7 Giugno 2023 | di Christian Elia
Quando un ciclo di potere volge al termine, non mancano mai i segnali. Il “capo” inizia a diventare paranoico, o ingombrante, o entrambe le cose. Alcuni vecchi sodali iniziano a prendere le distanze, qualcuno azzarda anche un attacco pubblico, altri si muovono nell’ombra per tessere nuove alleanze. Così è stato anche per Milo Đukanović, padre-padrone della politica del Montenegro da oltre trent’anni, che il 2 aprile ha perso il ballottaggio contro Jakov Milatović per la carica di presidente della ex repubblica della Jugoslavia. Mentre riconosceva la vittoria del suo avversario dalla sede del suo Partito Democratico dei Socialisti (DPS), il giorno delle presidenziali, il volto di Đukanović era terreo. Eppure il potere vero, di fatto, lo aveva già perso da quando cinque anni fa ha cominciato a ricoprire per la seconda volta in carriera la carica di presidente della Repubblica, che nell’ordinamento montenegrino ha solo un ruolo di garanzia. Era comunque sufficiente per avere l’impunità nei processi che potrebbero aspettarlo. Non a caso, Milatović ha basato gran parte della sua vincente campagna elettorale sulla lotta alla corruzione, di ieri e di oggi. E a Đukanović sarà venuto qualche affanno, visto che dal 1991 al 2023 – con piccole soste – si è alternato tra le cariche di primo ministro e presidente della Repubblica.
L'articolo in breve
- Milo Đukanović il 2 aprile è stato sconfitto alle elezioni presidenziali dallo sfidante Jakov Milatović. È la fine di una stagione cominciata nel 1991 di cui Đukanović è stato uno dei personaggi chiave nella scacchiera dei traffici sia politici, sia economici, sia criminali dell’Adriatico
- Trasformista e camaleontico, Đukanović è stato al contempo sia europeista, sia filo-russo e filo-serbo. Ha guidato l’indipendenza del Montenegro del 2006, ma è rimasto a lungo sotto la protezione di Belgrado, soprattutto nei primi anni dopo la guerra. Dal 2014, aveva cercato di staccarsi di più dalla sfera di interesse russa
- L’11 giugno un nuovo turno elettorale darà un nuovo parlamento al Montenegro. Đukanović cerca di portare a casa il voto favorevole a una norma antimafia che in realtà secondo l’attivista anticorruzione Vanja Ćalović Marković non è in grado di colpire i patrimoni di chi si è arricchito con i traffici degli anni Novanta
- Il declino di Đukanović è cominciato nel 2020, a seguito di un’ultima serie di scandali di corruzione. In nessuno di questi finora l’ex presidente è risultato colpevole. Il suo timore è che con la sua fine politica inizino però anche i veri guai giudiziari
Il Paese l’11 giugno va alle elezioni parlamentari dalle quali il vincitore Milatović, racconta in un’intervista al Brussels Playbook di Politico del primo giugno, spera possa uscire una maggioranza che renda concreto il suo progetto di fare del Montenegro il ventottesimo membro dell’Unione europea nel 2028. Per quanto ambizioso, il progetto è più fattibile oggi che ai tempi del doppiogiochista Đukanović.
Un po’ Europa, un po’ Russia
Đukanović per decenni ha giocato su due tavoli: è stato da un lato “europeista”, fino a sostenere prima l’indipendenza dalla federazione serbo-montenegrina con un referendum del 2006, poi l’adesione alla NATO dello scorso anno; dall’altro “attendista”, capace di tenere sempre buoni rapporti con Serbia e Russia. Il suo avversario Milatović, invece, è un europeista senza tentennamenti: la sua lista Evropa Sad (Europa Adesso) colloca Podgorica su chiare posizioni Ue e anti-russe. Trasformista e opportunista della politica, Đukanović è stato al contrario cinghia di trasmissione degli affari sull’Adriatico tra l’Europa e la Russia. La sua parabola personale comincia alla fine degli anni Ottanta e si conclude nell’ultimo ventennio del Duemila, passando per la guerra jugoslava e per i traffici degli anni Novanta.
