Davide Mancini
Sara Manisera
Stavros Malichudis
Alle tre del mattino di una giornata di fine luglio, il mercato ittico di Palermo è in pieno fermento. Il vociare di chi compra e di chi vende arriva fino al varco principale. Fuori dall’edificio comunale, nello spiazzo antistante, i camioncini frigo iniziano a incolonnarsi e ammucchiarsi in maniera disordinata. Si scarica e carica da una cella frigorifera all’altra. Rigattieri, commercianti, pescatori, ristoratori si posizionano all’interno del mercato, pronti a ad acquistare il pescato.
Il pesce esposto proviene soprattutto dal Canale di Sicilia ma anche da altri Paesi come Grecia, Tunisia, Spagna e Marocco. Sui bancali colmi di ghiaccio e nelle cassette di polistirolo ci sono pesci spada, calamari, vongole, merluzzi, gamberetti rosa e rossi, orate e spigole. Si notano anche alcuni esemplari di pesce illegale, come la “neonata”, anche chiamata “bianchetto” (novellame di pesce azzurro in età giovanile, in particolare sardine e acciughe, la cui vendita è vietata dal Regolamento dell’Unione Europea 1967/2006). Si osservano anche decine di cassette di legno piene di giovani triglie, troppo piccole per essere vendute legalmente, e polpi privi di alcuna certificazione di tracciabilità.
Da dove arriva il pesce che consumiamo
La maggior parte di questo pesce è consumato in Sicilia, destinato alla ristorazione o alla vendita al dettaglio; il restante è spedito nei mercati di Milano, snodo principale per la distribuzione nel nord Italia. Secondo le stime dell’Eufoma e delle fonti nazionali del 2020, l’Italia è il sesto Paese dell’Unione europea per consumo di pesce, con circa 31 Kg all’anno pro capite. In Italia la spesa annuale pro capite per il pesce è di 207 euro, e tra le specie più consumate in Italia ci sono acciughe, vongole, orate, spigole e naselli.
Come lo consumiamo
In Italia il consumo è in gran parte orientato al pesce fresco, che rappresenta la maggior parte del totale, mentre il consumo di congelato si aggira attorno al 20%, il conservato 22% e affumicato 9%. La maggior parte del pescato consumato in Italia, tuttavia, è importato dall’estero e per tre quarti è venduto attraverso la Grande distribuzione organizzata. Le importazioni di pesce in Italia nel 2021 arrivano principalmente da Danimarca, Paesi Bassi, Francia, Spagna e Grecia, Paese che in particolar modo ci rifornisce di orate e spigole. Pesce a basso costo che proviene principalmente dagli allevamenti intensivi di acquacoltura.
Nonostante vi sia un’alta domanda di pesce da parte dei consumatori, la flotta di pescherecci italiani vive una crisi senza precedenti. Negli ultimi mesi, anche a causa dell’aumento del prezzo del gasolio, numerosi sono stati gli scioperi organizzati da parte di diverse marinerie in tutta Italia. Per capire quali siano le storture lungo la filiera del pesce e i problemi cronici che stanno affossando un settore fondamentale dal punto di vista sociale ed economico, bisogna, tuttavia, capire cosa accade nei mercati e nei luoghi dove avviene la commercializzazione e lo scambio del pesce.
Il potere dei commercianti
Innanzitutto, i prezzi alla vendita, per i pescatori, sono bassissimi. Se in alcuni mercati ittici come Fiumicino o Rimini, il prezzo del pescato viene deciso da un’asta, nei mercati siciliani di Palermo e Santa Flavia (Porticello), quasi tutto è deciso dai commercianti, prima ancora che il pesce arrivi in porto. È il commerciante che detta e stabilisce il prezzo, poiché è l’unico che ne può assicurare la distribuzione sul mercato, i pescatori, pertanto, lavorano in una condizione di subalternità. La dinamica è ben evidente nel mercato ittico di Santa Flavia-Porticello, uno dei più importanti della Sicilia, situato nella zona di Bagheria, storico mandamento di cosa nostra della provincia di Palermo.
