Per anni, nessuno ha saputo perché decine di fatiscenti barchette di legno – note come “barche fantasma” – si sono regolarmente arenate lungo le coste del Giappone. Spesso avevano a bordo cadaveri ridotti a scheletri di pescatori nordcoreani, morti di fame e stenti in mezzo al mare.
Una risposta la fornisce la recente inchiesta di The Outlaw Ocean, realizzata con l’ausilio di nuovi dati satellitari. Oggi è ritenuta da diversi ricercatori del mare la spiegazione più plausibile di questo fenomeno: la Cina ha inviato e continua a inviare una flotta di pescherecci finora mai tracciati allo scopo di pescare illegalmente nelle acque nordcoreane. L’invasione delle imbarcazioni cinesi ha costretto le barche di pescatori della Corea del Nord ad allontanarsi da quell’area e sta provocando a un calo del 70% delle scorte di calamari, finora abbondanti in questo mare. Quei pescatori senza vita finiti sulle spiagge giapponesi probabilmente si erano allontanati troppo dalla costa, alla vana ricerca dei preziosi molluschi, fino a morire.
La presenza delle imbarcazioni cinesi – più di 700 lo scorso anno – viola le risoluzioni Onu che proibiscono la pesca di operatori stranieri nelle acque della Corea del Nord. Sono state imposte nel 2017 in risposta ai test nucleari di Pyongyang e avevano l’obiettivo di impedire la vendita dei diritti, licenze e quote di pesca in Corea del Nord in cambio di valuta straniera, preziosa risorsa per il Paese.
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Le stime sulla reale dimensione della flotta di pescherecci cinesi variano molto. Secondo gli ultimi calcoli, si attesta tra le 200 mila e le 800 mila imbarcazioni, ossia quasi la metà dell’intero parco pescherecci mondiale. Il governo cinese afferma che i suoi pescherecci d’alto mare, ovvero quelli che operano più lontano dalla costa, sono circa 2.600. Una ricerca dell’Overseas Development Institute, tuttavia, ne ha calcolati 17.000, molti dei quali ancora sconosciuti, come quelli scoperti di recente nelle acque nordcoreane. Per capire la dimensione del fenomeno, la flotta americana di pesca in alto mare conta meno di trecento imbarcazioni.
La Cina non è solo il più grande esportatore al mondo di prodotti ittici: la popolazione del Paese ne consuma anche più di un terzo della produzione mondiale. Avendo esaurito le risorse dei propri mari, la flotta cinese è ormai solita navigare al largo allo scopo di sfruttare altre acque territoriali, comprese quelle di regioni come l’Africa occidentale e l’America Latina, dove le autorità nazionali non hanno le risorse – o la volontà – per proteggere la propria sovranità marittima. Inoltre, le dimensioni dei pescherecci d’alto mare cinesi sono tali che in una sola settimana sono in grado di pescare tanto quanto un’imbarcazione senegalese o messicana raccoglie in un anno.
Le stime sulla reale dimensione della flotta di pescherecci cinesi variano molto. Secondo gli ultimi calcoli, si attesta tra le 200 mila e le 800 mila imbarcazioni, ossia quasi la metà dell’intero parco pescherecci mondiale
LA DEFINIZIONE - Pesce esca e totoaba
Si definisce “pesce esca” o “pesce foraggio” l’insieme dei pesci che stanno nella parte più bassa della catena alimentare. Sono i pesci di cui si cibano gli altri predatori, soprattutto altri pesci ma anche uccelli. Fanno parte di questa categoria pesci molto comuni come sardine e acciughe. Il “pesce foraggio” è importante per l’allevamento di polli e maiali. Il totoaba, pesce simile al branzino, vive principalmente nelle acque di California e Messico. È diventato oggetto di pesca intensiva dal momento in cui ha trovato un enorme mercato in Cina.
