I narcotrafficanti della ‘ndrangheta visti dalla Colombia

I narcotrafficanti della ‘ndrangheta visti dalla Colombia
Douwe Den Held

Da alcuni decenni ormai, i clan della ‘ndrangheta sono diventati i più importanti alleati europei dei narcotrafficanti di cocaina dell’America Latina. Dal Messico all’Ecuador, dalla Colombia al Brasile, sono moltissimi i broker della ‘ndrangheta arrestati per traffico di droga, praticamente in ogni Paese delle Americhe. Perfino l’Uruguay nel 2017 ha fermato uno dei principali narcotrafficanti calabresi, Rocco Morabito, ricercato da vent’anni e pronto a scappare di nuovo, in una serie di rocamboleschi eventi tra cui l’evasione dal tetto della prigione e la cattura in Brasile a maggio 2021, ben due anni dopo.

La ‘ndrangheta delle origini non sembrava destinata a un simile successo. Eppure, è diventata il principale fornitore di cocaina per l’Europa. Ma lo sarà per sempre? L’ascesa del gruppo mafioso è in parte dovuta alla fortuna e in parte a circostanze. E così anche il suo futuro può dipendere da situazioni imprevedibili.

La prima porta per la cocaina colombiana: il Nord America

La ‘ndrangheta è un’associazione mafiosa che è stata formata in Calabria, si crede attorno al XIX secolo. Man mano che cresceva, l’organizzazione criminale si intrecciava sempre più con la società civile calabrese, seguendone i passi durante l’emigrazione di massa dalla Calabria, causata da difficoltà economiche e sociali, e gettando le basi per la sua futura internazionalizzazione.

A partire dagli anni Sessanta, i clan accumulano grandi quantità di denaro attraverso attività legali e illegali come pizzo e rapimenti. Cosa fare con tutti quei soldi? Vent’anni dopo, negli anni Ottanta quindi, i clan calabresi che più si erano arricchiti iniziano a investire in spedizioni di cocaina dalla Colombia agli Stati Uniti, all’epoca ancora organizzate dalle famiglie di Cosa Nostra negli Usa. Presto supereranno Cosa Nostra e diventeranno egemoni.

Ma nonostante ciò e nonostante i clan della ‘ndrangheta siano riusciti a stabilire una presenza stabile in alcuni Paesi, tra cui Germania, Canada e Australia, non sono stati in grado di fare lo stesso in America Latina. Tutt’oggi, anche in Paesi come l’Argentina, meta di grandi diaspore calabresi, la presenza della ‘ndrangheta è limitata principalmente a broker che gestiscono il traffico di droga per i clan.

Il vero pioniere da questo punto di vista, è stato Roberto Pannunzi. Nato a Roma, già alla fine degli anni Ottanta si era affermato come broker indipendente in Colombia, facendo da ponte tra il Cartello di Medellín di Pablo Escobar e i clan italiani di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta. Pannunzi in pochi anni diventa un influente broker della cocaina, in grado di organizzare spedizioni di diverse tonnellate in tutta Europa. Viene arrestato due volte, e altrettante volte evade, per poi finalmente venire catturato in Colombia a luglio 2013 e successivamente estradato in Italia.

Ma mentre una volta di Pannunzi ce n’era solo uno, verso la fine degli anni ‘90 la ‘ndrangheta già poteva contare su una vera e propria rete di broker di stanza in Colombia.

Non poteva esserci momento migliore. Proprio mentre il governo statunitense intensificava la sua “guerra alla droga” per tutti gli anni ‘80 e ‘90, la domanda di cocaina aumentava in Europa. I clan della ‘ndrangheta erano in una posizione perfetta per sfruttare il mercato in crescita: le connessioni con i broker latinoamericani portavano grossi vantaggi, ma i clan calabresi godevano di un privilegio ancora più importante: il controllo del porto di Gioia Tauro.

La perfetta rotta per l’Europa

Il porto di Gioia Tauro diventa operativo nel 1995 e già durante la costruzione, la ‘ndrangheta riesce a infiltrarsi. La presenza stabile, da allora in poi, della ‘ndrangheta nel porto lo rende ideale anche per il traffico di cocaina, in quanto i clan possono offrire un ingresso sicuro ai carichi illeciti.

«Divenne la scelta più ovvia, anche per gli altri trafficanti», ha dichiarato a InSight Crime Anna Sergi, professoressa di criminologia dell’Università di Essex e specializzata in criminalità organizzata italiana. «La ‘ndrangheta divenne una sorta di garante per il traffico di cocaina in Europa perché aveva Gioia Tauro, che per anni è rimasto un varco d’ingresso intoccato dalle forze dell’ordine». A conferma, la Commissione parlamentare antimafia del 2008 ha dichiarato che la ‘ndrangheta gestiva fino all’80% delle spedizioni di cocaina in Europa.

Quattro anni dopo, un rapporto della Commissione europea giungeva a una conclusione simile, affermando che l’internazionalizzazione dell’attività della ‘ndrangheta negli anni ‘90 corrispondeva agli anni della costruzione del porto di Gioia Tauro, e illustrava come «probabile che la criminalità organizzata avesse prosperato grazie alle operazioni portuali [a Gioia Tauro, ndr]».

Negli ultimi due decenni, le forze dell’ordine e le dogane italiane hanno aumentato le operazioni di controllo e le indagini criminali attorno al porto di Gioia Tauro, prendendo di mira i principali clan che vi operano. Nel 2021, le autorità hanno sequestrato 13 tonnellate di cocaina nel porto, che rappresentano il 97% di tutta la cocaina confiscata alle frontiere italiane e circa il 20% di tutta la cocaina che transita sul territorio italiano, come ha dichiarato il questore di Reggio Calabria Bruno Megale, in un’interrogazione parlamentare di dicembre 2021.

Va comunque tenuto conto che oggi Gioia Tauro ha perso di importanza come snodo commerciale rispetto ad altri porti europei, sia per le merci legali che per quelle illegali. Per i trafficanti, i flussi commerciali legali spesso dettano le rotte più convenienti: una minore quantità di spedizioni legittime che passano per Gioia Tauro offre meno opportunità di introdurre carichi illeciti.

I trafficanti si sono quindi rivolti ai maggiori porti europei, Anversa e Rotterdam. Le autorità belghe e olandesi in questi due porti hanno sequestrato rispettivamente 89 e 70 tonnellate di cocaina nel 2021, molto più delle 13 tonnellate di Gioia Tauro.

La ‘ndrangheta sta anche affrontando una crescente concorrenza da parte di altre reti di narcotrafficanti in Europa. In Colombia, il principale Paese produttore di cocaina, le grandi organizzazioni criminali, i cartelli e i gruppi paramilitari che sono stati egemoni per decenni, si sono frammentati in fazioni più piccole. Questo ha aperto la porta ad altri gruppi criminali europei, come le organizzazioni albanesi, per trattare direttamente con i fornitori e acquistare grandi quantità di cocaina direttamente in Sud America.

La ‘ndrangheta, tuttavia, sembra ben posizionata per sopravvivere al declino dell’importanza di Gioia Tauro come porta d’ingresso della cocaina in Europa. L’infiltrazione della mafia calabrese presso altri porti italiani ha contribuito a mantenere in vita i traffici.

Nell’agosto del 2022, le autorità brasiliane hanno sequestrato oltre mezza tonnellata di cocaina destinata al terminal portuale di Vado Ligure, utilizzato come alternativa a Gioia Tauro, secondo quanto riportato da Reggio Today.

Il porto di Genova, che fa parte dello stesso gruppo portuale, è tra «i più infiltrati dalla ‘ndrangheta», ha dichiarato nel 2017 Federico Cafiero de Raho, Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, come riportato in una relazione della Commissione parlamentare del 2022. Nonostante le operazioni di polizia e i sequestri presso i porti, i clan calabresi riescono sempre a organizzare nuovi carichi poiché si alleano con altri gruppi, trafficando attraverso diversi porti europei e condividendo i costi e i rischi di una spedizione.

Il legame con i paramilitari colombiani

Salvatore Mancuso, uno dei più potenti comandanti paramilitari della Colombia, e Giorgio Sale, un uomo d’affari italiano con connessioni di alto livello, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del Duemila, hanno aperto un ponte tra i clan calabresi e i paramilitari colombiani, diventando ricchissimi. E dando il là a un patto criminale che sarebbe durato anche oltre la loro amicizia.

All’epoca, Mancuso era a capo delle Forze unite di autodifesa della Colombia (Autodefensas Unidas de Colombia – Auc), un’organizzazione narco-paramilitare e terroristica di estrema destra contrapposta alle FARC, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Le Auc avevano acquisito il controllo di vaste aree di produzione di coca e se da una parte servivano acquirenti per la cocaina, dall’altra servivano sapienti colletti bianchi per riciclare l’immenso guadagno.

Mancuso inizia a muoversi in prima persona per cercare un riciclatore, e trova Giorgio Sale: un imprenditore italiano con numerosi investimenti in tutta la Colombia e che godeva di buona reputazione tra i ricchi del Paese latinoamericano. Tra le sue attività figurava l’azienda di abbigliamento di lusso Gino Passcalli, con decine di negozi e oltre 600 dipendenti. Nella sua cerchia di amici, invece, vi erano diversi giudici della Corte suprema della Colombia, mentre i suoi ristoranti di alta cucina erano punti di riferimento per le élite delle principali città colombiane.

Fra tutti il più lussuoso era L’Enoteca, nella città di Barranquilla, sulla costa caraibica della Colombia. Offriva una serie di vini costosi, cibi raffinati importati dall’Italia e piatti da 150 dollari, più del salario minimo mensile colombiano dell’epoca. Secondo carte giudiziarie colombiane, il ristorante sarebbe stato finanziato anche da Mancuso per una somma pari a tre milioni di dollari e sarebbe stato determinante per il riciclaggio del denaro sporco delle Auc.

Oltre a fornire un luogo per il riciclaggio di denaro alle Auc, stando alle accuse Sale faceva rientrare in Colombia tramite muli i contanti che le Auc guadagnavano con il traffico di droga in Europa. Nel 2002, alcuni cittadini italiani sono stati arrestati mentre entravano in Colombia dall’aeroporto internazionale El Dorado di Bogotà trasportando somme di denaro tra i 120.000 e i 150.000 dollari, che le indagini hanno ritenuto appartenessero alla famiglia Sale.

Giorgio Sale e i suoi figli – David, Stefano e Cristian – si sono rivelati anche utili partner delle Auc nel traffico di cocaina. In una testimonianza resa a un tribunale degli Stati Uniti dopo la sua estradizione nel 2008, Salvatore Mancuso ha dichiarato che Cristian Sale era in contatto con Gerson Álvarez, alias “Kiko”, un leader paramilitare da cui i Sale avrebbero acquistato cocaina destinata all’Europa, e in particolare ai Paesi Bassi, Spagna e Italia.

Come si legge dalla relazione della Commissione parlamentare 2008, questo rapporto sarebbe stato fondamentale per assicurare un flusso costante di cocaina attraverso l’Atlantico e per permettere alla ‘ndrangheta di dominare gran parte del traffico di cocaina in Europa.

«La ‘ndrangheta è stata in grado di creare un solido rapporto d’affari [con le Auc], che le ha permesso di avere il controllo “maggioritario” dell’intero sistema legato al traffico di cocaina colombiana [in Europa]», ha rilevato la Commissione.

La caduta di Mancuso

Le grandi quantità di cocaina che Mancuso e Sale muovevano aveva attirato però l’attenzione della Dea, l’agenzia antidroga statunitense. Nel frattempo, il governo colombiano aveva avviato colloqui di pace con i paramilitari che avrebbero portato alla smobilitazione delle Auc. Nel 2002 un tribunale degli Stati Uniti ha accusato formalmente Mancuso di traffico di droga e ne ha chiesto l’estradizione. Le autorità colombiane inizialmente hanno accettato la richiesta, ma in seguito l’hanno messa in pausa, volendo prima portare a termine il processo di pace.

Tra il 2003 e il 2006, le Auc si sono ufficialmente sciolte. In base all’accordo stipulato con il governo colombiano, i loro leader avrebbero subito una riduzione di pena se avessero confessato i crimini commessi.
Nel 2005, Mancuso è stato uno dei primi leader delle Auc a costituirsi. Nel dicembre 2006, ha confessato il suo ruolo in massacri, corruzione e traffico di droga. A maggio 2008, è stato estradato negli Stati Uniti.
Di fronte a una potenziale lunga pena da scontare in un carcere degli Stati Uniti, Mancuso si è scagliato contro i suoi ex soci, testimoniando nel 2009 contro Giorgio e Cristian Sale, già arrestati per traffico di droga nel 2006 nell’ambito di un’indagine internazionale.

Oltre le Auc

Sebbene la relazione tra Sale e Mancuso abbia gettato le basi per una collaborazione continuativa nel traffico di cocaina, la loro caduta ha avuto un impatto limitato sulle attività della ‘ndrangheta, sia perchè né le Auc né la ‘ndrangheta trattavano esclusivamente l’una con l’altra, sia perchè dalle ceneri della Auc sono nati altri gruppi narco-paramilitari.

Vicente Castaño, uno dei fondatori delle Auc, quando queste si sono sciolte nel 2006 ha creato un suo gruppo armato che si sarebbe trasformato poi negli Urabeños, un’organizzazione criminale che è diventata una delle maggiori potenze del narcotraffico colombiano. Oggi, diversi clan della ‘ndrangheta hanno relazioni commerciali con gli Urabeños, che però è solo uno dei vari fornitori.

«Non esiste una sorta di mente unica della ‘ndrangheta che decide con chi trattare, non c’è esclusività con nessuno», ha spiegato a InSight Crime Anna Sergi, docente di Criminologia all’Università di Essex e autrice del libro Chasing the Mafia, pubblicato di recente.