A neanche 30 anni, Đukanović emerge nella Lega dei Comunisti di Jugoslavia come una delle nuove leve dei nazionalismi che dalla morte del maresciallo Tito – nel 1980 – avevano iniziato a lacerare l’unione jugoslava. Fedelissimo di Slobodan Milošević, grazie al suo appoggio, prende la leadership del Montenegro, spostando la rappresentanza della repubblica nella federazione su posizioni filo-serbe. Nel 1992, mentre il Paese è in fiamme, trasforma il Partito Comunista di Montenegro in Partito Socialista, come Milošević a Belgrado, e durante quella primavera partecipa personalmente all’assedio di Dubrovnik, in Croazia, con le insegne dell’Armata Popolare di Jugoslavia, l’ex forza armata jugoslava che ormai nei fatti è diventata l’armata serba.
Nel 2000, Đukanović si scusa con il popolo croato, ma mai è stata fatta chiarezza su quei fatti, per i quali nessuno ha pagato in Montenegro. I magistrati del tribunale di Podgorica hanno incriminato solo nove ex poliziotti montenegrini per le deportazioni, il 25 e 27 maggio 1992, di 66 uomini (bosniaci) arrestati illegalmente e portati prima al quartier generale della polizia di Herceg Novi, vicino al confine con la Bosnia-Erzegovina e la Croazia, poi espulsi in autobus verso il territorio controllato dai serbi bosniaci. In seguito, la maggior parte dei deportati è stata uccisa e i loro resti devono ancora essere ritrovati. I nove poliziotti sono stati tuttavia assolti nel novembre 2012 perché secondo i giudici montenegrini non avevano avuto nessun ruolo nella guerra in Bosnia e, sebbene illegali, gli arresti non avevano costituito un crimine di guerra.
Dopo gli accordi di pace di Dayton del 1995, Đukanović resta legato alla Serbia in una federazione con il Montenegro, ma l’idillio termina in breve e nel 1997 inizia un percorso di avvicinamento all’Unione europea (e quindi di allontanamento da Mosca, che appoggiava Belgrado e la “serbità” della federazione). È il primo cambio della sua carriera da camaleonte che lo porta a indire il referendum che proclama l’indipendenza del Montenegro nel 2006. Đukanović diventa padrone del Paese, che lo ritiene una sorta di padre fondatore. Si emancipa così dalla dipendenza dalla famiglia di Slobodan Milošević (consegnato, quest’ultimo, al Tribunale penale internazionale, con moglie e figlio in fuga a Mosca) e inizia a gestire da solo la doppia partita di “europeista” e amico della Russia, a seconda delle convenienze. E quella delle privatizzazioni, che proprio dalla fine degli anni Novanta investono – sotto la regia di Đukanović – il Montenegro.
Esempio esemplificativo è la gestione di due privatizzazioni chiave nella storia del Paese: quella del cantiere navale della città portuale di Tivat e della fonderia di alluminio della capitale Podgorica. Il primo è stato venduto con il benestare dell’Ue al canadese Peter Munk, miliardario morto nel 2018 a 90 anni dopo aver realizzato la più grande industria dell’oro del mondo; la seconda, all’oligarca russo Oleg Deripaska, sotto sanzione dal 2022, di cui abbiamo scritto anche per i suoi investimenti in Italia, sostenuto dal miliardario francese Bernard Arnault (l’amministratore delegato della multinazionale della moda LVMH, la società francese che possiede alcuni dei più prestigiosi marchi del mondo) e dal banchiere britannico Jacob Rothschild.
Nasce poi il progetto della Monaco sull’Adriatico, terra di mezzo tra i dollari e i rubli, che portano il Montenegro ai livelli della Serbia in quella che l’economista serbo Vladimir Gligorov ha definito in un saggio «economia di transizione criminale». A queste si aggiunge la privatizzazione di gran parte del demanio militare, ceduto sia al presidente azero Ilham Aliyev, sia al miliardario egiziano Samih Sawiris (cittadino del Montenegro da quando ha acquisito il passaporto grazie al programma di golden visa nel 2011), che hanno lottizzato gran parte della costa. Secondo i critici di Đukanović, il simbolo della svendita del Montenegro è l’Hotel Splendid, dove la famiglia dell’imprenditore legato alla criminalità organizzata locale Branislav “Brano” Mićunović ha celebrato gli sfarzosi matrimoni dei figli alla presenza dell’élite del Paese.