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Ma il vero primato della Cina riguarda i calamari. Tra il 50 e il 70% di quelli pescati in alto mare è catturato da pescherecci cinesi, circostanza che rende la flotta della Repubblica popolare il leader incontrastato nella pesca di questo mollusco. Metà dei calamari pescati dai cinesi finiscono in Europa, Asia settentrionale e Stati Uniti.
Per prenderli, i pescherecci cinesi utilizzano reti da pesca che vengono tirate tra due imbarcazioni: una pratica largamente criticata dai conservazionisti, i difensori dell’equilibrio del pianeta, poiché causa la morte di grandi quantità di altri tipi di pesce. La Cina è inoltre accusata di destinare i calamari di alta qualità al solo consumo domestico mentre quello di qualità inferiore viene esportato a prezzi gonfiati. A ciò, dicono i critici, si aggiunge il fatto che la Cina annienta ogni imbarcazione straniera che si trova nelle principali zone di riproduzione del calamaro e si trova in una posizione privilegiata per poter indirizzare a proprio favore i negoziati internazionali sulla conservazione e la distribuzione delle quote globali di calamari.
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Come far galleggiare le finanze di una flottiglia
La flotta di pescherecci cinesi non è diventata un gigante solamente con le sue forze. L’industria beneficia dei ricchi sussidi concessi dal governo, che ogni anno spende miliardi di yuan (centinaia di milioni di euro) per sostenere il settore. Le imbarcazioni cinesi possono spingersi così a largo anche grazie alle sovvenzioni per l’acquisto del diesel, decuplicate tra il 2006 e il 2011. Da quell’anno Pechino non ha più rilasciato dati pubblici a riguardo.
Nell’ultimo decennio il governo cinese ha contribuito economicamente alla costruzione di pescherecci con scafo in acciaio sempre più grandi e tecnologici. In alcuni casi, navi ospedale sono state inviate nelle zone di pesca affinché le flotte potessere rimanere in mare aperto più a lungo. Ma, soprattutto, il governo cinese supporta la flotta di pescherecci con una preziosa attività di intelligence: funzionari statali identificano le zone più pescose grazie a satelliti e navi da ricerca e trasmettono le informazioni ai pescatori.
Senza questi aiuti la pesca dei calamari sarebbe un business in perdita. A dirlo e il professor Enric Sala, fondatore del progetto Pristine Seas (Mari immacolati) della National Geographic Society americana. Secondo uno studio condotto da Sala il prezzo di vendita dei calamari non permette nemmeno di coprire il costo del carburante necessario per pescare i molluschi in mare aperto.
A detta dei conservazionisti, le sovvenzioni statali sono tra le cause principali dello spopolamento negli oceani, insieme alla pesca illegale e alla sovraccapacità dei pescherecci. Tuttavia, la Cina non è l’unico Paese che puntella la propria industria ittica con sussidi di questo tipo. Il Giappone guida questa speciale classifica, elargendo da solo il 20% dei sussidi globali, seguito dalla Spagna con il 14%. Più staccate Cina, Corea del Sud e Stati Uniti.
Recentemente, il governo cinese ha annunciato che porrà un freno all’espansione della propria flotta di pescherecci d’altura e nel 2017 ha dato il via a un piano quinquennale che prevede la riduzione del numero di imbarcazioni sotto le 3.000 unità entro il 2021. Secondo il biologo marino Daniel Pauly, la Repubblica popolare è genuinamente determinata a ridimensionare la propria flotta. «Che riescano a farlo è tutto un altro discorso», spiega Pauly, il quale dirige il progetto Sea Around Us (Il mare intorno a noi) iniziativa di ricerca dell’università della British Columbia, in Canada e di quella dell’Australia Occidentale.
Altri tentativi di tenere a freno la flotta si sono dimostrati poco efficaci. Progettare e implementare delle riforme è complicato poiché le leggi cinesi sono particolarmente permissive, ma non solo. La forza lavoro a bordo delle imbarcazioni è in gran parte analfabeta, molte barche sono prive di licenza oppure prive di nome o di codice identificativo, e i centri di ricerca sulla pesca sono restii a pubblicare dati in modo uniforme e condividerli sia internamente sia all’estero.
