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Cosa non torna nelle condanne per la “strage di Ferragosto”
Otto condannati, a 20 e 30 anni di carcere, in attesa della Cassazione. I metodi d’indagine, però, lasciano dei dubbi: nelle carte processuali si trovano allusioni e testimonianze contraddittorie
28 Giugno 2021

Lorenzo D’Agostino

Aferragosto 2015 morirono asfissiate 49 persone confinate durante la traversata dalla Libia a Lampedusa nella stiva di un barchino sovraccarico. Il processo a carico degli otto imputati per omicidio plurimo e traffico di esseri umani il 2 luglio arriva in Cassazione. I libici Jomaa Laamami Tarek, Abdelkarim Alla F. Hamad e Abd Al Monssif Abd Arahman, il marocchino Beddat Isham e il siriano Jarkess Mohannad sono stati condannati con rito ordinario a 30 anni di carcere dalla Corte d’Appello di Catania. Il libico Assayd Moahmed, il tunisino Couchane Moahmed Ali e il marocchino Saaid Mustapha, i cui avvocati scelsero il rito abbreviato, hanno una condanna già definitiva a 20 anni. Di questi otto, cinque non erano neanche ventenni quando sono stati arrestati la sera del 17 agosto 2015, a poche ore dal loro sbarco in Italia, in base a testimonianze rilasciate da nove su 313 sopravvissuti alla strage.

Queste sentenze, e le indagini su cui si basano, appaiono viziate da una pregiudiziale: che i responsabili della strage fossero da trovare, a tutti i costi, tra gli stessi passeggeri dell’imbarcazione. Che tra i sopravvissuti, cioè, si nascondesse un temibile gruppo di “scafisti” in combutta con le organizzazioni libiche dedite al traffico di persone. Un’organizzazione di cui però a oggi non si conoscono i “vertici” né si è riuscita a individuare la cassaforte.

Sulla base di questa premessa mai dimostrata è stato svolto un processo imbastito a base di deduzioni arbitrarie, verbali di polizia contraffatti, interrogatori suggestivi a testimoni in stato di trauma.

Non un caso isolato, ma un vero e proprio modus operandi che IrpiMedia può ricostruire grazie a un’analisi incrociata di interrogatori della polizia, manuali operativi delle forze dell’ordine e i verbali di riunioni riservate tra i vertici della magistratura. Casi in cui la macchina giudiziaria sembra rispondere a un’esigenza politica: individuare un capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità per le stragi del mare. Con metodi ideati nelle procure dotate di Direzioni distrettuali antimafia – in Sicilia, la regione più esposta agli sbarchi, le Dda di Catania e Palermo – sotto il coordinamento della Direzione Nazionale Antimafia.

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Tre calciatori libici tra gli imputati

Il governo di Bengasi, sotto il controllo di Khalifa Haftar, a settembre 2020 chiese la scarcerazione di quattro libici, in quanto sarebbero dei calciatori in Libia e non apparterrebbero a nessun gruppo criminale. Le storie di tre di loro – Abdelkarim Alla F. Hamad, Jomaa Laamami Tarek e Abd Al Monssif Abd Arahman – suffragate dagli ingaggi delle squadre prodotti dalle difese durante il dibattimento, sono state ritenute credibili dalla sentenza della Corte d’Appello.

Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group, è una delle maggiori conoscitrici italiane del Paese nordafricano, e sostiene strenuamente l’innocenza dei giovani libici. È riuscita ad incontrare due di loro, Abdelkarim e Al Monssif, nel carcere di Caltagirone.

