20 Ottobre 2023 | di Carlotta Indiano, Paolo Riva
Hamburger, patatine fritte e bibita. Tutto rigorosamente in contenitori usa e getta a base di carta, niente plastica. Li ordinate, li mangiate al tavolo del vostro fast food preferito e, poi, seguendo le regole della raccolta differenziata, gettate nel cestino giusto gli imballaggi. Che verranno differenziati e riciclati, in modo circolare e sostenibile. Benvenuti nella ristorazione veloce del futuro.
È questa l’immagine che emerge da un convegno organizzato lo scorso ottobre da Comieco, il Consorzio Nazionale per il Recupero e il Riciclaggio degli Imballaggi a base Cellulosica, da McDonald’s e da Seda International Packaging Group, un gruppo produttore di imballaggi a base di carta, nato in Italia, con il suo quartier generale in provincia di Napoli e diverse filiali tra Europa e America.
All’evento sono stati anticipati i risultati di uno studio sulla raccolta e il riciclo degli imballaggi a base di carta effettuato in sei ristoranti della nota catena di fast food. Questi contenitori, si legge sul sito di Comieco, che ci ha inviato lo studio su richiesta, «rappresentano una risorsa preziosa che può e deve essere valorizzata attraverso il riciclo. Lo studio (ed il caso McDonald’s) dimostra che esiste un modello sostenibile di gestione dei rifiuti estendibile a tutta la ristorazione veloce in grado di garantire questo obiettivo».
L’iniziativa di Comieco è l’ultimo atto di una lunga e combattuta partita che l’Italia sta giocando in campo europeo, quella per il nuovo regolamento Ue sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio.
La proposta della Commissione
Gli imballaggi sono un tema importante sia dal punto di vista ambientale sia da quello economico perché sono tanti e in crescita. Richiedono molta materia prima, generano altrettanti rifiuti e mettono in moto un giro di affari sorprendente, di molto superiore al valore dell’intero Pnrr. Secondo uno studio del Parlamento europeo infatti, nel 2018, la loro produzione ha generato un fatturato di 355 miliardi di euro nell’Ue.
Ogni europeo, stima la Commissione Ue, produce ogni anno circa 180 kg di rifiuti di imballaggio, una quota che è salita del 20% tra 2009 e 2020. E che, senza ulteriori interventi, è destinata a crescere ulteriormente. Proprio per far fronte a questa situazione, il 30 novembre 2022 l’allora vice-presidente della Commissione con delega al Green Deal, il socialista olandese Frans Timmermans, ha presentato la proposta per il nuovo Regolamento imballaggi (Packaging and packaging waste regulation, PPWR).
Il piano di azione per l'economia circolare
Nel settore degli imballaggi, gli obiettivi del piano, ereditati poi nella proposta della Commissione del 2022, sono la riduzione dei rifiuti degli imballaggi e degli imballaggi eccessivi attraverso specifiche misure di prevenzione come la progettazione degli imballaggi ai fini del riutilizzo e della riciclabilità, la restrizioni sull’uso di alcuni materiali di imballaggio per determinate applicazioni, o se i beni di consumo possono essere maneggiati in modo sicuro anche se privi di imballaggio; la riduzione della complessità dei materiali di imballaggio.
L’aumento dell’uso di imballaggi e i bassi tassi di riutilizzo e riciclaggio nella media europea, d’altra parte, ostacolano lo sviluppo di un’economia circolare a basse emissioni di carbonio. Secondo i dati Eurostat la produzione totale di rifiuti di imballaggio nell’Ue è in costante aumento: dal 2009 al 2019 è passata da 66 milioni di tonnellate a 78,5 con una crescita del 19%. Nel 2020, il volume totale dei rifiuti di imballaggio generati è stato stimato in 79,6 milioni di tonnellate principalmente a causa all’aumento degli imballaggi in carta e cartone e degli imballaggi in plastica.
Nella volontà della Commissione europea, il regolamento quindi deve contribuire alla transizione verso un’economia circolare in linea con la gerarchia dei rifiuti.