Come ai tempi di Mancuso e Sale, sono i broker indipendenti a collegare le due reti. A giugno 2022, come ha raccontato IrpiMedia, un’indagine della polizia colombiana e della Guardia di finanza di Trieste ha confermato la continua relazione tra Urabeños e broker italiani che riforniscono la ‘ndrangheta, sequestrando una delle più grandi spedizioni di sempre: quattro tonnellate. Mentre, ad ottobre 2022, un’altra indagine ha smantellato una rete di portuali legati alla ‘ndrangheta che importava fino a 30 tonnellate di cocaina all’anno dal porto di Turbo in Colombia, una roccaforte degli Urabeños, fino a Gioia Tauro.

Gli Urabeños controllano ancora la maggior parte delle rotte del traffico di droga attraverso la Colombia settentrionale e sono ancora partner affidabili per i compratori italiani. Tuttavia, anche il loro potere sembra diminuire, soprattutto dopo l’arresto e l’estradizione nel 2021 del loro leader Dairo Antonio Úsuga, alias “Otoniel”.

È improbabile però che queste operazioni di polizia mettano fine a un legame ormai pluridecennale. Più volte i clan della ‘ndrangheta hanno dimostrato la resilienza del proprio modello di narcotraffico, flessibile e indistruttibile poiché basato sui broker. Veri e propri professionisti del traffico di droga, legati alla struttura criminale eppure al contempo indipendenti, invisibili, e sostituibili con facilità ad ogni arresto.

I broker della cocaina: la flessibile spina dorsale della ‘ndrangheta

Dalla sua stanza d’albergo a João Pessoa, nello stato brasiliano di Paraíba, Rocco Morabito guardava i chioschi sulla spiaggia. Sentiva il profumo della brezza arrivare dall’Oceano Atlantico, osservava i nuotatori sguazzare nelle acque blu e i bagnanti che si godevano la sabbia dorata.
Ma quando le autorità lo hanno rintracciato nel maggio 2021, Morabito non immaginava di essere in trappola. Anche se viveva con tutte le attenzioni di un latitante del suo calibro: secondo uomo più ricercato d’Italia, e broker di punta dell’omonimo clan di Africo, sulla costa Ionica della Calabria.

Morabito aveva aiutato la ‘ndrangheta a rafforzare i legami con i fornitori di cocaina dell’America Latina, favorendo l’ascesa del gruppo mafioso italiano come una delle organizzazioni di trafficanti più potenti d’Europa.
E la sua lunga latitanza, oltre vent’anni, non ne aveva interrotto le operazioni. Anzi.

Fuggito dall’Italia nel 1994, dopo avere offerto ad agenti sotto copertura milioni di dollari per comprare una tonnellata di cocaina, Morabito si rifugia in America Latina. Non un luogo qualunque, bensì il centro del suo lavoro già all’epoca. Lì, è diventato uno dei più importanti broker di cocaina operando in Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. Ha inoltre svolto un ruolo fondamentale nel collegare potenti famiglie calabresi a numerose organizzazioni internazionali di narcotrafficanti.

Le autorità uruguayane l’avevano finalmente trovato e arrestato nel 2017, ma nel 2019 è evaso dal carcere di Montevideo. È stato rintracciato solo tre anni più tardi, nell’hotel di João Pessoa, dove si era recato con un altro broker della ‘ndrangheta. A luglio 2022, poco più di un anno dopo il suo arresto, le autorità brasiliane lo hanno estradato in Italia, dove sta scontando una lunga condanna.

Un manager esecutivo

Le operazioni decentralizzate tipiche della ‘ndrangheta danno ai clan la flessibilità di adattarsi agli arresti di boss e broker, limitando le ricadute sull’intera struttura criminale.

«Membri di altre organizzazioni criminali entrano in contatto solo con i referenti forniti dalla ‘ndrangheta per il narcotraffico, non vengono esposti altri membri», spiega Anna Sergi. Allo stesso tempo, ogni clan trae vantaggio dall’essere associato al “marchio” ‘ndrangheta, un “marchio di qualità” che nel mondo criminale è sinonimo di affidabilità.
«Il traffico di droga richiede molta fiducia tra le due parti. Quindi più sei affidabile, più puoi comprare. E la ‘ndrangheta è come un orologio svizzero, è sempre puntuale nei pagamenti», ha dichiarato a InSight Crime il giornalista ed esperto di mafia Sergio Nazzaro.

La struttura della ‘ndrangheta facilita anche l’ingresso di nuovi clan nel mercato della cocaina, con i clan già affermati che forniscono ai nuovi arrivati l’accesso ai broker e fungono da garanti per le spedizioni di droga. Secondo Sergi, questo sistema di riferimento ha fatto aumentare il numero di clan calabresi attivi nel traffico transnazionale di cocaina da circa 10 negli anni Novanta a 35-50 negli anni Duemila.

I boss dei clan non sempre sono direttamente coinvolti nel traffico di droga. Morabito, pur essendo uno dei più importanti trafficanti di droga in Sud America, non era il capo del clan omonimo. Gestiva in modo indipendente il narcotraffico per conto del clan Morabito, ma senza dovere chiedere l’approvazione per ogni mossa.

«Era una specie di manager esecutivo. Ma il presidente con il vero potere era un altro», afferma Sergi.

Passaggio di testimone

Morabito si è passato il testimone con altri broker calabresi in America Latina, in particolare il “torinese” Nicola Assisi. Narcotrafficante imprendibile, come ha scritto IRPI per l’Espresso nel 2016, Assisi operava come broker per più clan.

Finisce indagato per la prima volta negli anni Novanta, per un traffico di cocaina da Barcellona, in Spagna, a Torino, in Italia, e a Rotterdam, nei Paesi Bassi. Arrestato a Torino nel 1997, Assisi sconta un anno di detenzione preventiva, viene rilasciato in attesa di processo, da lì resterà operativo per anni.

Nel 2002, il primo e principale narcos della ‘ndrangheta, Pasquale Marando, scompare misteriosamente. Assisi, che era suo delfino, eredita i contatti con la rete di fornitori di cocaina colombiana di Marando, diventando un intermediario per diversi potenti clan della ‘ndrangheta a Torino. Ma nel 2007 arriva la condanna a 14 anni di carcere, condanna che spingerà Assisi a fuggire dall’Italia, prima in Spagna e poi per in America Latina.

Per approfondire

Storia di Nicola Assisi, il narcos calabrese che riempie l’Italia di coca

Latitante in Brasile, dagli Anni ’90 gestisce il traffico verso l’Europa. E, a causa delle plastiche facciali, non si conosce il suo volto attuale

Lì, e in particolare in Brasile, Assisi ha rapidamente stretto contatti strategici con il Primeiro Comando da Capital (Pcc) brasiliano, che organizzava la logistica attraverso i porti brasiliani, mentre altri clan della ‘ndrangheta facilitavano lo scarico della cocaina nei porti europei. Quando le autorità brasiliane hanno arrestato Assisi a San Paolo nel luglio 2019, la ‘ndrangheta ha dimostrato ancora una volta la sua flessibilità. Morabito, all’epoca appena evaso dal carcere uruguayano, sarebbe intervenuto per assicurarsi che il flusso di cocaina verso l’Europa continuasse, come hanno dimostrato IrpiMedia e Occrp. In un continuo passaggio di testimone.

Nuovi asset

Le autorità antidroga italiane ritengono che la ‘ndrangheta sia tutt’oggi una delle organizzazioni criminali più potenti e pericolose al mondo, nonostante i recenti arresti di personaggi come Assisi e Morabito. Tuttavia, i clan stanno affrontando una crescente concorrenza da parte di altre reti europee nel traffico di cocaina. Altri attori, in particolare le reti di narcos albanesi, stanno imitando il modello di narcotraffico della ‘ndrangheta e ormai operano a monte, ottenendo la cocaina alla fonte grazie a broker albanesi basati in America Latina.

«Inizialmente, gli albanesi sono stati tirati dentro dalla ‘ndrangheta per spostare semplicemente i carichi da A a B. Ma sono diventati esperti di logistica in Europa e queste reti logistiche ora appartengono principalmente a gruppi criminali albanesi», spiega Nazzaro. E di conseguenza ai clan calabresi non è restato che adattarsi, finendo per collaborare sempre più con le reti albanesi. «Gli albanesi oggi non sono concorrenti, bensì partner», aggiunge Anna Sergi.

E con un’America Latina che attualmente registra livelli record nella produzione di cocaina, le possibilità di fare affari di certo non mancano.

CREDITI

Autori

Douwe Den Held

Traduzione

Giovanni Soini

Adattamento

Cecilia Anesi

Infografiche & Illustrazioni

InSight Crime

Foto di copertina

InSight Crime

Il salotto buono della ‘ndrina di Alghero

#NdranghetaInSardegna

Il salotto buono della ‘ndrina di Alghero

Cecilia Anesi
Raffaele Angius

«Per sbloccarlo devi scrivere “pecora”», dice Giovanni Giorgi. Il fratello, Francesco, sta armeggiando con un telefono cifrato che si è procurato a Barcellona. «Perchè stai nascondendo qualcosa? Lo so cosa scrivi…», commenta divertita la cognata che assiste alla scena. Sembra un’allegra riunione di famiglia quella che si è tenuta ad agosto del 2018 in un appartamento di via Kennedy ad Alghero, cittadina nel nord-ovest della Sardegna. Il trio è in attesa che Pietro – un caro amico – li raggiunga: «Mi ha scritto che si sta alzando». Ma lungi dall’essere una gioviale rimpatriata, è in realtà una riunione tra narcotrafficanti ospitata da Giovanni Giorgi, che non può mettere piede fuori di casa perché ai domiciliari.

Giorgi è a capo della famiglia Boviciani di San Luca, noti narcotrafficanti della ‘ndrangheta calabrese. Dopo alcuni anni nel carcere di Alghero per traffico di droga, è lui stesso a chiedere e ottenere i domiciliari nella Barceloneta sarda. Piuttosto che tornare in Calabria, Giorgi preferisce restare sull’isola, dove può contare su una domanda stabile di droga e dalla quale dirige gli affari grazie alla rete di fratelli che, strategicamente, vivono nel nord Europa.

Ad avere i contatti per la distribuzione della droga in Sardegna è Pietro Parisi e l’incontro a casa dei Giorgi, ad Alghero, servirà proprio a parlare d’affari. Originario di Natile di Careri – minuscolo paesino dell’Aspromonte stretto tra Platì e San Luca, da cui provengono alcuni dei più importanti narcos di sempre. Parisi è ormai un sardo naturalizzato, pur senza aver mai perso il legame con quel minuscolo paesino dell’Aspromonte.

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Pietro è figlio del più famoso Antonio Parisi che, stando alle dichiarazioni del pentito Rocco Varacalli, sarebbe a capo dell’omonima ‘ndrina di Natile, parte della società Maggiore di Natile di Careri con la dote di “Santa”: una delle cariche più alte della ‘ndrangheta.

Come già raccontato da IrpiMedia e Indip, alla fine degli anni ‘90 Pietro Parisi ha un ruolo chiave nella creazione di una delle prime reti organizzate del narcotraffico sardo, interrotta nel 2001 dall’indagine San Gavino dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) di Cagliari. Condannato nel 2003, sconta la pena ma torna a trafficare tra Calabria, Sicilia e Sardegna.

A rivelare il legame tra Giovanni Giorgi e Pietro Parisi è l’indagine Platinum della Dia di Torino e della polizia tedesca, che dal 2016 ha tracciato la rete del narcotraffico dei Boviciani in Europa e le alleanze che questi avevano costruito con alcune delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta, nonché con trafficanti rumeni, albanesi e turchi. A maggio 2021 vengono eseguiti 32 arresti tra Italia e Germania. In manette finiscono anche Giovanni Giorgi, Pietro Parisi e la rete di sardi che riforniva l’isola con fiumi di cocaina. L’indagine rivela inoltre che il clan Boviciani aveva stabilito il quartier generale ad Alghero, dove alcuni dei suoi più prominenti membri scontavano pene in carcere o ai domiciliari.

Una veduta di Alghero – Foto: Getty

Il salotto buono

Mentre è ai domiciliari, Giovanni Giorgi si procura cocaina purissima dal broker della ‘ndrangheta di San Luca Giuseppe Romeo – alias il “Nano” – che la fa arrivare dall’America Latina attraverso Barcellona o Civitavecchia. È la cocaina più pura, che Giorgi riserva in grandi quantità all’amico e sodale Pietro Parisi. «Questione di qualche giorno vedete che la piega (ovvero la fornisce, ndr)», dice Giorgi a Parisi commentando le forniture di Romeo. Quest’ultimo risponde: «Piega là sotto come come… mancu li cani (come a dire che ne ha sempre molta a disposizione, ndr)».

Parisi vive in Sardegna almeno dal 2014, ma non cessa di fare la spola con la Calabria: da una parte allaccia rapporti con i narcos calabresi più in auge, dall’altra cura la rete di distribuzione sull’isola, avvalendosi di una rete di camion destinati al trasporto merci.

Sempre ad Alghero, per un omicidio di natura passionale è detenuto Domenico Giorgi cognato di Giovanni in quanto fratello di sua moglie Maria Giorgi (portano lo stesso cognome ma sono di famiglie distinte), che contribuisce alla causa comune della famiglia Boviciani «procacciando sul mercato sardo nuovi clienti ai quali cedere ingenti quantità di stupefacente», scrive la Direzione investigativa antimafia (Dia) di Torino.

Tra gli acquirenti – una decina in tutto – c’è il trentenne cagliaritano Stefano Sanna, che Giovanni Giorgi conosce durante una comune detenzione in carcere. I due diventano amici, o quantomeno costruiscono un rapporto privilegiato, dal momento che, sull’acquisto della cocaina, Giorgi pratica a Sanna un prezzo di favore: 42 mila euro al chilo contro i 48 mila che pagano altri acquirenti.

Illustrazione: Claudio Capellini

Al fine di tenersi aggiornati sullo stato delle forniture, i due coinvolgono le mogli in qualità di messaggere: se la consorte di Giorgi invita la compagna di Sanna per un caffè, vuol dire che quest’ultimo può andare a ritirare la droga. Sanna ha ottimi contatti per distribuire cocaina in Sardegna, tra cui tre fratelli, titolari di un’autodemolizione, che dispongono di risorse economiche sufficienti per acquistarne in quantità.