«I tre calciatori – dice Gazzini – sono amici d’infanzia, cresciuti nel quartiere popolare di Ard Zwawa». Di famiglia umile ed esasperati dalla guerra nel loro Paese, presero la decisione di imbarcarsi per l’Europa all’insaputa dei genitori, dopo aver provato invano ad ottenere un visto. Quando, al loro arrivo in Italia, sono stati subito arrestati, non si sono preoccupati: un interprete disse loro che stavano andando in carcere perché i centri di accoglienza erano pieni. «E fino alla condanna in appello sono rimasti convinti che l’equivoco che li riguarda si sarebbe chiarito: il giorno della sentenza avevano fatto le valigie e regalato le loro cose ad altri detenuti, pronti ad uscire», aggiunge.

In prigione, Al Monssif sta studiando all’istituto alberghiero: ha completato un corso di cucina di 600 ore e sogna di tornare a Bengasi per aprire una pasticceria.

Abdelkarim si è iscritto al liceo artistico ed è diventato ceramista, ma non si fa illusioni sulla sentenza della Cassazione: ha capito di essere una vittima di un sistema corrotto. Al colloquio con Claudia Gazzini si è presentato con il suo fascicolo processuale, di cui ha studiato tutte le incongruenze, e con una copia annotata dell’ultimo libro di Alessandro Sallusti, Il Sistema, in cui il giornalista raccoglie la versione di Luca Palamara rispetto al malfunzionamento della giustizia.

Il manuale per le indagini in alto mare

Dal 2013 è in corso un tentativo di uniformare l’approccio di contrasto al traffico di esseri umani, con la procura di Catania (all’epoca guidata dal procuratore Giovanni Salvi) a guidare l’esperimento. Le linee guida adottate da ottobre di quell’anno dalla Direzione Nazionale Antimafia (Dna) prevedono l’invio di «squadre investigative in alto mare», cioè in acque internazionali. Si tratta di «un percorso giudiziario nuovo ed inesplorato… un sistema sinergico nazionale ed internazionale di nuovo conio che conclama l’alta professionalità della Dda catanese e del suo Capo», si legge nella relazione della Dna di quell’anno.

In effetti il metodo inaugurato da Salvi prese rapidamente piede in un’Europa sempre più preoccupata dagli sbarchi, fino ad essere oggi adottato ufficialmente dalle missioni di pattugliamento dell’Unione, come EUNAVFOR MED – gestita dalla marine militari – e Themis – coordinata da Frontex, l’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere, insieme all’Italia.

In occasione della strage di Ferragosto, i tentativi di identificare l’equipaggio del barcone iniziarono fin dalle prime ore successive all’operazione di ricerca e soccorso (SAR) 1046 del 2015 coordinata dalla Capitaneria di Porto (MRCC) di Roma. I 313 superstiti della strage del naufragio furono salvati la mattina dal pattugliatore della Marina Militare Italiana, Cigala Fulgosi. Il capitano di fregata Massimo Tozzi, non disponendo di una cella frigorifera in cui riporre le 49 salme rinvenute a bordo, richiese l’aiuto di una nave dell’agenzia di frontiera dell’Unione Europea Frontex, il rimorchiatore norvegese Siem Pilot dove furono trasferiti anche i superstiti.

Al termine delle operazioni di recupero dei cadaveri, una terza nave militare, la tedesca OPV Werra, trasferì a bordo del Siem Pilot altri 103 naufraghi soccorsi nelle ore precedenti. Al rimorchiatore di Frontex fu poi ordinato di dirigersi verso il porto di Catania. Alle 6:00 del mattino del 17, quando la Siem Pilot era ormai a largo di Siracusa, furono inviati a bordo cinque agenti della Polizia e della Guardia di Finanza di Catania specializzati nel contrasto al crimine organizzato per interrogare i naufraghi.

Scafista e trafficante, le sfumature del traffico e della tratta di esseri umani

La differenza tra un migrante irregolare e una vittima di tratta sta nel fatto che il primo sceglie di raggiungere clandestinamente un Paese, mentre la seconda è costretta. Le convenzioni internazionali proteggono le vittime di tratta, non i migranti irregolari. Questi possono però fare richiesta di asilo politico una volta raggiunto il Paese di destinazione. Il viaggio di una vittima di tratta tipicamente si conclude con situazioni di sfruttamento lavorativo oppure costringendo la vittima a prostituirsi.