L’obiettivo principale del provvedimento è, entro il 2040, ridurre i rifiuti di imballaggio in Europa del 37 % rispetto a quanto prodotto nel 2018 e la Commissione punta a farlo prevenendo la produzione di rifiuti da imballaggi, limitando quelli non necessari e promuovendo l’utilizzo di alternative riutilizzabili e ricaricabili. La proposta rientra nel Piano d’azione per l’economia circolare secondo l’approccio della “gerarchia dei rifiuti”, un modello che predilige la prevenzione dei rifiuti al loro riciclo (vedi box Il piano di azione per l’economia circolare). Le imprese dovranno offrire ai consumatori una parte dei loro prodotti in imballaggi in formato riutilizzabile o ricaricabile. Questo varrà anche per i cibi e le bevande da asporto o per le consegne relative al commercio elettronico.
Se tutto questo venisse approvato e messo in pratica, sempre secondo le stime della Commissione europea, le emissioni di gas a effetto serra derivanti dagli imballaggi entro il 2030 verrebbero ridotte a 43 milioni di tonnellate contro i 66 milioni di tonnellate di emissioni che verrebbero liberate con le attuali regole.
«Se l’obiettivo è diminuire i rifiuti di materiale di imballaggio e quindi anche il materiale di imballaggio usato, il riutilizzo è chiaramente uno dei modi migliori per raggiungere questo obiettivo. Ma il riutilizzo non è in competizione con il riciclo», ha dichiarato Timmermans durante la conferenza di presentazione del nuovo regolamento. E lo ha detto in italiano, che usa soprattutto quando sa che dal nostro Paese arriverà una forte opposizione ai suoi provvedimenti. Con il Green Deal è accaduto spesso e il regolamento imballaggi è un caso particolarmente evidente.
La lobby
«L’attività di lobbying su questo dossier è estremamente intensa, la più estrema a cui abbia assistito in questi quattro anni», spiega l’europarlamentare Delara Burkhardt, socialista tedesca e membra della commissione ENVI, responsabile del provvedimento. Il regolamento tocca numerosi settori economici e, anche nelle attività di lobby, si sono mossi molti e diversi attori: i rappresentanti del settore degli imballaggi, ma anche quello chimico o alimentare o del commercio, soprattutto on line.
Come avvenuto per altri provvedimenti del Green Deal, come per esempio per la tassonomia ambientale, anche in questo caso della proposta iniziale rischia di rimanere poco. «L’ambizione della Commissione europea per questa politica è stata indebolita. Gli obiettivi di riutilizzo rischiano di essere ulteriormente indeboliti nelle posizioni del Parlamento e del Consiglio, a seguito di una crescente opposizione da parte delle industrie degli imballaggi in plastica e carta e del settore dei beni di consumo», scrive l’Ong InfluenceMap.
Secondo un’analisi di De Smog, tra l’inizio del 2022 e l’aprile 2023, i membri dell’Europarlamento hanno avuto con le Ong che si occupano del tema 21 incontri, mentre sono stati oltre 290 quelli con i rappresentanti delle imprese. Tra questi, spiccano i nomi di multinazionali come Amazon, Pepsico e Dow. A ricorrere più spesso però, se si scorre l’elenco degli incontri degli europarlamentari o si osservano gli annunci sui social media, ci sono anche altre organizzazioni, magari meno note, ma non per questo meno influenti.
Sono le organizzazioni legate agli imballaggi in carta e cartone, che hanno cominciato a muoversi ancora prima che la Commissione Ue pubblicasse la proposta di regolamento oggi in discussione.
La lobby della carta
L’Alleanza europea per gli imballaggi in carta, l’European paper packaging alliance – EPPA, nasce nel febbraio 2020. A guidarla è Antonio D’Amato, presidente del Seda International Packaging Group, produttore multinazionale di imballaggi in carta. Il gruppo italiano, insieme ad altri grandi nomi del settore come la finlandese Huhtamaki, la finno-svedese Stora Enso o la statunitense WestRock, è uno dei fondatori dell’associazione.
«Siamo ansiosi di collaborare con i responsabili politici», dice D’Amato in un comunicato. «Li invitiamo – aggiunge – a impegnarsi a elaborare politiche basate su dati concreti e a lavorare in collaborazione con le imprese». L’ansia di collaborare con le istituzioni Ue, secondo diverse ricostruzioni, nasce dall’esperienza avuta dai produttori di imballaggi a base di carta con un altro provvedimento legislativo europeo, la direttiva sulla plastica monouso.