Ma è sempre dal carcere che Giorgi si procura uno dei clienti principali a Sassari: il titolare di una scuola guida nota per avere rilasciato patenti false in cambio di somme di denaro, che vuole ricevere cocaina per venderla a Cagliari. A trasportare lo stupefacente verso il capoluogo saranno camion per il trasporto dei cavalli, perché secondo Giovanni Giorgi è un ottimo modo di nascondere l’odore ai cani: «Il rumento dei cavalli è l’unica cosa», probabilmente alludendo allo stallatico.

Il carcere è un luogo strategico per i traffici della ‘ndrangheta in Sardegna, «nonché il principale spazio di socializzazione nel quale mafie strutturate come quella calabrese stringono rapporti con la criminalità locale – certamente non altrettanto organizzata – al fine di coinvolgerla e rafforzare una struttura sul territorio», spiega Marco Zurru, docente di sociologia dei processi economici e del lavoro dell’Università di Cagliari e tra i primi a studiare il fenomeno delle narcomafie sull’isola.

Una prima emergenza riguarda il puntuale trasferimento delle famiglie dei carcerati legati alla ‘ndrangheta nei pressi delle strutture penitenziarie, da dove spesso sono in grado di offrire un supporto logistico e un continuum dell’attività criminale. Dall’altra, «chi gestisce la logistica della droga cerca fondamentalmente continuità, sicurezza e fondi per finanziare i propri traffici – prosegue Zurru – e proprio le strutture penitenziarie sono diventate cruciali nel creare rapporti di fiducia in grado di garantire questi tre requisiti. Non dovrebbe stupire se alcuni scelgono di restare vicino al carcere dove hanno scontato la pena e dove hanno costruito una rete di contatti propedeutica a continuare l’attività criminale».

Il consulente finanziario

Tanto è vasta la rete di distribuzione che fa capo ai Boviciani che Giorgi e Parisi devono presto affrontare il problema della quantità di contanti – soprattutto di piccolo taglio – che devono essere puliti e reinvestiti in altra droga. Le banconote che vengono regolarmente portate a Giorgi nell’appartamento dove è ai domiciliari, come detto in via Kennedy ad Alghero, sono talmente tante che neanche le macchine contasoldi risultano più affidabili.

«L’ho usata tre o quattro volte, da quando l’ho comprata nel giro di 20 giorni ho perso 800 mila euro», commenta Giorgi, che per riordinare il malloppo – ci sono anche banconote da 5 e 10 euro – chiederà aiuto perfino al figlio tredicenne.

È così che al cognato di Giorgi, Domenico, torna in mente una conoscenza che potrebbe risultare utile, fatta anche questa nell’unico salotto che conta davvero nella città costiera: il carcere. Si tratta di Vincenzo Smimmo, imprenditore 54enne originario della zona con precedenti per reati contro il patrimonio, fiscali e fallimentari.

«Ufficialmente non possediamo nulla, neanche i vestiti che abbiamo indosso», spiega Giorgi a Smimmo, che lo è andato a trovare nell’appartamento di via Kennedy. Eppure di soldi ce ne sono tanti, troppi, che devono essere ripuliti in modo da non essere riconducibili alla loro reale provenienza. L’espediente consiste nell’acquisire un bar ad Alghero per il quale Smimmo organizza uno stratagemma: la cognata di Giorgi acquisterà la licenza commerciale usando quattro cambiali da cinquemila euro l’una e un prestito fittizio firmato dallo stesso Smimmo.

Come verificato da IrpiMedia e Indip, a marzo del 2019 una cooperativa di Porto Torres, la Mgm Service, cede l’attività del bar “A’ Nse’ Pub” di via Mazzini – a due passi dal centro di Alghero – alla cognata di Giovanni Giorgi, Iolanda. Suo marito, Domenico Giorgi, sta scontando una pena nella casa di reclusione ad appena due traverse da lì e ha bisogno di un’attività commerciale a cui chiedere l’affidamento in prova.

Ma Giovanni Giorgi, che finanzia l’apertura del bar, ha perfettamente chiaro a cosa serva, oltre al piano per l’affidamento del parente carcerato. «Se giornalmente fa 200 euro lui farà scontrini fino a 600-700 euro al giorno, così anche se a fine anno dovrà pagare 15 o 20 mila euro di tasse, le paga, così almeno dichiara». Uno stratagemma che permetta di dimostrare l’esistenza di un reddito legalmente ottenuto e si possa avere un’attività, quella del bar, necessaria a immettere nel circuito pulito una parte dei soldi del narcotraffico sardo. In una conversazione di settembre 2019 emerge il totale disinteresse della donna per le sorti del bar, e quanto sia Giovanni Giorgi a tirarne le fila: tanto da decidere di chiuderlo dopo avere scoperto una microspia nella propria abitazione.

Smimmo dal canto suo sembra sapere benissimo con chi ha a che fare, e anzi si rivelerà prezioso in quanto può contare su talpe in tutta l’isola, «sia nella Finanza che nei carabinieri», che lo informano su eventuali indagini sul suo conto o quello dei suoi clienti. Sarà proprio lui a mettere in guardia Giorgi rispetto a possibili microspie che il calabrese non aveva sospettato ci fossero fino a quel momento.

A maggio 2019 Smimmo torna a trovare Giorgi nell’appartamento di via Kennedy per metterlo in guardia. Racconta di aver assistito a una conversazione tra due donne, una delle quali è un’infermiera nel carcere di Bancali, a Sassari, e sarebbe fidanzata con un carabiniere del Ros di Alghero. Origliando sente dire che i carabinieri starebbero «addosso al giro di calabresi e napoletani, sul giro di droga», insomma starebbero facendo delle indagini e dei controlli proprio in quei giorni e per questo «ho anche evitato di venire [a trovare Giorgi] …e so che ho il telefono sotto controllo».

«Stai in campana», Smimmo avverte Giorgi, perché gli inquirenti stanno «prestando moltissima attenzione a questa sorta di spartizione di territorio tra napoletani e calabresi per lo spaccio di droga su Alghero come base operativa» e quindi, ne deduce Smimmo, Giorgi che è «un calabrese» potrebbe essere indagato.

Illustrazione: Claudio Capellini

Giorgi non sembra troppo preoccupato in quanto, essendo ai domiciliari, è convinto di non essere monitorato. Ma è proprio questa la preoccupazione di Smimmo, in affidamento per i suoi precedenti, che lo ammonisce: «Come hanno visto che io venivo qua, la prima cosa che è stata fatta è capire chi ero e perché venivo». Anche il semplice contatto potrebbe destare sospetti.

«Che poi io non posso venire qua, […] io e te non ci possiamo frequentare… questa è la realtà dei fatti, poi è chiaro che non ho mai fatto delitti no… però cazzo capisci… e questa è la realtà in in Italia purtroppo», spiega Smimmo.

Ma Giorgi è più interessato ad avere notizie rispetto alla sua richiesta per ottenere la scarcerazione dei domiciliari e un affidamento in prova ai servizi sociali. È preoccupato perché il bar di Porto Torres che avrebbe dovuto assumerlo nel frattempo ha chiuso. Ma Smimmo ha un asso nella manica: «La richiesta te la possiamo fare anche noi», dice, aggiungendo che «Domenico (Giorgi, che è in carcere ma vorrebbe ottenere la semilibertà, ndr) aspetta anche un incontro con il vescovo per prendere dei terreni per la cooperativa…».

A quale cooperativa faccia riferimento Smimmo non è dato saperlo e non è stato possibile chiederglielo. Tuttavia, come accertato da IrpiMedia e Indip, l’imprenditore risulta all’epoca fondatore dell’impresa sociale Noi di Dentro e Anche No, con sede a Porto Torres e avviata due mesi prima della conversazione con Giorgi. La cooperativa indica di occuparsi proprio di “accompagnamento e orientamento all’inserimento lavorativo” e Smimmo ne è stato consigliere dal 28 aprile 2019. Alcuni mesi dopo cede la posizione alla moglie, non figurando più all’interno della struttura societaria. Contattato da IrpiMedia e Indip, Smimmo non ha potuto commentare in quanto è ancora in carcere.

In passato sua moglie ha avuto un ruolo anche nella società Cala Polt Agra, con la quale è finito nei guai per fatture false. Il procedimento si era concluso con la prescrizione. La signora, anch’essa consulente finanziaria, continua a operare con due società di consulenza amministrativa, una a lei intestata – nella quale si avvicendano soci sardi e campani – e un’altra intestata ai tre giovani figli.

Il partner di Smimmo in Sicilia, Giuseppe Ciriacono

di Simone Olivelli

La rete di aziende e conoscenze di Vincenzo Smimmo, imprenditore 54enne di Cagliari, è vasta e arriva anche in Sicilia. A dirlo sono i dati registrati nelle Camere di commercio delle due isole. A inizio anni Duemila, Smimmo entra in società con Giuseppe Ciriacono, nativo di Acate (Ragusa) e anche lui oggi 54enne. Ad aprile 2003, costituiscono la Sicilia Luce, società di consulenza con un capitale versato di tremila euro che poco più di un anno dopo migra da Caltagirone (Catania) ad Alghero, in provincia di Sassari.

Il passaggio di sede coincide anche con il cambio di nome: la Sicilia Luce diventa Building & Construction, pur mantenendo sostanzialmente inalterato l’oggetto sociale e la ripartizione delle quote: due terzi a Smimmo, la restante parte a Ciriacono. Il nome di quest’ultimo compare anche nella storia di un’altra avventura imprenditoriale di Smimmo: la Cala Polt Agra, società di costruzione finita nel 2010 al centro di un’inchiesta della guardia di finanza per false fatturazioni che portò all’arresto del 54enne cagliaritano (la vicenda giudiziaria si concluse con la prescrizione).

Nello stesso periodo in cui nasce Sicilia Luce, Ciriacono viene infatti nominato direttore tecnico di Cala Polt Agra. Imprenditore capace di affermarsi nel mondo dei lavori pubblici, Ciriacono a oggi è incensurato. Negli ultimi anni, tuttavia, su di lui si sono accesi i riflettori delle procure. Nel 2018, è finito insieme all’allora vicesindaco di Caltagirone e ad altri soggetti, uno dei quali legati alla criminalità organizzata, al centro di una storia su presunte pressioni compiute ai danni di un dirigente del Comune, per condizionare l’affidamento del servizio di pulizia delle caditoie.

L’anno successivo, Ciriacono viene arrestato per corruzione: la procura di Catania stavolta lo accusa di avere pagato tangenti a due funzionari di Anas, per ottenere la garanzia di non ricevere contestazioni nella manutenzione del verde sull’autostrada Catania-Siracusa. Per questa vicenda, fa sapere il legale di Ciriacono, Christian Parisi, l’imprenditore ha ottenuto la «sospensione del processo e la messa alla prova».

Risale però a giugno scorso l’accusa più grave: il 54enne viene arrestato in un blitz dei carabinieri nell’ambito dell’inchiesta Agorà della Dda di Catania. La misura cautelare in seguito è stata revocata, ma le accuse restano pesantissime: concorso esterno in associazione mafiosa. L’imprenditore sarebbe legato ai La Rocca, famiglia legata a Cosa nostra, il cui capostipite, Ciccio, è morto a fine 2020, dopo essere stato tra i detenuti al 41-bis scarcerati nei primi mesi della pandemia.

All’antivigilia di Natale 2020, Ciriacono presenziò alle esequie del boss nonostante per ordinanza della questura di Catania i funerali avrebbero dovuto svolgersi in forma privata, riservati alla famiglia. «Ciriacono» invece «si intratteneva con i familiari di La Rocca, presenziando anche alla tumulazione del feretro», ha scritto il giudice.

Per la procura, sul conto di Ciriacono ci sarebbero elementi a sufficienza per ritenerlo l’imprenditore di riferimento di Gianfranco La Rocca, l’erede del boss. «È in buoni rapporti – ha dichiarato ai magistrati il collaboratore di giustizia Alfredo Palio – Prende gli appalti del Comune di Caltagirone e poi distribuisce il denaro a La Rocca attraverso fatture».

Stando agli atti dell’indagine, Ciriacono si sarebbe messo a disposizione della famiglia mafiosa anche per ottenere il pizzo da un’impresa aggiudicataria dell’appalto sui rifiuti, il cui titolare sarebbe stato propenso a denunciare le richieste di estorsione. Per aggirare il problema, Ciriacono, dopo avere lavorato per ottenere un subappalto, avrebbe sovrafatturato le prestazioni della propria ditta con la complicità del capocantiere. Con imprese attive nei settori di pulizia, movimento terra, costruzioni e manutenzione, Ciriacono avrebbe contribuito al rafforzamento economico della famiglia mafiosa, sfruttando anche «contatti con politici e funzionari pubblici».

L’amministratore della Noi di dentro è don Mario Ildefonso Chessa, un prete con un passato in Lotta Continua, finito agli arresti domiciliari nel maggio del 2022 con l’accusa di aver consegnato un telefono a un detenuto del carcere di Alghero, nel quale era cappellano dal 2013. Secondo l’indagine della penitenziaria, il prete avrebbe portato anche altri oggetti non consentiti a una serie di detenuti «in cambio di interessenze di varia natura».

Pochi giorni dopo il primo avvertimento, a maggio 2019, Smimmo torna da Giorgi per informarlo nuovamente. Secondo quanto avrebbe appreso, a investigare sui Boviciani non sarebbe soltanto il Ros, ma anche il Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) della Guardia di finanza di Catanzaro, su delega del procuratore capo Nicola Gratteri. Quello che né Smimmo né Giorgi immaginano, in realtà, è che su di loro sta per piombare la Dia di Torino che, con l’operazione Platinum, ha ricostruito il vasto giro di narcotraffico dei Boviciani in mezzo mondo, grazie proprio alle cimici piazzate nell’appartamento di Alghero. Giorgi pensa di essere invisibile, ristretto ai domiciliari, ma il continuo via vai di parenti calabresi non passa inosservato. Chi indaga la ‘ndrangheta sa di doverne seguire proprio i legami familiari, ed è così che si arriva fino alle carceri della Sardegna, prima, e alla sua economia poi.