In inglese, si definisce trafficker il gestore della tratta di esseri umani, mentre smuggler è chi permette a migranti, previo pagamento, di raggiungere in modo irregolare la loro destinazione. In italiano, questa figura si identifica sempre con lo stesso termine: trafficante (per le merci, invece, c’è la parola contrabbandiere). L’assenza di un termine appropriato per definire gli uni e gli altri è un sintomo di un certo approccio all’argomento.

Nel 2013, l’anno che verrà poi segnato dal naufragio da cui tutto ebbe inizio (a Lampedusa), la Direzione nazionale antimafia, come racconta The Intercept, comincia a disegnare la strategia di contrasto alla tratta di esseri umani. Con il prosieguo degli anni, l’approccio antimafia ha finito per sconfinare anche nei casi di traffico “semplice”, che caratterizzano la maggior parte degli sbarchi.

Il termine più comune nella narrazione degli sbarchi è “scafista”, che indica in sostanza chi è al timone del barcone. Di per sè, non ha una rilevanza penale: non è automatico che appartenga all’organizzazione criminale. Anzi, «si tratta, in molti casi, di migranti che si prestano a questa attività in cambio di uno sconto sul prezzo della traversata», scrive nel 2015 sul blog della Società italiana di Diritto internazionale la professoressa Alessandra Annoni.

Anticipare gli accertamenti di polizia giudiziaria, secondo l’approccio sperimentale, avrebbe permesso di raccogliere informazioni preziose per smantellare le organizzazioni dedite al traffico e alla tratta di persone. Seguendo il nuovo metodo d’indagine, in pratica, il lavoro degli agenti a bordo delle navi che hanno effettuato un salvataggio sarebbe stato selezionare, tra gli stessi naufraghi, i sospetti “membri dell’equipaggio” appartenenti all’organizzazione criminale.

Per questo motivo, gli agenti di Frontex aprirono immediatamente una «indagine sulla scena del crimine», raccogliendo addirittura tamponi dalla plancia di comando della barca per un possibile test del DNA, poi consegnati alla polizia italiana. Non furono mai analizzati: per scovare gli scafisti i nostri agenti ricorsero a metodi più spediti.

Applicarono infatti le linee guida della missione EUNAVFORMED il cui titolo in italiano è Profili di persone vulnerabili & di scafisti/trafficanti. Secondo il manuale, gli scafisti «cercheranno di nascondersi tra i migranti quando l’imbarcazione è intercettata» e per evitare di farsi ingannare suggerisce di «interrogare per prime le donne con figli minori».

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Questa tecnica investigativa – che consiste nell’affidarsi a indicatori comportamentali o fisici per tracciare il profilo di potenziali sospetti – si definisce “profiling”. Il manuale di EUNAVFORMED dice che deve essere utilizzata solo da agenti formati in materia, e mette in guardia dai suoi rischi: «Questo profilamento non deve essere mai utilizzato in un modo che possa alimentare la discriminazione». Più avanti: «Gli indicatori non sono prove; sono il punto di partenza per ulteriori indagini».

I verbali di indagine redatti dagli agenti di Frontex e dagli ufficiali di polizia giudiziaria di Catania, di cui gli slideshow riproducono gli stralci più significativi, mostrano l’utilizzo del profiling nella pratica. Sono però l’intera indagine piuttosto che il suo «punto di partenza».

