Commissione europea dopo che la regione Lombardia ha preso la decisione di andare in deroga alla Direttiva Nitrati e il suo decreto di recepimento italiano. Questa prevede, fra l’altro, che non si possano spandere liquami per 90 giorni nel periodo invernale, e per 60 giorni continuativi dal 1 dicembre al 31 gennaio: «L‘utilizzo invernale dei liquami non ha nessuna giustificazione, perché significa usare un fertilizzante in assenza di coltura», spiega Di Simine. «Nel 2019 piovve molto da ottobre fino a dicembre, e se piove evidentemente non si può spandere il letame sul terreno perché colerebbe tutto molto più velocemente nella falda. In quell’occasione, il ministero dell’Agricoltura italiano inviava una nota alle Regioni dicendo di aver trovato degli espedienti per consentire delle finestre di sversamento anche in inverno. Appena vista questa comunicazione, abbiamo scritto all’Unione europea», continua il coordinatore scientifico di Legambiente.

La regione Lombardia, essendo quella più in difficoltà, decide non solo di utilizzare le facoltà di deroga concesse dal ministero dell’Agricoltura, ma addirittura di inserirle nella propria norma di recepimento: anziché i 60 giorni previsti dal decreto nazionale, nella regione lombarda ancora oggi il periodo continuativo di divieto è limitato a 30 giorni.

A febbraio 2023, la Commissione europea ha inviato un parere motivato all’Italia (secondo passo nelle procedure di infrazione-INFR. 2018-2249), per non aver rispettato la Direttiva Ue (Direttiva 91/676/CEE) e non aver protetto meglio le sue acque dall’inquinamento causato dai nitrati provenienti da fonti agro-zootecniche. Se il ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste non adotta le misure necessarie, la Commissione potrebbe decidere di deferire il nostro Paese alla Corte di Giustizia dell’Unione europea con il rischio di pesanti sanzioni che graverebbero su tutta la cittadinanza.

Campi coltivati, aziende agricole e vasconi di stoccaggio di liquami animali nella zona sud del Comune di Modena. Nella sola provincia di Modena le unità di bovini adulti sono quasi 100.000 e i suini 350.00 – Foto: Cecilia Fasciani

Ma queste contraddizioni riguardano anche l’Ue nel suo complesso: durante la plenaria dell’11 luglio 2023 l’Europarlamento vota per escludere gli allevamenti bovini dalla direttiva sulle emissioni industriali, bocciando così la proposta che la Commissione aveva presentato ad aprile 2022 in vista della revisione del testo e segnando un netto cambio di rotta rispetto al Green Deal europeo.

Inoltre, i fondi europei della Politica Agricola Comune (PAC), secondo un’inchiesta dell’Unità Investigativa di Greenpeace, sono andati per quasi il 45% (120 milioni di euro su oltre 250 per la Lombardia) proprio nei 168 comuni dove è stato sforato il carico legale di azoto. Inoltre, i 40 comuni lombardi in cui gli allevamenti hanno ricevuto più fondi rientrano tutti nelle Zone Sensibili (ZVN), e più dell’80% di questi comuni ha sforato il limite di carico di azoto. Infine, stando al Sistema Informativo Lombardo Silva, Greenpeace nota che tra dicembre 2018 e gennaio 2020 in 33 di questi comuni sono stati approvati almeno 10 progetti di ampliamento o di costruzione di nuovi allevamenti.

Il cambiamento climatico e la situazione già compromessa delle acque nel Bacino Padano

Anche durante le giornate di caldo estivo insopportabile, quando si fatica solo a respirare, Marco Bartoli, professore dell’università di Parma ed ecologo acquatico che da sempre si occupa di qualità chimica delle acque, si reca nella zona a sud della Lombardia, nella provincia di Mantova, per condurre le rilevazioni sull’acqua dei fiumi che scorrono in quelle zone, che dai grandi laghi del Nord Italia finiscono ad alimentare il fiume più lungo del Paese, il Po.

Il professore conosce a menadito strade e stradine che si diramano nella bassa mantovana, dove le monocolture di mais invadono ogni metro di terreno agricolo. Talvolta lascia la macchina al bordo della strada per infilarsi in piccoli sentieri in mezzo ai campi e raggiungere tratti di fiume lontani dallo sguardo dei più. Bartoli ha cominciato il suo percorso studiando le acque in prossimità del mare, ma poi ha deciso di tornare verso l’interno, dove secondo lui sono le origini del problema. E ha messo su un gruppo di ricerca proprio per analizzare l’acqua di questi fiumi: «Quello che stiamo facendo oggi, rispetto al blocco di conoscenze tradizionali, è di legare il problema degli allevamenti intensivi, della fertilizzazione e dell’irrigazione dei campi con il cambiamento climatico in atto e la conseguente riduzione delle portate d’acqua nei fiumi».