La direttiva sulla plastica monouso
Parte della Strategia dell’Unione sulla Plastica, la direttiva sulla plastica monouso (Single Use Plastica – Sup) viene concepita per prevenire e ridurre l’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente all’interno della transizione verso un’economia circolare in tutta l’Unione europea. In particolare, si vuole garantire che i prodotti di plastica monouso per i quali esistono alternative disponibili e a costi abbordabili non possano essere immessi sul mercato. Fissa un obiettivo di raccolta pari al 90 % per il riciclaggio di bottiglie di plastica monouso entro il 2029 che dovrebbe rientrare anche nella proposta di regolamente secondo l’ultima bozza circolata.
Le aziende del settore sono rimaste insoddisfatte della definizione di prodotti in plastica stabilita dalla direttiva perché comprende anche i contenitori a base di carta con componenti strutturali in plastica. E così, nonostante già fossero attive diverse organizzazioni di categoria in questo ambito, pochi mesi dopo l’approvazione della direttiva nella primavera del 2019, ne è nata una nuova: EPPA.
La neonata alleanza ha subito iniziato a lavorare sul regolamento imballaggi, puntando proprio su quei «dati concreti» citati da D’Amato alla nascita dell’associazione. A fine 2020, uno studio commissionato da EPPA alla divisione italiana della società di consulenza danese Ramboll compara, nei servizi di ristorazione veloce come i fast food, l’impatto ambientale del riuso di stoviglie tradizionali e di plastica con l’impatto delle stoviglie monouso in carta, quelle prodotte dalle aziende che compongono la stessa EPPA.
«Le stoviglie riutilizzabili – si legge in un comunicato – hanno generato il 177% in più di emissioni di CO2 e rispetto al sistema monouso basato sulla carta, hanno consumato il 267% in più di acqua dolce». Queste cifre saranno la base sulla quale EPPA costruirà la gran parte delle sue intense attività di lobby, che sono ancora oggi in pieno svolgimento. E questo studio sarà una delle tante pubblicazioni che l’industria del packaging – e in particolare del packaging a base di carta – utilizzerà per promuovere i suoi argomenti e difendere i suoi interessi.
«L’aspetto più sorprendente del dibattito in corso sul regolamento imballaggi è la quantità di documenti scientifici, studi e rapporti che è stata prodotta sia dalle industrie sia dalle Ong», commenta Nicolas Remilien, che a Bruxelles si occupa di economia circolare per la società di consulenza #SustainablePublicAffairs.
La sostenibilità della carta
Ad inizio 2023, per esempio, McDonald’s è uscita con il rapporto No silver bullet mentre EPPA, insieme alle altre associazioni di categoria, con una Valutazione di impatto degli obiettivi di riutilizzo proposti dal PPWR. Il primo documento, spiega un comunicato, «conclude che il passaggio al 100% di imballaggi riutilizzabili per la ristorazione entro il 2030 aumenterebbe significativamente le emissioni di gas serra, l’uso di acqua e i costi energetici». Il secondo spiega nell’executive summary che «il riutilizzo aggiungerà costi al sistema, oltre ad aumentare le emissioni di CO2».
Da quando, almeno in Europa, la realtà della crisi climatica non è più messa in discussione, sembra che lo “studio scientifico” commissionato sia il nuovo strumento preferito della retorica politica. Da parte della lobby della carta, il messaggio ai legislatori europei è chiaro, e lo sintetizza ancora una volta D’Amato: «La nostra missione è sempre più focalizzata sul supportare i responsabili politici nel prendere decisioni basate su dati ed evidenze scientifiche. Gli imballaggi monouso in carta sono essenziali per ridurre le emissioni di CO2». Il punto è quanto quest’ultima frase sia davvero supportata da «dati ed evidenze scientifiche».