«L’isp. Capo Macaluso Santo una volta entrato nel citato spazio denominato “Zone Red” notava che circa 9-10 soggetti di sesso maschile nel tentativo di unirsi agli altri migranti, venivano respinti e allontanati sia con urli che spintoni – si legge nelle annotazioni del vicequestore Giovanni Arcidiacono -. I citati migranti si raggruppavano quindi in un angolo assumendo un atteggiamento di evidente timore e spiccata curiosità sull’attività effettuata da questa P.G. tanto che ogni nostro movimento veniva scrutato e seguito con strano interesse. Gli stessi parlavano esclusivamente tra di loro». Questa osservazione, che di per sé è uno spunto investigativo, è stata impiegata come una prova fondamentale nel processo.

Le prime 48 ore di indagine

Stralci dei documenti in cui si mostrano le prove raccolte nelle prime 48 ore di indagini a seguito dello sbarco

Durante il dibattimento, altre considerazioni dell’ispettore sono state considerate un riscontro esterno ai racconti dei superstiti. Senza un riscontro esterno un indizio riportato da un testimone non può assumere il rilievo di una prova. In aula l’ispettore ha raccontato di aver notato «un movimento strano di alcuni migranti che si distinguevano dagli altri per il colore della pelle, che erano molto più chiari rispetto agli altri, gli altri erano molto scuri, neri» quando era a bordo del Siem Pilot.

Le difese si sono concentrate sulle inconsistenze delle dichiarazioni di Macaluso, dai riferimenti al colore della pelle dei sospetti, al fatto che a bordo del Siem Pilot si trovassero i migranti provenienti da due operazioni di salvataggio distinte, ma la Corte d’Appello lo ha considerato al contrario credibile.

Gli interrogatori

Dopo lo sbarco a Catania il 17 agosto, tra le 15:50 e le 21:00, un totale di 15 agenti tra poliziotti e finanzieri si divisero in gruppi per mettere a verbale nove interrogatori. Poiché i testimoni avrebbero potuto essere a loro volta indagati per il reato di immigrazione clandestina erano presenti un avvocato d’ufficio e un interprete. I verbali – le Sommarie Informazioni Testimoniali – hanno tutti la stessa struttura: si comincia con il racconto personale dei motivi che hanno spinto a intraprendere un viaggio così pericoloso e si prosegue, nella seconda parte, alla disamina di due raccolte di fotografie: la prima con gli scatti dei cadaveri, la seconda con i sopravvissuti.

Malgrado certe rigidità nell’esposizione, dovute alla doppia mediazione dell’interprete e del linguaggio burocratico della polizia, i racconti personali sono pieni di dettagli. Così, ad esempio, una testimone ivoriana racconta le giornate precedenti la partenza:

Il manuale operativo dell’Operazione Sophia di EuNavForMed per la profilazione di persone vulnerabili e trafficanti

«Lunedì 10 di questo mese alle ore 02:00 circa, due libici sono venuti a casa e hanno prelevato tutti e tre, io mio fratello e mia cognata, e arrivati in un’altra abitazione hanno fatto scendere solo me e mia cognata mentre mio fratello era con i libici». Questa, invece, la testimonianza di un altro, marocchino: «Ho lavorato circa sei mesi in Libia come muratore per mettere da parte la cifra sufficiente per pagare i trafficanti. Ho consegnato il denaro al mio connazionale Nassim e questo, lo scorso 14 agosto, che era venerdì, mi ha portato, a bordo di un furgone, nella località di Zuwara».

Dal loro insieme emerge una descrizione coerente delle operazioni di imbarco e della partenza del barcone. La notte del 14 agosto dei trafficanti libici armati radunarono, da vari centri di raccolta, centinaia di migranti su una spiaggia; in gruppi di trenta, con un gommone, li trasportarono a bordo del barcone in legno ormeggiato a largo, cominciando dagli uomini neri – subsahariani come i loro parenti e amici – costretti nella stiva dove già esalavano i fumi del motore acceso. Oltre a loro, furono pakistani e bengalesi a cui i trafficanti riservarono a bordo i posti peggiori. La ricostruzione è credibile anche perché ricalca quanto già sentito in passato da altri superstiti: sovraccoperta, oltre che a donne e bambini, viaggiano altri arabi (libici, ma anche marocchini, tunisini ed egiziani), in una logica razzista dell’assegnazione dei posti. Al termine delle operazioni di imbarco, durate qualche ora, i trafficanti fecero partire il barcone e con i loro gommoni tornarono a terra. Sovraccoperta nessuno si rese conto, fino al trasferimento sulla Siem Pilot, che nella stiva avevano perso la vita 49 persone.