Considerato il numero e la densità di capi allevati in queste zone, fa una certa impressione non vederne nemmeno uno al pascolo mentre il professore si ferma più volte a prendere dei campionamenti in diversi punti del letto del fiume Mincio. «L’agricoltura in Italia è fortemente irrigata, con più di 50.000 chilometri di canali artificiali costruiti dall’uomo negli ultimi cinque secoli che hanno facilitato la distribuzione dell’acqua prelevata dai fiumi e il raggiungimento capillare di ogni appezzamento agricolo. È ciò che ha permesso questo benessere diffuso», spiega Bartoli.

Ma di questa stessa acqua che irriga, solo una piccola quantità viene mangiata dalle piante, mentre per la gran parte torna ai fiumi: «La qualità chimica nell’andata e nel ritorno è completamente diversa. I fiumi che si originano dai grandi laghi alpini sono tra i più puliti e di elevata qualità di tutta Europa, come il Mincio. Le sue acque, attraverso cui vengono irrigati dei campi con un’enorme eccedenza di azoto, tornano nell’alveo del fiume con una concentrazione di nitrati che è dieci volte più alta di quella con cui sono uscite», continua il professore. «Se invece si irriga su un terreno molto ghiaioso, quest’acqua percola verticalmente, va a inquinare la falda e lì si accumula».

Questo processo viene definito irrigation loop: «Il nitrato è infatti un viaggiatore per definizione attraverso l’acqua, e qui si crea un circolo vizioso per cui l’irrigazione fa da volano all’inquinamento. E adesso siamo in una fase nuova, perché quest’acqua è disponibile in maniera diversa rispetto al passato». La sete di un’agricoltura che è nata e cresciuta con abbondante disponibilità di acqua fa sì che i fiumi vengano sempre più prosciugati. Oggi il Mincio presenta dei punti in cui appare quasi in secca.

«La nostra storia come gruppo di ricerca nasce casualmente dal monitoraggio dei fiumi Mincio e Oglio: quando abbiamo messo insieme i dati, abbiamo visto uscire fuori un grafico a scalini del tutto innaturale. I nitrati tendono sempre ad aumentare nei fiumi, ma non esiste in natura un fiume che sia fatto a scalini, e il cambiamento climatico sta estremizzando questo processo».

Rispetto agli ambienti acquatici, un punto di riferimento è sicuramente il Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino, dove lavorano anche i docenti e gli studenti che sono protagonisti del progetto Alpstream, in cui si analizza l’impatto del cambiamento climatico, e in particolare della siccità, sullo stato ecologico dei fiumi alpini.

Nel 2020 l’Autorità Distrettuale di Bacino del fiume Po (ADBPO) ha commissionato una ricerca in merito all’origine dei carichi inquinanti nel distretto padano proprio alle Università di Torino, Parma e Ferrara, che si sta concludendo in queste settimane.

Francesca Bona, professoressa biologa dell’università di Torino, ha coordinato una parte del progetto insieme a Daniele Nizzoli, professore del Dipartimento di Scienze Chimiche e della Sostenibilità Ambientale dell’Università di Parma: «L’eutrofizzazione è un processo che può avvenire negli ecosistemi acquatici quando c’è un eccessivo apporto di nutrienti, ossia i composti che servono per la crescita delle piante acquatiche e delle alghe, e l’obiettivo era quantificare proprio i carichi di azoto e fosforo provenienti dal bacino che comportano eutrofizzazione, che dai vari fiumi vanno poi a determinare un carico finale nel Mar Adriatico». Di per sé l’eutrofizzazione potrebbe sembrare quasi un fenomeno positivo: c’è più ricchezza, più biomassa. «Ma il problema è che quando questo arricchimento è eccessivo, anche la crescita è eccessiva, e quindi l’ecosistema non riesce più a farvi fronte. Questo può provocare delle situazioni di deficit di ossigeno, e le conseguenze sugli ecosistemi acquatici possono essere anche molto gravi», spiega la professoressa.

