Lorenzo Bagnoli
Alice Facchini
A Milano «corre l’anno 2030» dal 1996. All’epoca lo cantavano gli Articolo 31, il gruppo rap di J-Ax, nato nella periferia della città, nel quartiere dormitorio di Pioltello. La canzone, 2030, era già un ricordo malinconico degli anni Novanta, di «quando il mondo era l’arca/e noi eravamo Noè/era difficile ma possibile/non si sapeva dove e come/ma si sapeva ancora perché». Quel ritornello, 24 anni dopo, ha ancora qualcosa da dire.
Oggi l’orizzonte temporale del 2030 è diventato il traguardo da raggiungere per la trasformazione della città, secondo il sindaco Giuseppe Sala. Il piano di gestione del territorio è intitolato Milano 2030 perché, dice il sindaco, «a Milano non si improvvisa». Nel mondo del primo cittadino, a differenza dei confusi anni Novanta degli Articolo 31, il futuro arriverà a Milano (il “dove”) con un piano ben preciso (il “come”). Lo ha illustrato il 4 aprile 2019 a San Patrignano, invitato dalla presidentessa della fondazione (ed ex sindaca della città) Letizia Moratti al Sustainable Economy Forum della comunità di recupero per tossicodipendenti. Dopo aver riconosciuto alla sua predecessora una visione a tratti comune con la sua (l’Expo 2015 di cui Sala è stato commissario, in fondo, è un’idea di Moratti), ha parlato delle tre linee direttrici della Milano del 2030: lo sviluppo urbano («non siamo contro il fatto di costruire», purché sia attento all’ambiente), il sistema di mobilità e il verde pubblico. Ha poi parlato dell’idea di fondo che permea l’anima milanese: «L’idea di una trasformazione non radicale ma che non si ferma mai della città». Il motivo? L’unico “perché” pare essere che i milanesi abbiano l’attitudine al «fare», che la trasformazione sia inevitabile: «C’è un falso mito sul modello Milano che dice come questo sia stato un modello di rincorsa di crescita e di turismo, – dichiara Sala in un intervento del 14 aprile 2021 organizzato dalla Triennale di Milano -. È stato anche questo, ma è stato anche una grande voglia di cambiamento e di analisi del futuro». Futuro a prescindere, un nuovo mito per sostituire il vecchio.
Il Covid ha però messo in subbuglio le carte, per quanto, secondo analisti del mercato, non abbia ridotto il flusso di investimenti sulla città. Silvia Mugnano, professoressa di sociologia dell’ambiente e del territorio dell’Università Bicocca, sostiene che Milano durante la pandemia abbia dimostrato di essere abitata soprattutto da cittadini temporanei. «Questo – prosegue – ha significato un cambio anche nel mercato immobiliare: le case si stanno svuotando, ci sono molti appartamenti disponibili per l’affitto, ma i prezzi non scendono. Simbolo del fatto che gli investitori, nonostante la crisi, reggono». Gli “investitori” sono la benzina del cambiamento senza se e senza ma di cui parla Sala. Nel mercato abitativo in particolare, questi investitori sono i proprietari degli immobili o gli sviluppatori dei progetti immobiliari.
Secondo Mugnano ne esistono di due categorie: i fondi immobiliari – italiani ma soprattutto internazionali – che hanno in gestione i maggiori progetti di riqualificazione urbana della città e i piccoli investitori, che nel mattone vedono la forma più semplice ed efficace di risparmio. Nonostante i lockdown a ripetizione, nessuno di loro ha del tutto interrotto i cantieri: «È come se ci si stesse preparando a una nuova fase di esplosione del mercato immobiliare, che coinciderebbe con le Olimpiadi invernali del 2026». Eppure, secondo la professoressa, oggi la città è inginocchiata: il blocco degli sfratti e dei licenziamenti ha congelato la situazione, «ma quando si tornerà alla normalità bisognerà vedere cosa succede in un contesto come quello milanese, dove c’erano già problemi all’accesso alla casa. E allora non si capisce se si continui a costruire perché il treno in corsa non si può più fermare, o perché davvero ci si aspetta una grande rinascita». Lo avevano detto gli Articolo 31 che nel 2030 non si sarebbe più saputo il “perché”.