Un fotogramma del documentario Fuocoammare, che racconta la vita sull’Isola di Lampedusa e il dramma dei migranti nel Canale di Sicilia, disponibile su Raiplay

Dopo l’esposizione, gli investigatori hanno fatto consultare agli interrogati due selezioni fotografiche. Nella prima, i cinque testimoni che avevano dichiarato di aver perso un parente non sono riusciti a identificare nessuno. Nella seconda, di cui non si conosce l’ampiezza, tutti i testimoni (tranne l’uomo sudanese che era sottocoperta) hanno riconosciuto alcuni “membri dell’equipaggio”. Questi ultimi sono accusati dalle parole dei superstiti di aver impedito con la violenza a chi era stato collocato sottocoperta di uscire per prendere aria, provocandone così la morte. Non c’è modo di sapere che domande siano state poste agli interrogati, perché nei verbali si legge soltanto una lista di dichiarazioni accusatorie precedute dalla sigla “ADR”, A Domanda Risponde.

Ci sono degli elementi di queste dichiarazioni che però non convincono. Infatti, alcuni stralci dell’interrogatorio si ripetono identici.

La frase «riconosco nella persona avente il numero 157 il comandante dell’imbarcazione, colui che ha condotto l’imbarcazione durante tutta la traversata» o la variante «riconosco nella foto effigiante il volto avente il numero 157 il comandante dell’imbarcazione, colui che ha condotto l’imbarcazione durante tutta la traversata» si trova in cinque verbali. La formula «ricordo inoltre che lo stesso dava frequenti disposizioni ai soggetti da me riconosciuti al nr.» si ripete con le persone identificate dai numeri 270, 201, 186, 156 e 153 (cinque degli otto imputati).

Ad accrescere i sospetti di un copia-incolla è il fatto che errori di battitura come «l’ho visto personalmente posizionarsi sopra la botola è [sic] bloccare l’apertura della stessa. Questo utilizzava una cintura e picchiava violentemente tutti coloro che chiedevano di salite [sic] anche per prendere un po’ di aria» si ripetono in due interrogatori, mentre altri tre riportano cinque risposte identiche (vedi slideshow).

Stralci che sembrano dei “copia-incolla”

Errori di battitura e intere frasi si ritrovano identiche nei verbali di più testimoni

L’incidente probatorio

Il 21 e il 24 agosto otto dei nove testimoni sono comparsi davanti al Giudice per le indagini preliminari di Catania per essere sottoposti all’esame incrociato del pubblico ministero e della difesa degli imputati. Questa fase processuale si chiama “incidente probatorio”: consente di “cristallizzare” le prove, che in questo caso erano i riconoscimenti della polizia.

Durante l’incidente probatorio si è potuto constatare che questo tipo di processi segue la falsariga dei processi di mafia. Lo dimostrano, nel caso specifico, due elementi: il primo è la promessa di un meccanismo di protezione per chi collabora (nello specifico, come emerge anche in altri procedimenti analoghi, ai testimoni viene concesso il permesso di soggiorno); il secondo è la decisione di proteggere i testimoni dietro un separè. Visto il timore di ripercussioni o minacce, si voleva evitare che accusatori e accusati si trovassero faccia a faccia. Di conseguenza, però, l’identificazione dei membri dell’equipaggio è avvenuta solo attraverso gli album fotografici e non in presenza. Pubblici ministeri e difesa erano comunque d’accordo sullo svolgimento del processo in questa modalità.

