Da StraBerry a UberEats: il naufragio di Ousmane Sacko
Richiedente asilo, in Italia ha accettato qualunque vessazione pur di un guadagno. Ora è indagato per caporalato nella vicenda StraBerry e fa il rider per UberEats, altra azienda sotto inchiesta

9 Settembre 2020 | di Lorenzo Bagnoli

«Non posso lasciare». Nell’arco di un’ora, Ousmane Sacko, classe 1990 dalla Guinea, lo ripete quattro volte. Sono le 21:15 del 3 settembre, nella periferia Nord di Milano. Il tram che trotta lento alle spalle, è la colonna sonora alle sue parole. Professione lavoratore invisibile, Sacko è rientrato da meno di due ore da Cassina de’ Pecchi, 30 chilometri di distanza, dove lavora. Ha appena liberato i fantasmi che abitano le sue infinite giornate che scorrono tra il centro di accoglienza per richiedenti asilo dove vive e i campi di Cascina Pirola, raccontando i travagli del suo quotidiano. L’azienda agricola per la quale lavora vende parte della frutta che produce con il marchio StraBerry, che da inizio agosto è noto in tutta Italia per un procedimento per “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, conosciuto volgarmente come caporalato.

Ousmane Sacko è tra i sette indagati dalla Guardia di finanza, accusato di essere il tramite del padrone dell’azienda con i braccianti, un collaboratore dei caporali. «Nessuno può dire mai che l’ho insultato», dice, scandendo ogni parola con un movimento scattoso, quasi a tagliare l’aria con l’indice. «Io non ho mai deciso niente», rinforza il gesto usando entrambe le braccia, che partono incrociate all’altezza del ventre. Risulta però essere uno dei controllori, in diretto contatto con la direzione. Questo lo rende agli occhi dell’accusa uno dei partecipanti all’associazione che avrebbe commesso il crimine.

StraBerry va a fondo con i sogni di Ousmane

La notizia è stata resa pubblica il 24, ma già dal 7 agosto i finanzieri del Comando Provinciale di Milano avevano sequestrato 53 immobili, tra terreni e fabbricati; 25 veicoli e tre conti correnti dell’azienda agricola Cascina Pirola: valore complessivo stimato oltre 7,5 milioni di euro. I militari hanno trovato nei campi circa 100 lavoratori, prevalentemente richiedenti asilo che stavano nei centri di accoglienza straordinaria, pagati a 4,5 euro l’ora, quando il contratto nazionale prevede 7,5 euro. Le norme anti Covid, come indossare le mascherine e mantenere un distanziamento minimo, non erano rispettate. I fitofarmaci – «medicine», come le chiamano i braccianti durante gli interrogatori – secondo i riscontri dei finanzieri era sparsi senza che i lavoratori conoscessero esattamente la pericolosità dei prodotti utilizzati, né indossassero i dispositivi di protezione personale richiesti per legge. Inoltre sono stati sequestrati 27mila barattoli di marmellata esposti al sole e quindi conservati non secondo quanto prescrive la legge.

L’amministratore giudiziario Vincenzo Paturzo ora deve cercare di ricostruire le giornate lavorative dei braccianti, molti dei quali stagionali, per pagar loro quanto dovuto. Sta cercando di salvare un’azienda che aveva buoni margini di profitto, seppur, secondo la procura, non pagasse i suoi dipendenti. Con l’amministrazione precedente, secondo la ricostruzione dei finanzieri di Gorgonzola che hanno svolto le indagini, le buste paga erano calcolate in modo da rispettare i limiti imposti dalla legge, ma le ore lavorate erano molte di più, come minimo 2,5 in più al giorno. Il ricambio tra i dipendenti era molto veloce e una persona poteva essere allontanata senza alcun motivo, solo perché Guglielmo Stagno D’Alcontres, l’amministratore e proprietario (insieme alla madre) dell’azienda, non era soddisfatto del lavoro svolto. Bocconiano fresco di laurea, famiglia nobile con importanti collegamenti con la politica, Stagno D’Alcontres è passato dall’essere esempio di start-up innovativa, presunto sfruttatore tradizionale, che basa i suoi profitti sull’oppressione dei lavoratori.