Bagheria e la mafia siciliana
La zona di Bagheria fa storicamente parte di uno dei sette mandamenti della provincia palermitana insieme a Misilmeri, Corleone, Trabia, Belmonte Mezzagno, Partinico, San Giuseppe Jato e San Mauro Castelverde. Bagheria è sempre stato un contesto ad alta densità mafiosa. Negli anni Novanta, la maggior parte degli omicidi mafiosi si registrava nel triangolo della morte che aveva per vertici i paesi di Bagheria, Altavilla Milicia e Casteldaccia. Nel 1989, nel pieno centro di Bagheria, fu ucciso l’anziano capomafia Antonino Mineo, un omicidio nell’ambito della guerra di mafia che vedeva i corleonesi di Toto Riina mietere vittime tra la fazione dei palermitani rappresentata, tra gli altri, da Gaetano Badalamenti, Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo. Dopo l’ascesa dei corleonesi ai vertici dell’organizzazione di Cosa nostra, le campagne attorno a Bagheria diventano il rifugio di Bernardo Provenzano.
E sempre da questa zona, nello specifico dalla cittadina di Santa Flavia (Porticello), arriva il pescatore Cosimo D’Amato, che avrebbe aiutato i boss di Brancaccio a reperire l’esplosivo, da alcune bombe della seconda guerra mondiale rimaste in fondo al mare, usato sia per la strage di Capaci sia per quelle di Roma e Firenze. Dal 2007, è il boss di Bagheria, Pino Scaduto ad assumere il compito di organizzare la nuova cupola e “mediare” tra le diverse fazioni presenti nei mandamenti della provincia di Palermo. Secondo alcuni collaboratori di giustizia come il cassiere della cosca mafiosa di Bagheria Sergio Rosario Flamia, il reggente locale tesseva rapporti economici con Matteo Messina Denaro. In questi anni, numerose indagini hanno, inoltre, fatto emergere il controllo dei clan, attraverso metodi estorsivi, sulle attività economiche, in primis la commercializzazione del pesce e dell’intera filiera; dalle forniture all’ingrosso ai trasporti, fino alla vendita al dettaglio nei mercati storici di Palermo, Milano, Roma e nella Grande Distribuzione Organizzata.
Come afferma il sesto rapporto Agromafia di Eurispes, i poteri criminali si annidano nel percorso che frutta e verdura, carne e pesce, devono compiere per raggiungere le tavole degli italiani e degli europei, passando per alcuni grandi mercati di scambio fino alla grande distribuzione, distruggendo la concorrenza, il libero mercato legale e soffocando l’imprenditoria onesta.
Nel 2022, nell’ambito di un’altra inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Giuseppe Guttaduro, ex primario dell’ospedale Civico di Palermo, esponente di spicco di cosa nostra e fratello di Filippo Guttaduro, cognato del latitante Matteo Messina Denaro viene arrestato insieme al figlio Mario Carlo, mentre ritorna dal Marocco dove gestisce un’azienda di lavorazione del pesce. Per gli inquirenti padre e figlio apparterrebbero alla famiglia di cosa nostra di Palermo-Roccella del mandamento di Brancaccio-Ciaculli e avrebbero interessi nel mandamento mafioso di Villabate- Bagheria.
Alle due del mattino, i primi pescherecci rientrano dal mare, pronti a scaricare con tutta fretta il pescato che arriverà in poco meno di due ore nei mercati ittici di Palermo o Catania. Sulla banchina del porto di Porticello, ad attendere, controllare e dettare i tempi di scarico ci sono i commercianti di riferimento dei pescatori. Uno di questi inveisce contro i marinai e ordina di caricare in tutta fretta le alici fresche appena pescate. Vengono caricate su tre camion frigo, pronte a partire verso Catania, dove il prezzo di vendita è più alto. Il commerciante paga al pescatore 9 euro a cassetta (circa 8 Kg l’una) e le rivende a 30 euro.