Dalla trascrizione dell’incidente probatorio emergono numerosi elementi di debolezza delle testimonianze, che la difesa degli imputati non appare in grado di mettere in risalto.

Dalla trascrizione dell’incidente probatorio emergono numerosi elementi di debolezza delle testimonianze, che la difesa degli imputati non appare in grado di mettere in risalto.

I primi elementi poco convincenti hanno riguardato il riconoscimento del presunto equipaggio. Un testimone pakistano ha riferito di alcune persone in uniforme («con la giacca diversa da tutti gli altri»). Una donna ivoriana ha parlato di fischietti usati dall’equipaggio per mantenere l’ordine. Le due circostanze non sono mai emerse in tutto il resto del compendio probatorio. In un’altra testimonianza, un teste marocchino ha detto di aver riconosciuto l’equipaggio durante la notte per «la luce della luna». Ma il 14 agosto del 2015 era notte di luna nuova: uno dei dettagli falsi che nessuno verificherà nel corso dell’intero processo.

Contraddittorie sono anche le versioni circa quante persone fossero parte dell’equipaggio. Sempre un testimone pakistano:

Pubblico Ministero – Si ricorda quante persone ha riconosciuto?
Interprete, Khalil A. – Sì, tre, cinque potrei individuarli, riconoscerli.
Pubblico Ministero – No, come cinque!?
Interprete, Khalil A. – Tre o cinque. Tre, quattro anzi.

I problemi sono continuati con il riconoscimento fotografico. Nell’album davanti a sé, il testimone ha indicato una foto che non corrispondeva a nessuno degli otto imputati e che lui stesso non aveva mai detto in precedenza di aver riconosciuto:

Interprete, Khalil A. – 164, che non c’è la firma, però subito
dice è questo, è questo. Questo era una delle guardie che picchiava sopra. Sopra era, picchiava sopra anche, perché è uno delle guardie.
Pubblico Ministero – Quindi picchiava anche i soggetti che erano sopra, nella parte superiore dell’imbarcazione.
Giudice – Ma questo non è uno degli indagati.
Interprete, Khalil A. – Allora, picchiava quelli che cercavano di salire sopra.
Giudice – Andiamo avanti.
Pubblico Ministero – Lui deve controllare se riconosce le sue firme.
Pubblico Ministero, dottor La Rosa – Deve ricontrollare le foto in cui appone le sue firme.
Giudice – Esatto. Non divaghiamo. È importante dal punto di vista processuale.

Un altro testimone marocchino non ha nemmeno riconosciuto le sue firme («non ho messo nessuna sigla») mentre una donna ivoriana ha negato la circostanza di aver effettuato alcun riconoscimento fotografico davanti alla polizia, a testimonianza dello stato di shock nella quale si trovava a nemmeno cinque giorni dal naufragio e dalla morte di un fratello. La donna ha anche aggiunto di non aver assistito ad atti di violenza, al contrario di quanto riportato nel verbale di polizia. Ha poi alleggerito le sue accuse nei confronti degli imputati, sottolineando come i trafficanti che hanno caricato i migranti fossero poi rientrati in Libia.

Un ragazzo sudanese che ha viaggiato nella stiva ha parlato di persone a bordo che chiedevano alle altre di non muoversi. Nessuno ha disobbedito «perché – sostiene – tutti avevamo paura» che la barca si ribaltasse, non per minacce o pestaggi.

Da queste parole, emerge che non ci sarebbe stato, dunque, nessun atto di violenza organizzata per costringere le persone a rimanere sottocoperta: tutt’al più una lotta per mantenere la propria posizione a bordo di un’imbarcazione sovraffollata e precaria, caricata all’inverosimile dai trafficanti rimasti in Libia. La ricostruzione è coerente con l’esame del medico legale, secondo cui «nessuna delle 49 salme esaminate presentava tracce di lesioni traumatiche recenti di entità apprezzabile».