Dopo le azioni militari della Russia in Donbass e in Crimea, nel 2014, Đukanović preferisce rendere sempre più evidente la sua lontananza dal regime di Putin. L’apice di questo “riallineamento unilaterale” con l’Ue – almeno per le istituzioni montenegrine – è la reazione al tentato golpe filo-russo del 16 ottobre 2016, giorno di elezioni politiche, il cui obiettivo sarebbe stato uccidere Đukanović ed evitare che il Montenegro entrasse nella Nato. A maggio 2019, in una Podgorica blindata, l’Alta corte montenegrina pronuncia la sentenza di primo grado nel cosiddetto processo Drzavni udar, colpo di Stato: tutti condannati – per un totale di 68 anni di carcere – i tredici imputati. Tra loro cittadini montenegrini, ma anche ultranazionalisti serbi e russi accusati di essersi mobilitati per conquistare il potere con la forza, con la regia dei servizi segreti di Mosca. Le quinte colonne degli interessi russi interne alle istituzioni montenegrine sarebbero, per la magistratura, due leader politici serbo-montenegrini, nazionalisti e filo russi: Andrija Mandic e Milan Knezevic, condannati entrambi a cinque anni.
Non mancano, però, i dubbi sulla ricostruzione giudiziaria: anche alcuni testimoni-chiave fanno repentine marce indietro, negando l’ipotesi golpe. «Un processo politico, senza prove, alla Russia, alla nazione serba e ai leader dell’opposizione», commenta uno dei difensori degli imputati, Miroje Jovanovic, che annuncia appello. Una posizione speculare a quella più volte espressa da critici e membri dell’opposizione, che parlano di processo-farsa. All’epoca, però, ha garantito a Đukanović la patente di paladino dell’Ue.
Antimafia ad personam
Ma le preoccupazioni di Đukanović vanno ben oltre la geopolitica. Non è un mistero che è diventato sempre più nutrito il fronte di chi lo vuole vedere alla sbarra, proprio mentre – in attesa delle elezioni legislative dell’11 giugno – il suo partito cerca di trovare un accordo con l’attuale maggioranza per far approvare una nuova norma antimafia, chiamata proprio così, in italiano, al Parlamento uscente. E sarebbe una norma importante per Đukanović e altri esponenti di questo trentennio di potere.
Lo spiega bene Vanja Ćalović Marković, direttrice della ong MANS, che si batte contro la corruzione, in un’intervista al magazine Monitor: «Questa manovra non è motivata dalla volontà di fare i conti con la mafia, bensì solo ed esclusivamente dal desiderio di portare avanti la campagna di promozione politica del premier uscente (Dritan Abazović, del partito Azione Riformista Unita, l’ultimo primo ministro sotto la presidenza Đukanović, ndr.)». La legge prevede l’obbligo di dimostrare l’origine del patrimonio ma solo se sussiste il fondato sospetto che il proprietario abbia commesso un crimine: troppo poco e troppo tardi. «Il problema – prosegue Ćalović Marković – è che la stragrande maggioranza degli alti funzionari dello Stato e delle persone a loro vicine ha acquisito il patrimonio iniziale durante gli anni Novanta. Lo stesso vale per gli esponenti del sottobosco criminale».
Ci sono diverse prove prodotte in procedimenti penali avviati contro l’élite montenegrina in altri Paesi a confermarlo, «compresi i numeri dei conti correnti presso alcune banche estere su cui venivano trasferiti svariati milioni di euro derivanti dal contrabbando». «La procura montenegrina – prosegue la direttrice di MANS – che per decenni è rimasta assoggettata al controllo politico, non ha mai indagato su questi casi, quindi i reati sono caduti in prescrizione e, secondo quanto previsto dal nuovo disegno di legge, anche il patrimonio acquisito nell’ambito di queste operazioni illecite non potrà essere sottoposto a verifiche. Infine, la nuova legge derubrica quei casi in cui il patrimonio sospetto che in passato si è riusciti a rintracciare non può essere spiegato con i redditi dichiarati».