Per l’amministratore giudiziario incaricato dal Tribunale c’è da gestire il contraccolpo che ha avuto il sequestro sui clienti, sia privati, sia soprattutto catene della grande distribuzione.

Non è chiaro quanto possa durare la parentesi di amministrazione giudiziaria. Fino a ottobre la proprietà può fare ricorso sul sequestro e potrebbe cercare di recuperare l’azienda. Oppure potrebbe vendere: ci sono aziende che sarebbero già pronte, una volta risolta la pendenza giudiziaria, a subentrare nella proprietà. La terza opzione è che la giustizia prenda la strada ordinaria, il che può richiedere anche anni prima che si concluda. La prospettiva spaventa Gianfranco Venturini, segretario regionale Flai Cgil, perché farebbe andare per le lunghe questa fase transitoria, con il rischio di fare fuggire eventuali investitori interessati.

Ousmane e Guglielmo

«Io sono il capo del personale. Enrico ora è il capo dell’azienda». Seduto sulla panchina traballante di un parco giochi ormai buio, Ousmane Sacko spiega orgoglioso qual è il ruolo all’interno dell’azienda commissariata. “Enrico” è Enrico Fadini, altro indagato che come Sacko continuerebbe a lavorare con l’azienda. «È malato da due settimane, quindi devo andare a lavorare anche sabato e domenica, per dare una mano», aggiunge Ousmane.

I lunghi orari e la mancanza di riposo settimanale non lo spaventano, per quanto da quando l’amministrazione è stata commissariata, i turni nei weekend sono eccezionali. Semmai sono gli accordi non rispettati a preoccuparlo. L’ultima busta paga che ha in mano è di aprile: «netto a pagare» 867 euro. Il suo contratto stagionale è in scadenza a fine mese. Il «reddito previsto annuo» è di 9.297,51 euro. Quella cifra è previsionale perché le giornate di lavoro vengono in realtà conteggiate dalle aziende solo dopo quattro mesi e sono numerosi i casi in cui alla fine le giornate dichiarate dai datori di lavoro sono molto meno di quelle che i braccianti sostengono di aver fatto. È il sistema del «lavoro grigio». Secondo ciò che dice Ousmane Sacko, anche lui si troverebbe in questa situazione.

Sacko inizia la conversazione così: «Prima eravamo trattati come schiavi. Il capo Guglielmo non ci pagava». Guglielmo è Guglielmo Stagno D’Alcontres, l’amministratore della StraBerry. Dalle ricostruzioni della Guardia di finanza, emerge come una figura che usava intimidazione e insulti per mantenere un «“regime del terrore” imperniato su un controllo pressante dell’operato dei lavoratori di origine africana». Ogni testimonianza raccolta dall’ordinanza, riporta storie di persone che da un giorno all’altro sono state lasciate a casa e straordinari non pagati. In una conversazione intercettata di inizio giugno, il proprietario di StraBerry si esprime così: «Con loro devi lavorare in maniera tribale, come lavorano loro, tu devi fare il maschio dominante [ride] è quello il concetto, io con loro sono il maschio dominante». Più avanti: «Sono più orgoglioso di avere inventato StraBerry che avere questi metodi coercitivi, chiamiamoli così, nei loro confronti! Ma sono i metodi con i quali bisogna lavor…».

Secondo quanto emerge dalle indagini, la possibilità di essere pagati o continuare a lavorare in StraBerry, dipende solo dai capricci di Stagno D’Alcontres. Sacko e Fadini sono definiti nel decreto di sequestro «addetti alla sorveglianza dei braccianti». Sono gli esecutori degli ordini del Capo, in diretta comunicazione con il superiore. Fadini emerge come il primo “vice”, Sacko è l’ultimo anello della catena dei sorveglianti. I metodi di entrambi, comunque, non sembrano gli stessi di Stagno D’Alcontres, a giudicare dai racconti depositati dai migranti. Gli insulti apostrofati da Fadini erano meno frequenti. Mentre Sacko, dichiara un testimone ai finanzieri «si segna quante fragole raccolgono i lavoratori, gira per tutta l’azienda e controlla, ti dice di fare bene le fragole, di pulire bene, di fare veloce e segna tutto. Lui è gentile ma comunque ha il compito di controllare il lavoro e se il lavoro non va bene ti fa fare pausa». “Pausa” nello strano gergo di Cascina Priola voleva dire non venire al lavoro. Le pause per mangiare o andare in bagno, invece, non erano praticamente previste. I servizi igienici sono stati introdotti solo con l’amministrazione giudiziaria, riportano i sindacalisti della Flai.