Le sentenze

Se mettersi al timone di una barca per cercare una miglior vita in Europa va considerato un reato, tra gli otto imputati l’unico su cui sussista qualche serio indizio di colpevolezza è Couchane Moahmed Ali.

Couchane, per sua stessa ammissione, nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2015 pilotò la barca su cui morirono 49 persone, senza avvalersi, secondo quanto ha dichiarato, dell’assistenza di alcun equipaggio. Ma alla confessione di Couchane i tribunali hanno preferito il materiale accusatorio prodotto da Polizia, Guardia di Finanza e Pubblico Ministero, ritenuto più attendibile.

Le dichiarazioni accusatorie sono incoerenti, contraddittorie, rese da testimoni esausti, traumatizzati e a volte in lacrime, in un caso senza interprete. Non secondo la Corte d’Appello: «Le deposizioni sono state rese nell’immediatezza del salvataggio… e poi sono state ripetute con puntualità e coerenza… in sede di incidente probatorio, senza registrare stati d’animo particolari quali pianto, disperazione o incapacità di esprimersi che avrebbero potuto fare ritenere un turbamento psichico tale da incidere sull’attendibilità dei testi».

Le dichiarazioni dell’incidente probatorio contraddicono quelle contenuti nei verbali di Sommarie Informazioni? Gli avvocati avrebbero dovuto farlo notare durante l’incidente probatorio, dice la Corte di Appello, ma non l’hanno fatto, quindi solo le ultime dichiarazioni contano come prova.

Testimoni che sul barcone occupavano le posizioni più distanti e disparate affermano di aver potuto identificare gli stessi membri dell’equipaggio nel buio della notte grazie alla loro vicinanza, e inventano fantasiosi dettagli su fischietti e uniformi? «Discrasie o divergenze di dettaglio», le liquida la Corte di Appello.

Testimoni che sul barcone occupavano le posizioni più distanti e disparate affermano di aver potuto identificare gli stessi membri dell’equipaggio nel buio della notte grazie alla loro vicinanza, e inventano fantasiosi dettagli su fischietti e uniformi? «Discrasie o divergenze di dettaglio», le liquida la Corte di Appello.

La profilazione realizzata dall’ispettore Santo Macaluso è allusiva e non basata su dati di fatto? Al contrario, la «rilevanza probatoria» secondo la Corte d’Appello catanese è «inconfutabile»: «La repulsione verso gli scafisti, di carattere generalizzato perché proveniva da persone appartenenti a diverse etnie, si spiega… con l’attribuzione alle condotte degli imputati dei gravi eventi occorsi», scrivono i giudici nel dispositivo.

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Gli altri sbarchi

Tra il 2014 e il 2015, man mano che i metodi di indagine delle Direzioni Distrettuali Antimafia si consolidano, in occasione di tutti i principali sbarchi di migranti, e in special modo quelli con vittime mortali, vengono portati a processo presunti “equipaggi”. Le accuse – come l’utilizzo di cinture e bastoni per tenere l’ordine a bordo – si somigliano spesso tra loro, e i metodi di indagine sono uniformi.

Questi sono alcuni esempi:

28 agosto 2015. La nave di Frontex Poseidon recupera 494 naufraghi, tra cui 53 morti. L’ufficiale di collegamento italiano a bordo preseleziona otto sospetti. Al momento dello sbarco a Palermo, un agente di polizia italiana vedrà «i “testimoni” urlare all’indirizzo dei sospettati, scesi per ultimi, additandoli». Saranno tutti assolti. La Corte riterrà che «l’individuazione dei sospettati, da un canto, e dei dichiaranti, dall’altro, con la sola eccezione del guidatore… sia stata quasi il frutto di una mera casualità».

