#GreenWashing
Carlotta Indiano
Fabio Papetti
Immaginiamo per un attimo di essere al mercato. Camminiamo per la piazza e vogliamo prendere delle mele biologiche, coltivate senza fertilizzanti o pesticidi che inquinano la terra e rovinano il sapore. Da un lato del mercato, ci sono produttori che vendono mele con il loro bollino ancora attaccato, mentre dall’altro ci sono produttori senza marchio, che si definiscono biologici. La differenza tra i prodotti si nota a occhio: le prime hanno una buccia lucida, perfetta; le altre sono ammaccate, con qualche bitorzolo qua è là.
Il bitorzolo è il nostro indizio: ci dice che quelle mele sono prodotte a chilometro zero. Ormai lo sappiamo, sono anche più saporite. La presenza di ammaccature, quindi, è per noi un criterio di selezione della frutta buona e senza pesticidi. Scegliere prodotti del genere ci fa mangiare sano evitando di alimentare un mercato che inquina.
Un giorno alla nostra bancarella di fiducia troviamo anche una cassa di mele dai colori più sgargianti, seppure un po’ ammaccate. Inizialmente le guardiamo con sospetto, poi ne acquistiamo qualcuna, facendoci convincere dal nostro contadino di fiducia. Tornati a casa prendiamo dalla busta una mela delle nuove, per addentarla: gusto quasi inesistente. Ce le hanno vendute insieme alle nostre mele preferite, ma il loro sapore non c’entra nulla. In bocca ci resta solo l’amaro di una grande delusione. L’ammaccatura era un bluff: sembravano biologiche, ma non lo erano davvero.
Ora immaginiamo che le mele ammaccate siano dei fondi di investimento sostenibili (green) su cui vogliamo investire per salvaguardare l’ambiente e guadagnare e che le mele un po’ ammaccate ma sgargianti siano fondi che, grazie a criteri non troppo chiari, si vendono come sostenibili quando in realtà lo sono solo in parte. Il rischio è di addentare una mela con qualche bitorzolo ma poco saporita.
Fuori dalla metafora, il rischio è quello di investire in fondi che sono parzialmente o per nulla verdi. È quello che sta accadendo oggi agli investitori nel mercato della finanza sostenibile a causa di un mercato ancora poco regolamentato, dove si vende sempre più di frequente l’illusione di investimenti sostenibili.
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La Grande inchiesta sugli investimenti verdi
Gli investimenti definiti come “verdi” stanno diventando sempre più frequenti. Solo in Europa, oltre quattromila miliardi di euro sono investiti in fondi commercializzati come “sostenibili” – quasi il 40% di tutti gli asset gestiti da fondi domiciliati nell’Unione europea. Ciò solleva una domanda: questi fondi sono davvero sostenibili come dichiarano o si tratta solo di un grande bluff verde?
La Grande inchiesta sugli investimenti verdi, in inglese The Great Green Investment Investigation, è un progetto coordinato da Follow The Money e Investico, in cui collaborano altre undici testate europee. L’inchiesta analizza i fondi definiti “verde scuro” (dark green in inglese) disponibili per gli investitori retail (risparmiatori, imprese, società, investitori non istituzionali, ndr) nei principali mercati europei come Paesi Bassi, Germania, Francia, Spagna, Lussemburgo, Belgio, Irlanda, Austria, Danimarca e Italia.
Nel grande mercato della finanza un investitore può scegliere di allocare una somma in denaro su uno o più fondi di investimento a seconda del proprio interesse personale ma lo scopo è solo uno: il rendimento. Ora immaginate di poter guadagnare e contemporaneamente salvare il mondo dal riscaldamento globale. Un obiettivo piuttosto ambizioso. C’è chi è convinto che l’investimento sostenibile e responsabile (nel gergo anglosassone Sustainable and Responsible Investment, SRI) sia in grado di influenzare il modello di sviluppo economico tanto da dirottare il denaro verso le tasche di aziende capaci addirittura di mitigare gli effetti del cambiamento climatico.
Almeno da un punto di vista di marketing, la cosa funziona alla grande. Oggi, gli investitori non sono preoccupati solo per i propri ritorni finanziari, vogliono anche avere la sensazione di tenere sempre a mente i problemi ambientali. Ma la realtà non è così semplice. In Europa, a giugno 2022, il 46,3% dei fondi definiti “verdi” investivano in aziende fossili e nel settore dell’aviazione (uno dei più inquinanti). Secondo il database messo a disposizione da Follow The Money, in Italia su 477 fondi “verdi” analizzati, 236 investono in fonti fossili (carbone, petrolio, gas) e nel settore dell’ aviazione.
