#ArchiviCriminali
Elena Basso
C’è un processo italiano che riguarda un’intera generazione: decine di migliaia di ragazze e ragazzi eliminati, letteralmente fatti sparire da più di un regime militare. Giovani che credevano in un mondo diverso e che si sono opposti, a costo della loro vita, alla dittatura. Sono gli anni ’70 e il continente sudamericano è quasi interamente sotto il potere di regimi militari che promettono di portare ricchezza e di neutralizzare i “nemici interni”. Chiunque agisca per ribaltare le dittature o mostri ideali diversi è considerato un nemico dello Stato. E a chi va contro l’ordine prestabilito i militari riservano un piano preciso.
Prima catturano l’oppositore, distruggono i suoi beni e le sue foto, terrorizzano la sua famiglia e poi lo caricano su una vettura. Lo portano in un campo di tortura clandestino: ville, garage, caserme, sotterranei, appartamenti, possono essere ovunque e ufficialmente non esistono. Lì il dissidente deve essere disumanizzato: stupri di gruppo, pestaggi, scariche elettriche, figli torturati davanti ai genitori, pelle scorticata, violenze sessuali con animali, topi inseriti nella vagina.
Il sequestro può durare qualche giorno, mesi o anni. Poi il prigioniero viene liberato oppure, nella maggioranza dei casi, fatto sparire in una fossa comune, interrato nei campi di tortura o gettato ancora vivo in mare con i “voli della morte”. Un’intera generazione sparisce nel nulla: sono i desaparecidos.
Molte persone per sfuggire a queste barbarità si rifugiano in altri Paesi sudamericani, in Europa o negli Stati Uniti. Per catturarli, otto Stati (Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia, Brasile, Ecuador e Perù) decidono di coordinarsi e collaborare per trovare gli esiliati e catturarli. Nasce quindi, con l’appoggio degli Stati Uniti, l’Operazione Condor.
Molti dei militanti catturati e assassinati durante questa operazione sono italiani e proprio di loro e delle loro storie si occupa il cosiddetto Processo Condor. Iniziato nel febbraio del 2015 e conclusosi nel luglio del 2021 a Roma, è un maxi-processo con 33 imputati, gerarchi e militari cileni, uruguaiani, boliviani e peruviani e 43 vittime. Ma quali sono le storie dei desaparecidos italiani?
Horacio Campiglia: l’italo-argentino dirigente dei Montoneros interrogato da Galtieri
12 marzo del 1980, Rio de Janeiro, Brasile. Una delle città più belle del continente: famosa per la spiaggia di Copacabana, per il gigantesco Cristo che abbraccia la metropoli e per il suo carnevale. Mentre la vita scorre tranquilla fra le palme e le vie impregnate di salsedine, una donna urla all’aeroporto internazionale. Si dimena con tutte le sue forze, un cordone di almeno 20 soldati blocca lei e l’uomo con cui sta viaggiando. I militari cercano di arrestarli con violenza ma quella giovane donna si oppone. Tira gomitate, stringe la borsetta e con quella picchia in pieno viso i commilitoni. Infine urla alla folla indifferente, con tutta la voce che ha in corpo: «Io mi chiamo Monica Pinus e lui è Horacio Campiglia. Siamo due cittadini argentini e questi uomini ci stanno arrestando illegalmente».
Monica e Horacio hanno 27 e 31 anni e sono militanti dei Montoneros, organizzazione guerrigliera argentina. Lui è uno dei quadri politici più importanti del movimento: dirige il sistema di intelligence. Entrambi vivono da anni in clandestinità e viaggiano con documenti falsi: Horacio con il nome di Jorge Pinero e Monica con quello di Maria Cristina Aguirre. I due stanno viaggiando a Rio de Janeiro per incontrare il marito di Monica. Partono da Panama con il volo Viaza 344 e fanno scalo a Caracas prima di atterrare in Brasile. Monica ha i capelli scuri e lisci, con la riga sul lato destro. Le lentiggini sul naso e occhi molto grandi a mandorla. Horacio ha i capelli scuri e uno sguardo penetrante e sicuro. Il suo nome di battaglia è “Petrus”.