«Guglielmo mi chiedeva di controllare tutto. Chi non lavora deve andare a casa, diceva», conferma Sacko. Una volta compreso il compito che gli era stato impartito, Sacko dice di averlo gestito come meglio sapeva fare, perché aveva bisogno di lavorare bene, di guadagnare, di mantenersi. Lontano da qualsiasi logica di “diritti dei lavoratori”, Ousmane si adatta, trova la soluzione ai suoi problemi aumentando il suo impegno sul lavoro. «Io conto le scatole di fragole. Mi dici quante ne hai fatte, io controllo. Se tutto giusto, per me a posto così». Quando invece qualcosa non tornava, Sacko lo diceva. Dalle intercettazioni, si desume che il principale lo teneva in considerazione e si fidava di lui.

Questo, replica però Sacko, non significa che il rapporto fra i due non fosse complicato. Il bracciante della Guinea racconta anche lui di essere stato offeso da Stagno d’Alcontres e soprattutto di non essere stato pagato, esattamente come i suoi colleghi. Quando a inizio dicembre 2019 Stagno D’Alcontres gli ha detto che non gli avrebbe riconosciuto dieci giorni di lavoro, Sacko ha lasciato l’azienda: «Dal 6 dicembre 2019 al 7 aprile 2020», ricorda. È rientrato, dopo aver discusso con Stagno D’Alcontres, con un contratto stagionale, in scadenza il 30 settembre.

«Guglielmo mi ha fatto male, ma je le remercie, lo ringrazio – dice in un misto tra italiano e francese Sacko -. Quello che so fare me l’ha insegnato lui. Anche se ho perso soldi, non è un problema. La salute non mi manca, posso recuperare. Posso lavorare da qualche altra parte. Ho sempre un curriculum nello zaino, cerco sempre lavoro. Non posso stare sempre con Guglielmo».

Nei mesi in cui ha lasciato Cascina Pirola, infatti, seguendo la filosofia del «per me è meglio un uovo oggi che una gallina domani», ha iniziato a fare il lavoro più semplice possibile per un richiedente asilo: il rider. «Ho lavorato e lavoro ancora oggi per Uber [Eats]. ». Tra dicembre 2019 e marzo 2020 è stata la sua unica fonte di guadagno. Oggi è il suo secondo lavoro, almeno fino al termine di settembre, dopo Cascina Priola.

Vita da rider

Era sempre disponibile a qualunque chiamata. Lavorava tanto. Il lockdown, per lui, è stata una benedizione: racconta che le consegne erano pagate anche cinque euro, a cui diversi clienti aggiungevano la mancia. Si è semplicemente collegato alla app e ha cominciato a lavororare, in sella alla sua bici. Lo fa ancora oggi, quando riesce ad arrivare a casa per le 19: «Mi faccio una doccia, esco alle 19:30. Lavoro anche due ore, mi va bene. Poi vado a dormire».

Quasi nello stesso momento in cui Ousmane Sacko cominciava a fare consegne, la procura di Milano ha aperto un’inchiesta a carico della società Uber Italy, il ramo italiano del colosso che si occupa di marketing e consulenza del settore dei trasporti. Da qui è nato un procedimento, tuttora in corso, in cui l’azienda è coinvolta con alcuni manager e dipendenti, oltre che con un suo fornitore di servizi. Il 28 maggio, il Tribunale ha inoltre emesso un decreto per il sequestro di Uber Italia, società costituita a Milano nel 2012. L’accusa è caporalato digitale.

L’ingresso in Italia del colosso nato a San Francisco non è stato per niente semplice. Il tentativo di entrare nel mercato dei taxi è naufragato malamente a seguito di numerose controversie legali, sintetizza il decreto del Tribunale di Milano. Così nel 2016 tenta la strada del food delivery.