Cinquanta sfumature di verde
Un fondo d’investimento si definisce responsabile se si impegna a comporre il proprio portafoglio di azioni e obbligazioni soltanto dopo aver valutato aziende o Stati su cui investire sulla base di tre direttrici: la dimensione ambientale (Environment), la dimensione sociale (Social) che include diversità e diritti umani, e la dimensione delle buone politiche (Governance) con cui si intendono politiche eque come i sistemi retributivi, o di trasparenza come le politiche anticorruzione. Queste tre componenti, che insieme formano la sigla ESG, caratterizzano i fondi di investimento sostenibili.
Oggi la domanda di prodotti ESG sul mercato finanziario è in crescita, come anche il rischio che il prodotto acquistato non sia realmente “verde”. Questo perché i criteri di sostenibilità – i bitorzoli e la vendita senza etichette, per intenderci – non sono ancora univoci e chiari a livello europeo. Se per le mele l’acquirente sa che le ammaccature e l’assenza di certi bollini sono un criterio per selezionare una mela biologica a chilometro zero, l’investitore in cerca di prodotti finanziari sostenibili ha meno indizi.
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Nel 2019 la Commissione europea prova a creare una cornice normativa per gli obiettivi ESG. Si chiama SFDR, Sustainable Finance Disclosure Regulation, e si inserisce all’interno del Piano d’azione per la Finanza sostenibile, lanciato a marzo 2018. Il piano comprende anche la Tassonomia europea e il Regolamento sui Low Carbon Benchmarks, ovvero gli indici di riferimento sulle emissioni di gas serra.
Il regolamento SFDR, che viene implementato solo a marzo 2021, ha l’obiettivo di introdurre informazioni obbligatorie e standardizzate sulle caratteristiche ESG dei prodotti di investimento e contrastare fenomeni di greenwashing finanziario. Identifica tre tipologie di fondi, anche se lascia ancora vaga la definizione di “investimento sostenibile”. Il primo è definito dall’articolo 6 e indica tutti i fondi che nel loro prospetto non prendono in considerazione parametri ambientali, sociali o di buone politiche quando si tratta di scegliere le aziende su cui investire. L’articolo 6 è quel bollino che ci fa identificare la provenienza industriale delle nostre mele brillanti.
Gli altri due tipi di fondi presentano diverse sfumature di verde: quelli inclusi nell’articolo 8 del regolamento prediligono caratteristiche ESG nel processo di scelta dell’allocazione delle risorse, e sono anche chiamati light green, mentre i fondi compresi nell’articolo 9, definiti dark green, sono caratterizzati dalla presenza nel proprio prospetto di specifici obiettivi di investimento sostenibile. Dark e light green, verde scuro e verde chiaro, sono le mele coltivate dal nostro contadino di fiducia che si presentano con una buccia più brillante del solito e una serie di ammaccature non troppo vistose. La differenza sostanziale tra le due tipologie di verde sta nel fatto che mentre gli investimenti verde chiaro promuovono le caratteristiche ESG, gli investimenti verde scuro hanno il dovere di contribuire attivamente agli obiettivi ESG. Quindi per questi ultimi esiste l’obbligo di verificare che le aziende e le attività su cui si investirà non indeboliscano o danneggino uno o più campi di sostenibilità ESG. Il principio di “non danneggiamento” è chiamato con la sigla inglse DNSH (Do no significant harm, “non produce danni significativi”).
Dalla data di implementazione della regolamentazione (marzo 2021), tutti gli enti che gestivano fondi di investimento sono stati obbligati a codificarli come appartenenti a uno dei tre articoli nella normativa, a seconda degli obiettivi di sostenibilità che si prefiggevano. Alla fine del 2021 i fondi classificati come articolo 8 o 9 hanno avuto una crescita esponenziale, fino a rappresentare il 42% dei fondi di investimento in Europa, pari a circa 4 mila miliardi di euro.
Nello stesso periodo le attività finanziarie legate ai fondi verdi sono cresciute quasi del 3%, raggiungendo i 4,3 trilioni, mentre le attività legate all’articolo 6 sono diminuite del 9,6%. La quota di mercato dei fondi articolo 8 e 9 continua ad aumentare e ha raggiunto il 53,5% a fine settembre. Parliamo di oltre 380 prodotti a cui le società di investimento hanno aggiornato la codifica da articolo 6 ad articolo 8.