Questa ricerca sembra essere complementare agli studi fatti dal professor Bartoli, perché c’è sempre l’azione del cambiamento climatico a scompaginare le carte in tavola. L’eutrofizzazione tradizionalmente ha sempre riguardato soprattutto le aree costiere, o i laghi, quegli ecosistemi lenti caratterizzati da uno scarso ricambio idrico, che favorisce l’accumulo di nutrienti. «Ma quello a cui stiamo assistendo da un po’ di anni è che anche nei fiumi, nei tratti di pianura dove viene a mancare un po’ quell’azione vivificatrice della corrente, esiste un ritorno dell’eutrofizzazione, soprattutto nel Nord Italia e nel bacino padano. Questo è legato al cambiamento climatico perché sta innalzando la temperatura e riducendo la quantità d’acqua disponibile nei fiumi, che vedono ridurre la forza della propria corrente», continua Francesca Bona.

Studenti e ricercatori al centro di ricerca dell’Università di Torino (dove la professoressa Bona insegna e conduce le proprie ricerche insieme ai suoi colleghi di Alpstream) analizzano campionamenti delle acque di fiume – Foto: Cecilia Fasciani
Campionamenti di alghe prelevati dalle acque di fiume vengono analizzati dai ricercatori presso il Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino in merito ai loro studi sui processi di eutrofizzazione – Foto: Cecilia Fasciani

La direttiva quadro sulle acque del 2000, recepita in Italia nel 2006, tra le altre cose ha imposto agli Stati membri degli obiettivi da raggiungere, strutturando una scala con quattro stadi: elevato, buono, sufficiente, scarso. «Il primo obiettivo era ottenere entro il 2015 uno stato ecologico perlomeno buono in tutti i corpi idrici: non essendo stato raggiunto, è stato via via spostato nel tempo», spiega la professoressa. La prossima scadenza è il 2027, «ma siamo ancora parecchio lontani, è una sfida non indifferente da affrontare», conclude.

Mancati controlli, semplificazioni e indifferenza

Arrivando nella zona sud della città di Modena, in Emilia-Romagna, anche qui lo sguardo si disorienta sulla distesa di campi coltivati. Attraversando delle stradine molto strette in mezzo a colture e capannoni di allevamenti, uno strano olezzo arriva immediatamente alle narici, e accompagna chi abita in queste aree in maniera più o meno costante.

La sezione modenese dei Medici per l’Ambiente ISDE (International Society Doctors for the Environment) nasce da un piccolo nucleo di medici sul territorio che inizia a confrontarsi per approfondire e divulgare conoscenze scientifiche sull’ambiente.

La dottoressa Eva Rigonat, medico veterinario esperta di legislazione sanitaria, da anni è attiva nel monitoraggio e nella denuncia di illeciti nel settore agricolo. Fa parte del consiglio direttivo dell’associazione: «Questa è una piccola realtà, noi che abitiamo qui ci conosciamo da una vita, e abbiamo visto la trasformazione della campagna negli ultimi trent’anni, dove prima c’era una biodiversità enorme adesso ci sono solo mais, erba medica, sorgo o frumento, per giustificare poi anche lo spandimento di tutti questi liquami». Da questo gruppo informale di esperti si è poi creato un movimento di cittadinanza attiva, che ha deciso di far analizzare l’acqua dei pozzi tra la frazione di Cittanova, Baggiovara, Cognento e Marsaglia, area appena a sud-ovest della città di Modena che rientra in Zona Vulnerabile (ZVN): «L’abbiamo fatto con metodi riconosciuti ufficialmente, gli stessi dei protocolli dell’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale (ARPA)», racconta la dottoressa.

Dalla relazione prodotta dal collettivo ISDE si può notare come, sui 16 pozzi analizzati, solamente due sono al di sotto del limite di 50 mg/l, mentre tutti gli altri presentano numeri decisamente più elevati, arrivando a un picco di 122 mg/l. È curioso che l’unico pozzo inserito nella rete di monitoraggio regionale di ARPA Emilia-Romagna, il “pozzo guida” di zona MO69-00, registri invece livelli di 25-26 mg/l.

Nelle falde acquifere di Cognento e Marzaglia sono ubicati i pozzi da cui afferisce la maggior parte dell’acqua potabile dell’acquedotto di Modena gestito da Hera, la società che fornisce servizi energetici, idrici e ambientali a circa quattro milioni di cittadini. I dati di Hera dichiarati nelle bollette danno una concentrazione media per l’acquedotto del Comune di Modena tra i 23 mg/l e i 21 mg/l, ossia sopra la soglia consigliata dall’EPA per i bambini fino ai sei mesi di vita. Dopo varie ricerche all’anagrafe zootecnica e richieste di accesso ai dati alle istituzioni locali, per il gruppo di ricerca è stato possibile reperire solo una tabella riassuntiva dall’AUSL di Modena con i numeri complessivi di bovini-suini, e non i dati di ogni azienda.