Le motivazioni al di là della pesca
Oltre alle risorse ittiche, in gioco ci sono anche le ambizioni e la grandezza della flotta peschereccia cinese. Con le aspirazioni geopolitiche della Cina sullo sfondo, i pescatori sono spesso utili come personale paramilitare de facto, le cui operazioni sono definite dal governo di Pechino iniziative private. Dietro le sembianze civili, questa flottiglia privata contribuisce ad affermare il dominio territoriale cinese. Lo fa, in particolare, allontanando i pescatori o i governi che sfidano le rivendicazioni di sovranità cinesi che si estendono su quasi tutto il Mar Cinese Meridionale.
«Quello che sta facendo la Cina è mettersi le mani dietro la schiena e usare la sua grande pancia per spingerti fuori, per sfidarti a colpire per primo», sostiene Huang Jing, il direttore del Centro sull’Asia e la Globalizzazione presso la Lee Kuan Yew School of Public Policy di Singapore.
Noti per la loro aggressività, i pescherecci cinesi sono spesso fiancheggiati da imbarcazioni della Guardia costiera nazionale, perfino in alto mare e in acque territoriali straniere. Abbiamo filmato dieci pescherecci cinesi a caccia di calamari mentre si spingevano in acque nordcoreane. Dopo essere stati avvistati, il comandante di uno dei pescherecci cinesi ha virato bruscamente nella nostra direzione, con il probabile intento di tenerci a distanza. Per evitare una collisione siamo stati costretti a cambiare rotta.
Noti per la loro aggressività, i pescherecci cinesi sono spesso fiancheggiati da imbarcazioni della Guardia costiera nazionale, perfino in alto mare e in acque territoriali straniere

«Questa flotta è di fatto una forza senza uniforme e senza una formazione adeguata, fuori dalle cornici legislative del diritto marittimo internazionale, delle regole di ingaggio militari e dei meccanismi multilaterali istituiti per prevenire incidenti in mare»
La linea dei nove trattini
Le rivendicazioni di Pechino sul Mar Cinese Meridionale cominciano nel 1947, due anni prima della nascita della Repubblica popolare cinese. È da allora che la Cina ha iniziato a pretendere di avere la sovranità su questa enorme porzione di mare – 3,5 milioni di chilometri quadrati – senza mai formalizzare chiaramente quali sarebbero i confini di quest’area né su cosa si basi questa rivendicazione. Allora la linea contava addirittura undici trattini. La linea attuale, scesa a nove dopo le concessioni agli alleati del Vietnam del Nord negli anni Cinquanta, corre lungo le acque territoriali di Indonesia, Brunei, Filippine, Vietnam e Malesia, erodendo loro parte della sovranità marittima. La porzione di mare è contesa perché ricca di possibili giacimenti petroliferi e molto pescosa. Il confine disegnato dai cinesi (con il supporto di Taiwan) è stato portato davanti a tribunali internazionali dalle Filippine, che hanno ottenuto sempre un riconoscimento delle loro richieste contro Pechino. La Repubblica popolare cinese non ha tuttavia rinunciato, ciclicamente, a schierare i propri assetti navali per presidiare il territorio.
Ian Urbina è un giornalista investigativo vincitore di un premio Pulitzer. Precedentemente al New York Times, oggi Urbina dirige The Outlaw Ocean, un’organizzazione non profit che si concentra sui diritti umani, del lavoro e lo sfruttamento ambientale del mare. In Italia, nel 2020, Urbina ha pubblicato con Mondadori Oceani fuorilegge, libro che raccoglie cinque anni di reportage e inchieste in giro per il mondo.
CREDITI
Autori
Ian Urbina
Editing
Lorenzo Bagnoli