Francesca Cicculli
Silvia Pittoni
Non solo Veneto: si estende in tutta Europa la contaminazione da Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche contenute in molti oggetti di uso quotidiano, dalle padelle antiaderenti alle giacche impermeabili, fino alle schiume antincendio. Sostanze tossiche se accumulate in grandi quantità e difficili da individuare con le normali analisi di laboratorio sulle acque. Da un rapporto dell’Agenzia europea per l’Ambiente, pubblicato a gennaio 2020, è emerso che le acque, il suolo e il sangue dei cittadini europei contengono quantità preoccupanti di Pfas.
«In Europa abbiamo casi di inquinamento da PFAS relativamente estesi, anche se nessuno ai livelli della Miteni in Italia», spiega a IrpiMedia Valentina Bertato, specialista di scienze ambientali e membro della Direzione Generale per l’Ambiente della Commissione Europea. «Il problema è che le zone contaminate non vengono cercate: se si cominciasse a fare monitoraggio dei siti dove sono prodotti e utilizzati PFAS – continua Bertato – si troverebbero sicuramente altri casi. A livello europeo manca ancora un approccio globale per quanto riguarda il monitoraggio dei siti contaminati». Il rischio è quello di avere un inquinamento diffuso e irreversibile in tutta Europa. A peggiorare la situazione anche la poca trasparenza e la colpevole omissione dei dati dei monitoraggi eseguiti dalle aziende che producono o utilizzano Pfas.
L’azienda che ha inquinato Stati Uniti ed Europa
É il 1999 e in West Virginia, Stati Uniti, Wilbur Tennant, un allevatore di bovini, denuncia la morte dei suoi animali dopo aver bevuto l’acqua di un torrente vicino l’azienda chimica DuPont. La DuPont detiene il brevetto per il Teflon, definito “una delle tecnologie più preziose e versatili mai inventate”. Ma per produrlo si usa il PFOA, una delle sostanze perfluoroalchiliche che la DuPont acquistava dalla multinazionale 3M con la raccomandazione, già dagli anni ‘50, di non scaricarla nelle acque proprio per i suoi effetti dannosi sulla risorsa idrica.
Negli anni è emerso nel corso di una causa tra gli allevatori e la stessa DuPont come l’azienda chimica abbia sversato 70 mila tonnellate di PFOA e PFAS, pur conoscendone la tossicità. Nel corso del processo è stato trovato un collegamento tra l’esposizione ai PFAS e alcune malattie che la popolazione intorno alla fabbrica ha sviluppato negli anni. La DuPont ha eliminato definitivamente dalla produzione il PFOA nel 2014 e dopo la causa ha pagato la bonifica del territorio e milioni di dollari di risarcimento alle vittime della contaminazione. Un esito a cui aspirano anche le parti civili costituite nell’analogo processo che si sta celebrando a Vicenza nei confronti della Miteni.
Mentre negli Stati Uniti la DuPont è stata condannata per disastro ambientale e si è fatta carico di tutti i costi relativi alla contaminazione, nei Paesi Bassi, dove possiede una fabbrica gemella, è rimasta impunita.
L’Istituto nazionale per la salute pubblica e l’ambiente olandese (RIVM) ha stimato che 750.000 persone siano state esposte ad alti livelli di PFOA a causa della loro residenza in città vicine all’impianto di Dordrecht.
Nel 2016 è stata commissionata un’indagine all’Istituto nazionale per la salute pubblica e l’ambiente olandese (RIVM) per esaminare le concentrazioni di PFOA nell’aria e nell’acqua e fare una stima degli effetti sulla salute. Considerato il periodo 1970-2012, il RIVM ha stimato come 750.000 persone siano state esposte ad alti livelli di PFOA a causa della loro residenza in città vicine all’impianto di Dordrecht. Tuttavia, secondo il RIVM: «La concentrazione di PFOA nel sangue calcolata non comporta alcun rischio tossicologico».
