Crimini ambientali: così il riciclaggio di denaro distrugge ambiente e comunità
Le filiere coinvolte nei reati ambientali sono sempre più abili e propense a riciclare i profitti illeciti, generando una perdita di risorse stimata in 26 miliardi di dollari l’anno

20 Agosto 2021 | di Matias Gadaleta

I crimini ambientali sono riconosciuti come una delle forme più redditizie di attività criminale transnazionale, tanto che l’Interpol stima il loro valore tra i 110 e i 281 miliardi di dollari di proventi criminali all’anno. Sebbene ancora non esista una definizione universale di crimine ambientale, generalmente ci si riferisce a reati che danneggiano l’ambiente. Questa indeterminatezza giuridica ha origine da una parte in una legislazione internazionale giovane e in continua evoluzione su questi illeciti e dall’altra da un ampio margine di discrezionalità dei singoli Stati nel giudizio di un atto quale crimine ambientale. In breve, ciò che può costituire un reato in un Paese non lo costituisce necessariamente in un altro e le grandi organizzazioni criminali prediligono Paesi con alti tassi di corruzione e legislazioni penali molto deboli per compiere reati di questo genere. Secondo il rapporto 2018 dell’UNEP (UN Environment Programme) l’aumento esponenziale di tali attività illecite implica una perdita di risorse per i governi e le comunità, da 9 a 26 miliardi di dollari all’anno a seconda del Paese di riferimento.

I proventi della criminalità ambientale però non sono destinati a rimanere fermi, come non lo sono del resto quasi tutti i ricavi da attività illecite, e l’approdo naturale è quello del riciclaggio di denaro. A fotografare questa situazione ci ha pensato nel suo ultimo rapporto il Gruppo d’azione finanziaria (GAFI), un’organizzazione intergovernativa fondata nel 1989 su iniziativa del G7 per sviluppare le politiche in materia di lotta al riciclaggio e di lotta al finanziamento del terrorismo. Il report si concentra sulle attività che riguardano il 66% del valore totale dei crimini ambientali, individuati nel disboscamento illegale, nell’espropriazione illegale delle terre, il cosiddette “land grabbing”, l’estrazione illegale e il traffico illecito di rifiuti.

Commercio legale e illegale di rifiuti, disboscamento ed estrazione mineraria
Esistono importanti mercati legali per la gestione dei rifiuti, il disboscamento e l’estrazione mineraria, compresi i metalli preziosi e le pietre.
Queste attività spesso diventano illegali quando:

(i) vengono intraprese senza autorizzazione statale,

(ii) quando i contratti e le concessioni sono assicurati attraverso la corruzione o l’intimidazione,

(iii) quando i servizi comportano frodi (ad es., falso trattamento di rifiuti pericolosi),

(iv) per la registrazione/estrazione, quando l’estrazione contravviene ai termini concordati, come quote o altri requisiti. Tali attività illegali possono avere impatti significativi sulla salute e sulla sostenibilità delle popolazioni e degli ecosistemi locali.

Spesso i criminali si affidano al mercato legale dei beni ambientali per riciclare prodotti e profitti acquisiti illegalmente. Ciò può accadere anche nella misura in cui i prodotti illegali superano quelli del settore legale, come l’oro e il legname.

Dal disboscamento illegale al traffico dei rifiuti, tra danni ambientali e profitti illeciti

Con il termine “crimine forestale” si descrive l’attività criminale che copre l’intera catena di approvvigionamento dalla raccolta e trasporto alla lavorazione e vendita di legname, compreso il disboscamento illegale e l’espropriazione dei terreni. L’Atlante mondiale dei flussi finanziari illeciti 2018 dell’INTERPOL rileva che la criminalità forestale genera per le organizzazioni criminali profitti tra i 51 e i 152 miliardi di dollari all’anno. I crimini forestali hanno un impatto negativo sull’uso e la proprietà del suolo, l’abitazione umana, i mezzi di sussistenza sostenibili e causano il degrado del clima e delle risorse.

La Banca Mondiale stima che i governi perdono tra i 6 e i 9 miliardi di dollari all’anno di entrate fiscali dal solo disboscamento illegale. Ad esempio, in Papua Nuova Guinea, recenti studi stimano come i proventi illeciti generati dai crimini forestali superino quelli generati nel mercato legale del legname. Stando all’indagine del GAFI i crimini forestali si concentrano nelle foreste pluviali dell’America centrale e meridionale (Perù, Colombia, Ecuador e Brasile); Africa centrale e meridionale (Repubblica Democratica del Congo, il Gambia e la regione dei Grandi Laghi); Sud-Est asiatico (Indonesia, Papua Nuova Guinea, Myanmar); e parti dell’Europa orientale (compresa la Russia). La legna tagliata illegalmente viene trasportata attraverso queste regioni verso destinazioni in Asia orientale, Nord America ed Europa occidentale.

