Dalla pesca all’allevamento: il lato oscuro dell’acquacoltura
Negli Stati Uniti l’allevamento del pesce è il settore più in crescita dell’intera industria alimentare. Promossa come alternativa sostenibile alla pesca intensiva nell'Oceano trascina però con sé schiavitù e pesca illegale per la produzione delle farine di pesce

9 aprile 2021 | di Holly Pate

Dal momento che l’amministrazione Biden si preoccupa delle questioni ambientali, una delle sue massime priorità sarà comprendere come proteggere meglio gli oceani. Considerando che oltre l’80% degli stock ittici mondiali è al collasso o quasi, alcuni ambientalisti sostengono che l’acquacoltura potrebbe contribuire a contrastare il problema della pesca eccessiva.

Ora che la nuova amministrazione è in carica e sta cercando di invertire rapidamente molte delle priorità politiche del suo predecessore, i sostenitori della tutela dell’ambiente marino stanno cercando di capire quale sarà la loro posizione nei confronti dell’acquacoltura. Ma la spinta verso l’espansione degli allevamenti ittici sta stimolando un dibattito infuocato, sollecitando l’industria della pesca commerciale con sede negli Stati Uniti a ottenere più sostegno, attirando allo stesso tempo scetticismo e critiche da molti biologi marini e ambientalisti.

Cos’è l’acquacoltura e come funziona nel contesto europeo e italiano

L’acquacoltura è la coltivazione dell’acqua finalizzata a raccogliere pesci, molluschi, crostacei e alghe. Può essere fatta con qualunque tipo di acqua: salata, dolce o salmastra. Questa forma di coltivazione è stata finanziata attraverso il 20% con il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca 2014-2020 poiché considerata un’alternativa possibile alla pesca illegale e altamente inquinante. In Italia, riporta il sito del Ministero dell’Agricoltura, i circa 7.500 addetti lavorano «in circa 800 impianti di acquacoltura che producono 140 mila tonnellate l’anno di prodotto, contribuendo a circa il 40% della produzione ittica nazionale e al 30% della domanda di prodotti ittici freschi».

SATS (Stronger America Through Seafood), un’organizzazione che raggruppa aziende di acquacoltura e settori correlati, ha inviato al presidente Biden una lettera aperta a gennaio, chiedendo di dare priorità alla produzione ittica locale. «Aumentare l’approvvigionamento di pescato statunitense attraverso l’acquacoltura produrrà una serie concatenata di effetti positivi per gli Stati Uniti che iniziano a risollevarsi dalla devastazione della pandemia da Covid-19», si legge nella lettera. «Ora forse più che mai, abbiamo bisogno sia di cibo locale sostenibile sia di nuove opportunità di lavoro per tutti gli americani. L’acquacoltura può soddisfare entrambe le esigenze, limitando al contempo gli impatti sull’ambiente». Ma alcuni biologi marini e ricercatori per la sicurezza alimentare sostengono che una crescente dipendenza dall’acquacoltura avrà un impatto ambientale dannoso.

The Friends of the Earth, una rete che comprende 52 organizzazioni ambientaliste, a dicembre ha esortato Biden con una lettera a sostituire un ordine esecutivo emesso dall’amministrazione Trump a maggio, che mirava ad accelerare il processo di autorizzazione per l’acquacoltura in mare aperto e per la costruzione di allevamenti ittici più lontano dalla costa nelle acque statunitensi. La lettera metteva in guardia contro le carenze tipiche dell’acquacoltura, come l’interruzione delle popolazioni ittiche selvatiche e degli ecosistemi marini vulnerabili, la diffusione di malattie e parassiti e la contaminazione delle acque reflue industriali.

«L’industria dell’acquacoltura deve essere sottoposta a un esame scrupoloso,» continua la lettera. «La precedente amministrazione ha attivamente sostenuto l’espansione dell’acquacoltura senza aver intrapreso una solida ricerca scientifica, senza aver consultato meticolosamente le varie parti interessate e senza avere una legislazione federale che consenta una regolamentazione su base scientifica del settore».