5 agosto 2015. La nave militare irlandese L.E. Niamh soccorre 367 naufraghi, recuperando 26 cadaveri. Sulla nave, che sbarca a Palermo, la polizia italiana mette un braccialetto con la scritta “suspect” addosso a cinque naufraghi, che vengono tenuti in disparte alla vista degli altri superstiti. I testimoni effettueranno il riconoscimento dei cinque da un album fotografico in cui il braccialetto “suspect” è perfettamente visibile. Per tutti tranne che per il pilota ci sarà l’assoluzione.

19 luglio 2014. Il mercantile danese Torm Lotte salva 569 persone, le vittime si contano a centinaia. La Polizia di Messina, salita a bordo della nave, seleziona un gruppo di cinque sospetti che sbarca separatamente: un gruppo di testimoni li accuserà di aver sferrato calci e cinghiate e distribuito bottigliette d’acqua. Saranno condannati a 30 anni.

Nella requisitoria finale del processo di appello con rito ordinario, il procuratore generale ha dichiarato: «Da questa alternativa non si sfugge, o sono scafisti, o sono migranti». Nella sentenza di condanna, la Corte d’Appello di Catania l’ha contraddetto: «Sono da ritenersi veritiere le motivazioni che avevano spinto ciascuno di loro a partire lasciando la Libia sconvolta dalla guerra, nonché il pagamento del viaggio per raggiungere l’Europa». Non sono nemmeno emersi legami con organizzazioni criminali in Libia, come può essere la mafia di Zawiya o i gruppi attivi a Sabratha e Zuwara in quel periodo, ma questo non ha messo in discussione, per i giudici, l’impianto accusatorio.

Il dossier diplomatico parallelo

La vicenda giudiziaria, almeno nel corso del 2020, si è intrecciata con la più ampia (e più recente) questione delle relazioni diplomatiche tra Italia e Libia.

A settembre 2020, infatti, 18 pescatori siciliani furono arrestati dalle autorità di Bengasi, nella zona sotto il controllo del generale Khalifa Haftar, con false accuse di traffico di droga e di aver irregolarmente sconfinato le acque territoriali libiche. In cambio della loro scarcerazione, il governo locale chiese il rilascio di quattro degli otto imputati, a detta delle autorità libiche calciatori libici falsamente accusati di traffico di persone dai tribunali Italiani.

La prospettiva di uno scambio di prigionieri fu definita «un’enormità giuridica» dal Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che parlando al Corriere della Sera riassunse così la tesi dell’accusa: «Altro che giovani calciatori – ha dichiarato-. Non furono condannati solo perché al comando dell’imbarcazione, ma anche per omicidio avendo causato la morte di quanti trasportavano, 49 migranti tenuti in stiva. Lasciati morire in maniera spietata. Sprangando il boccaporto per non trovarseli in coperta. Un episodio fra i più brutali mai registrati».

Lo scambio non avvenne e la crisi si risolse ugualmente a dicembre dello scorso anno con un volo a Bengasi dell’allora primo ministro Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che per ottenere il rilascio dei prigionieri regalarono al signore della guerra Khalifa Haftar la legittimazione di una “foto di famiglia”.

La fine di quella crisi non ha però disinnescato la richiesta della Libia di ottenere l’estradizione per i condannati libici in Italia. Come dice a IrpiMedia un portavoce del Viminale, il problema è sollevato sia dalle autorità di Tripoli, sia da quelle di Bengasi in quasi tutti gli incontri bilaterali con l’Italia: «Ormai da anni chiedono che venga aperta una procedura per cui reciprocamente i condannati nei rispettivi Paesi scontino la pena nei Paesi di origine».

L’Italia, per ora, non ha dato seguito alla richiesta, vista l’importanza anche politica di portare in carcere i trafficanti. Anche quando le prove non vanno «oltre ogni ragionevole dubbio».

CREDITI

Autori

Lorenzo D’Agostino

Infografiche

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli

Foto

Un fotogramma del documentario Fuocoammare