Lo studio di McDonald’s, per esempio, è stato rigettato da molti esponenti della comunità scientifica per mancanza di trasparenza nei dati, mentre lo studio di EPPA mantiene confidenziali i dati di inventario. L’Alleanza spiega come sia riuscita a ottenere i dati relativi alla produzione di carta da diverse industrie europee, in modo da rappresentare l’intero processo di produzione di materia prima per gli imballaggi di carta. Ma aggiunge anche che «i dati primari (da rilevamenti diretti) sono riservati, mentre le informazioni di contesto e i flussi di riferimento sono resi noti per quanto possibile». Un approccio diametralmente opposto a quanto in realtà richiesto agli studi scientifici. Lo studio di Mcdonald’s infatti non condivide nemmeno la metodologia, mentre quello di Ramboll tiene confidenziali i dati di partenza. «Il secondo studio è stato sottoposto a un processo di revisione ma spero che i dati siano stati condivisi almeno con il revisore», dice a IrpiMedia Lucia Rigamonti, professoressa associata al Politecnico di Milano, altrimenti l’intero processo sarebbe invalido.
Rigamonti è tra gli accademici che hanno espresso preoccupazione per gli studi pubblicati in merito agli imballaggi monouso in una lettera ai policymakers europei. «Quegli studi che mostrano direttamente le conclusioni, senza fornire tutto il dettaglio di dati, come fa lo studio di McDonalds, non li prendo neanche in considerazione», dice l’esperta. Lo studio di Ramboll per EPPA, invece, «segue la metodologia standardizzata e descrive bene le fasi e i processi. Però, di nuovo, i dati di inventario sono confidenziali e quindi da esterna trovo solo le conclusioni, con risultati non verificabili».
«È uno studio ben fatto ma ci sono delle ipotesi che vogliono sostenere un determinato risultato, in gergo si dice garbage in, garbage out (spazzatura in entrata, spazzatura in uscita), cioè a seconda dell’input che usi puoi manipolare il risultato», spiega Dario Cottafava, anche lui tra i firmatari della lettera. Il ricercatore sostiene, inoltre, che nel report di EPPA non venga calcolato quello che gli scienziati chiamano “punto di rottura”: «Se io dico il monouso è migliore del riutilizzabile quante volte ho calcolato che riutilizzerò quell’imballaggio? Una, cento, venti? Cambia completamente la valutazione».
Nonostante queste criticità, lo studio di EPPA è stato preso in considerazione anche nella valutazione di impatto che la Commissione Ue ha pubblicato insieme alla proposta di regolamento.
Per capire se gli imballaggi monouso in carta siano realmente utili a ridurre le emissioni di CO2 c’è poi da valutare anche un altro aspetto: il contesto nel quale viene inserito questo tipo di packaging. La carta di cui sono fatti da dove proviene? È materia prima vergine o riciclata? E, una volta che gli imballaggi diventano rifiuti, vengono davvero riciclati? E per fare cosa?
Il riciclo degli imballaggi in carta
Uno studio Onu sul tema chiarisce che «il più delle volte, i prodotti riutilizzabili hanno un impatto ambientale inferiore a quello dei prodotti monouso» e che «la sostituzione di un prodotto usa e getta (ad esempio in plastica) con un altro prodotto usa e getta di materiale diverso (ad esempio carta, plastica biodegradabile) rischia solo di trasferire gli oneri e creare altri problemi», come per esempio la deforestazione o la perdita di biodiversità.
La pubblicazione delle Nazioni Unite si concentra poi su alcuni casi concreti, mostrando anche i limiti del multiuso. «I bicchieri di carta – vi si legge – possono diventare l’opzione migliore in termini di impatto climatico rispetto ai bicchieri riutilizzabili se il riciclo supera l’80% o se il lavaggio dei bicchieri riutilizzabili tra un uso e l’altro è inefficiente».
La soglia dell’80% riporta al caso di Comieco, McDonalds e Seda dal quale siamo partiti.
Nei ristoranti McDonald’s, la carta costituisce il 96,4% del totale degli imballaggi immessi al consumo e, nei ristoranti considerati dallo studio, il tasso di raccolta per la carta è oltre l’83%, proprio come chiesto dall’Onu.