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Mugnano parla della Milano post Covid-19 come la «città da 15 minuti»: un concetto di urbanistica proposto con insistenza dalla giunta guidata dal sindaco Sala secondo cui il futuro delle metropoli consisterebbe nell’essere composte da quartieri tutti autosufficienti, dove gli abitanti in 15 minuti a piedi o in bici abbiano tutti i servizi necessari. L’idea è stata lanciata qualche mese fa dal direttore scientifico della Sorbona, Carlos Moreno, e applicata al contesto di Parigi, per poi essere copiata anche da Milano. «L’amministrazione sta provando a replicare questo modello, anche se la residenzialità a 15 minuti mette un po’ in discussione il valore aggiunto del vivere in città, che consiste proprio nell’eterogeneità e nell’avere la possibilità di attraversare zone anche molto diverse, ognuna con un’offerta peculiare di beni e servizi», continua Mugnano.
L’evoluzione di Milano
Prima che il Covid-19 arrivasse a sconvolgere il volto della città, Milano ha attraversato tre fasi: anni Novanta, primi anni Duemila, dopo il 2015.
A fine anni Novanta, ci sono stati i grandi progetti di riqualificazione urbana e riconversione delle ex aree industriali, in un’ottica di un policentrismo urbano legato al rilancio di questi territori attraverso l’industria creativa e culturale. È stato l’apice dell’era dei “palazzinari” (i più famosi dei quali sono Salvatore Ligresti e Silvio Berlusconi), l’onda lunga della “Milano da bere” cominciata negli anni Ottanta. «L’idea centrale che stava alla base di queste trasformazioni era quella dell’industria culturale della conoscenza, la stessa che oggi viene usata per la zona dell’ex Expo», afferma Mugnano. I concetti, in fondo, ritornano anche in epoche che sembrano tanto distanti. È così che i quartieri periferici di Bovisa, Bicocca e Barona (le cosiddette tre B) «sono diventati nuovi poli universitari, con un mix abitativo di abitanti temporanei e residenti stabili. Si è creato così un policentrismo urbano che vede centri culturali sparsi in tutta la città. La conseguenza, oltre alla riqualificazione di queste aree, è stata la gentrificazione di alcuni quartieri».
Gli esempi sono zone della movida, come Isola, chiamata così perché inizialmente staccata dal resto della città; il set principale del Salone del Mobile, la zona di via Savona-via Tortona, oppure quelli che un tempo erano quartieri di case di ringhiera come i Navigli. A metà Novecento erano i bastioni dove abitava la classe operaia, in quella che all’epoca era la prima periferia. La vita si svolgeva nel cortile privato, sotto lo sguardo di chi stava al ballatoio. Oggi, in parte, sono diventati gli snodi del distretto del design o della movida milanese.
Poi sono arrivati i grandi investitori internazionali. Fin dai primi anni Duemila, la città ha cercato di attrarre nuovi residenti, nuovi lavoratori, e anche nuovi capitali stranieri. Milano cercava un posto in Europa e non più solo in Italia. Questo ha cambiato completamente lo skyline, ma anche le dinamiche sociali all’interno della città. I quartieri dei grattacieli, Porta Nuova e CityLife, sono completamente nuovi, concepiti da archistar, architetti di fama mondiale che dalla riconversione di questi spazi hanno creato nuove icone architettoniche. «Si tratta di un modello molto più europeo di riqualificazione urbana: c’è stato un cambio di passo, si è alzata l’asticella e Milano è entrata a far parte della competizione immobiliare a livello internazionale – spiega Mugnano –. Il rovescio della medaglia è che questo ha comportato un certo appiattimento, con alcuni quartieri milanesi che cominciano ad assomigliare ad altri quartieri di grandi metropoli europee. Potremmo definirla una globalizzazione del paesaggio».
In questa fase, alcuni investitori tradizionali «sono stati tagliati fuori dalla competizione (come è accaduto per CityLife), mentre altri ne hanno approfittato per fare uno scaling-up e iniziare a operare su un piano più internazionale», aggiunge Mugnano. Era una fase di espansione, almeno fino alla crisi economica del 2008.
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Milano, insomma, ha fatto da apripista in Italia ai processi di finanziarizzazione del mercato immobiliare, con tutti i vantaggi ma anche le distorsioni che ne sono derivati. In che modo si è posta la politica nei confronti di questi cambiamenti? «L’amministrazione si è comportata come un giano bifronte – commenta Mugnano –. Da un lato ha messo in campo strumenti innovativi di marketing urbano, per attrarre capitali, eventi, ma anche una tipologia specifica di popolazione: giovani, talenti, con elevato capitale culturale. La tendenza è legata all’attrazione delle università e delle eccellenze milanesi (come moda e design) che si portano dietro l’interesse di giovani con una certa estrazione sociale. Dall’altro lato, assecondare questo processo ha creato disuguaglianze molto forti: diversi quartieri di edilizia residenziale pubblica sono stati lasciati a se stessi, come San Siro, Corvetto, Gratosoglio. Certo, ci sono stati dei tentativi di ricucire queste due facce della città, con progetti di urbanismo tattico nelle periferie, e di abitare sociale e alternativo. Eppure non si è ampliata l’offerta abitativa dell’edilizia residenziale pubblica, e questo è un segnale del fatto che non si stanno facendo investimenti in questo senso».