Ian Urbina è un giornalista investigativo vincitore di un premio Pulitzer. Precedentemente al New York Times, oggi Urbina dirige The Outlaw Ocean, un’organizzazione non profit che si concentra sui diritti umani, del lavoro e lo sfruttamento ambientale del  mare. In Italia, nel 2020, Urbina ha pubblicato con Mondadori Oceani fuorilegge, libro che raccoglie cinque anni di reportage e inchieste in giro per il mondo.

Essendo il settore più in crescita nell’industria alimentare, l’acquacoltura è in piena espansione in tutto il mondo per una serie di motivi. Gli ambientalisti vedono il pescato come una fonte alternativa di proteine, con un’impronta di carbonio inferiore rispetto alla carne. Gli economisti sottolineano che gli Stati Uniti importano molto più pescato di quello che producono, creando un deficit commerciale di 16 miliardi di dollari che potrebbe essere alleggerito promuovendo l’allevamento ittico nazionale.

Di primo acchito, l’acquacoltura presenta alcuni evidenti vantaggi. Elimina il problema delle catture accessorie, con cui, durante la pesca commerciale di altre specie, vengono catturati, uccisi e gettati in mare grandi quantità di pesci e altri animali marini indesiderati. In alcune parti del mondo, come per esempio in Asia e in India, l’allevamento ittico è una delle principali fonti di occupazione, specialmente per le donne. Inoltre, a seconda di come viene praticato, è un metodo per ottenere fonti proteiche più economico rispetto alla pesca tradizionale. Gli allevamenti ittici offrono una tracciabilità più semplice per le aziende che vogliono assicurarsi che le loro filiere non siano contaminate dalla pesca illegale, dai reati ambientali o dal lavoro forzato.

In realtà, lungi dall’essere una panacea, l’acquacoltura è profondamente legata alla schiavitù del mare e alla pesca illegale, a causa della dipendenza dell’industria dalla farina di pesce, che ha un legame con le imbarcazioni più inclini a questo tipo di violazioni nei confronti dei diritti umani e dell’ambiente.

A bordo di un peschereccio gambiano – Foto: Ian Urbina

Innanzitutto, la maggior parte dell’allevamento ittico si effettua in recinti vicino alla costa o in grandi vasche a terra. Quando i pesci vengono rinchiusi in vasche poco profonde vicino alla riva, i loro escrementi in genere affondano, soffocando piante e animali sul fondale. Inoltre, i rifiuti causano un aumento del livello di azoto e fosforo che fa crescere alghe, uccidendo così i pesci e tenendo i turisti lontani dalle spiagge.

Una soluzione a questi problemi ambientali è spostare le vasche più lontano dalla riva. Alcuni gruppi ambientalisti sostengono l’idea dell’acquacoltura in acque profonde perché trasferire gli allevamenti ittici in oceano aperto ha il vantaggio di contare su correnti più veloci che allontanano meglio i rifiuti dei pesci.

«L’oceano aperto rappresenta un’area molto remota in grado di trattare naturalmente i rifiuti dei pesci nelle vaste distese d’acqua, decisamente oltre la capacità di smaltimento dei deflussi agricoli dei nostri sistemi di acqua dolce», ha dichiarato Aaron McNevin, vice presidente dell’acquacoltura presso il World Wildlife Fund, aggiungendo che deve essere ancora creata una regolamentazione approfondita per questi allevamenti.

Tuttavia, questi allevamenti in mare aperto rappresentano una minaccia per i pesci selvatici sia per quanto riguarda la diffusione di malattie sia per la fuga di pesci che, essendo stati allevati, sono più grandi e dominerebbero l’habitat delle specie ittiche autoctone.

La sfida più grande per l’acquacoltura, però, è continuare a nutrire i pesci d’allevamento a prescindere dal fatto che questi si trovino in vasche, in recinti vicini alla costa o in oceano aperto. Il mangime costituisce circa il 70% delle spese generali dell’industria e, finora, l’unica risorsa che si è rivelata essere economicamente sostenibile è la farina di pesce.