Mele ammaccate
Percentuale di diffusione nell’Unione europea e in Italia dei fondi articolo 9 (che investono in società che producono energia da petrolio, gas o carbone) e dei fondi articolo 8 (che non investono in società che producono combustibili fossili)
In Italia a giugno 2022 la metà dei fondi articolo 9 ha investito in società che producono energia da petrolio, gas e carbone oppure in compagnie aeree. Il bilancio totale è di quasi 5 miliardi di euro. Questo trend è rispecchiato anche a livello europeo, con il 46,3% dei fondi dark green che investono nel fossile. Si tratta di 388 fondi di investimento su un totale di 838 analizzati per un totale di 8,54 miliardi di euro.
Secondo un report di ottobre della società di analisi finanziaria Morningstar, la trasparenza dei fondi e la coerenza con i principi di sostenibilità dell’investimento sono i principali punti critici nell’auto-assegnazione degli articoli. Sebbene il 95% dei fondi definitisi articoli 8 e 9 affermino di applicare il DNSH, la metà di questi rendiconta una percentuale minima di investimenti sostenibili e solo il 5% dei fondi totali ESG mostra nel proprio prospetto una strategia di investimenti sostenibili che ricopra almeno il 90% delle risorse in gestione. Ecco che adesso, tornando al nostro mercato contadino, vediamo sempre più mele sgargianti e poco saporite tra quelle ammaccate che ci piacevano tanto.
Opacità della norma
«Si è un po’ partiti a costruire la casa dal tetto invece che dalle fondamenta, nel senso che prima di obbligare il settore finanziario a fare determinate cose, bisognava rendere obbligatorio per le imprese, le aziende, ma anche gli Stati, rendicontare certi dati che ancora oggi si fa fatica a reperire». Secondo Roberto Grossi, vice direttore generale della società di gestione del risparmio Etica Sgr, ci vorranno alcuni anni affinché la norma possa effettivamente funzionare come previsto inizialmente. Non è l’unico esperto a pensarlo: l’idea che la Commissione europea per regolamentare il mercato della finanza sostenibile sia partita dal tetto e non dalle fondamenta è condivisa anche dalla Financial services and markets authority (Fsma), la Consob del Belgio.
Sulla possibilità di considerare gli investimenti nell’industria fossile e nelle compagnie aeree all’interno della diverse sfumature di verde, la stessa Commissione europea ha precisato che «l’SFDR è un regime di trasparenza (disclosure regime), non un sistema di etichettatura. In questo contesto, lo scopo dell’SFDR è quello di richiedere agli operatori dei mercati finanziari di divulgare tutte le informazioni relative alla sostenibilità dei prodotti finanziari, in modo che gli investitori finali possano decidere quali prodotti corrispondono alle loro preferenze. L’SFDR non prevede criteri di esclusione né stabilisce standard per quanto riguarda le caratteristiche dei prodotti».
«Diversi punti della norma sono torbidi e la regolamentazione è stata scritta in maniera molto concisa. È da questa brevità che nascono una serie di interpretazioni e quindi diversi modi di applicare le regole», spiega Roberto Randazzo, consulente finanziario e docente universitario presso il Politecnico di Milano. La SFDR è concepita come una dichiarazione di intenti e entrambi gli articoli che coprono gli investimenti sostenibili permettono diversi approcci a seconda del livello di ambizione delle società. «Dal sistema della due diligence (verifica e controllo, ndr) al concetto di DNSH, la norma non prevede un codice unico a cui tutti si devono attenere e questo genera squilibri tra chi applica [gli articoli 8 e 9] in maniera rigida e chi meno», continua Randazzo.
Per Hugo Gallagher, Senior Policy Adviser di Eurosif, un consorzio dei Forum nazionali per l’investimento sostenibile (SIF) alcuni dei concetti fondamentali dell’articolo 9 non sono sufficientemente sviluppati. Interrogato dal team di giornalisti investigativi ha spiegato che «si dovrebbe investire esclusivamente in investimenti “sostenibili” (così come previsto da un articolo della SFDR, il numero 2 comma 17, che secondo molti analisti lascia ampio spazio alle interpretazioni, ndr) ma gli obiettivi non sono chiari. Almeno il 25% dei fondi dell’articolo 9 dovrebbe probabilmente essere riqualificato come articolo 8 perché non soddisfa la condizione di “tutti gli investimenti devono essere sostenibili”».