Una ‘ndrangheta, quella dell’Aspromonte, che in Sardegna c’è, prima di tutto grazie alle carceri, silenziosa, invisibile ma già infiltrata nel tessuto economico. Con occhi e orecchie da tutte le parti, mentre chi prova a combatterla si trova a scalare una montagna, aspra, ardua e ombrosa. Proprio come l’Aspromonte. O il Supramonte.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Raffaele Angius

Ha collaborato

Simone Olivelli

Editing

Giulio Rubino
Pablo Sole

Mappe

Lorenzo Bodrero

Illustrazione

La transumanza della polvere bianca

#NdranghetaInSardegna

La transumanza della polvere bianca

Cecilia Anesi
Raffaele Angius

Èil primo mattino del 13 febbraio 2019 e la nebbia intorno a Borore – paese di duemila anime nella sub-regione del Marghine, in provincia di Nuoro – non si è ancora diradata. Nonostante il freddo, nelle campagne di “Sa Canna Urpina”, a pochi minuti dal centro abitato, due auto imboccano la strada che porta a un ovile. Sul primo veicolo ci sono due uomini, sul secondo un uomo e una ragazzina.

Nell’ovile – una casetta di mattoni e lamiere – le cimici del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei carabinieri sono in ascolto. Nei nuovi arrivati, gli inquirenti riconoscono un accento «quasi sicuramente calabrese», ma dopo pochi minuti l’ospite sardo invita gli altri a uscire per «vedere dei vitelli». Forse sospetta la presenza di microspie nell’ovile.

È Francesco Porcu, allevatore di 64 anni con una lista di precedenti degna di nota: sequestro di persona a scopo di estorsione e rapina, cessione di stupefacenti, furto e detenzione illegale di armi.

Caratterizzata da un’antica vocazione agropastorale, l’area del Marghine è celebre per i nuraghi, il Museo del pane rituale e gli importanti rinvenimenti archeologici. È in questa zona, ad esempio, che sono state rilevate le tracce del vino più antico del mondo. Ma un altro primato la segna: l’aver dato i natali ad alcuni dei più sanguinari banditi dell’Anonima sequestri. Mai veramente curate le radici, cause e concause di questo fenomeno, la Sardegna centro-occidentale rimane strategica per condurre affari criminali.

Nelle campagne di “Sa canna urpina” la nebbia fatica a diradarsi.

La rete di ovili

È passato un anno esatto da quando, a febbraio del 2018, il Ros ha ricevuto un’informativa dai colleghi di Nuoro. Riguarda Porcu, ritenuto «il vero capo dello smercio di droga nella Sardegna centrale» e il cui ovile è individuato come «il principale sito (di smistamento, ndr) dello stupefacente importato».

La segnalazione non cade inascoltata. Alla guida del team ci sono inquirenti di livello. Vengono da pregresse esperienze nella Penisola, dove hanno conosciuto da vicino organizzazioni di narcotrafficanti e sodalizi di stampo mafioso. Così nasce l’operazione Marghine – terza indagine antimafia a vent’anni di distanza da San Gavino – il cui impianto accusatorio dimostra l’esistenza di una stabile organizzazione finalizzata al narcotraffico nata dall’incontro tra la ‘ndrangheta, come fornitore, e i gruppi di criminali sardi, come acquirenti.

La tomba dei giganti di Santu Bainzu, dalle parti di Borore
Foto: DEA / S. VANNINI/Getty

Porcu è una figura centrale tra questi due mondi. Esperto narcotrafficante, tutela se stesso e gli interessi del gruppo con una cautela al limite della paranoia. «È talmente abituato a traffici di stupefacenti e sospettoso di indagini nei suoi confronti», scrive il Gip di Cagliari Giuseppe Pintori nella misura cautelare, che nell’ovile tiene un rilevatore per microspie e un jammer, un dispositivo elettronico in grado di interferire con eventuali cimici nei paraggi. Non solo, secondo gli inquirenti «i discorsi compromettenti sulle trattative di acquisto di stupefacenti sono stati sempre effettuati all’aperto, lontani dalle macchine e senza telefoni».

Ma per il giudice non ci sono dubbi: l’oggetto dei colloqui riservati è certamente un’attività di narcotraffico, «tanto è vero che Porcu e i calabresi non si sono nemmeno avvicinati al luogo dove c’era il bestiame».

Aggiornato l’incontro, il padrone di casa annuncia di aver organizzato un pranzo per il giorno dopo, al quale sono invitati anche i narcotrafficanti. I carabinieri tornano a nascondersi tra le campagne di Borore. Hanno trovato una posizione strategica da cui vedono il cancello d’ingresso dell’ovile: arrivano varie auto, molte delle quali già segnalate in quanto usate da noti trafficanti di droga strettamente legati a Porcu per parentela o per amicizia. Riconoscono una delle auto che aveva fatto visita all’ovile il giorno prima e, grazie al numero di targa, risalgono al recente imbarco da Civitavecchia e ai nomi dei viaggiatori. Sono Antonio Strangio, classe ‘58, e suo nipote Sebastiano Ficara, classe ‘85, entrambi con precedenti per narcotraffico ed entrambi di San Luca, centro nevralgico della ‘ndrangheta nella Locride.

Nessuno dei due è un narcotrafficante internazionale, almeno non al livello di broker del calibro di Ciccio Riitano, che hanno rifornito la Sardegna di cocaina come già raccontato da IrpiMedia e Indip. Sono personaggi di seconda schiera, eppure la loro presenza è «un segnale che indica come la Sardegna abbia a che fare con una struttura criminale e un’infiltrazione di livello, ma di cui si vede ancora solo il primo strato», spiegano fonti investigative. L’operazione Marghine non ha scoperto una vera e propria attività sistemica tra ‘ndrine di San Luca e narcos sardi, ma rivela una comunione d’intenti che – se non analizzata, compresa e interrotta – potrebbe diventare una solida base per uno “sbarco” molto più stabile per la ‘ndrangheta in Sardegna.

Strangio e Ficara a San Luca

Antonio Strangio è stato condannato alla fine degli anni ‘80 per sequestro di persona e nel 2008 per associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti tra Sardegna e Calabria.

Strangio è fratello di un pregiudicato per mafia, Stefano, personaggio potenzialmente molto più rilevante del fratello, che pur restando in Calabria e quindi comparendo nelle indagini solo perché nominato, emerge come il vero deus ex machina verso cui i sardi stessi sono ossequiosi. I due fratelli Strangio sono considerati dagli inquirenti trafficanti al servizio della potente ‘ndrina dei Nirta nota come Scalzone – alleata al clan oggi egemone a San Luca, i Pelle, noti come Gambazza. Sia gli Scalzone che i Gambazza si erano tenuti alla larga dalla faida di San Luca, portando così avanti gli affari del narcotraffico e diventando sempre più ricchi e potenti.

Sebastiano Ficara invece è nipote dei due Strangio (sua madre è sorella dei due pregiudicati) ma nasce all’interno della famiglia Pizzata (il padre è figlio di una Pizzata) alias Diavuli. Quest’ultima non è una ‘ndrina riconosciuta, ma a San Luca è comunque ritenuta una famiglia attiva nel narcotraffico per conto della ‘ndrangheta.

L'incontro tra trafficanti sardi e calabresi monitorato dai carabinieri - Foto: Carabinieri del Ros di Cagliari

L’incontro tra trafficanti sardi e calabresi monitorato dai carabinieri – Foto: Carabinieri del Ros di Cagliari

Il tour di Sardegna

Quello a casa di Porcu è un pranzo d’affari. A tavola i calabresi declamano i propri precedenti penali come se cercassero di fare colpo sugli altri commensali. Raccontano anche di un altro pasto avvenuto sempre per discutere di droga: la sera prima erano a cena da «una persona seria (come capacità criminale, ndr)», un certo «Costantino».

Si tratta di Costantino Dore, allevatore barbaricino con un ovile ad Arborea, il quale vanta «un variegato curriculum criminale», scrive il Gip, e precedenti per rapina e reati in materia di armi.

Ma ai due incontri – scoprono gli inquirenti – se ne aggiunge un terzo, dalle parti di Decimoputzu, a nord ovest di Cagliari e un’ora di macchina da Arborea. Avviene nell’azienda agricola della famiglia di Raffaele Nonne, 44 anni, all’epoca semilibero dopo una condanna per rapina a mano armata. Nel 2007, con un commando, aveva assaltato l’ufficio postale di Pula, generando una sparatoria nella quale hanno perso la vita due persone.

Stando alla ricostruzione degli inquirenti, l’ovile di Nonne diventa una delle tappe del tour dei sanlucoti in Sardegna. Da una parte i due acquirenti sardi, Dore e Nonne appunto, dall’altra l’intermediazione di Porcu che tira le fila della distribuzione di droga in Sardegna, nelle zone del Marghine e della Planargia.

Un ultimo contatto fondamentale è quello che lega Strangio a Porcu. Si tratta di Silvano Murgia, originario di Uras, un piccolo centro abitato in provincia di Oristano a poca distanza dalla statale 131, l’arteria che collega il sud al nord dell’isola. L’intera rete di acquirenti e nascondigli ha appunto una caratteristica peculiare: sono tutti facilmente raggiungibili in meno di un’ora di macchina l’uno dall’altro.

Santa Barbara, le origini del patto

Va così, ormai da anni, il traffico di droga che coinvolge l’isola. «Un fenomeno criminale in netta espansione nell’ultimo decennio nella Sardegna centrale dove il narcotraffico ha sostituito o affiancato altri gravissimi delitti contro la persona ed il patrimonio, quali il sequestro di persona e le rapine a mano armata», scrive il Gip nella misura cautelare dell’operazione Marghine, che garantiscono grandi guadagni «ma che richiedono una notevole organizzazione, disponibilità di armi e comportano un serio rischio». Il traffico di droga permette invece profitti ancora più grandi con meno rischi.

Ed è per questo che negli ultimi vent’anni si sono creati gruppi di narcos che importano regolarmente droghe grazie al contatto con camorra e ‘ndrangheta. D’altronde gli affari sono promettenti e l’isola figura costantemente tra le regioni italiane con il maggiore consumo di cocaina al fianco di Umbria e Lazio e, nel 2003, superando perfino la Lombardia.

Questi gruppi sono facilitati dalla geografia in cui operano: campagne remote (nel Marghine e Planargia in particolare) e zone montuose e impervie (in Barbagia), che hanno però facile accesso alle due arterie (le strade statali 131 e 129) che attraversano tutta l’isola.

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A quando risalga l’inizio della specifica alleanza tra i sanlucoti e i “pastori” di Marghine e Barbagia non è dato sapere, ma per Antonio Strangio è sicuramente significativo l’anno 1976, quando il calabrese è ancora adolescente e sua sorella Antonia (sic) aspetta una figlia dall’allora trentunenne Silvano Murgia, di Uras, come appreso da IrpiMedia e Indip. I dettagli di questa amicizia si perdono nel tempo, ma non i suoi effetti.

Murgia viaggia spesso tra la Sardegna e la “la terza isola”, come viene spesso chiamata la Calabria. A metterlo nero su bianco è l’indagine Santa Barbara, condotta dal Ros di Cagliari, che nasce per investigare un traffico di droga in ingresso in Sardegna che individua proprio in Murgia il canale di collegamento tra i calabresi, nel ruolo di fornitori, e un’organizzazione stabile per l’importazione di cocaina ed eroina in Sardegna, da lui capitanata insieme a due soci: Efisio Sanna e Francesco Mulargia. Santa Barbara – l’indagine prende il nome dal ristorante il cui si incontravano i trafficanti – porterà all’arresto di tutti e tre e parte proprio da quest’ultimo.

Mulargia è un ex-poliziotto originario di Serrenti, paese di cinquemila abitanti a circa mezz’ora da Cagliari, con precedenti legati alla droga. La sua rete, coltivata per anni insieme all’amico Efisio Sanna, non si limita al solo Cagliaritano, ma arriva a coprire l’intera isola, dal centro Sardegna, fino a località turistiche come Villasimius. Lo dimostrano conversazioni e spostamenti.

Mulargia e Murgia si conoscono nel 1992 in carcere, ma per anni si perdono di vista. Un fortuito incontro a casa di un fornitore di droga permette di riallacciare i rapporti: Mulargia e Sanna non sono soddisfatti della qualità della droga appena acquistata e Murgia propone loro di entrare in affari, garantendo di poterne procurare di migliore e senza passare da intermediari. L’associazione dei tre dà origine a un traffico arrivato a garantire forniture stabili e continuative di uno o due chili di cocaina al mese, provenienti direttamente dall’Aspromonte.

Una veduta della cittadina di San Luca, in Aspromonte
Foto: Michele Amoruso

Lo schema è semplice quanto proficuo: Murgia assicura carichi costanti dalla Calabria, dove il suo interlocutore diretto è il giovane cognato Antonio Strangio. Le forniture vengono portate sull’isola, tagliate a casa di alcuni custodi di fiducia usando dei frullatori e, successivamente, vendute al dettaglio per soddisfare l’ampia rete di consumatori. Da un lato la cocaina, prevalentemente destinata all’associazione con Mulargia e Sanna, dall’altra l’eroina, che Murgia continua a distribuire autonomamente.

Per Murgia diversificare è reso più semplice dal fatto che è lui a tenere contatti stabili con Strangio, in forza dei suoi rapporti familiari. Ma che l’origine della merce fosse tra le cosche di San Luca era chiaro anche ai soci. Ne parlano spesso Sanna e Mulargia, senza sapere di essere intercettati, anche lamentando in più di un’occasione problemi nel rapporto con Strangio.

I due sono convinti che la cocaina a loro riservata sia di qualità inferiore e di prezzo più alto, rispetto a quella di altri concorrenti sulla piazza sarda. Ma il legame tra Murgia e suo cognato rende evidentemente obbligatorio interfacciarsi con la Locride, dove in un’occasione si reca lo stesso Sanna, per valutare prima della spedizione la qualità della merce.

È l’ottobre del 2003 quando, dall’altro lato del Mediterraneo, Mulargia e Sanna attendono notizie dal socio in missione. I due gli hanno affidato ventimila euro per pagare l’acquisto della fornitura e i compratori che si riforniscono da loro fanno pressione per avere il prodotto.