Non c’è un’asta del pesce, tutto dipende dall’offerta sul mercato, spiega il capitano di una lampara che pesca alici da tre generazioni e che preferisce rimanere anonimo per paura di ritorsioni. Mentre ci accompagna con la sua auto nel cuore di Porticello, è lui che ci racconta come funziona il mercato: «Adesso il prezzo è bassissimo. Ci sono commercianti che ti dicono di non uscire neanche a pescare perché c’è troppo pesce da smaltire nelle celle frigo. Il mio commerciante non vende solo alici. Compra pesce spada, orate, spigole. Lo acquista da me o da altri ed è lui che detta il prezzo. Non puoi lavorare in proprio. Quindici anni fa, provai a vendere il mio pesce direttamente ai mercati di Catania. Poco dopo qualcuno mi incendiò la barca, e capii che non si poteva fare». Anche un altro pescatore, Carlo Giarratano, proprietario dell’Accursio Giarratano, un peschereccio di Sciacca che fa pesca a sciabole, conferma lo stesso atteggiamento da parte dei commercianti: «Ci dicono di fermarci ad agosto perché hanno le celle piene e non riescono a vendere. Loro, però, continuano ad importare pesce dall’estero e ad abbassare i prezzi».
Secondo Daniela Mainenti, professoressa di diritto processuale penale comparato dei Paesi Euro-Med presso l’università internazionale UniNettuno Roma ed esperta di normative sulla pesca, «il commerciante, ovvero l’intermediario tra il pescatore e la Grande distribuzione organizzata, è colui che ha il vero potere e che vessa il pescatore. Spesso – sottolinea la docente – i commercianti sono legati a organizzazioni criminali di stampo mafioso. Di conseguenza, i pescatori sono intimoriti e non hanno molta scelta. Sono obbligati a vendere il pescato alle loro condizioni. Inoltre, questi commercianti sono coloro che creano problemi nel mercato, spingendo verso la sovrapproduzione, perché importano dall’estero, anche attraverso società miste e quindi abbassano i prezzi».
Le imprese italiane installate in Tunisia, attraverso società miste dove il capitale è 51% tunisino e 49% italiano, con partecipazione italiana o a capitale esclusivamente italiano sono circa 800. L’Italia è il secondo partner commerciale della Tunisia e da sempre il Paese ha presentato caratteristiche ideali per gli investitori italiani, grazie alla vicinanza geografica e alle normative locali per favorire gli investimenti e ai prezzi alla produzione molto vantaggiosi.
L’acquacoltura in Grecia: l’impatto dei pesci a “basso costo”
Al mercato di Porticello e di Palermo, decine di cassette di polistirolo piene di orate e spigole tutte uguali e della stessa dimensione, sono impilate una sopra l’altra. Sull’etichetta si legge «prodotto allevato in Grecia». Le aziende di allevamento sono la Corfù Sea Farm, la Skaloma s.a e la Oro.Gel. Il prezzo di questi esemplari allevati in Grecia oscilla tra i 5 e i 7 euro al Kg mentre quelli allevati in Italia varia tra gli 11 e i 15 euro.
Le regioni dell’Etolia-Acarnania e delle isole Ionie sono diventate tra i principali centri dell’industria ittica in Europa. Dalla fine degli anni ‘80, la produzione di orate e spigole in Grecia è in continua progressione: nel 2020 la produzione di orate e spigole è stata di 117.000 tonnellate (65 mila tonnellate di orate, 52mila di spigole), nel 2021 le vendite di pesce d’acquacoltura sono arrivate a 131.250 tonnellate, per un valore di 636 milioni di euro, secondo i dati dell’Hellenic Aquaculture Producers Organization (HAPO). Le orate e le spigole hanno rappresentato il 96% delle vendite. L’80% delle esportazioni è stato distribuito nei Paesi dell’Ue e nei Paesi terzi. Italia, Spagna e Francia sono i principali mercati di destinazione delle esportazioni, con il 58% della produzione greca.
Allevamenti di acquacoltura a poca distanza dalla costa nel comune di Xiromero (Grecia)
Questo boom, anche grazie a fondi pubblici nazionali e comunitari, ha permesso la nascita di circa 300 imprese greche e ha determinato un forte abbattimento dei prezzi, soprattutto grazie ad allevamenti intensivi che risparmiano sul benessere degli animali e sulla tutela dell’ambiente.