#ArchiviCriminali
I misteri intorno alla scomparsa di Mauro De Mauro
Battitore libero, geloso di fonti e del suo metodo d’inchiesta, il giornalista de L’Ora non è mai stato ritrovato. La campagna contro L’Ora e le piste che portano ai suoi nemici
Confessioni di un medico mafioso, storia del memoriale Allegra
Sepolto dal 1937 tra i faldoni di un archivio pubblico, De Mauro ne pubblicò degli estratti nel 1962. È il primo documento che racconta la mafia “dall’interno” e ha segnato il destino di mafia e antimafia
La leggenda dell’aiuto mafioso allo sbarco degli Alleati in Sicilia
Il mito è nato sulle colonne de L’Ora, lo stesso quotidiano che l’ha smontato cinque anni dopo. La prima puntata de #GliArchiviDelOra
Horacio ha la cittadinanza italiana ed è una delle vittime del Processo Condor. Come è possibile ricostruire grazie a un documento desecretato dagli Stati Uniti, e depositato agli atti del processo, i due militanti vengono arrestati durante un’operazione coordinata fra la polizia argentina e quella brasiliana. Monica e Horacio vengono sequestrati dal temibile Battaglione 601 dell’intelligence argentina guidato dal tenente colonnello Roman, arrivato a Rio de Janeiro con un C130 delle forze armate argentine, lo stesso aereo con cui in seguito Horacio e Monica vengono portati in uno dei campi clandestini di detenzione e sterminio più letali del Paese: Campo de Mayo, nella provincia di Buenos Aires.
Campo de Mayo è una base militare che si trova a 30 chilometri dalla capitale argentina. Si estende su una superficie di più di ottomila ettari e durante gli anni della dittatura argentina è uno dei centri clandestini più oscuri e terrificanti: oltre cinquemila persone sono detenute qui. Ne sopravvivranno solo 43. Da lì partono i “voli della morte” per far sparire i prigionieri, ancora vivi, nel mare e all’interno dell’ospedale militare vengono fatti nascere i bambini delle prigioniere incinta, poi rubati e adottati illegalmente dai militari.
Proprio a Campo de Mayo vengono portati Horacio e Monica. Della prigionia del dirigente Montonero esistono diverse tracce, come riferisce Maria Campiglia, figlia di Horacio, durante la sua testimonianza rilasciata il 17 marzo del 2016 nell’aula bunker della Corte d’Assise di Roma. Come si legge in un reclamo ufficiale presentato da un tenente argentino che in quegli anni opera a Campo de Mayo, Eduardo Francisco Stigliano, Horacio viene interrogato personalmente da Leopoldo Fortunato Galtieri, capo dell’esercito e allora presidente della dittatura argentina. Non capita certo tutti i giorni di vedere il presidente dentro un campo di sterminio ma Horacio è il quadro politico dei Montoneros più importante che sia stato catturato.
Il 15 settembre del 2016 nell’aula bunker di Roma si ascolta la testimonianza di Silvia Tolchinsky. Capelli canuti a caschetto, sguardo serissimo e tratti decisi, Silvia, militante dei Montoneros durante gli anni della dittatura argentina, è una delle 43 persone sopravvissute a quell’inferno chiamato Campo de Mayo. Conosceva personalmente sia Horacio sia Monica, di cui era cugina. La voce rimbomba nell’aula quando racconta che, durante la sua prigionia, ha sentito un militare raccontare di aver partecipato al sequestro avvenuto in Brasile di due militanti Montoneros raccontando dettagli precisi dell’avvenimento: le urla della donna e il fatto che si sia difesa picchiando i militari con la propria borsetta e urlando i loro nomi. Qualche tempo dopo viene riferito a Silvia da un altro soldato che i militanti catturati durante quell’operazione sono stati assassinati.
La deposizione di Silvia Tolchinsky, 15 settembre 2016
L’archivio del terrore in Paraguay
In Paraguay c’è un archivio. Migliaia di fogli, facce di giovani che ti guardano prima di andare a morire. Firme e dati, riferimenti e descrizioni. Comunicazioni fra i Paesi del Plan Condor per catturare e far sparire i militanti esiliati o di passaggio in altri Stati del Cono Sur, Stati Uniti ed Europa. Sono migliaia le schede dei prigionieri detenuti: oggi sono quasi tutti scomparsi. Stiamo parlando dell’“Archivio del terrore”, trovato a Lambaré in Paraguay grazie al coraggio di un maestro e di un giudice. Un numero enorme di comunicazioni avvenute fra i Paesi dell’Operazione Condor, che hanno reso possibile provarne l’esistenza e ricostruirne la struttura.
Quante fra le schede dei prigionieri ritrovate nell’“Archivio del Terrore” sono di cittadini italiani? Fra quelle migliaia di pagine ce n’è una in particolare.
Colpisce la foto in bianco e nero pinzata alla carta di una ragazza giovanissima. Indossa un foulard di seta con un disegno geometrico, lo porta annodato dietro la nuca e dalla stoffa fanno capolino alcuni ciuffi di capelli scuri. Alle orecchie luccicano grandi orecchini ad anello. Ha tratti bellissimi, occhi grandi, labbra carnose. Potrebbe sembrare una pubblicità se non fosse per il suo sguardo. Gli occhi scuri sono rivolti a un punto dietro la macchina fotografica, le labbra schiuse in un’espressione di angoscia e terrore.