I profitti della criminalità ambientale – Fonte: rielaborazione IrpiMedia su dati FATF/GAFI

A fare da sfondo alle attività illegali c’è sempre la disponibilità di materia prima. Così come il crimine forestale si concentra nelle aree con maggiore disponibilità di foreste, le attività minerarie illegali generano i loro profitti e concentrano le attività laddove il suolo è generoso. Colpiti infatti sono soprattutto l’Africa e l’America Latina, soprattutto la Colombia, dove l’87% degli sfollati provenienti dal Paese è stato costretto a fuggire da aree con forte presenza di attività estrattive illegali che hanno comportato un grave inquinamento da mercurio di acqua e suolo. Così le attività minerarie illegali, cioè intraprese senza l’autorizzazione dello Stato o con licenze ottenute attraverso la corruzione, secondo le stime del GAFI, è in grado di generare profitti tra i 12 e i 48 miliardi di dollari l’anno grazie soprattutto a oro, coltan e diamanti.

Infine il traffico dei rifiuti (elettronici, plastica e sostanze pericolose) rimane una delle piaghe più visibili e significative della nostra epoca. Il viaggio dei rifiuti che verranno smaltiti illecitamente parte solitamente da Europa, Nord America e Australia, per terminare poi soprattutto nel continente africano (principalmente Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Tanzania) e asiatico (Cina, Indonesia, India, Malesia, Pakistan e Vietnam) e alcuni paesi di Centro e Sudamerica. Un giro del mondo che secondo il GAFI genera profitti illeciti per circa 10-12 miliardi di dollari l’anno mostrando una filiera criminale particolarmente organizzata, soprattutto nel settore del commercio dei rifiuti pericolosi come quelli elettronici contenenti cadmio o piombo, composti di arsenico o amianto o residui di processi dell’industria chimica.

In Italia: l’indagine “via della seta”

Un esempio eclatante di intricato sistema criminale transnazionale sull’asse Italia-Cina è stato scoperto dalla Guardia di Finanza di Pordenone grazie all’inchiesta coordinata dalla DDA di Trieste su traffico illecito di rifiuti, riciclaggio e frode fiscale. L’operazione riguarda il Friuli Venezia Giulia e il Veneto negli anni che vanno dal 2013 ad oggi e ha portato a 58 persone e sei aziende indagate.

Lo schema si compone di due contesti: nel primo, un gruppo di italiani del Nordest ha dato vita a un traffico di scarti metallici (rame, ottone, alluminio) per circa 150.000 tonnellate aggirando gli obblighi ambientali e di tracciatura vigenti. L’acquisto di questi scarti avveniva in nero, ma per venderlo alle acciaierie c’era bisogno di emettere fatture. Mentre in una seconda fase i cittadini cinesi residenti in Italia avevano il compito di far arrivare le somme accumulate in Cina e metterle al riparo dal fisco italiano.

Lo schema fraudolento ricostruito nell’inchiesta “via della seta” della Guardia di finanza di Pordenone

Il meccanismo era ben rodato ed è andato avanti per otto anni: in Italia si avviavano società ad hoc che avevano la funzione di fare da intermediario nel commercio di rottami metallici, così da interporsi tra le aziende che avevano prodotto lo scarto e le acciaierie pronte a ricevere quello stesso scarto. Tali “intermediari” operavano finte operazioni di acquisto di materiale ferroso all’estero con l’emissione di fatture false da parte di società compiacenti tra Repubblica Ceca e Slovenia. In questo modo gli acquisti, veri solo sulla carta, avevano una copertura documentale e contabile tramite le fatture false, sembrando così acquisti di materiale ferroso avvenuto all’estero. Al contrario il materiale era quello raccolto in Italia, ma in questo modo, terze aziende manifatturiere – appuntavano gli uomini della Guardia di finanza – potevano operare la vendita di scarti di lavorazione metalliche «a nero» altrimenti impossibile visto che le acciaierie sono del tutto refrattarie a gestire acquisti di tonnellate di materiale «a nero» privo di documentazione ambientale.

A questo punto entrano in gioco i cinesi residenti in Italia e in affari col gruppo di italiano che avviano l’ultima fase del sistema di riciclaggio facendo arrivare il denaro in Cina. Lo facevano tramite una serie di bonifici verso istituti bancari cechi e sloveni, rigirati poi sui conti di banche cinesi: una volta che i cinesi in Italia ricevevano dalla Cina la conferma dell’avvenuto accreditamento delle somme di denaro, compensavano le stesse cifre in contanti agli italiani, in buste di plastica all’interno di centri commerciali a Milano e a Padova.

Editing: Luca Rinaldi | Foto: Aleksey Kurguzov/Shutterstock

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