Sebbene gli allevatori insistano sul fatto che l’impatto sia minimo, gli scienziati greci affermano che l’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi sta uccidendo ecosistemi marini cruciali. A differenza dell’Italia, dove gli allevamenti sono consentiti solo al largo, a diverse miglia dalla costa, i serbatoi installati in Grecia sono spesso vicini alla linea di costa, e sono destinati a crescere ancora. Secondo una proposta di legge infatti, l’area marina costiera riservata agli allevamenti in Etolia-Acarnania passerà da 54 ettari a quasi 2.500.
I risultati preliminari di uno studio dell’Archipelagos Institute for the Protection of Sea, commissionato dal comune di Xiromero, che sarà principalmente interessato dall’eventuale allargamento dell’area degli allevamenti, hanno rilevato che il continuo funzionamento degli allevamenti ittici nelle baie chiuse e nelle acque poco profonde, che in alcuni casi dura da oltre tre decenni in violazione della legislazione che impone agli allevamenti di spostarsi ogni dieci anni, ha fatto sì che l’area circostante sia ora un paesaggio morto.
I residenti locali, tra cui pescatori, professionisti, lavoratori degli allevamenti ittici e il sindaco del comune, Giannis Triantafyllakis, confermano a IrpiMedia che nel corso degli anni hanno potuto vedere chiaramente la differenza nelle acque della loro regione, da cristalline e trasparenti a marroni e piene di alghe, come una melma.
«Hanno trasformato il paradiso in un inferno», ha detto Nikos Kallinikos, 72 anni. Pescatore dall’età di 12 anni, Kallinikos racconta dei decenni passati in cui riusciva a catturare grandi quantità di pesce di ogni tipo; ora la maggior parte delle specie è scomparsa, dice. Dei 10.220 abitanti del comune (censimento 2022) circa 300 sono impiegate oggi negli allevamenti ittici.
Uno dei lavoratori, che ha parlato in condizione di anonimato, ha raccontato di come si usi una grande quantità di antibiotici, nonché di formalina potenzialmente cancerogena, e per questo lui stesso non mangia pesci di allevamento.
«Inoltre, noi qui siamo abituati al pesce libero. Come potremmo mangiare pesce d’allevamento? Le differenze si notano facilmente, sia nel sapore che nell’aspetto», ha detto.
L’acquacoltura rappresenta oggi il 46% della produzione globale di pesce, il 52% del quale è destinato per consumo umano (il restante in olii e mangimi). Questo anche grazie all’appoggio della FAO che considera l’acquacoltura uno dei settori chiave per garantire un accesso sostenibile all’alimentazione a livello globale, ed è quindi ampiamente supportato dalla strategia pluriennale dell’organo delle Nazioni unite, come dichiarato dal Direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Qu Dongyu.
Il consumo di pesce rimane in costante aumento, la FAO stima che da qui al 2030 la domanda di prodotti ittici aumenterà di almeno 40 milioni di tonnellate ogni anno a livello mondiale. Sarà quindi impossibile soddisfare la richiesta basandosi solo sul pesce di cattura, si prevede così che nel prossimo decennio l’acquacoltura arriverà a coprire il 60% della produzione.
Se è vero che l’acquacoltura risponde a una domanda sempre maggiore di pesce da parte dei consumatori, è anche vero che negli ultimi decenni ha causato una progressiva omologazione dei consumi, a discapito di una diversità alimentare. Solo poche specie (come orate, branzini e salmoni) entrano nella dieta quotidiana, e in maggiore quantità, ma con profondi dubbi sulla sostenibilità, la qualità e l’impatto ambientale che queste produzioni implicano.
La concorrenza con l’altra sponda del Mediterraneo: il gambero rosso conteso
Ma la cattura, per adesso, resta ancora centrale, specialmente per le specie di maggior valore. Se c’è un prodotto che oggi, più di tutti, è al centro di una contesa commerciale, è senza dubbio il gambero rosso, il nuovo “oro rosso” del Mediterraneo. La sua storia è legata a doppio filo con quella di Mazara del Vallo, cittadina in provincia di Trapani con la più importante marineria d’Italia e la seconda in Europa. Per i mazaresi la pesca è sempre stata parte della cultura e dell’economia locale fin dai tempi antichi.