Le due fotografie segnaletiche sono circondate dalle impronte della giovane e sotto si può leggere la sua firma in corsivo: Dora Marta Landi. Nata a Tandil, Argentina, il 18 marzo del 1955, Marta è una delle vittime del Processo Condor insieme al suo fidanzato Alejandro Jose Logoluso, nato nel 1956 nella città argentina di La Plata. Entrambi hanno origini italiane. Marta si trasferisce da Tandil a La Plata per studiare all’accademia di Belle Arti mentre Alejandro studia Agraria all’università della città. Entrambi sono militanti Montoneros e nel 1977 hanno 21 e 20 anni.
Il 29 marzo del 1977 Marta e Alejandro si trovano ad Asunción, città paraguayana, insieme all’argentino José Nell e agli uruguaiani Gustavo Edison Insaurralde e Nelson Scotto. Stanno cercando di acquistare cinque passaporti falsi con cui raggiungere il Brasile per poi rifugiarsi in Europa, quando vengono circondati e arrestati. Vengono lungamente e barbaramente torturati dalla Polizia “tecnica” paraguaiana che, venuta a conoscenza della loro militanza politica, informa le autorità militari argentine che vengono a prenderli con un aereo della Marina Militare il 16 maggio del 1977.
I fascicoli dell’Archivio del terrore hanno quasi tutti una struttura simile: nella prima pagina si ha la foto del detenuto con una breve descrizione del soggetto e dell’arresto (dove è avvenuto, cosa stava facendo mentre è stato arrestato e quando) e nelle pagine successive è trascritta la testimonianza del detenuto estorta sotto tortura. Nel fascicolo riguardante Marta si legge che il 16 maggio del 1977 su un aereo bimotore delle forze armate della Marina argentina con matricola 5-70-30-0653 guidato dal capitano di corvetta Jose Abdala viaggiano con direzione Buenos Aires i detenuti Marta Landi, Alejandro Logoluso, José Nell, Gustavo Insaurralde e Nelson Scotto. I cinque prigionieri vengono consegnati alla presenza del colonello Benito Guales e del capitano di fregata Lazaro Sosa al tenente Jose Montenegro e Juan Manuel Berret, entrambi appartenenti al Side, il servizio di intelligence argentino.
Nel fascicolo riguardante Marta si legge:
I prigionieri sono portati all’Esma, il famigerato centro di tortura e sterminio di Buenos Aires. Situata nella capitale argentina la Escuela de Mecánica de la Armada funge da scuola per la formazione degli ufficiali della Marina argentina. Protetta da un alto recinto l’Esma è una struttura molto grande: i palazzi imponenti ed eleganti sono circondati da alberi e vie lastricate.
IrpiMedia è gratuito
Ogni donazione è indispensabile per lo sviluppo di IrpiMedia
È difficile immaginarlo ma su quelle vie lastricate, fra il 1976 e il 1983, i corpi di oltre 5.000 detenuti sono trascinati, inermi, grondanti di sangue e incappucciati. Qui operano militari tristemente noti per le atrocità commesse: Alfredo Astiz, conosciuto come l’”Angelo della morte”, che partecipa al sequestro e sparizione del gruppo originario delle Madres de Plaza de Mayo, le madri di desaparecidos che sfidando la dittatura marciano da oltre 40 anni davanti al palazzo governativo; Adolfo Scilingo, il primo militare argentino a confessare – durante un’intervista al giornalista Horacio Verbitsky – l’esistenza dei “voli della morte”; il cappellano militare don Alberto Ángel Zanchetta che confessa i militari tornati dai voli con cui gettano i prigionieri vivi nell’oceano. La stessa sorte che, per quanto indicano le ricostruzioni fatte fino ad ora, è toccata a Marta e Alejandro.
Il 24 settembre del 2015 arriva nell’aula bunker di Roma Martín Almada, l’ex maestro che ha trovato l’“Archivio del terrore”. Nato in Paraguay il 30 gennaio del 1973 da una famiglia di umili origini, lavora tutti i giorni come venditore ambulante ma eccelle nell’ambito scolastico e nel 1963 riesce a laurearsi in pedagogia e nel 1968 in legge. Inizia un’intensa battaglia per migliorare l’istruzione in Paraguay a cui unisce una strenua lotta sindacale. Come testimonia davanti ai giudici italiani, nel 1974 viene arrestato dagli uomini del dittatore del Paraguay Alfredo Stroessner insieme alla moglie Celestina Pérez.