Tuttavia, quando tentano di contattare telefonicamente Murgia, non ottengono alcuna risposta. I due iniziano a innervosirsi e a lamentarsi dell’organizzazione di Strangio, dei ritardi e della qualità della droga. Quello che non sanno è che Murgia è stato arrestato non appena ha messo piede nuovamente in Sardegna con una parte della fornitura di cocaina ed eroina.

Ignari del fatto, Mulargia e Sanna continuano a parlare di come distribuire la merce non appena sarà arrivata, eventualmente comprando da altri fornitori per coprire il ritardo ingiustificato del loro socio e in ogni caso certi che la prima cosa da fare sia, non appena possibile, «incontrare il proprietario del ristorante», Silvano Murgia. Pochi giorni dopo anche Sanna e Mulargia vengono arrestati, decidendo a quel punto di collaborare e di fornire le preziose informazioni che hanno reso possibile la ricostruzione del traffico di cui facevano parte.

Uras, il bunker dei calabresi

Condannati in appello nel 2010 per Santa Barbara, dal 2019 Murgia e Strangio sono tornati a trafficare insieme, di certo tra l’inizio del 2019 e fino alla fine 2021, quando la casa di Murgia a Uras diventa la base dove i due calabresi Strangio e Ficara si nascondono dagli occhi indiscreti e dalle forze dell’ordine.

Vivono barricati in casa (temono che a Uras, paese piccolo, la gente mormori), e escono solo per viaggi strategici. «Già in un mese due volte siamo venuti. Ti vedono spesso e dicono “che hanno da fare questo e questo?”». Vivono come fossero latitanti, a loro stesso dire, «il latitante [uno] deve fare…uscire quando deve uscire e basta».

È proprio a Uras che, a febbraio 2019, Strangio e Ficara attendono l’arrivo di un corriere dalla Calabria, che li seguirà fino all’ovile di Porcu alla guida di una Fiat Punto. È un concittadino di San Luca che viaggia assieme alla figlia minorenne per destare meno sospetti. È un musicista, non un narcotrafficante, e quel sopralluogo in Sardegna con i due ‘ndranghetisti lo fa probabilmente per fame. Sarà lui il corriere designato a portare la cocaina e a rischiare in prima persona. Infatti, a marzo 2019 l’uomo viene incaricato di tornare in Sardegna su ordine di Strangio.

In Calabria affitta nuovamente una Fiat Punto. I carabinieri però lo stanno monitorando e installano un localizzatore GPS sul veicolo. La mattina del 14 marzo l’uomo, sempre in compagnia della figlia minorenne, sbarca a Olbia e senza soste intermedie guida – a bassa velocità – fino a Uras. Gli inquirenti ne monitorano gli spostamenti, sospettando che stia trasportando cocaina. Grazie a una cimice nell’auto, scoprono che ha l’ordine di arrivare a casa di Murgia e attendere l’arrivo di Strangio e Ficara, anche loro sbarcati in mattinata ma con il traghetto da Civitavecchia, per destare meno sospetti.

«Vai a bere due birre al bar là (un bar di una stazione di servizio di Uras, ndr) che noi arriviamo fino a lì (l’ovile di Nonne, ndr) e torniamo», ordina Strangio al corriere, prendendo la sua auto (con la cocaina, ndr) per raggiungere le campagne di Decimoputzu, dove pascola il gregge della famiglia Nonne.

Carabiniere del reparto Squadrone Eliportato Cacciatori di Sardegna perlustra le campagne durante l’operazione Marghine - Foto: Carabinieri di Nuoro
Carabiniere del reparto Squadrone Eliportato Cacciatori di Sardegna perlustra le campagne durante l’operazione Marghine – Foto: Carabinieri di Nuoro

Nel frattempo all’ovile di Nonne arrivano i carabinieri, allertati dalle microspie dell’auto del corriere. Appostati, vedono il trafficante sardo, in cucina, occupato a spostare alcuni involucri di plastica. A mezzogiorno Nonne esce dall’ovile e va incontro ai calabresi. «Uè banditi», li apostrofa salendo sulla loro Fiat Punto. Guidano sullo sterrato fino al bosco e lì, appartati, iniziano a smontare pezzi della carrozzeria della parte posteriore dell’auto. I carabinieri in ascolto capiscono ciò che sta succedendo: la consegna della cocaina a Nonne.

Durante il ritorno Strangio e Ficara commentano la missione. Ficara vorrebbe tenersi una parte dei soldi. «Duemila ce li prendiamo e ce li spartiamo», dice Ficara, lasciando intendere di volersi tenere una “mancia”. Ma lo zio, Strangio, non se la sente. «Gli possiamo dire di darci qualcosa in più», incalza Ficara. «Ma io gliel’ho detto, ma non ho trovato [ascolto]». Insomma, chiunque abbia dato a Strangio e Ficara il compito di aprire un canale di narcotraffico con la Sardegna, dà loro uno “stipendio” ma non una parte del guadagno. «Un livello di organizzazione superiore», scrivono gli inquirenti «a cui i due facevano riferimento e a cui dovevano rendere conto dell’operazione».

Nel frattempo in Sardegna, Strangio e Ficara trattano ancora con Porcu per una nuova fornitura di cocaina. «È tardi per dare un’occhiata alle mucche no? Ci facciamo una passeggiata?». Ma nell’ovile non ci sono mucche, bensì solo suini: un’ulteriore conferma per gli inquirenti che i tre escono puntualmente dall’ovile per parlare di droga e non di allevamento.

Finito l’incontro – è il 18 marzo 2019 – i due calabresi si imbarcano sul traghetto di ritorno. Durante la traversata, i carabinieri aprono la loro auto e all’interno trovano 100 mila euro in diverse mazzette, nascoste in un’intercapedine dietro il cruscotto: sono i soldi consegnati da Nonne per la fornitura di cocaina, che i carabinieri lasciano al loro posto per non interrompere il corso delle indagini. Una volta a San Luca, le intercettazioni sveleranno il nascondiglio dei soldi, la casa della nonna di Ficara. «Quale posto migliore che da tua nonna», esclama Strangio.

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Come promesso al mediatore Porcu, due mesi dopo Sebastiano Ficara torna in Sardegna. Sono i primi di maggio del 2019 quando va a Uras per incontrare Murgia e subito dopo all’ovile di Nonne. Poi ancora a Borore da Porcu. I tre parlano a voce bassissima sperando di non essere captati dalle microspie.

Lasciato l’ovile di Porcu, la tappa successiva è l’azienda agricola di Dore ad Arborea. Questa volta però i calabresi vogliono essere pagati in anticipo, «gli ho detto..sì, senza debiti», e lo stesso vale per Nonne. È per questo che, proprio all’ovile di Nonne, qualcuno sta preparando mazzette di denaro. Gli inquirenti lo sentono dalle intercettazioni ambientali: il fruscio delle banconote contate e poi il rumore della mazzetta battuta sul tavolo per pareggiarne i bordi, lo schioccare dell’elastico che le lega. È un rituale inconfondibile, che nei giorni successivi apre la strada a una serie di tête-à-tête tra Ficara, Nonne, Dore e Porcu, «evidenziando in tal modo un chiaro collegamento tra i tre». Sono incontri brevissimi, dieci minuti l’uno, a fronte di centinaia di chilometri macinati.

L’8 maggio la microspia all’ovile di Nonne gracchia ancora: qualcuno prepara altre mazzette e strappa dei foglietti. Servono per segnare l’importo complessivo di ciascun mucchio. Nel primo pomeriggio Ficara torna da Nonne che gli consegna i soldi. «Non ci stanno, mi sa che si vede, cazzo», esclamano mentre cercano di nascondere i soldi nelle intercapedini del cruscotto dell’auto di Ficara, ormai traboccanti. «Dove li mettiamo questi? Sotto il sedile?». Troppi soldi. Ficara lo dice: sono cinquecentomila euro.

Si imbarca con l’auto piena di soldi e nuovamente i carabinieri lo confermano con una perquisizione durante la traversata.

Il 15 maggio è ora di mandare nuovamente da San Luca alla Sardegna il corriere, il musicista, con un carico di cocaina. Ma questa volta i carabinieri sono pronti a fermarlo, certi che stia trasportando droga. Infatti sbarca a Olbia il 16 maggio ma non fa in tempo a respirare l’aria della Gallura che viene ammanettato e la cocaina sequestrata. Strangio nel frattempo è giunto in Sardegna in aereo e, appresa la notizia, corre da Nonne.

«Ohi cazzu! Bastardu ‘e merda», impreca Nonne infuriato, indicando così che i cinque chili fossero destinati a lui.

I carabinieri di Nuoro ispezionano degli ovili - Foto: Carabinieri di Nuoro
I carabinieri di Nuoro ispezionano degli ovili – Foto: Carabinieri di Nuoro

Lo spettacolo deve continuare

Lo conferma anche una serie di contatti che il fonnese aveva avuto nei giorni precedenti, chiaramente con un gruppo di acquirenti a lui sottoposti. «Deve essere giovedì», aveva detto in modo perentorio, con toni molto alterati. La data della consegna era quella, giovedì 16 maggio, e Nonne non aveva intenzione di anticipare soldi a nessuno. «A me non interessa, io non pago nulla», sbotta Nonne, che evidentemente era collettore di un gruppo di acquirenti rimasti in buona parte sconosciuti.

Nonostante l’arresto del corriere di San Luca e del sequestro di cinque chili di cocaina pura all’85%, la rete del narcotraffico tra Calabria e Sardegna non si ferma. Ad agosto 2020 Raffaele Nonne si reca a Fonni, suo paese d’origine. Siamo in piena Barbagia quando consegna a un corriere parecchi soldi da trasportare in Calabria. Quanti, gli inquirenti lo scoprono quando fermano il corriere appena sbarcato con una Bmw a Civitavecchia: 475.580 euro. Tra le mazzette di denaro ci sono anche 2.500 euro in banconote false. I militari sequestrano anche un telefono Encrochat (dispositivo cifrato ampiamente utilizzato nel mondo del narcotraffico). È il medesimo apparecchio che poche ore prima aveva agganciato una cella telefonica a Decimoputzu, dove c’è la fattoria di Nonne, e ancora prima a San Luca da cui – evidentemente – era arrivato per poi essere regalato al giro dei fonnesi.

Quando gli arriva la notizia dell’arresto del suo corriere, Nonne è in auto. Impreca «in modo virulento», così come aveva fatto quando al corriere calabrese era stata sequestrata la droga diretta a lui. Questa volta, i calabresi avevano preteso che il trasporto dei soldi per il pagamento fosse a carico dei sardi. Considerata la cifra, quasi mezzo milione di euro, si può immaginare che la fornitura di cocaina dovesse essere di almeno 15 chili.

Neanche questo sequestro frena l’organizzazione. E i carabinieri continuano a monitorare i trafficanti sardi e calabresi. A giugno 2021 Murgia invita il cognato, Antonio Strangio, a «farsi una passeggiata in Sardegna». Alcuni mesi dopo, Murgia sollecita nuovamente Strangio: un certo Giovannino vuole «peperoncini». «C’è la possibilità che glieli porto io un po’ di peperoncini», dice Strangio. «Cerca di fare presto», lo apostrofa il cognato.

Il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Cagliari Gilberto Ganassi decide di non aspettare oltre e chiede l’arresto di tutti gli indagati. Le accuse sono di associazione per delinquere dedita al traffico di droga, con un patto stabile tra calabresi e sardi volto alla conclusione di una serie indefinita di compravendite di ingenti quantità di droghe pesanti. Da febbraio 2019 a ottobre 2021, i carabinieri sono riusciti a sequestrare cinque chili di cocaina, in un’unica consegna, ma hanno monitorato scambi economici per un totale di oltre 600 mila euro, che dovrebbero corrispondere ad almeno 20 chili di cocaina.

Il 22 novembre 2021, il Gip di Cagliari Giuseppe Pintori spicca un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del gruppo sardo-calabro. Nonne riesce a scappare, resta latitante per due settimane. Poi si consegna alla giustizia e, come tutti i coimputati, è in attesa di processo. A una richiesta di commento, l’avvocato difensore di Costantino Dore, Herika Dessì, ha risposto a IrpiMedia/Indip: «Preferiamo non rilasciare alcuna dichiarazione per adesso, preferiamo impegnarci sul campo». Non è stato possibile raggiungere gli altri imputati.

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Autori

Cecilia Anesi
Raffaele Angius

Editing

Giulio Rubino

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Mappe

Lorenzo Bodrero

Illustrazione

L’incoronazione: tra sacro, profano e ‘ndrangheta

L’incoronazione: tra sacro, profano e ‘ndrangheta

Cecilia Anesi

La celebrazione della Madonna della Montagna di Polsi è prima di tutto una festa. Sentita, partecipata, affollata. Ma non tutti affrontano la faticosa salita al santuario, arroccato tra i monti sopra il paese di San Luca, spinti dallo stesso motivo: qui c’è chi è fedele per religione, chi per cultura e chi invece partecipa per mafia. Per la religione cattolica è una importante celebrazione religiosa, ma per la gente comune questa è – come molte feste religiose d’Italia – una festa di paese, e come tutte le feste di paese vi è un legame profondo con il popolo. Si viene qui a vedere e ad essere visti, perché una festa di paese è uno specchio della società. Quest’anno poi, dopo due anni di fermo per via della pandemia, c’era un importante appuntamento. Si tornava a festeggiare, a riunirsi, ed è per questo che, dopo averne scritto alcuni anni fa, IrpiMedia – assieme a Occrp – torna a raccontarla. Volevamo vedere da vicino se e come la ‘ndrangheta, la potente mafia calabrese che negli anni si è appropriata di questa festa come sua, sarebbe stata in passerella.

Il santuario di Polsi, il più importante della Calabria, sorge in una gola dell’Aspromonte a 826 metri, tra boschi millenari e rocce ancora più antiche. La sua origine, datata intorno all’anno Mille, è raccontata da diverse leggende. Un racconto popolare narra che nei pressi del Santuario ci fosse l’antro della Sibilla che, sconfitta, dovette cedere il passo alla Vergine. Un altro parla della visione avuta da un pastore che alla ricerca di un vitello smarrito l’aveva ritrovato in ginocchio ad adorare la Croce. Lì, in quel punto, gli sarebbe apparsa la Beata Vergine col Bambino chiedendogli di costruire una chiesa a lei dedicata.