Dopo anni di pesca di sussistenza, a partire dagli anni ’60, la marineria di Mazara e i suoi pescherecci iniziano così a solcare il mar Mediterraneo fino ad arrivare nelle acque internazionali davanti alle coste della Tunisia, Libia, Grecia e Turchia, per praticare la pesca d’altura. La pesca del gambero rosso si sviluppa verso gli anni ‘90 con la scoperta di alcuni areali da parte dei pescatori mazaresi che portano avanti la pesca di profondità con reti a strascico in fondali sabbiosi da 200 fino a 1.000 metri.
Con le tecniche di surgelazione a bordo e l’innovazione da parte di alcuni imprenditori, il gambero rosso diventa così un piatto prestigioso e inizia ad essere commercializzato in tutto il mondo, nell’alta ristorazione di Tokyo, Dubai, Parigi e Singapore.
Benché oggi il gambero rosso con la pezzatura più grande oscilli tra i 50 e i 70 euro al Kg, i pescherecci di Mazara in mare sono sempre di meno. Per lungo tempo il Canale di Sicilia è stato appannaggio semi-esclusivo della flotta italiana, in particolare di quella di Mazara del Vallo. I mazaresi si ritengono infatti i primi ad avere scoperto questa varietà prelibata di gambero, e per decenni hanno goduto delle conoscenze e del vantaggio tecnologico per la pesca a strascico di profondità nelle acque internazionali tra l’Italia e il Nord Africa.
Negli anni ‘90 erano più di mille le imbarcazioni dedite alla pesca del gambero. Oggi ne rimangono circa ottanta. La causa risiede in una serie di fattori strutturali verificatisi negli ultimi vent’anni anni in Sicilia e nel resto d’Italia: i finanziamenti dell’Unione europea per demolire le imbarcazioni, il caro carburante, l’assenza di un ricambio generazionale, le normative sulla pesca imposte dall’Ue e la concorrenza con il nord Africa, nello specifico con i pescherecci tunisini ed egiziani, che vendono lo stesso prodotto pescato dai mazaresi ma a costi inferiori e senza l’obbligo di applicare le regole comunitarie.
A partire dagli anni 2000, infatti, l’Unione europea ha messo in campo politiche volte a limitare lo sforzo di pesca delle sue flotte e ridurre lo sfruttamento degli ecosistemi marini, attraverso il potenziamento della pesca artigianale. Tra queste politiche rientrano le compensazioni ai pescatori per l’arresto temporaneo o per la demolizione delle navi. In tutta Italia, tra il 2010 e il 2018, il numero delle imbarcazioni da pesca è passato da 17.367 a 12.310; oggi circa il 70% della flotta italiana è composta da piccoli pescherecci, inferiori ai 12 metri.
Secondo Santino Adamo, presidente dell’associazione Federpesca Mazara del Vallo, le demolizioni della flotta italiana hanno avuto un effetto boomerang: «Mentre noi demolivamo, in Tunisia sono stati dati incentivi agli armatori per costruire nuove imbarcazioni, quindi se da una parte la flotta italiana è stata distrutta, dall’altra parte non è stato ridotto lo sforzo di pesca, anzi, è aumentato da parte di tunisini ed egiziani. E molti italiani si sono spostati in Tunisia».
La Tunisia oggi ha una delle flotte più grandi del Mediterraneo e pesca le stesse specie della flotta italiana, come il merluzzo, il gambero rosa o il gambero rosso.
Foto: Davide Mancini
Oltre alle demolizioni, si sono poi aggiunte numerose regolamentazioni dell’Unione europea per proteggere gli stock ittici come l’obbligo del fermo biologico, di sistemi satellitari a bordo, come il Vessel Monitoring Systems (VMS, anche detto blue box), e l’utilizzo di reti a maglie larghe.