Quest’ultima fase storica è esplosa con Expo 2015 che è stata «un’operazione di successo, una vetrina fondamentale per l’Italia», sostiene l’avvocata Valeria Genesio di Agedi Italia, atelier di servizi immobiliari con sedi anche nel Principato di Monaco, Francia, Lussemburgo e Russia. Le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina 2026, il prossimo evento nell’agenda internazionale cittadina, «sono una scia, l’occasione per portare il turismo internazionale anche a Cortina e per mettere mano alle infrastrutture, che è una delle carenze che abbiamo», prosegue. Chi è del settore come Genesio, infatti, non è preoccupato per l’andamento del mercato: «L’emergenza Covid ha avuto un effetto sospensivo – continua – ma nella ripresa si stanno sviluppando i trend che erano in atto», ad esempio lo sviluppo di segmenti del settore immobiliare come gli studentati e il “senior living”, una sorta di residence con servizi destinati agli anziani.
Il motivo principale è che questa crisi non è stata sistemica come quella del 2008, ma un’improvvisa frenata di un treno che in realtà era già in corsa. Secondo Genesio, Expo è stato un innesco fondamentale per la ripresa del mercato immobiliare milanese, anche Cortina potrebbe esserlo, ma il contesto è già in continua crescita. La corsa è ripresa se non per qualche segmento che è più in difficoltà, come il mercato degli affitti per gli uffici (ma è solo questione di tempo) o gli affitti a brevissimo termine (segmento, per altro, in cui il boom secondo Genesio era stato eccessivo). L’altra faccia della medaglia è l’analisi che propongono i ricercatori, come Emanuele Belotti dello Iuav di Venezia, che a Il Fatto Quotidiano ha dichiarato che Milano, come altre città europee, va considerata quasi come una «città-rifugio per i capitali internazionali, un fatto che può concorrere a spiegare la relativa tenuta dei valori immobiliari anche nelle fasi di crisi». Una circostanza che fa sembrare che la crisi sia scongiurata, ma che vale (forse) solo per quella economica e non per quella sociale.
Gli investimenti pubblico-privati e la finanziarizzazione della città
Il maxi evento di rilancio del brand Milano, l’Expo del 2015, è stato possibile grazie a finanziamenti pubblici. Durante il suo mandato, il sindaco Sala ha cercato di usare il rinnovato brand milanese per attrarre più investimenti privati da impiegare nella trasformazione della città. Per sviluppare aree industriali o infrastrutturali dall’alto potenziale, ormai dismesse, l’amministrazione ha creato «nuovi strumenti di pianificazione, che insistono su aree specifiche del territorio urbano, e che si caratterizzano per essere molto flessibili», spiega Veronica Conte, borsista di ricerca presso l’Università Bicocca ed esperta di trasformazioni urbane e finanziarizzazione del mercato immobiliare.
Il problema è però capire fino a quando gli investitori privati svilupperanno queste aree in sintonia con il pubblico. Oltre al citato scalo ferroviario di Porta Romana, Veronica Conte ricorda che c’è lo spazio Mind-Milano Innovation District, area che sorge dove un tempo c’erano i padiglioni di Expo. Il progetto è una sorta di città nella città, un polo scientifico all’avanguardia, con tanto di residenze e la nuova sede dell’ospedale Galeazzi (inaugurazione prevista nel 2025): «La nuova destinazione ha fatto tantissima discussione a livello metropolitano: quella è un’area fortemente strategica, da cui si potrà capire chi sono i nuovi attori protagonisti del mercato immobiliare milanese».
Come funziona un fondo immobiliare
I fondi immobiliari sono enti finanziari che investono non meno di due terzi del loro patrimonio in beni immobili, diritti reali immobiliari e partecipazioni in società immobiliari. Possono essere di due generi: “chiusi” oppure “aperti”. Nel primo caso, i fondi raccolgono le sottoscrizioni solo durante l’emissione e il diritto al rimborso è previsto solo a una certa scadenza. Nel secondo caso, entrata e uscita dal fondo hanno meno vincoli. La durata di un fondo immobiliare è per legge tra i dieci e i trent’anni. Il loro scopo è trovare investitori a lungo termine, o nel mercato dei piccoli risparmiatori (il cosiddetto retail), più trasparente perché i fondi sono obbligati a quotarsi in Borsa, oppure tra investitori qualificati, i cui fondi non sono invece quotati e di conseguenza non hanno alcun obbligo di comunicazione. Il ritorno per gli investitori sta in dividendi e alla scadenza del fondo nella redistribuzione del patrimonio, come stabilito dal prospetto informativo.