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La processione e la festa della Madonna della Montagna del Santuario di Polsi. Quest’anno è avvenuta una incoronazione speciale, anticipata a 16 anni invece che i 25 che devono solitamente passare. L’occasione è stato il restauro della statua grande, nonchè la fine della pandemia da Covid19 che ha bloccato i festeggiamenti per due anni - Foto Michele Amoruso
La processione e la festa della Madonna della Montagna del Santuario di Polsi. Quest’anno è avvenuta una incoronazione speciale, anticipata a 16 anni invece che i 25 che devono solitamente passare. L’occasione è stato il restauro della statua grande, nonchè la fine della pandemia da Covid19 che ha bloccato i festeggiamenti per due anni.

Il santuario, ci tiene a dire il suo rettore Don Antonio Saraco, non è della ‘ndrangheta, come spesso invece è stato descritto. «Il santuario è del popolo», ha detto il vescovo di Locri Monsignor Francesco Oliva, il popolo dei fedeli e dei pellegrini, che a migliaia arrivano a piedi per visitare il Santuario anche e soprattutto nei momenti di quiete, lontani dalle celebrazioni, quando vige il silenzio e la preghiera.

I fedeli più devoti, i pellegrini, arrivano anche dopo giorni di cammino, con simboli al collo come la conchiglia del Cammino di Santiago, baffi lunghi, cappello da esploratore e bussola alla cinta. C’è chi si toglie le scarpe da montagna, chissà dopo quante ore, e cammina scalzo tra le vie lastricate del santuario.

Lo dice anche un cartello di legno, che cita un passaggio dell’Esodo. «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove stai è suolo santo».

Quest’anno poi c’è una ragione in più per arrivare qui a celebrare la Madonna: è la festa dell’incoronazione, che avviene ogni 25 anni.

L’ultima è avvenuta nel 2006, e prima ancora nel 1981. E sì qualcosa non torna perché al 2 settembre 2022 ne sono passati solo 16 di anni. É successo che la grande statua della Madonna, quella che si usa per l’incoronazione, è stata tirata fuori dalla teca – con tanto di progetto di un ingegnere – e portata giù per essere restaurata. Il rettore del Santuario Don Saraco lo ha letto come un segno di Dio: dopo due celebrazioni saltate per via del Covid, si sarebbe anticipata la festa dell’incoronazione.

Una veduta dell’Aspromonte, con la fiumara che taglia la montagna fino al mare, lungo la strada San Maria, ridotta ad una mulattiera, che collega San Luca al Santuario di Polsi.

Pellegrini che arrivano a piedi lungo la strada San Maria, attraversando un ponte crollato. Davanti, una pattuglia dei carabinieri che si accerta non vi sia traffico veicolare, date le condizioni della strada.

Una veduta dell’Aspromonte, con la fiumara che taglia la montagna fino al mare, lungo la strada San Maria, ridotta ad una mulattiera, che collega San Luca al Santuario di Polsi - Foto: Michele Amoruso
Una veduta dell’Aspromonte, con la fiumara che taglia la montagna fino al mare, lungo la strada San Maria, ridotta ad una mulattiera, che collega San Luca al Santuario di Polsi.
Pellegrini che arrivano a piedi lungo la strada San Maria, attraversando un ponte crollato. Davanti, una pattuglia dei carabinieri che si accerta non vi sia traffico veicolare, date le condizioni della strada - Foto: Michele Amoruso
Pellegrini che arrivano a piedi lungo la strada San Maria, attraversando un ponte crollato. Davanti, una pattuglia dei carabinieri che si accerta non vi sia traffico veicolare, date le condizioni della strada.

E così, il 3 settembre, è ripartito il count down. La prossima incoronazione sarà tra 25 anni da ora, motivo per cui la festa della Madonna di Polsi di quest’anno era davvero imperdibile.

Lo hanno pensato in molti, almeno seimila persone accorse da tutta la Calabria. Ma sono tre le zone da cui si partecipa massicciamente: San Luca, naturalmente, e due città del versante tirrenico della Calabria, Bagnara Calabra da cui arrivano i portatori della statua, e Rosarno – vicino al porto di Gioia Tauro.

Queste tre comunità si distinguono tra loro per ruoli diversi durante la festa – i rosarnesi hanno due bar allestiti accanto alle bancarelle dei sanlucoti, mentre quelli di Bagnara hanno le case con balconate a lato della chiesa. E poi si distinguono per il modo in cui ballano le tarantelle. I rosarnesi saltellano, i reggini (San Luca è in provincia di Reggio Calabria) strisciano i piedi.

Dei pellegrini a piedi scalzi si rinfrescano alla fiumara del santuario, dopo il lungo cammino.
L’incoronazione del bambino e della Madonna della Montagna di Polsi, svolta dal Vescovo di Locri Monsignor Francesco Oliva sotto il forte sole del 2 settembre 2022.
La banda che apre con grancasse e rullanti la processione dell’incoronazione della Madonna di Polsi.
Dei pellegrini a piedi scalzi si rinfrescano alla fiumara del santuario, dopo il lungo cammino - Foto: Michele Amoruso
Dei pellegrini a piedi scalzi si rinfrescano alla fiumara del santuario, dopo il lungo cammino.
L’incoronazione del bambino e della Madonna della Montagna di Polsi, svolta dal Vescovo di Locri Monsignor Francesco Oliva sotto il forte sole del 2 settembre 2022 - Foto: Michele Amoruso
L’incoronazione del bambino e della Madonna della Montagna di Polsi, svolta dal Vescovo di Locri Monsignor Francesco Oliva sotto il forte sole del 2 settembre 2022.
La banda che apre con grancasse e rullanti la processione dell’incoronazione della Madonna di Polsi - Foto: Michele Amoruso
La banda che apre con grancasse e rullanti la processione dell’incoronazione della Madonna di Polsi.

Già dalla mattina del 1 settembre – la festa è sempre l’1 e 2 settembre a prescindere da se i giorni sono festivi o feriali – iniziano le tarantelle. Gruppi improvvisati di musici che, armati di tamburello, zampogne e bottiglie di vetro su cui viene strisciato magistralmente un coltello, danno il via alle danze.

Due, tre, anche dieci cerchi in contemporanea, a riempire le piazze e gli angoli del santuario. A ritmo continuo, a due a due in mezzo al cerchio si balla, e man mano vengono invitati a un cambio di ballerini e ballerine. Ballano uomini con donne, donne con donne, uomini con uomini. L’unico momento della festa in cui i due frangenti – uomini e donne – si incontrano da vicino.

Anche in chiesa, ai banchi d’ingresso, ci sono uomini a pregare assieme alle donne. Ma sono quasi solamente anziani e ragazzini. Difficile vedere giovani uomini qui. Quando invece si tratta di partecipare alla messa della sera del 1 settembre, quella delle 21:30 dove vengono presentati i portatori della statua, non manca nessuno.

U circulu furmatu

Anche i giovani uomini, i ragazzi che fino a poco prima suonavano le tarantelle, camminano in processione verso la statua, alla fine della navata principale della piccola chiesa gremita di gente. Non c’è un centimetro vuoto. La gente si accalca. L’aria è consumata, l’umidità del temporale passeggero peggiora le cose. «Non toccare la Madonna, è stata appena restaurata», recita un cartello. Eppure le mani si accavallano, le braccia si stendono fino al ginocchio blu della statua, la toccano in un rapido momento di silenzio. Attorno il brusio continua, è quasi impossibile distinguere le preghiere delle donne sedute sulle panche della navata dal chiacchiericcio che avviene nei due transetti. Nel transetto di sinistra un’abside con una teca, dentro c’è la statua della Madonna e del bambino, è la riproduzione minore di quella appena restaurata. È la statua con cui di solito viene celebrata la festa. Sotto alla statua, al suo cospetto, un drappello di giovani uomini in cerchio. «Uomini intenti a parlare in cerchio. Fateci caso – suggerisce un inquirente a IrpiMedia – ne avvengono varie di riunioni così, sia in chiesa che fuori. Spesso, sono incontri di ‘ndrangheta».

Giovani suonano e ballano le tarantelle.
Le corone per l’incoronazione della Madonna e del bambino Gesù. Sono due gioielli d’oro del 1800.
Giovani suonano e ballano le tarantelle - Foto: Michele Amoruso
Giovani suonano e ballano le tarantelle.
Le corone per l’incoronazione della Madonna e del bambino Gesù. Sono due gioielli d’oro del 1800 - Foto: Michele Amoruso
Le corone per l’incoronazione della Madonna e del bambino Gesù. Sono due gioielli d’oro del 1800.

La stessa forma, quella dell’incontro circolare, la aveva anche il famoso summit di ‘ndrangheta del 2009, quando il boss Domenico Oppedisano venne “incoronato” capo della ‘ndrangheta, che da quel momento diventa unitaria al cospetto della statua della Madonna della Montagna.

L’incontro del 2009 era avvenuto in un punto ombroso tra la piazza principale del santuario e una scalinata che lo costeggia. Adesso, in quel punto preciso, c’è il busto di una vittima di mafia. È don Giuseppe Giovinazzo, sacerdote ucciso in un agguato di stampo mafioso il primo di giugno del 1989 sulla strada che da Montalto porta al Santuario della Madonna della Montagna Polsi.

Il vescovo Francesco Oliva aveva dichiarato: «Don Giovinazzo è stato trucidato sulla strada per Polsi dopo una giornata di servizio pastorale nel Santuario. Non può essere trascurato il legame esistente tra la sua uccisione ed il ministero pastorale esercitato. A chi poteva dare fastidio? […] Oggi desideriamo onorare la memoria di don Giovinazzo e ci auguriamo che il suo sacrificio non sia caduto nel nulla».

Il 1 settembre i fedeli accorrono a salutare e toccare la Madonna nella chiesa del Santuario di Polsi durante la festa e prima della processione del 2 mattina. «Non toccare la Madonna, è stata appena restaurata», recita un cartello. Eppure le mani si accavallano, le braccia si stendono fino al ginocchio della statua, la toccano in un rapido momento di silenzio - Foto: Michele Amoruso
Il 1 settembre i fedeli accorrono a salutare e toccare la Madonna nella chiesa del Santuario di Polsi durante la festa e prima della processione del 2 mattina. «Non toccare la Madonna, è stata appena restaurata», recita un cartello. Eppure le mani si accavallano, le braccia si stendono fino al ginocchio della statua, la toccano in un rapido momento di silenzio.

Ma in questo territorio, il comune di San Luca, è difficile scindere le cose. I fedeli si lamentano con i giornalisti per avere bollato la festa come “la festa della mafia”, ma la verità è che purtroppo la ‘ndrangheta è riuscita a pervaderla.

Il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri anni fa dichiarò: «Ogni anno, a settembre, i capimafia si riuniscono a Polsi per discutere delle strategie criminali. Si fanno le investiture, i processi, si decide se aprire o chiudere un locale di ‘ndrangheta. Si riuniscono a Polsi perché è il luogo sacro, il luogo della custodia delle 12 tavole della ’ndrangheta… perché la forza della santa, rispetto alle altre organizzazioni criminali, è che fa osservare in modo ortodosso le regole».

Ma è ancora così, come aveva dimostrato il processo Crimine oltre dieci anni fa, e le cui indagini erano state guidate proprio da Gratteri?

Don Giuseppe Giovinazzo, sacerdote ucciso in un agguato di stampo mafioso il primo giugno 1989 sulla strada che da Montalto porta al Santuario della Madonna della Montagna di Polsi. Oggi la sua statua è ubicata dove prima sorgeva una statua in pietra della Madonna, utilizzata dalla ‘ndrangheta come “benedizione” per gli incontri.
Il santuario e la zona delle bancarelle circondate dalla selva dell’Aspromonte.
I portatori in piazza attendono l’arrivo della corona per la Madonna, prima di riprendere in spalla la statua della Madonna e proseguire la processione.
Don Giuseppe Giovinazzo, sacerdote ucciso in un agguato di stampo mafioso il primo giugno 1989 sulla strada che da Montalto porta al Santuario della Madonna della Montagna di Polsi. Oggi la sua statua è ubicata dove prima sorgeva una statua in pietra della Madonna, utilizzata dalla ‘ndrangheta come “benedizione” per gli incontri - Foto: Michele Amoruso
Don Giuseppe Giovinazzo, sacerdote ucciso in un agguato di stampo mafioso il primo giugno 1989 sulla strada che da Montalto porta al Santuario della Madonna della Montagna di Polsi. Oggi la sua statua è ubicata dove prima sorgeva una statua in pietra della Madonna, utilizzata dalla ‘ndrangheta come “benedizione” per gli incontri.
Il santuario e la zona delle bancarelle circondate dalla selva dell’Aspromonte - Foto: Michele Amoruso
Il santuario e la zona delle bancarelle circondate dalla selva dell’Aspromonte.
I portatori in piazza attendono l’arrivo della corona per la Madonna, prima di riprendere in spalla la statua della Madonna e proseguire la processione - Foto: Michele Amoruso
I portatori in piazza attendono l’arrivo della corona per la Madonna, prima di riprendere in spalla la statua della Madonna e proseguire la processione.

Un Fischiante a Polsi

Sembrerebbero suggerirlo vari elementi. Primo tra tutti, la partecipazione quest’anno di un boss di alto livello da poco scarcerato dopo 40 anni: Francesco Mammoliti. Il 73enne è ritenuto a capo della potente cosca Mammoliti alias Fischiante di San Luca, specializzata nel narcotraffico internazionale a fianco di cosche come i Romeo alias Staccu.

Dopo quasi 40 anni di pena scontata tra carcere, libertà vigilata, domiciliari e di nuovo carcere, Mammoliti è finalmente libero dalla primavera scorsa. Mammoliti è considerato un personaggio di grande spessore all’interno della ‘ndrangheta, tra i primi ad ottenere la dote di santista, e che era addirittura stato dato per morto nel 2000, ottenendo così l’archiviazione di un processo. «In realtà – scrive Claudio Cordova direttore de Il Dispaccio – era vivo e vegeto e ha continuato, anche dopo la scarcerazione, e gli arresti domiciliari disposti per violazione delle misure di prevenzione, a gestire gli affari criminali della propria cosca di appartenenza».