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L’analisi però non si basa su rilevazioni effettuate dall’Istituto pubblico. Alcuni dati sono stati messi a disposizione dalla DuPont stessa e quindi da fonti direttamente coinvolte nelle emissioni. La società tra il 2005 e il 2013 ha attivato un programma di monitoraggio sul sangue dei dipendenti di Dordrecht, senza condividere i risultati con l’ispettorato del lavoro olandese. Questi dati dimostrerebbero che i dipendenti olandesi avevano livelli «scioccanti» di PFOA nel sangue, come definiti dal tossicologo dell’Università di Utrecht Martin van den Berg. L’azienda ha sempre sostenuto che da parte propria mai ci siano state violazioni dei limiti di PFOA.
Come in Veneto, vari legali si sono offerti di difendere gli ex lavoratori della DuPont che, negli anni, hanno sviluppato delle patologie. I residenti della zona pretendono oggi, come in Veneto, un monitoraggio generale della popolazione coinvolta. Un passaggio necessario per ottenere i dati, individuare le eventuali responsabilità dell’inquinamento e ottenere poi i risarcimenti.
A preoccupare i cittadini della zona, c’è la vendita dello stabilimento, nell’estate 2015, alla Chemours, una società definita spin-off della DuPont, cioè scorporata dal gruppo e dalla casa madre. Chemours sviluppa alcune attività del comparto chimico e l’accordo di vendita prevede che tutte le possibili richieste di risarcimento pervenute alla DuPont fossero in capo alla Chemours. Secondo Follow The Money, questa è stata una strategia attuata dalla DuPont per sollevare il proprio management da eventuali richieste risarcitorie.
Non solo acqua: se la contaminazione raggiunge il cibo
Ted van der Vlies, 70 anni, è un residente di Dordrecht. Per oltre 45 anni ha mangiato gli ortaggi del suo orto contaminato da PFOA. I suoi esami del sangue hanno mostrato livelli molto alti di questa sostanza. Van der Vlies ora ha il cancro, ma è difficile dimostrare una relazione causale con le sostanze. A Follow The Money ha detto di essere «l’uomo più velenoso della zona».
Ai giornalisti olandesi, il tossicologo Jacob de Boer, ha dichiarato: «L’aver trovato tracce di PFOA negli orti di Dordrecht potrebbe indicare che Chemours non abbia affatto smesso di usare il PFOA e che l’inquinamento delle acque sotterranee è più grave del previsto. Significherebbe che i documenti sono stati manomessi e che Chemours non ha deliberatamente rispettato i permessi concessi».
In teoria Chemours avrebbe dovuto interrompere la produzione di PFOA dal 2012, sostituendolo con altre sostanze, gli GenX che ha scaricato direttamente nel Merwede, senza prima depurare l’acqua di scarico.
Sotto la forte pressione sociale – e la minaccia di richieste di risarcimento danni- Chemours ha annunciato a settembre di quest’anno che avrebbe investito 75 milioni di euro nella riduzione delle sue emissioni GenX a Dordrecht. Entro la fine del 2020 la società fa sapere di voler ridurre le emissioni di GenX del 99%.
«Gli GenX sono stati considerati più sicuri, ma le aziende produttrici hanno trascurato gli effetti di queste sostanze nel lungo periodo», spiega Valentina Bertato. «Bisogna tener presente – specifica Bertato – che sono sostanze meno efficienti, quindi le loro emissioni sono molto superiori: se continuiamo a usarle la loro concentrazione aumenterà, con effetti negativi sulle persone».
GenX, cosa sono?
Rispetto agli Pfas, che hanno 8 atomi di carbonio, gli GenX sono a catena ridotta, con 6 o 4 atomi di carbonio. Sono stati inseriti dalla Commissione Europea nell’elenco delle sostanze altamente pericolose poiché, come gli PFAS a catena lunga, sono persistenti nell’ambiente e si muovono facilmente, raggiungendo acque e terreni anche molto lontani dal luogo della contaminazione. Gli GenX sono metabolizzati di più dal corpo umano, ma comunque si bioaccumulano. Inoltre, rispetto agli PFAS a catena lunga, si concentrano di più nella vegetazione e quindi possono essere assunti consumando cibo contaminato.