Tutti i pescatori e armatori intervistati in questa inchiesta hanno sostenuto che le regolamentazioni dell’Unione europea, purché necessarie, non hanno preso in considerazione le caratteristiche della pesca mediterranea, e che la grandezza delle maglie delle reti sono tarate per taglie di pesce atlantico, quindi creando svantaggio per la pesca mediterranea dove le taglie dei pesci sono naturalmente più piccole, come nel caso delle acciughe.
«Questo non è corretto, e si basa su convinzioni sbagliate. La regolamentazione 1697/2006 è la prova che regole specifiche sono state sviluppate per il Mediterraneo», risponde Nicolas Fournier, della ong Oceana, con sede a Bruxelles. «Gli standard di pesca e la grandezza delle reti per pesci e crostacei sono diversi per Atlantico e Mediterraneo, e in tutti i casi, le maglie per la pesca nel Mediterraneo sono più strette». L’organizzazione Oceana si batte da anni per una riduzione dello sforzo di pesca nel Mediterraneo, ed è anche grazie alla loro pressione politica che si sono create delle zone in cui è vietata la pesca a strascico, due delle quali proprio nel Canale di Sicilia. «L’esistenza di un approccio “top-down” da parte dei decisori politici di Bruxelles è un’accusa comune che arriva dall’industria ittica quando si parla di scarsità di stock nel mare. Mentre in realtà l’approccio della Politica comune per la pesca del 2013 coinvolse sia le autorità locali che i vari stakeholder», aggiunge Vanya Vulperhorst di Oceana.
Che abbiano ragione o meno a Bruxelles poco importa però, la volontà di sfuggire ai regolamenti ha forte presa sui pescatori europei, tanto che negli ultimi anni si è assistito a un trasferimento delle attività di pesca da Paesi come la Grecia e l’Italia a paesi non-Ue del Mediterraneo, che si concentrano sulle stesse risorse ittiche e che rischiano di non diminuire la pressione sugli ecosistemi e il danno ambientale che l’Ue cerca di contenere.
Lo raccontano diversi armatori, pescatori ed esperti intervistati tra cui il capitano Mimmo Asaro, 62 anni, e una storia fatta di sequestri e arresti in Libia e Tunisia negli anni ‘90. «Molti mazaresi si sono trasferiti in Tunisia e in Libia creando società miste. Solo che in Libia non hanno il numero Cee. Non potrebbero esportare, quindi cosa fanno? Fanno trasbordo a mare aperto su una barca mazarese ma questo è considerato contrabbando».
Il trasbordo da un’imbarcazione all’altra è a tutti gli effetti contrabbando. I controlli non sono facili da applicare soprattutto perché l’obbligo di avere un sistema di tracciamento VMS a bordo vale per le imbarcazioni dell’Unione europea, ma non per quelle nordafricane. Per questo ci sono forti sospetti che pescherecci tunisini o libici, in alcuni casi di società basate in Tunisia o Libia ma con partecipazione italiana, peschino dove gli italiani non possono arrivare e poi trasferiscano il pesce su pescherecci italiani.
In teoria enti in grado di regolamentare la pesca in tutto il Mediterraneo esistono. Sia Italia che Tunisia e Egitto fanno infatti parte della Commissione generale per la pesca nel Mediterraneo (GFCM), l’organo delle Nazioni unite che si occupa della gestione degli stock ittici. «È cruciale che ci sia trasparenza, che si sappia chi sta pescando cosa. Tutti i Paesi membri del GFCM sono tenuti a dichiarare la lista delle imbarcazioni autorizzate a un certo tipo di pesca in linea con gli accordi fatti. Questo è particolarmente importante per Italia e Tunisia che hanno le flotte per pesca a strascico di gambero più grandi del Mediterraneo. Ne l’Italia ne la Tunisia hanno ancora aggiornato tale lista, la cui scadenza era giugno 2022», dichiara Oceana.