Inoltre, nel regolamento non esiste una voce che indichi in modo obbligatorio come deve essere effettuato il controllo delle aziende su cui si investe. La vaghezza della norma porta i gestori dei fondi a fare controlli preventivi sulle attività in questione in maniera autonoma, dove ognuno prende in considerazione criteri diversi a seconda dello scopo che si prefigge. La stessa ESMA (European Security and Market Authority), ente di controllo europeo delle attività finanziarie, ha affermato in uno scambio di mail con i giornalisti del team che non è proibito a livello ufficiale investire nel fossile e dichiarare che si tratti di un investimento sostenibile, purché l’investimento si attenga al principio DNSH.
Quest’ultimo è definito attraverso il Principal Adverse Impact (PAI), un sistema composto da 18 indicatori – obbligatori solo per l’articolo 9 – per calcolare l’impatto positivo o negativo di un investimento. Un articolo del PAI, ad esempio, considera «l’esposizione a compagnie attive nel settore dei combustibili fossili» un indicatore negativo. Seppur già “scritto”, il PAI è ancora in fase di implementazione da parte degli Stati membri: per esempio, alcuni criteri diventeranno validi solo a partire da gennaio 2023. Nel frattempo sono in corso di validazione anche altre regolamentazioni per stringere ancora di più la presa sui fondi che deviano dalla propria missione verde.
Quest’aria di cambiamento sta provocando qualche effetto. Il gruppo assicurativo AXA, interrogato dal nostro team, ha infatti comunicato di voler declassare 47 fondi da dark a light green. Secondo il report di Morningstar, sono 41 i prodotti finanziari declassati da articolo 9 a 8 nel terzo trimestre del 2022. E si prevede che altri seguiranno il loro esempio nei prossimi mesi, quando verrà implementata la nuova normativa. Pochi giorni fa anche Reuters riportava che Amundi, una società di asset management controllata da Crédit Agricole, ha declassato cento fondi dall’articolo 9 all’articolo 8 per un valore di 45 miliardi di euro in asset.
Ad oggi, infatti, non ci sono regole che impongano una percentuale minima di sostenibilità a cui i fondi si devono attenere per essere categorizzati articolo 9. Come ci spiega il vice direttore generale di Etica Sgr, «dal primo gennaio il prospetto informativo di tutti i prodotti di investimento si va ad arricchire di una nuova sezione che sarà standard per tutte le società di gestione europee e sarà più facile confrontare un prodotto con un altro. Finora ognuno metteva le informazioni un po’ a modo suo».
A partire dal 2023, invece, i dark green dovranno aggiungere nel loro prospetto informativo un’indicazione rispetto ai loro investimenti con “obiettivi sostenibili”. Questi ultimi sono definiti dalla tassonomia verde (vedi box), che sarà ultimata solo nel 2024. Inoltre, per gli articoli 9, al momento non è prevista una “soglia di sbarramento” per quanto riguarda la percentuale minima di investimenti verdi nel proprio portafoglio. Per assurdo, quindi, potrebbe rientrare nella categoria anche un fondo di cui solo l’1% degli investimenti è in linea con gli obiettivi previsti dalla tassonomia.
La tassonomia verde
Per raggiungere gli obiettivi climatici che si è prefissata, l’Unione europea deve riuscire ad orientare efficacemente gli investimenti verso attività che possano essere considerate sostenibili. Per questo motivo, dal 2018 la Commissione europea ha lavorato alla redazione di una Tassonomia degli investimenti sostenibili, una lista verde che classifica tutte le attività produttive sulla base di sei criteri: adattamento al cambiamento climatico, protezione delle risorse idriche e marine, transizione verso un’economia circolare, prevenzione e controllo dell’inquinamento e protezione della biodiversità. Sulla base di queste linee guida, le aziende dovranno dichiarare quanto siano sostenibili le loro attività.