Il modello, quindi, potrebbe davvero essere sostenibile, ma confermarlo è impossibile. Infatti la percentuale di raccolta differenziata sopra l’80% è “confermata” solo per i sei ristoranti usati nello studio. Se dai sei locali presi come esempio si passa a una scala nazionale, infatti, non sono disponibili dati sul riciclo complessivo degli imballaggi da ristorazione. La stessa McDonald’s definisce il proprio studio come “best case scenario”, difficile quindi estenderlo a un intero settore industriale.
Inoltre, anche qualora venissero raggiunti i livelli indicati dall’Onu, rimarrebbe un ulteriore criticità. In Italia, infatti, a differenza di altri Paesi Ue, l’attuale legislazione non consente di utilizzare carta riciclata a contatto con gli alimenti. Ciò significa che gli imballaggi per il cibo sono sempre realizzati con materia vergine e la carta riciclata da essi ottenuta deve essere usata per altri scopi, non per ulteriori imballaggi per cibi.
«Secondo me è un po’ limitante dire “l’ho fatto in carta perché poi tanto lo riciclo.” Ricicli, certo, ma poi sposti il problema a qualcun altro che dovrà usare quel materiale lì», commenta Rigamonti del Politecnico di Milano.
Il punto però è che la direttiva, seguendo la “gerarchia”, vuole in primo luogo favorire la riduzione dei rifiuti, poi il riuso, e poi il riciclo. Non è “contro” l’industria del riciclo, sebbene ne possa limitare gli attuali profitti.
«La nostra proposta prevede la coesistenza di entrambi i sistemi (riciclo e riuso, ndr), impostati in modo da ottimizzare le prestazioni economiche e ambientali», ribadisce il portavoce della Commissione Ue, conscio di quanto molte lobby mettano le due pratiche in contrapposizione. In particolar modo in Italia, per via del modello peculiare di gestione dei rifiuti da imballaggi che negli ultimi trent’anni circa si è affermato nel nostro Paese.
Il modello italiano basato sul riciclo
«Siamo una nazione che ha un grandissimo sviluppo del riciclo e non vogliamo assolutamente abbandonare questa strada che ci ha impegnato per moltissimi anni», afferma l’europarlamentare italiano Paolo De Castro in conferenza stampa al Parlamento europeo il 28 settembre. Il modello italiano garantisce all’Italia tassi di avvio al riciclo elevati, già al di sopra di alcuni obiettivi Ue, anche a discapito del riuso. Questo perchè l’industria del riciclo, per la quota carta rappresentata da Comieco, guadagna dalla vendita dei materiali recuperati.
Nel sistema italiano, per il raggiungimento degli obiettivi di recupero e di riciclaggio e l’adempimento dell’obbligo di ritiro dei rifiuti di imballaggio primari, i produttori e gli utilizzatori di imballaggi devono aderire al Consorzio nazionale imballaggi (CONAI) – e a uno dei Consorzi di filiera come Comieco – o, in alternativa, organizzarsi autonomamente. Per coprire le proprie spese i consorzi contano sui contributi versati loro dai produttori come, per esempio, Seda, e sui ricavi delle vendite sul mercato dei materiali ottenuti dal riciclo dei rifiuti da imballaggio, come per esempio la carta riciclata. Più materiale riescono a recuperare attraverso il riciclo, più ne possono vendere sul mercato
Per questo motivo, se passassero i target di riuso previsti dalla Commissione a cui si oppongono le associazioni di categoria in Italia, diminuirebbero anche gli imballaggi che il consorzio può valorizzare.
Si tratta di un modello industriale lineare e non circolare, che aumenta i propri profitti all’aumentare del “prodotto” processato. Di conseguenza nè i consorzi nè i produttori associati hanno interesse a implementare un sistema basato sul riuso.
La questione sembra essere stata sollevata dalla stessa Autorità di regolamentazione per Energia reti e ambiente (Arera), che nella documentazione Mercato di incidenza: ciclo dei rifiuti urbani di maggio 2023 descrive come «non trascurabili gli impatti che la proposta di regolamento avrà sugli Stati membri che hanno adottato un modello di economia circolare basato prevalentemente sul riciclo» e parla di «prevedibile decremento dei ricavi da cessione dei materiali raccolti».