Gli GenX olandesi sono legati anche all’Italia e alla Miteni di Trissino: nel 2018 un rapporto di Greenpeace ha rivelato che dal 2014 al 2017, su autorizzazione della Regione Veneto, l’azienda veneta avrebbe importato almeno 100 tonnellate l’anno di rifiuti contenenti GenX, finiti nel suolo e nelle acque vicentine.
La pericolosità degli GenX e di altri PFAS cosiddetti a catena corta, ha portato la Commissione Europea a rendere necessaria una regolamentazione unica per tutta la famiglia di PFAS: «Ci siamo resi conto che regolamentare le singole sostanze non era sufficiente per limitare le contaminazioni», racconta ancora Bertato. «Con il regolamento REACH – conclude – vorremmo imporre l’utilizzo di PFAS solo in settori necessari, ad esempio dell’industria medica e in quella delle energie rinnovabili, e imporre materiali alternativi ma ugualmente performanti, in tutti gli altri settori. Nel frattempo studieremo composti alternativi che portino a sostituire completamente i PFAS».
Un rapporto di Greenpeace del 2018 ha rivelato che dal 2014 al 2017 la Miteni avrebbe importato almeno 100 tonnellate l’anno di rifiuti contenenti GenX, finiti nel suolo e nelle acque vicentine
Il REACH
Il REACH (acronimo di «registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche») è un regolamento dell’Unione europea, adottato il 1 giugno del 2007, per migliorare la protezione della salute umana e dell’ambiente dai rischi che possono derivare dalle sostanze chimiche, inclusi gli PFAS.
Per quanto riguarda gli PFAS, si sta cercando di inserire e regolamentare anche quelli a catena corta. «Ma i composti chimici alternativi agli PFAS a catena lunga, già regolamentati, sono numerosi e quindi il processo sarà molto lungo. Durerà almeno fino al 2024», ha spiegato Valentina Bertato a IrpiMedia.
Secondo il REACH le aziende sono tenute a registrare le sostanze che producono o utilizzano. L’ECHA (Agenzia europea delle sostanze chimiche) riceve le singole registrazioni e ne valuta la conformità normativa e se è possibile gestire i rischi che derivano dall’uso di queste sostanze. Se i rischi non possono essere gestiti, le autorità possono limitarne l’uso. Nel lungo termine quelle più pericolose devono essere sostituite con altre meno pericolose.
Gli Stati europei che hanno già adottato il REACH per gli PFAS sono: Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Danimarca.
La strategia europea non piace alle aziende chimiche che utilizzano Pfas. Il 10 dicembre, la Chemours ha organizzato un webinar online in cui ha spiegato ad altre società del settore come poter mobilitarsi per fare lobbying sugli Stati membri e sulla UE, per ostacolare il regolamento REACH.
Secondo le aspettative, il regolamento della Commissione Europea darà l’impulso per adattare le legislazioni in materia di contaminazione dell’acqua e del cibo, ma anche quella relativa alle emissioni industriali e al ciclo di rifiuti. «Le padelle e le pentole antiaderenti contenenti PFAS – spiega Bertato -, raggiungono le discariche e vengono bruciate come gli altri rifiuti. Non sappiamo se da questo processo vengano emessi nell’aria altri PFAS», spiega la dottoressa. «In ogni caso – conclude -, le normative europee devono poi essere implementate dai singoli Stati. Sono loro a dover verificare che le aziende le rispettino».
CREDITI
Autori
Francesca Cicculli
Silvia Pittoni
Infografiche & Mappe
Lorenzo Bodrero
Silvia Pittoni
Editing
Luca Rinaldi