L’importanza della tassonomia sta nel fatto che potrebbe dirottare gli investimenti, sia pubblici sia privati, verso progetti sostenibili. L’uso della tassonomia è volontario ma sono sempre meno quelli disposti a investire su aziende e attività che l’Europa non considera verdi. Oltre al regolamento sulla tassonomia, entrato in vigore a luglio 2020, la Commissione ha pubblicato un primo atto delegato sulla mitigazione e sull’adattamento ai cambiamenti climatici valido da gennaio 2021 e un secondo atto delegato che è stato a lungo oggetto di scontro in Commissione, anche a causa dell’intensa attività di lobbying da parte delle aziende del settore fossile, che hanno cercato di far passare il gas e il nucleare come fonti di transizione. A luglio 2022 il Parlamento europeo ha approvato la proposta di atto delegato presentata dalla Commissione includendo gas e nucleare come attività transitorie nella tassonomia. Una vittoria per le lobby del gas e del fossile secondo numerose associazioni ambientaliste e per alcuni Stati membri, tra cui l’Austria, che il 7 ottobre 2022 ha formalizzato un ricorso alla Corte di giustizia europea per annullare l’atto delegato della Commissione.
Tassonomia sociale
La Tassonomia europea è parte della cornice normativa voluta dall’Ue per orientare gli investimenti verdi allo scopo di attuare l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. Tra molte polemiche, però, gas e nucleare sono stati inclusi all’interno della Tassonomia europea a partire dallo scorso luglio.
«Il modello ha iniziato a scricchiolare dal momento in cui, nonostante i pareri contrari dei gruppi di esperti che supportavano la Commissione europea, è stato deciso che alcuni settori – tanto per fare degli esempi espliciti gas e nucleare – erano compatibili con la tassonomia green», sostiene Roberto Grossi di Etica Sgr. Nonostante la Tassonomia europea non sia vincolante, infatti, la lista green e la SFDR si intersecano. Per Randazzo «la tassonomia rappresenta la pietra angolare del sistema perché definisce che cosa sta dentro e fuori dal mondo ESG». In sintesi: se non sei allineato non ricevi i soldi dalle banche. Ma nella tassonomia non c’è solo l’aspetto ambientale. La Commissione europea, infatti, sta lavorando a un nuovo regolamento di cui si è persa totalmente visibilità da mesi: la tassonomia sociale.
«Adesso la filiera della finanza etica si è concentrata molto sul binomio green-non green e su come affrontare il tema dell’impatto ambientale, ma non possiamo dimenticarci degli aspetti sociali, men che mai in un momento di transizione come questo», dice Roberto Grossi. Le fonti di energia che sono state scelte per essere la nuova speranza verde, infatti, presentano diverse problematiche non solo a livello di impatto ambientale. Il fatto che l’aspetto sociale è trascurato dalla tassonomia lo dimostra il Principal Adverse Impact (PAI) stilato dalla Commissione europea: solo quattro indicatori su 18 specificano cosa un fondo dovrebbe verificare per non avere impatti negativi a livello sociale: stipendio uguale per tutti i lavoratori e lavoratrici, diversità di genere, esposizioni a settori bellici controversi (mine antiuomo, armi chimiche e batteriologiche e munizioni a grappolo) e violazioni sociali nei Paesi in cui si investe.
«Ciò che manca nella finanza di oggi è la considerazione dei conflitti sociali presenti nei siti di estrazione di materiali necessari alla transizione, come l’uranio», conclude Grossi.
Proprio per ottemperare ai problemi legati agli investimenti sulla filiera, la Commissione sta studiando due ulteriori normative che andranno a integrarsi al Piano di azione per la finanza sostenibile. La prima è la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), votata al Parlamento europeo il 10 novembre scorso. L’obiettivo della direttiva è eliminare le ambiguità nella rendicontazione delle società di investimento. Le informazioni sulla sostenibilità entrano nella parte iniziale del bilancio annuale e devono essere trattate con lo stesso grado di rigore delle informazioni finanziarie.
L’altra direttiva, operativa dal 2025, è la Corporate Sustainability Due Diligence (CSDD), al momento ancora in fase di consultazione. Mentre la CSRD renderà obbligatorio per le società pubblicare obiettivi e politiche di sostenibilità, la direttiva CSDD «obbligherà non solo i grossi gruppi finanziari come le banche e le società di assicurazione, ma tutta la filiera ad adattarsi ai principi dei diritti umani», sostiene Randazzo. Secondo il professore del Politecnico sarà questa la norma «veramente rivoluzionaria» perché si occuperà di tutta la catena produttiva. La sua speranza è che sia in grado di normare anche le aree grigie che offuscano la transizione verde.
Al momento non c’è però da essere ottimisti: nel mercato finanziario le mele ammaccate troppo spesso nascondono un bluff.
CREDITI
Autori
Carlotta Indiano
Fabio Papetti
Editing
Lorenzo Bagnoli
Giulio Rubino
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