Intravisto passeggiare al tramonto nei pressi del santuario, la sua presenza è un campanello d’allarme. Perché una figura del genere ha un peso specifico e, ritengono gli inquirenti, un boss come Mammoliti a Polsi è un segnale: che la ‘ndrangheta c’è, e vuole esser vista.

Seppur non dovessero avvenire più incontri strategici, Polsi è comunque una piazza fondamentale in cui mostrare la propria presenza, anche solo silenziosamente, e così dimostrare il proprio potere, chi comanda, chi regna.

E tutto attorno, a guardar bene, ci sono una serie di altre ‘ndrine rappresentate da diversi personaggi, di diverso grado. E uno sbocciare di “cortigiani” vestiti a festa. Centinaia di persone di varie età, ma soprattutto giovani, vestiti per la grande occasione.

Non in giacca e cravatta. Il dress code, qui, non è la classica eleganza dell’abito bensì vestiti di luxury brands che costano dalle centinaia a qualche migliaio d’euro. Quest’anno Polsi sembra una passerella, in cui gli indossatori nell’esibire i propri capi esibiscono anche la propria ricchezza. Un’ostentazione, in una delle aree più economicamente depresse d’Europa almeno a livello ufficiale, che ha un effetto quasi straniante.

La statua della Madonna viene riportata in chiesa dopo l’incoronazione e la processione. Quando arriva in questo punto, i portatori prendono la rincorsa e la trasportano in chiesa di corsa. La piazza esulta.
Le balconate gremite di persone in attesa della processione con la statua della Madonna incoronata. È il 2 settembre 2020. Alcuni ragazzi sono vestiti con magliette decorate con la stampa di corone d’oro.
Le persone accalcate durante la messa dell’incoronazione della Madonna di Polsi, il 2 settembre 2022. Molti dei giovani vestono Dsquared2, Philipp Plein o Gianni Versace.
La statua della Madonna viene riportata in chiesa dopo l’incoronazione e la processione. Quando arriva in questo punto, i portatori prendono la rincorsa e la trasportano in chiesa di corsa. La piazza esulta - Foto: Michele Amoruso
La statua della Madonna viene riportata in chiesa dopo l’incoronazione e la processione. Quando arriva in questo punto, i portatori prendono la rincorsa e la trasportano in chiesa di corsa. La piazza esulta.
Le balconate gremite di persone in attesa della processione con la statua della Madonna incoronata. È il 2 settembre 2020. Alcuni ragazzi sono vestiti con magliette decorate con la stampa di corone d’oro - Foto: Michele Amoruso
Le balconate gremite di persone in attesa della processione con la statua della Madonna incoronata. È il 2 settembre 2020. Alcuni ragazzi sono vestiti con magliette decorate con la stampa di corone d’oro.
Le persone accalcate durante la messa dell’incoronazione della Madonna di Polsi, il 2 settembre 2022. Molti dei giovani vestono Dsquared2, Philipp Plein o Gianni Versace - Foto: Michele Amoruso
Le persone accalcate durante la messa dell’incoronazione della Madonna di Polsi, il 2 settembre 2022. Molti dei giovani vestono Dsquared2, Philipp Plein o Gianni Versace.

Lo sfavillio delle stampe barocche della haute couture Gianni Versace, con i suoi motivi floreali d’oro che spiccano da un azzurro profondo, si mischiano nella calca alle scritte moderne del brand “Dsquared2” stampate su felpe, magliette, scarpe. Qua è la spiccano anche i teschi grigio su nero di Philipp Plein, casa di moda tedesca, che indossava anche il narco Ciccio Riitano quando è stato arrestato nel 2019.

I ragazzi hanno quasi tutti una felpa nera con una fenice colorata sulle spalle, le ragazze, vestite di bianco e d’oro, le signore in versione animalier. Inventato da due fratelli canadesi trasferitisi in Italia, “Dsquared2” è una marca di moda diventata famosa tra i cantanti americani ma che quest’anno a vederla da fuori potrebbe essere confusa per lo sponsor ufficiale della festa di Polsi. Assieme a Versace, il che fa sorridere amaramente dato che sul suo omicidio aleggia ancora un’aura di mistero perchè c’è chi, tra i pentiti, lo lega a debiti con la ‘ndrangheta.

Sacro e profano

Quest’anno poi, c’è una grandissima partecipazione di cittadini di San Luca perché portare la statua tocca a loro. Solitamente la statua della Madonna viene portata da 20 portatori di Bagnara Calabra ma per l’incoronazione che avviene ogni 25 anni viene concessa ai portatori di San Luca, questa volta 90 e non più 20, dato il peso maggiore della statua appena restaurata. Trovare 90 portatori non legati alla ‘ndrangheta non è un compito semplice a San Luca: per quanto i mafiosi siano solo una minoranza tra la cittadinanza, la ‘ndrangheta si basa e si appoggia molto ai legami familiari. E quindi, un modo di infiltrarsi ed essere presente lo trova sempre.

Ma grazie allo sforzo del rettore del santuario, Don Tonino Saraco, e dei carabinieri, almeno quest’anno si è assicurato che a portare la Madonna non fossero direttamente esponenti delle famiglie di ‘ndrangheta. Nel 2019, un giovane figlio di un boss di Bagnara Calabra era stato fermato all’ultimo proprio mentre si stava infilando tra i portatori.

Le candele accese alla Madonna nel corso degli anni.
Alcune delle bancarelle di souvenir sono abusive, altre sono gestite da prestanome, parenti di soggetti importanti di ‘ndrine di San Luca. Anche quest’anno c’è stata una querelle tra i gestori e i carabinieri, e il sindaco Bruno Bartolo – si sente sussurrare tra le vie – trema all’idea che il Comune, che ha autorizzato le bancarelle, possa nuovamente essere sciolto per mafia. Nella foto, il Sindaco Bruno Bartolo porta la corona per l’incoronazione della Madonna.
Le candele accese alla Madonna nel corso degli anni - Foto: Michele Amoruso
Le candele accese alla Madonna nel corso degli anni.
Alcune delle bancarelle di souvenir sono abusive, altre sono gestite da prestanome, parenti di soggetti importanti di ‘ndrine di San Luca. Anche quest’anno c’è stata una querelle tra i gestori e i carabinieri, e il sindaco Bruno Bartolo - si sente sussurrare tra le vie - trema all’idea che il Comune, che ha autorizzato le bancarelle, possa nuovamente essere sciolto per mafia. Nella foto, il Sindaco Bruno Bartolo porta la corona per l’incoronazione della Madonna - Foto: Michele Amoruso
Alcune delle bancarelle di souvenir sono abusive, altre sono gestite da prestanome, parenti di soggetti importanti di ‘ndrine di San Luca. Anche quest’anno c’è stata una querelle tra i gestori e i carabinieri, e il sindaco Bruno Bartolo – si sente sussurrare tra le vie – trema all’idea che il Comune, che ha autorizzato le bancarelle, possa nuovamente essere sciolto per mafia. Nella foto, il Sindaco Bruno Bartolo porta la corona per l’incoronazione della Madonna.

D’altronde questa è una terra dove si mischia tutto, dove coesistono mafia e legalità, sacro e profano. Forse come da nessuna altra parte. Basti pensare che tra le offerte alla Madonna è stato portato un giovane vitello: fatto entrare a forza in chiesa, imbizzarrito, e tenuto per le narici grondanti di sangue.

Lo testimonia bene la presenza, in una bancarella, tanto di souvenir religiosi – foulard con Maria, cuscini con Maria, braccialettini e spillette con Maria, tamburelli con Maria – quanto quella di cd con musiche di malandrini, le figure del brigantaggio che rendono “romantica” la ‘ndrangheta e addirittura compilation chiamate “Ndrangheta” e “Ndrangheta2”.

Le stesse musiche che si odono in certi momenti “pizzicate” tra le vie del Santuario. A lato della chiesa, si va dalla più comune “Brigante se more” a vere e proprie odi di mafia come “Nu ballo camorrista”.

Con gli sguardi fieri in molti guardano torvi l’obiettivo della macchina fotografica. I giornalisti qui non sono benvoluti, creano problemi, e si teme vedano e raccontino una realtà distorta.

A cercare di colmare il vuoto lasciato dallo Stato arrivano la mattina del 2 settembre in elicottero “le autorità”, il prefetto di Reggio Calabria Massimo Mariani e il Procuratore Capo Giovanni Bombardieri. A loro è riservato un posto d’onore sul palco, durante l’incoronazione della statua. É una presenza silenziosa, che cerca di contrastare un fenomeno fuori controllo con armi spuntate, e che chiaramente lì non è benvenuta.

È una lotta continua, che bene viene rappresentata dalla frammentazione di questa terra e da una preghiera lanciata da una giovanissima donna in chiesa, la sera del 1 settembre durante la messa.

Il mix tra sacro e profano è testimoniato da una statua di Maria in una grotta di fronte alle bancarelle. Vestita dei doni più vari, sembra una Madonna messicana e al contempo una donna moderna, agghindata a festa.
L’arrivo delle autorità in elicottero presso il Santuario di Polsi: il prefetto di Reggio Calabria Massimo Mariani e il Procuratore capo Giovanni Bombardieri.
Il mix tra sacro e profano è testimoniato da una statua di Maria in una grotta di fronte alle bancarelle. Vestita dei doni più vari, sembra una Madonna messicana e al contempo una donna moderna, agghindata a festa - Foto: Michele Amoruso
Il mix tra sacro e profano è testimoniato da una statua di Maria in una grotta di fronte alle bancarelle. Vestita dei doni più vari, sembra una Madonna messicana e al contempo una donna moderna, agghindata a festa.
L’arrivo delle autorità in elicottero presso il Santuario di Polsi: il prefetto di Reggio Calabria Massimo Mariani e il Procuratore Capo Giovanni Bombardieri - Foto: Michele Amoruso
L’arrivo delle autorità in elicottero presso il Santuario di Polsi: il prefetto di Reggio Calabria Massimo Mariani e il Procuratore Capo Giovanni Bombardieri.

«La mitezza è la condizione più vera per vivere autenticamente la realtà dell’incoronazione. La mitezza ed il ritiro per noi della Locride, perchè sento che la mitezza evangelica è la reale risposta ad una terra segnata da tanto sangue e attraversata da mille episodi di violenza, di mafia, di ‘ndrangheta, di massoneria deviata, di politica corrotta in tanti settori e in molteplici modi, spesso “elegantemente” mostrati a noi. Ma che cos’è la violenza? La paragonerei ad una sofferenza non curata, inacidita. Tocca a noi trasformare la violenza in amore.»

«Purtroppo le mafie utilizzano in modo deviato l’immagine e il simbolo di Maria», spiega a IrpiMedia padre Stefano Cecchin, Presidente della Pontificia academia mariana internationalis che ha fondato l’osservatorio Liberare Maria dalle mafie e che il 31 agosto proprio a Polsi ha partecipato ad una tavola rotonda per la legalità.

«La ‘ndrangheta interpreta Maria come obbediente e addolorata e in modo deviato la usa per giustificare la violenza. Noi vogliamo liberare Maria dalle mafie perché per noi, per la Chiesa di Papa Francesco, simboleggia invece la capacità di scelta, l’intelligenza, il dialogo, la libertà», conclude Cecchin.

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Cecilia Anesi

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Michele Amoruso

Il (verde) granaio di Roma

#NdranghetaInSardegna

Il (verde) granaio di Roma

Cecilia Anesi
Raffaele Angius

Occorre una mezz’ora in fuoristrada tra tornanti, strade dissestate e canaloni per raggiungere il costone di una delle montagne che guardano verso Orgosolo. Siamo nel Supramonte, nel centro della Sardegna. Qui, pochi mesi fa, la squadriglia dei carabinieri di Pratobello – un’unità scelta dell’Arma – ha trovato una piantagione di marijuana «per sbaglio, facendo un giro di perlustrazione», spiegano. Nascosto tra le stalle abbandonate di una casa in dissesto, si celava un campo perfettamente attrezzato, ordinato in filari, con tanto di tubi interrati per l’impianto di irrigazione.

«Vedete quelle montagne? Da qui si vede». Il comandante della squadriglia fa un cenno per indicare il paese – nemmeno quattromila anime – arroccato nel cuore della Barbagia. Lontana dal mondo eppure così culturalmente viva, Orgosolo è celebre per i suoi murales che parlano di Antonio Gramsci, Emilio Lussu e della rivolta di Pratobello, quando nel 1969 lo Stato ha mal pensato di poter sottrarre terre e campi agli abitanti per farne una base militare.

«Probabilmente sono scappati quando ci hanno sentito arrivare», spiegano i militari, che hanno trovato la piantagione deserta: «Camminando per il bosco, se si conosce la strada, sono sufficienti un paio d’ore per arrivare al paese senza essere visti». Di piantagioni come questa ne sono sorte a centinaia in tutta la Sardegna, dove clima e isolamento sono strategici e anni di abbandono delle campagne hanno favorito l’insorgenza di questa industria illegale.

I carabinieri della Squadriglia di Pratobello pattugliano le montagne del Supramonte.

Foto: Giulio Rubino

 I carabinieri della Squadriglia di Pratobello pattugliano le montagne del Supramonte

I carabinieri della Squadriglia di Pratobello pattugliano le montagne del Supramonte – Foto: Giulio Rubino

Dati alla mano, l’isola è diventata una centrale di produzione e commercio di stupefacenti, di cui detiene svariati record. In Sardegna, si legge nella Relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze, nel 2021 sono state sequestrate 23.676 tonnellate di stupefacente, il 28% di quanto sequestrato sul territorio nazionale. L’isola è ormai considerata il principale produttore di cannabis illegale, con il 30% dei sequestri e un’incidenza di 7.453 piante ogni 100 mila abitanti. La seconda regione della classifica è la Calabria, che però ne coltiva la metà.