Anche i pescatori egiziani hanno aumentato la loro flotta e si sono dedicati alla pesca del gambero rosso. Nel 2021, la flotta egiziana ha registrato 900 tonnellate di gambero rosso catturato, ma ufficialmente solo nove pescherecci sono registrati nel Paese nordafricano. «Le stime, in realtà, ci dicono che sono più di 150 le imbarcazioni che fanno pesca a strascico del gambero rosso nel Mediterraneo, ben oltre quindi il numero ufficiale», spiega Fabio Fiorentino, biologo del CNR di Mazara del Vallo, il quale chiarisce che «in questo momento, il gambero rosso è sovrapescato e la sua biomassa è in decrescita. Tuttavia non ci sono problemi di estinzione ma problemi di gestione della risorsa. Oggi sono a rischio di estinzione i pescatori italiani. La pesca e le risorse comuni devono essere condivise da tutti con regole condivise, altrimenti salta il sistema», conclude.
Poiché nel Mediterraneo orientale, gli stock di gambero rosso non sono stati ancora sfruttati come nella parte centrale e occidentale, e gli areali più importanti sono quelli di fronte alla Libia, i pescatori mazaresi si contendono i fondali delle acque internazionali con egiziani, tunisini, libici e turchi, tanto da arrivare a momenti di forte tensione internazionale in questi anni. Basti pensare al sequestro degli equipaggi dei pescherecci, Antartide e Medinea di Mazara del Vallo nel 2020 a largo di Bengasi oppure all’assalto con sassate da parte di pescatori turchi del peschereccio mazarese di Michele Giacalone (foto della nave ormeggiata a Mazara). Barche italiane che si spingono sempre di più al largo per pescare il pregiato gambero rosso.
Il Mammellone e le zone esclusive in Libia
Una situazione simile si è create in Libia da quando, nel 2005, il governo ha istituito una Zona di protezione della pesca (ZPP, oggi ZEE) fino a 72 miglia dalla costa, 62 miglia oltre le sue acque territoriali, ed ha chiuso il Golfo di Sirte ad ogni attività di pesca straniera. Questa posizione è contestata dall’Ue e dagli Stati Uniti, mentre l’Italia non ha mosso proteste ufficiali, nonostante i vari arresti e sequestri operati dalle autorità libiche nei confronti di pescatori italiani (spesso mazaresi) avvenuti in quest’area di mare contesa.
Con il prezzo del gasolio cresciuto vertiginosamente, i pescatori siciliani affrontano un ennesimo ostacolo che li ha portati ad organizzare manifestazioni nei mesi scorsi. A Sciacca gli striscioni sventolano sul porto dove i pescherecci sono fermi. «Il prezzo del carburante è il costo principale per un peschereccio. Qui siamo arrivati fino a 1,20 euro al litro, mentre in Tunisia lo pagano 0,30 – 0,40 Euro al litro, senza contare il costo della manodopera, che è molto inferiore al nostro», dice Carlo Giarratano, proprietario del peschereccio più grande del porto di Sciacca. Giarratano era stato al centro dell’attenzione mediatica per avere salvato la vita a cinquanta migranti nel canale di Sicilia nel 2018, ai tempi dei porti chiusi voluti da Matteo Salvini, allora ministro dell’Interno. Oggi Giarratano non è più convinto di continuare a fare il pescatore, e ha invece aperto da poco con la moglie un piccolo albergo che si affaccia sul porto di Sciacca, dove è ormeggiata la sua nave. «Con la pesca non vedo più una prospettiva di futuro», conclude Giarratano.
Anche Tommaso Maccadino della Uila Pesca di Mazara del Vallo conferma che i pescatori sono la parte più fragile oggi e che le regole Ue hanno ridotto lo sforzo di pesca solo da una parte del Mediterraneo. La soluzione per lui è ripensare a una gestione comune del Mediterraneo. «L’abbattimento dei pescherecci e le norme dell’Unione europea per proteggere gli stock ittici avevano l’obiettivo di ridurre lo sforzo di pesca. Ma quando fai un fermo biologico, non ha senso se lo esercita solo la marina di Mazara del Vallo. Dovrebbero fermarsi tutti: tunisini, italiani, spagnoli ed egiziani. Il tema vero è che il Mediterraneo è di tutti. Questa è la sfida».
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Davide Mancini
Sara Manisera
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