L’ombra di Đukanović: Svetozar Marović e lo scandalo del conto svizzero
C’è uno scandalo che rappresenta più di altri i limiti della legge antimafia: riguarda il politico montenegrino Svetozar Marović. I ricercatori e i giornalisti di MANS, insieme a una rete di testate internazionali tra cui Le Monde e Occrp, sono entrati in possesso dei dati della banca svizzera HSBC, scoprendo un conto corrente di 3,8 milioni di dollari intestato alla moglie del politico montenegrino: uno scandalo enorme visto il profilo di Marović. Soprannominato “il filosofo”, Marović, 59 anni, svolge funzioni pubbliche dal 1990, anno in cui è stato eletto membro della Presidenza dell’allora Repubblica di Montenegro. È stato anche deputato, tre volte eletto Presidente del Parlamento del Montenegro, nel periodo che comprende anche l’anno 1998, proprio il momento dell’apertura del conto svizzero. Marović è stato il primo ed unico Presidente dell’Unione statale Serbia e Montenegro, che è esistita dal 2003 al 2006, l’anno del referendum indipendentista di Đukanović. È stato anche Vicepremier del governo montenegrino dal 2008 al 2010. Inoltre, è ormai da molti anni il presidente del Partito Democratico dei Socialisti (DPS).
Praticamente una carriera politica parallela e spesso all’ombra di Milo Đukanović. La dichiarazione dei redditi del 2006 non spiega questa fortuna accumulata in svizzera: Marović denunciava un guadagno di 1.769 euro al mese come membro dell’Assemblea e presidente del consiglio d’amministrazione di un’azienda pubblica mentre la moglie, all’epoca, risultava disoccupata.
«Secondo il disegno di legge presentato dal governo, Marović sarebbe obbligato a dimostrare la provenienza di quei milioni di euro trovati sul conto segreto in Svizzera solo se dovesse essere provato l’atto illecito con cui quel patrimonio è stato acquisito», spiega la direttrice di MANS. C’è di più. Un’eventuale approvazione del disegno di legge potrebbe mettere a repentaglio anche i procedimenti penali in corso riguardanti i patrimoni all’estero, secondo Ćalović Marković. «Considerando che la maggior parte dei patrimoni acquisiti in modo illecito si cela dietro alle società offshore, è chiaro che la legge proposta dal governo permette solo di scalfire la superficie, ma non anche di arrivare all’effettivo sequestro di ingenti patrimoni illeciti. Ecco perché riteniamo che il governo abbia proposto una legge selettiva che non può contribuire alla vera lotta alla mafia».
Nascondere offshore i patrimoni sospetti è una pratica diffusa tra la classe politica del Montenegro. Lo stesso Milo Đukanović – come rivelato dall’inchiesta Pandora Papers – disponeva di una rete di società offshore sparse in cinque Paesi. «E il governo – prosegue Ćalović Marković – propone che siano i giudici del tribunale ordinario di Podgorica a decidere sui casi riguardanti la provenienza del patrimonio, giudici peraltro nominati da Vesna Medenica». Quest’ultima è stata presidente dell’Alta Corte del Montenegro, arrestata ad aprile dello scorso anno con l’accusa di essere a capo di un’organizzazione criminale e abuso d’ufficio. Anche lei, per anni, è stata un perno del potere di Đukanović, che come spiega MANS è proprio negli anni Novanta che inizia ad accumulare potere. E denaro. Come? Secondo i magistrati italiani, con il contrabbando di sigarette.
Nell’estate 2003, la Procura di Napoli spicca un mandato d’arresto contro Milo Đukanović, all’epoca primo ministro montenegrino, in quanto egli avrebbe, in complicità con Paolo Savina, Dusanka Jeknic e Veselin Barovic, «promosso, fondato e diretto una associazione a scopo criminale, il cui fine era il traffico di sigarette dal Montenegro all’Italia e in altri Paesi dove ci sono zone commerciali franche». Alla procura partenopea si unisce la Procura di Bari, che accusa Đukanović di avere dei legami con la mafia e di essere implicato nel contrabbando di sigarette e nel riciclaggio di denaro sporco.
Per anni hanno tentato di processarlo, forti anche di un parere della Corte di cassazione italiana del 2005 che non ha riconosciuto l’immunità diplomatica a Đukanović, ma ogni tentativo si rivela inutile, e il procedimento viene archiviato nel 2009 e addirittura – nel 2011 – Đukanović minaccia un’azione di risarcimento per i danni d’immagine subiti, finita poi in un nulla di fatto. Nell’ottobre 2022, a sorpresa, dopo un maxi sequestro di sigarette di contrabbando nel porto montenegrino di Bar, l’ex primo ministro Dritan Abazović accusa ancora Đukanović e il suo “clan” di essere dietro il business delle “bionde”, sentendosi rispondere che lui ne era sempre uscito pulito e che invece è il primo ministro a dover spiegare i suoi rapporti con i clan albanesi, alludendo alle origini albanesi di Abazović.