Le tendenze osservate negli ultimi anni mostrano come i grandi operatori immobiliari si starebbero spostando sempre di più al di fuori della circonvallazione, verso un territorio metropolitano più esteso, e verso nuovi segmenti del real estate, in particolare lo student housing e il senior living. «Fino a prima della pandemia, Milano da un lato attraeva molti giovani, che avevano difficoltà di accesso alla casa, e dall’altro aveva una popolazione sempre più anziana, che necessitava spazi di vita idonei – racconta Conte –. Ora l’emergenza sanitaria ha mescolato molto le carte ed è difficile fare previsioni per il futuro. Comunque, la conseguenza più rischiosa della finanziarizzazione del mercato immobiliare resta sempre la stessa: il pericolo è che in questi processi, dove i grandi investitori hanno grandi expertise e grandi fondi, il pubblico non assuma il ruolo di guida e gli attori finanziari abbiano un impatto molto forte sulla governance del territorio, che potrebbe perdere di vista il bene comune. I processi di finanziarizzazione portano infatti a una decontestualizzazione della pianificazione urbana, che risponde sempre più a bisogni globali e sempre meno alle necessità della comunità».
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Già nel 2006 il professor Luca Gaeta del Politecnico di Milano scriveva del fenomeno della finanziarizzazione. Non lo definiva solo con la comparsa di fondi, banche e assicurazioni nel controllo di pezzi di mercato finanziario, ma soprattutto riconosceva già 14 anni fa come la finanziarizzazione fosse legata alla «concentrazione degli asset immobiliari nel portafoglio di istituzioni finanziarie, che compiono scelte di sviluppo, di investimento e di gestione orientate da una logica reddituale». È un fenomeno che si lega indissolubilmente alla maggiore disponibilità di strumenti finanziari, anche solo per l’acquisto di una casa. Ciò che ne deriva è che i beni immobiliari finiscono per concentrarsi nelle mani di chi vuole metterli a reddito e non solo esserne proprietario.
Scrivono Marianna Filandri e Gabriella Paulì su Quaderni di Sociologia del 2019 che «il mercato immobiliare non si configura più esclusivamente come luogo dove viene soddisfatto il bisogno abitativo delle famiglie ma piuttosto come mercato dove si riproducono interessi finanziari di gruppi diversi». È stato un fenomeno lento, a cui hanno contribuito «sia l’evoluzione del sistema bancario sia la conseguente liberalizzazione del mercato del credito. In questo processo si inseriscono a pieno titolo – anche sul piano politico-culturale – la nascita e la diffusione dei fondi immobiliari».
Il 13 aprile 2021 Arcipelago Milano, storica rivista fondata dall’ex costruttore e membro del comitato antimafia del Comune Luca Beltrami Gadola, ha pubblicato una lettera aperta al sindaco Sala. La firmano in 26 esponenti dei sindacati degli inquilini, operatori dei laboratori di quartiere, professori del Politecnico. Sono alcuni degli attori che hanno permesso al centrosinistra di tornare a vincere a Milano con Giuliano Pisapia e di restare al potere ancora oggi. Arcipelago Milano è una realtà culturale che fa dibattito, in città, dal 2009.
Nel documento si legge: «Sindaco, la pandemia rivela la verità del Modello Milano: le politiche che da una parte arricchiscono i ricchi, dall’altra lasciano vuoto il frigorifero di un numero sempre maggiore di poveri, privi di risorse». E più avanti: «Quale Idea di Città realizzano le istituzioni che fanno appello alla solidarietà mentre decidono di non attivare nuove politiche redistributive e di giustizia sociale?». Per quanto il mercato – come dicono gli addetti ai lavori – continui a funzionare, c’è un pezzo di città che sente una mancanza di senso nella Milano da qui al 2030. Trova una visione, ma nel senso del marketing, e non del «perché».
CREDITI
Autori
Lorenzo Bagnoli
Alice Facchini
In partnership con
Arena for Journalism in Europe
Editing
Giulio Rubino
Infografiche & Illustrazioni
Moritz Wienert per Cities for Rent
Lorenzo Bodrero
Ha collaborato
Francesco Floris
Con il sostegno di
IJ4EU
Rosa-Luxemburg Stiftung