Come il mangime per pesci sta distruggendo le acque del Gambia

Nel 2019 Ian Urbina, giornalista investigativo e direttore della pubblicazione non-profit The Outlaw Ocean Project, è stato per un mese in Africa occidentale dove a bordo di diverse navi che pattugliano le acque vicino al Gambia, ha realizzato un reportage sulla farina di pesce. Ha scoperto come molti africani della piccola nazione del Gambia, hanno sfruttato la produzione redditizia della farina di pesce. Ma facendo questo, il Paese sta inquinando le sue acque, decimando gli stock di pesci e minacciando la vita dei suoi stessi cittadini.

I pesci utilizzati per produrre la farina si trovano spesso alla base della catena alimentare e per questo tendono a essere fonte di cibo per le specie carnivore come salmoni, delfini, squali e tonni, ma anche per pinguini e uccelli marini. Questi pesci, una volta catturati, vengono macinati per ottenere la farina di pesce, una polvere gialla ricca di proteine.

La popolarità della farina di pesce nasce in parte negli anni Sessanta all’emergere delle “operazioni di alimentazione animale concentrate”, più comunemente note come CAFOS. Gli allevatori si resero conto che avrebbero potuto arricchirsi più velocemente se avessero venduto maiali, polli e bestiame nutriti con il grano invece che con erba e allevati in piccole zone circoscritte rispetto a farli pascolare liberi.

Sebbene fosse economicamente conveniente, confinare l’allevamento creò delle nuove sfide. Gli animali si ammalavano più spesso e ciò spinse gli allevatori a usare gli antibiotici. Le diete in cui non era previsto il pascolo si rivelarono carenti di nutrienti e ciò rese la farina di pesce un integratore proteico attrattivo. Passando dal pesce selvatico al pesce d’allevamento, l’industria ittica sta affrontando le stesse problematiche del settore dell’allevamento. Le malattie e l’uso degli antibiotici sono comuni anche in acquacoltura e il liquame proveniente dagli allevamenti ittici è un grave pericolo di inquinamento.

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I ricercatori di tutto il mondo hanno identificato ogni potenziale tipo di fonti alternative — liquami umani, alghe marine, scarti di manioca, larve di mosca soldato (Hermetia illucens), proteine monocellulari prodotte da virus e batteri — ma finora nessuna è stata prodotta su larga scala a costi contenuti.

Quando ritorna dal suo viaggio, al reporter Urbina viene chiesto di comparire davanti al Congresso dove sperimenta in prima persona il crescente entusiasmo riguardo all’acquacoltura. Urbina usa i cinque minuti a lui destinati per descrivere i diversi crimini che accadono in mare aperto inclusi la schiavitù, l’assassinio di passeggeri clandestini, lo scarico intenzionale di rifiuti, traffico d’armi e, ovviamente, la pesca illegale. Urbina cerca di dimostrare che la definizione di pesca illegale dovrebbe essere ampliata per includere reati non solo contro i pesci ma anche contro i pescatori. Inoltre, enfatizza il fatto che le navi che velocemente distruggono gli oceani sono le stesse più propense a tagliare i costi causando pessime condizioni di lavoro.

Durante l’udienza, Tom McClintock, un deputato repubblicano della California, ha dichiarato che sebbene le atrocità che si verificano sui pescherecci stranieri possono essere preoccupanti, il governo degli Stati Uniti può fare ben poco a riguardo. «La semplice verità è che non controlliamo questi Paesi», ha detto McClintock. Il deputato sostiene che nel breve periodo gli Stati Uniti potrebbero e dovrebbero raddoppiare la loro industria dell’acquacoltura. «Quanto prima riusciremo ad allevare i pesci in cattività a buon mercato invece che catturarli in natura, tanto prima la piaga della pesca non sostenibile scomparirà naturalmente», ha continuato McClintock.

Come giornalista in un contesto altamente politicizzato, Urbina ha dichiarato che il suo ruolo non era quello di confutare il legislatore. Urbina non era lì per obiettare, ma per offrire la sua testimonianza. Tuttavia, sperava che qualcun altro all’udienza avrebbe fatto notare che l’acquacoltura è lontana dall’essere una panacea, ma alla fine dell’udienza, nessuno ha menzionato il problema.

Traduzione a cura di: Marta F. Soldati e Allison Vernetti | Editing: Lorenzo Bagnoli | Foto: Ian Urbina

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