Ma per affrontare in modo credibile l’inarrestabile crescita dei rifiuti di imballaggio servirebbe quantomeno applicare genuinamente il concetto di “gerarchia dei rifiuti” già proposta dalla Commissione. Gli sforzi per prevenire la creazione di questi rifiuti – commenta Marco Musso dell’ong ambientalista European Environmental Bureau (EBB) – dovrebbero percíó avere la precedenza, anche a fronte di alti tassi di avvio al riciclo», continua.
Per paura o convinzione, a favore dello status quo si sono schierati molti attori politici italiani, soprattutto tra gli europarlamentari.
La lobby italiana
Il 18 novembre 2022, prima ancora che la proposta della Commissione venisse presentata, alcuni parlamentari europei italiani, in maniera bipartisan, scrivono alla Commissione. Se le anticipazioni sulla bozza di proposta di Regolamento dovessero essere confermate, riporta Ansa, le nuove regole «rischierebbero di causare lo scardinamento di un modello economico perfettamente funzionante e di vanificare altresì l’impegno di circa 2,1 miliardi di euro previsti nel Pnrr italiano destinati alla gestione efficiente e sostenibile dei rifiuti e dell’economia circolare».
Da allora, la rappresentanza italiana al Parlamento europeo è coinvolta in prima linea e ha visto compattarsi un fronte largo: da Fratelli d’italia al Partito Democrartico il lavoro delle commissioni Ambiente (Envi) Industria, Ricerca ed Energia (Itre) e Agricoltura (Agri) ha contribuito a limare il compromesso verso una posizione sempre più distante dai target di riuso proposti dalla Commissione Ue.
In commissione Envi, gli europarlamentari Massimiliano Salini (Forza Italia) e Pietro Fiocchi (Fratelli d’Italia), che non hanno pubblicato nessun incontro sulle proprie pagine ufficiali, sono relatori ombra insieme all’onorevole Silvia Sardone (Lega), che ha incontrato più volte Conai, McDonald’s e Seda. Un altro ruolo di rilievo lo hanno svolto Salvatore De Meo (Forza Italia) in commissione Agri, ma soprattutto Patrizia Toia (Partito democratico), che ha presentato una relazione votata positivamente in commissione Itre.
«Gli interessi italiani sono onnipresenti su questo tema», riprende l’eurodeputata Burkhardt che, pur facendo parte del gruppo Socialisti e Democratici insieme a Toia e ad altri eletti del Partito democratico, ha preso su questo caso posizioni molto diverse dai colleghi italiani.
Lo stesso Salini, a marzo, in un evento da lui ospitato al Parlamento Europeo, aveva presentato lo studio No silver bullet di McDonald’s. In entrambi i casi, tra i relatori spiccava Antonio D’Amato, presidente di EPPA e Seda.
Proprio D’Amato lo scorso tre ottobre, quando le trattative all’interno della Commissione Envi sono entrate in una fase avanzata, ha incontrato personalmente a Strasburgo la relatrice del provvedimento, l’eurodeputata belga centrista Frédérique Ries. Il giorno seguente, Ries ha incontrato un’alta funzionaria della direzione Ambiente della Commissione europea.
La prossima settimana la Commissione Ambiente del Parlamento Ue voterà la versione del regolamento che verrà mandata in plenaria nelle settimane successive. Sono in molti ad aspettare con ansia il risultato, «Non ho mai visto una tale quantità di lobby. È enorme», commenta Tatiana Lujan, dell’organizzazione di diritto ambientale ClientEarth. E se queste avranno successo, lo si capirà dagli emendamenti che verranno votati.
Secondo una delle ultime bozze di compromesso pubblicata da Contexte, lo sforzo in Parlamento avrebbe portato a dei risultati notevoli per i detrattori del riuso. Tra gli emendamenti proposti, alcuni stralcerebbero quasi del tutto l’articolo n. 26 Reuse and refill target, abbasserebbero il target di riuso per gli imballaggi previsti dal 90% al 50% eliminando i target di riuso per il take away.
Se venissero approvati, sarebbe una prima ma significativa vittoria anche della lobby italiana.
Editing: Giulio Rubino
Foto: Global Images Ukraine/Getty