I due subiscono atroci torture e Celestina muore. Martín sopravvive ed è rilasciato tre anni e mezzo dopo. Nel settembre del 1992 dopo anni di studio e ricerca richiede un habeas data (cioè il diritto di poter richiedere e ottenere i dati esistenti sulla propria persona) per ricercare documenti nella caserma di Lambaré. Quando nel dicembre dello stesso anno il giudice José Agustín Fernandez ordina la perquisizione della caserma si trova di fronte a un enorme mole di documenti senza cui sarebbe stato impossibile ricostruire quello che è stato il Plan Condor. Senza la perseveranza di Martín che ha permesso di scoprire l’Archivio del Terrore non ci sarebbe stato nessun Processo Condor a Roma e le storie dei giovani italiani fatti sparire dalle dittature sudamericane non sarebbero state raccontate. Ma fra gli italiani del maxi-processo non ci sono solo vittime, c’è anche un torturatore: Jorge Nestor Troccoli.
La deposizione di Rossa Barreix, 20 ottobre 2015
Rosa riesce a sopravvivere e viene rimessa in libertà, ma non si scorderà mai del suo aguzzino, del suo volto e di quella voce roca. Quasi vent’anni dopo il suo sequestro, nel 1996, la faccia di Federico è sulle copertine di tutti i giornali uruguaiani. Si chiama in realtà Jorge Nestor Troccoli e un’inchiesta della rivista PostData lo identifica come uno dei militari che ha partecipato alla repressione degli oppositori al regime.
Rosa sa bene che è così: qualche giorno dopo la pubblicazione dell’inchiesta Troccoli scrive una lunga lettera a El Pais. Dal titolo “Yo asumo…yo acuso” (Io ammetto…Io accuso) la lettera è sconvolgente perché per la prima volta un militare uruguaiano ammette pubblicamente le torture, i sequestri, gli assassini e la desapareción degli oppositori alla dittatura. Si definisce un “professionista della violenza” e dice di aver agito come compete a una persona che svolge quel “lavoro”: trattando inumanamente i proprio nemici, ma senza odiarli.
La lettera di Troccoli è un fatto senza precedenti e in tutto il Paese, e non solo, non si parla di altro. Il militare decide perfino di scrivere un libro L’Ira del Leviatano, pubblicato l’anno successivo e depositato agli atti del Processo Condor, in cui ripercorre gli anni della dittatura dal suo punto di vista.
Quando il dittatore uruguaiano Juan María Bordaberry prende il potere Troccoli è un giovane militare al comando dell’S2, l’intelligence della Marina uruguaiana che ha il compito di reprimere i dissidenti. Una figura di spicco che non si limita a eseguire il proprio compito in Uruguay: come è possibile ricostruire dal suo fascicolo militare, nel 1977 viene trasferito in Argentina nell’ambito dell’Operazione Condor.
Sono diversi i testimoni che dichiarano di averlo visto all’Esma di Buenos Aires e dal momento del trasferimento Troccoli si dedica alla cattura dei militanti uruguaiani esiliati o di passaggio in altri Paesi. Il militare decide di ritirarsi dalla ribalta e vive anni di relativo anonimato fino a quando, nel 2007, la procuratrice Mirtha Guianze Rodriguez decide di aprire un processo contro di lui. Ma, come testimonia nell’aula Bunker di Roma durante la sua lunga dichiarazione il 20 e il 30 ottobre del 2015, quando invia un mandato a Troccoli le viene riferito dall’avvocato del militare che il suo assistito si trova in Brasile per lavoro. Non è vero: infatti nell’ottobre del 2007 Troccoli scappa e si rifugia in Italia, Paese di cui ha la cittadinanza grazie alle origini dei suoi avi.
Unico degli imputati del Processo Condor a vivere in Italia, è la prima persona accusata di essere un torturatore delle dittature sudamericane che vive nel nostro Paese a subire un processo portato avanti dalla giustizia italiana. Sono molti i testimoni che – come Rosa Barreix – volano fino a Roma per dichiarare di essere stati torturati da Troccoli o di averlo visto durante i loro sequestri.
Il 13 ottobre del 2016 davanti ai giudici italiani l’ex fuciliere rilascia una testimonianza spontanea durante la quale si dichiara estraneo ai fatti riguardanti l’Operazione Condor. Il 9 luglio scorso a Roma, sette anni dopo l’inizio del processo, viene emessa una sentenza storica. I giudici della Corte di Cassazione condannano all’ergastolo tutti gli imputati, fra cui Jorge Nestor Troccoli, arrestato la mattina del 10 luglio dai Ros di Roma a Battipaglia e incarcerato a Salerno. A poco è valsa la difesa dell’avvocato Francesco Guzzo, legale dell’ex fuciliere, che l’8 luglio è l’ultimo a dibattere in aula e che definisce l’imputato un «bersaglio».
La presidente della Corte, Maria Stefania di Tommasi, prende la parola: «Gli unici bersagli sono state le vittime del processo che con le loro dichiarazioni hanno fatto piangere tutti noi, anche lei avvocato Guzzo, ne sono sicura».