Non è stato il contrabbando di sigarette l’unico legame di Đukanović con l’Italia. «È arrivata la mafia dell’energia», titolava Dan, giornale d’opposizione montenegrino, rispetto all’arrivo della delegazione italiana a Podgorica nel giugno 2009. Claudio Scajola (all’epoca ministro dello Sviluppo economico), Valentino Valentini (consigliere di Berlusconi per i rapporti internazionali) e Maria Vittoria Brambilla (all’epoca ministro per il Turismo) si recano in missione per conto del Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi in Montenegro, dopo che lo stesso Berlusconi ha svolto una visita ufficiale a Podgorica nell’aprile 2009. Secondo ammissioni dello stesso Predrag Drecun , ex direttore della Prva Banka, controllata da Ako Đukanović, fratello del leader politico, dei circa 450 milioni di euro che l’Italia ha sborsato nel corso di oltre quindici anni per entrare nel business della privatizzazione delle aziende pubbliche montenegrine, circa 300 sono finiti sui conti della Prva Banka, della quale possiede azioni anche Ana, la sorella di Đukanović. In Montenegro la chiamano «la banca di famiglia». Le relazioni commerciali riguardano soprattutto il settore dell’energia, con il coinvolgimento di A2A, Enel, Terna, Banca Intesa, Ferrovie dello Stato, Edison, Valtur, Todini.
A2A, ad esempio, ha acquisito il 43% della società energetica pubblica Elektroprivreda (EPCG) e ha costruito quattro centrali idroelettriche. Terna ha costruito l’elettrodotto sottomarino Pescara-Tivat per portare l’energia in Italia. Enel ha prodotto un impianto a carbone in collaborazione con Duferco che, a sua volta, ha costruito un termovalorizzatore. E per finire il progetto di Italfer (Ferrovie dello Stato): la ferrovia Bar-Belgrado.
Tutti questi affari avvenivano nel mezzo delle inchieste in Puglia e Campania e nello stesso Montenegro, quando la Suprema corte di Podgorica apre un’inchiesta su nove omicidi di testimoni “scomodi” legati al contrabbando. La vittima più celebre è stata, nel 2004, Dusko Jovanovic, all’epoca 40enne, direttore del quotidiano Dan. Noto per i suoi attacchi alla famiglia Đukanović, che lui chiamava “clan” nei suoi editoriali e nelle inchieste del giornale, è stato assassinato mentre saliva in auto davanti a casa sua. Solo l’ex campione di karate Damir Mandic – senza alcuna chiarezza sul movente – è stato condannato a 30 anni di carcere per l’omicidio. Ma la famiglia di Jovanovic non si è mai rassegnata e oggi, dopo la fine politica di Đukanović, ha chiesto di riaprire il caso.
Le ombre sull’affare A2A
A fine 2018, l’imprenditore Duško Knežević, un tempo in cordiali rapporti con la famiglia Đukanović, si ritrova al centro di un’indagine per corruzione e i suoi asset finiscono sotto sequestro. Reagisce all’attacco denunciando gli affari corrotti della famiglia di cui è a conoscenza, tra cui l’acquisizione delle quote di EPCG da parte di A2A. Secondo l’imprenditore, una parte dei soldi sarebbero finiti sia nelle tasche di Đukanović, sia di Berlusconi, all’epoca degli accordi di A2A primo ministro e promotore politico dell’accordo. «Sapevamo che la fase di aggiudicazione aveva avuto delle ombre», ha spiegato a IRPI, in un’inchiesta pubblicata per Il Fatto Quotidiano, Pippo Ranci, presidente del Consiglio di sorveglianza tra il 2012 e il 2014. A intermediare l’affare ci sarebbe stata l’onnipresente prestanome di Đukanović, Dusanka Jeknic, e l’allora fidanzata di Berlusconi, l’ex miss Montenegro Kristina Knezevic. Questa vicenda è stata definita «fantasiosa e priva di logica» dall’allora avvocato di Berlusconi Niccolò Ghedini. Ma le ombre non si sono mai del tutto diradate.