Ma è proprio dalla Calabria che arriva il maggiore incentivo alla produzione di marijuana. Lo spiega a IrpiMedia e Indip un pm della Direzione distrettuale antimafia di Cagliari, che per via delle indagini in corso preferisce l’anonimato. La fonte sostiene che nell’isola la produzione è direttamente incentivata dalle cosche della ‘ndrangheta che preferiscono delocalizzare e focalizzarsi sulla distribuzione. Se nell’antichità la Sardegna era chiamata “il granaio di Roma”, oggi dell’Italia ne è diventata piuttosto la serra.

Un ovile dove era stata allestita una piantagione. Le seminiere in polistirolo dove fare crescere le piantine dal seme, prima di interrarle.

Foto: Giulio Rubino

Un ovile dove era stata allestita una piantagione. Le seminiere in polistirolo dove fare crescere le piantine dal seme, prima di interrarle.

Un ovile dove era stata allestita una piantagione. Le seminiere in polistirolo dove fare crescere le piantine dal seme, prima di interrarle – Foto: Giulio Rubino

Una questione di qualità

Quello delle cosche non è l’unico motore che ha animato questo mercato. Nel 2016 una legge dello Stato ha promosso e consentito la libera coltivazione della canapa sativa L. da sementi certificate di varietà in cui il Thc (Tetraidrocannabinolo) non superi lo 0,6%. Il Thc è l’elemento “stupefacente” della canapa, mentre il principio attivo di quella legale è il Cbd, cannabidiolo, che dà al consumatore miti effetti rilassanti.

Sulla scorta di questa misura, in Sardegna come nel resto d’Italia si è moltiplicata la presenza di coltivazioni di canapa. Molti hanno pensato di approfittare della nuova normativa per produrre marijuana illegale, confidando in meno controlli e puntando a profitti ben più alti.

I carabinieri in Barbagia perlustrano un ovile.

Foto: Giulio Rubino

I carabinieri in Barbagia perlustrano un ovile

I carabinieri in Barbagia perlustrano un ovile – Foto: Giulio Rubino

«Passa così», spiega il comandante della Compagnia carabinieri di Nuoro, il tenente colonnello Gianluca Graziani. «Passa come se fosse legale, trasportata in Continente già confezionata in sacchetti ed etichettata come legale, ma in realtà viene venduta in circuiti illeciti, dove si guadagna molto di più».

Secondo gli investigatori, uno dei modi di aggirare i controlli consisterebbe nel far uscire la canapa legale dall’isola per poi sottoporla a trattamenti chimici nei laboratori della criminalità organizzata nel Nord Italia. Qui sarebbero in grado di ripristinare un livello di Thc tale da dare l’effetto psicotropo della marijuana.

In altre indagini, spiegano sempre gli inquirenti, si è scoperto che i coltivatori hanno piantato alcune piante di canapa illegale tra i filari solamente dopo che i controlli avevano già certificato la legalità dell’intero campo. L’effetto è che le poche piantine non depotenziate hanno condizionato la crescita di quelle circostanti, stimolando l’intera piantagione a tornare a produrre Thc in valori non consentiti dalla legge.

Marijuana sequestrata, già in boccioli chiusa in sacchetti termosaldati, pronta a partire.

Foto: Giulio Rubino

Marijuana sequestrata, già in boccioli chiusa in sacchetti termosaldati, pronta a partire.

Marijuana sequestrata, già in boccioli chiusa in sacchetti termosaldati, pronta a partire – Foto: Giulio Rubino

Di entrambe le strategie, non è del tutto chiaro il funzionamento nei dettagli. Le stesse autorità stanno cercando di decifrare le metodologie adottate di volta in volta dai criminali, di cui finora si ha un’idea vaga.

Ma c’è ancora un problema: a fronte di una normativa lacunosa e poco chiara nell’identificare quali usi delle piante siano legali o meno, la parola è passata ai giudici che nel tempo hanno fornito interpretazioni diametralmente opposte sulla possibilità di commerciare al dettaglio i derivati della coltivazione. In base a una sentenza pubblicata nel 2019 dalla Corte di Cassazione, la Procura di Cagliari ha emanato una direttiva che ribadisce la più stringente delle interpretazioni possibili: la canapa prodotta in Sardegna non può essere lavorata in loco ma deve essere conferita alle officine autorizzate e per i soli scopi previsti dalla norma.

Questo, almeno in parte, ha inciso sulle statistiche dei sequestri, che di conseguenza annoverano anche le operazioni di controllo sulle aziende che coltivano canapa legale. Come spiegano fonti di polizia, i sequestri vincolano le stesse autorità all’ottenimento delle analisi, che sull’isola possono essere svolte solamente in pochi laboratori e con tempi molto lunghi. Ciò significa che i risultati delle analisi arrivano quando la canapa è già marcita e, che fosse legale o meno, spesso finisce al macero.

I carabinieri perlustrano un campo di marijuana in Barbagia.

Foto: Giulio Rubino

 I carabinieri della Squadriglia di Pratobello pattugliano le montagne del Supramonte

I carabinieri perlustrano un campo di marijuana in Barbagia – Foto: Giulio Rubino

«È evidente, a mio avviso, che proibire di svolgere un’attività inoffensiva ma redditizia, impoverisce le campagne e apre la strada ad altri soggetti magari organizzati che intraprendono coltivazioni illegali», spiega Adriano Sollai, avvocato penalista del foro di Cagliari. «La legge del 2016 ha aperto una possibilità che per una terra come la Sardegna poteva essere una grande opportunità ma purtroppo il rigorismo giuridico, nonché il pregiudizio ideologico politicamente diffuso, hanno reso questo settore difficile da praticare e hanno forse innescato appetiti sulle nostre terre, stavolta certamente illeciti».

Un sequestro importante

Di questi interessi si trova facilmente traccia sull’isola, dove sequestri e attività d’indagine faticano a stare al passo con la creazione di nuove piantagioni e rinnovate reti per la distribuzione, talvolta tradite dallo stesso profumo che emanano le piante di canapa.

È appena passata l’ora di pranzo quando i militari da Pratobello vengono richiamati a Nuoro: qui, proprio grazie al forte odore, i carabinieri hanno trovato un magazzino in periferia. All’ingresso un cartello: «Vendita piante di canapa legale», con tanto di numero di cellulare e un sito web.

I carabinieri perlustrano un campo di marijuana in Barbagia.

Foto: Giulio Rubino

I carabinieri perlustrano un campo di marijuana in Barbagia

I carabinieri perlustrano un campo di marijuana in Barbagia – Foto: Giulio Rubino

Nel magazzino la marijuana è ovunque. Appesi a seccare su delle lunghe funi pendono centinaia di rami, mentre a terra è quasi impossibile camminare senza schiacciare i boccioli già separati e pronti a essere impacchettati. Su dei tavoli gli uomini della Scientifica catalogano bilancini e cestelli a cilindro simili ai pallottolieri della tombola, in questo caso usati per separare le infiorescenze dalla ramaglia. Altri apparecchi servono a deumidificare l’aria e a confezionare sottovuoto l’erba direttamente nell’edificio, le cui finestre sono state meticolosamente oscurate dall’interno con del cartone. Sebbene occorrano analisi più approfondite, i primi esami sul posto condotti dalla Scientifica fanno emergere da subito il sospetto che le indicazioni sulla vendita di canapa legale siano una copertura: il Thc è superiore al consentito e tutta la merce è da sequestrare.

Le autorità sono sempre più diffidenti nei confronti della cosiddetta cannabis light, spesso usata come copertura per il traffico illecito. «Ormai della coltivazione di marijuana ne parlano apertamente, sembra una comunicazione innocente», dice Michele Morelli, già comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri di Livorno e oggi alla Direzione investigativa antimafia di Firenze.

Marijuana appesa in un magazzino a Nuoro, durante un sequestro dei carabinieri.

Foto: Giulio Rubino

Marijuana appesa in un magazzino a Nuoro, durante un sequestro dei carabinieri

Marijuana appesa in un magazzino a Nuoro, durante un sequestro dei carabinieri – Foto: Giulio Rubino

A confermarlo ci sono anche le intercettazioni di due imprenditori del settore, i fratelli Francesco e Pasquale Buffa. Originari di Orgosolo, sono coinvolti in un’indagine del nucleo investigativo guidato da Morelli. Si tratta dell’operazione Mandra, che prende il nome dall’azienda agricola di Robertino Dessì, Il massaro. Dessì è un sardo trapiantato nel Livornese. Qui è diventato un prezioso appoggio logistico per i trafficanti di droga, come abbiamo già scritto. È qui che i fratelli Buffa vengono intercettati mentre spiegano che «ormai con il Cbd [da quando esiste la canapa light] si può parlare, prima non si poteva».

Dieci quintali per il continente

Nonostante tanta fiducia Pasquale Buffa viene arrestato la prima volta nel 2017 con l’accusa di far parte di una banda specializzata in furti, rapine a portavalori, coltivazione e traffico di marijuana attiva in Barbagia tra Nuoro, Mamoiada e Orgosolo.

Nel 2019 viene nuovamente arrestato con l’accusa di aver allestito una piantagione di oltre quattromila piante di cannabis, poi assolto in sede di giudizio.

Cumuli di marijuana già essiccata in un magazzino a Nuoro, durante un sequestro dei carabinieri.

Foto: Giulio Rubino

Cumuli di marijuana già essiccata in un magazzino a Nuoro, durante un sequestro dei carabinieri

Cumuli di marijuana già essiccata in un magazzino a Nuoro, durante un sequestro dei carabinieri – Foto: Giulio Rubino

Ma l’indagine che mette nero su bianco la reale portata del business della marijuana di Orgosolo non parte dalla Sardegna, bensì proprio dalla Toscana e dall’azienda di Robertino Dessì, già luogo d’incontro tra le cosche della ‘ndrangheta e della criminalità sarda del Campidano.

Qui emerge, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, una trattativa finora raramente osservata nel campo delle narcomafie: cocaina in cambio di marijuana. A cercare controparti per il baratto sono alcuni criminali albanesi, che dispongono di grosse quantità di polvere bianca e chiedono a Robertino Dessì di procurare qualcuno in grado di fornire marijuana come controvalore. Spesso considerata «un piccolo taglio», la marijuana è più facilmente vendibile per finanziare ben più costosi carichi di droghe pesanti.

A Dessì i contatti non mancano e infatti è lui a rivolgersi a Pasquale Buffa, di cui conosce le capacità. Come spiegano loro stessi in un’intercettazione, i due orgolesi dispongono di erba di varie tipologie, tra cui un quintale di canapa del tipo californiano. «Dieci quintali, abbiamo messo diecimila piante», spiegano. Il prezzo: duemila euro al chilo.

Cumuli di marijuana già essiccata in un magazzino a Nuoro, durante un sequestro dei carabinieri.

Foto: Giulio Rubino

Cumuli di marijuana già essiccata in un magazzino a Nuoro, durante un sequestro dei carabinieri

Cumuli di marijuana già essiccata in un magazzino a Nuoro, durante un sequestro dei carabinieri – Foto: Giulio Rubino

Una rete più ampia

È ottobre 2020 e alla fattoria Mandra di Dessì, nelle campagne toscane, Pasquale Buffa incontra il massaro e due narcotrafficanti albanesi. Non sanno che ad ascoltarli ci sono i carabinieri di Livorno. «Loro a Nuoro hanno bisogno di questa (la cocaina, ndr), noi qua abbiamo bisogno di questa (la marijuana, ndr)», spiega Dessì agli albanesi, perorando la causa di uno scambio tra le merci. Esattamente in questa direzione vanno anche gli orgolesi, che a fronte di un pagamento in cocaina sono disposti a fare un prezzo di favore: 180 mila euro per un quintale di marijuana, contro i 200 mila che chiederebbero in cambio di contanti.

La marijuana è particolarmente richiesta nel centro e Nord Italia e anche se né Dessì né gli albanesi hanno un mercato già avviato per la distribuzione a Livorno, possono contare su un «punto di riferimento a Milano» che poi «sparge dappertutto». Una persona che «anche 500 (chili, ndr) te li prende subito».

Un mese dopo Buffa fa arrivare 80 chili di marijuana che vengono stoccati nell’azienda di Dessì. Agli albanesi non viene detto subito, perché Buffa vuole prima trattare. Non è chiaro chi si farà carico di trasportare la cocaina fino in Sardegna e l’orgolese propone di dividere in parti uguali eventuali perdite dovute a sequestri o problemi nel trasporto.

Orgosolo visto dalle colline dove si coltiva marijuana.

Foto: Giulio Rubino

Orgosolo visto dalle colline dove si coltiva marijuana

Orgosolo visto dalle colline dove si coltiva marijuana – Foto: Giulio Rubino

Né possono molto le insistenti richieste degli albanesi di tirare giù il prezzo, dalle quali emerge un dettaglio importante. Buffa infatti spiega di non poter scendere oltre «perché la cosa non è solo mia», facendo intendere di far parte di un gruppo. Non una mafia, ma, spiegano fonti informate, una filiera che va dai coltivatori – che negli anni hanno avviato la produzione di marijuana in Sardegna – arrivando fino ai “moderni banditi” che si fanno carico di portarla fuori dall’isola, gestendo la logistica, i fondi e i rapporti con le organizzazioni criminali “in continente”: in testa le ‘ndrine calabresi e la criminalità albanese.

Il 5 novembre 2020, all’indomani dell’ultimo incontro nell’azienda di Dessì, uno dei due albanesi incrocia un posto di blocco mentre è diretto verso la riviera romagnola. Nel tentativo di scappare sperona un’auto, finendo a folle velocità fuori strada. A bordo dell’automobile, i carabinieri trovano 29 chili di marijuana divisi in cinquanta sacchetti termosaldati. Profumano ancora di macchia mediterranea.

Poco più di un anno dopo, la gip di Firenze Angela Fantechi firma un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Dessì e dei fratelli Buffa, i cui legali difensori, contattati da IrpiMedia e Indip, hanno preferito non rilasciare dichiarazioni.

CREDITI

Autori

Cecilia Anesi
Raffaele Angius

Editing

Giulio Rubino

In partnership con

Foto

Giulio Rubino

Mappe

Lorenzo Bodrero