Irrigazione a scorrimento superficiale su dei campi nella provincia di Mantova. L’acqua che arriva dal Mincio viene utilizzata in grandi quantità attraverso questo metodo di irrigazione – Foto: Cecilia Fasciani
Un dettaglio del metodo di irrigazione a scorrimento superficiale, attraverso cui grandi volumi di acqua vengono sparsi sui campi – Foto: Cecilia Fasciani

Andando nel dettaglio, si sono inoltre accorti di alcune discrepanze nelle tavole del Piano Urbanistico Generale del Comune, adottato il 22 dicembre 2022: alcune importanti aziende di allevamento risultano completamente assenti. Una di queste aziende presenta due enormi lagoni di 23.840 mq a cielo aperto, stracolmi di liquami, ma definiti nel PUG semplicemente come “bacini idrici”. Per di più, nella scheda del Comune non viene segnalata la Fossa degli Orsi, un corso d’acqua minore che passa a pochi metri di distanza da questi laghi di liquami. La porcilaia dista solamente cinque km dal centro storico di Modena, e il gruppo di ricerca si chiede quanti altri allevamenti a Modena o in regione possano essere stati sottostimati. «È una gravissima omissione. Alle nostre sollecitazioni l’assessore all’Urbanistica ci ha risposto che “possono succedere degli errori”», denuncia Rigonat, ma «i dati emersi dall’analisi dei pozzi dimostrano, ancora una volta, che occorre agire all’origine del problema: diminuire il numero di animali soprattutto nelle ZVN. I controlli in merito agli spandimenti sui terreni per lo più vengono fatti dopo segnalazione diretta di qualche cittadino, ma mi sembra molto difficile immaginare come il sistema di controllo attualmente in vigore possa funzionare», continua la dottoressa.

E per fare segnalazioni coerenti e circostanziate, i cittadini devono conoscere bene sia il territorio, sia le norme che regolano gli spandimenti. Senza contare che molte volte gli spandimenti da parte delle grandi aziende zootecniche avvengono anche nelle ore buie per non dare nell’occhio, mentre non è previsto da ARPA Emilia-Romagna un servizio di controllo notturno.

Nonostante queste denunce fatte da ricercatori o cittadini specializzati nel settore, le regioni del Nord Italia continuano a non ascoltare i diversi campanelli d’allarme che arrivano da più parti sul territorio. Nel frattempo, a inizio agosto 2023, la Giunta regionale dell’Emilia Romagna ha tolto di fatto all’Agenzia ambientale regionale la competenza a pronunciarsi sui piani urbanistici comunali: non dovrà più necessariamente esprimersi sulle Valutazioni Ambientali Strategiche (VAS). Con un vero e proprio passo indietro, viene tolta alle agenzie la possibilità di limitare i danni proprio nelle fasi in cui il piano è in fase di costruzione. Invece che un rafforzamento degli staff tecnici delle agenzie sul territorio preposte al controllo e alla salvaguardia dell’ambiente, o una stretta ai cordoni dell’urbanistica, ancora una volta è arrivata la semplificazione, la deroga, che svuota nel concreto la Valutazione Ambientale Strategica, un importante meccanismo di controllo peraltro voluto dall’Unione europea.

«Moltissime evidenze indicano che per rispettare l’Accordo di Parigi ed evitare il disastro ambientale e climatico sia necessario ridurre drasticamente la produzione e il consumo di carne e latticini a vantaggio di diete maggiormente basate su prodotti di origine vegetale», mette in guardia Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura di Greenpeace.  «Negli anni Sessanta si consumavano circa 20-21 chili di carne all’anno pro capite, adesso siamo arrivati quasi a 80. In Italia dovremmo valorizzare le tante produzioni di qualità su piccola scala, per renderle ancora più sostenibili e resilienti anche alle prossime crisi. È il momento di agire per produrre meno e meglio in termini di qualità dell’ambiente, del cibo e anche delle condizioni di lavoro del settore agricolo».

Abbiamo chiesto ad Arpa Emilia-Romagna in merito ai dati emersi dall’analisi dei pozzi nella zona a sud-ovest del comune di Modena e ai controlli non funzionali che vengono fatti a seguito delle segnalazioni dei cittadini sullo spandimento di liquami nei campi fuori norma (o in orari notturni), ma l’Agenzia ci ha fatto sapere di non aver fatto in tempo a rispondere alle nostre domande. Sarà nostra premura integrarle nel testo appena arriveranno.

CREDITI

Autori

Cecilia Fasciani
Fergal MacErlean

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Cecilia Fasciani

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