Il declino
Il declino di Đukanović, in realtà, inizia nel 2020, con le elezioni spartiacque che consegnano una maggioranza di un seggio nel parlamento montenegrino a un’assemblea di filo-serbi, mandando all’opposizione per la prima volta dall’inizio delle elezioni multipartitiche nel 1990 il “presidentissimo”. La presidenza della Repubblica è il suo salvagente rispetto a un processo che sarebbe a lui, ma anche a un periodo storico. L’ultimo anno d’oro, per Đukanović, è il 2019. Il Montenegro venne squassato da diversi scandali, con diverse figure istituzionali di primo piano coinvolte, che non vengono neanche ascoltate dagli inquirenti, scrive Deutsche Welle:
«Anche quando il governo ha reso noti alcuni documenti che dimostrano l’esistenza di gravi abusi di potere, ad esempio nella concessione di beni immobili ai funzionari statali che disponevano già di un’abitazione, l’élite al potere ha continuato a far finta di niente. Il 2019 è iniziato con il cosiddetto “scandalo della busta”, scoppiato dopo la pubblicazione di un video che mostra l’uomo d’affari Duško Knežević consegnare una busta piena di soldi a Slavoljub Stijepović, ex sindaco di Podgorica e alto funzionario del partito di governo (Partito democratico dei socialisti, DPS), che attualmente ricopre l’incarico di segretario generale della Presidenza della Repubblica. Knežević sostiene che quei soldi fossero stati destinati alla campagna elettorale del DPS e che Milo Đukanović, leader del DPS e attuale presidente del Montenegro, fosse a conoscenza dell’intera vicenda. Nonostante prove schiaccianti, Stijepović non ha rassegnato le sue dimissioni né tanto meno è stato destituito dall’incarico di segretario generale della Presidenza della Repubblica, e continua ad apparire in pubblico, anche in occasione delle celebrazioni delle feste nazionali».
Il cammino politico di Đukanović a dicembre 2015 viene celebrato con il poco ambito premio di criminale dell’anno assegnato ogni anno da Occrp: «Lo consideriamo un premio alla carriera – affermò all’epoca Drew Sullivan, co-fondatore di Occrp -. Nessuno, al di fuori del presidente russo Vladimir Putin, ha gestito uno Stato che fa così tanto affidamento sulla corruzione, sulla criminalità organizzata e sulla politica sporca. È marcio fino al midollo», disse Sullivan del regime di Đukanović. Allegando un elenco di “capi d’accusa” dettagliati: il contrabbando di sigarette con le famiglie criminali italiane della Sacra Corona Unita e della camorra (per il quale ha ammesso un ruolo del suo Paese, giustificato dal fatto che il Montenegro avesse bisogno di soldi); la banca di famiglia Prva Banka, un tempo pubblica, usata per finanziare amici come il controverso uomo d’affari Stanko Subotić, tre volte incriminato e sempre assolto per il traffico di sigarette; il rifugio prestato a criminali di cui il più noto è il narcotrafficante Darko Šarić (si veda il box); i prestiti senza garanzie concessi a oligarchi come Deripaska, che non ha mai restituito 130 milioni di euro, contribuendo a dissestare le già precarie finanze dello Stato; i processi contro i giornalisti che indagano sui traffici della sua rete, mentre i pubblici ministeri ignorano i casi di corruzione.
Alla fine, per il momento, Đukanović ne è sempre uscito pulito. Adesso sarà interessante vedere cosa accadrà in Montenegro, a livello giudiziario, ma di sicuro esce di scena uno dei personaggi chiave di quei traffici che hanno fatto dell’Adriatico, negli anni Novanta e Duemila, uno degli hub dei traffici più disparati: esseri umani, armi, rifiuti tossici, sigarette e molto altro ancora. In un asse dinamico tra politica, affari e crimine organizzato. Una stagione criminale che ha segnato un’epoca, pur in continuità col passato e con il presente, ma che ha toccato vette anche “narrative” senza pari, al punto da essere una fine che vale anche come l’inizio di un racconto, ora che i tempi sono maturi, per quelle rotte adriatiche che sussistono ancora e che hanno una storia non comune.
Foto: Milo Đukanović durante la sua ultima conferenza in qualità di Presidente del Montenegro il 19 maggio 2023 – Savo Prelevic/Getty
Editing: Lorenzo Bagnoli