Il foglio che delle agenzie di fattorini hanno fatto firmare ai rider per poter lavorare. Prevede un prezzo fisso di 3 euro a consegna, nonostante la regola sia che più è lontana la consegna, più alta è la paga

Ci sono due modi per entrare nella flotta dei rider. Il primo è attraverso la app stessa, come ha fatto Sacko. Fino al 2018 era l’unico metodo: ci si collega, si caricano i propri documenti, ci si presenta in ufficio da Uber per verificare che tutto sia corretto e imparare a usare la app, poi si è indipendenti. Dall’inizio del 2018, però Uber Italy ha firmato accordi con fornitori di servizi: agenzie di pony express e fattorini.

Uno di questi fornitori, insieme al ramo italiano di Uber, a maggio è finito all’interno di un’inchiesta della procura di Milano che come primo effetto ha avuto il commissariamento di Uber Italy. Su indicazione dei committenti, ritiene la Procura, queste agenzie sfruttavano i propri fattorini con paghe da fame. Erano infatti costretti a firmare un foglio di carta in cui accettavano che la paga fosse 3 euro a consegna, nonostante il sistema della app, in realtà preveda un calcolo differente a seconda della condizione e della distanza della consegna.

Come funziona il sistema dei pagamenti

Di norma, se non ci sono agenzie che intermediano, è Uber direttamente a pagare i fattorini. Il sistema funziona così: Uber Portier Bv, la società che controlla diversi rami di Uber settore food delivery dall’Olanda, e Uber Eats Italy srl, la società nata nel 2019 per fornire agli esercizi commerciali la piattaforma tecnologica in Italia, siglano un contratto con i ristoranti. A quel punto, il ristorante riceve una macchina simile a un Pos a cui arrivano gli ordini fatti dalla app di Uber. Il ristorante si occupa solo di preparare il cibo. I rider si presentano con un codice, che corrisponde all’ordine. Una volta preparato, i rider partono per la consegna, con in mano uno scontrino con la dicitura “corrispettivo non riscosso”. Infatti il pagamento dell’ordine è fatto dal cliente finale a Uber, tramite carta di credito. Quel corrispettivo viene trattenuto per il 26% dall’azienda tecnologica come costo per l’app e per la consegna. Il restante 74% viene girato al ristorante. Il fattorino verrà pagato direttamente da Uber, ma dovrà emettere fattura al ristorante per il servizio effettuato.

Per rinforzare ulteriormente il loro controllo sui rider, l’indagine ha rivelato che l’agenzia di fattorini chiede a Uber di bloccare l’accesso all’applicazione a certi fattorini da punire, impedendo loro di lavorare. Come nel caso di StraBerry, la misura viene adottata – stando alla ricostruzione del Tribunale – in maniera spesso arbitraria e vessatoria. A questo si aggiunge un sistema di penalità, con conseguenti riduzioni della paga, per chi non ha rispettato certe disposizioni. In particolare è previsto che chi non prende le consegne nei termini richiesti da Uber – accettazione superiore al 95% e cancellazione inferiore al 5% – abbia una penalità di 50 centesimi a consegna. Racconta uno dei fattorini ascoltati durante l’indagine che l’intermediario di Uber per cui lavorava «mi corrispondeva, ogni due settimane, un compenso pari a 90 o al massimo 150 euro, in genere effettuavo 30 consegne e quindi ricevevo 90 euro ogni due settimane, o nel caso ne facessi 50 di consegne arrivavo a ricevere anche 150 euro ogni due settimane».

Negli anni è emerso che alcune piattaforme a seconda del tasso di ordini non presi in carico e della disponibilità concessa dai singoli rider calcolano rating e ranking: chi ha valori alti in questi due indici si può aggiudicare le ore migliori, mentre agli altri restano le briciole. Il sistema, inevitabilmente, droga il mercato: spinge sempre di più a stare connessi e prendere qualunque ordine, nella speranza di riuscire a ottenere un punteggio con cui ottenere poi le consegne più lucrose. Ma la verità è che per la maggior parte dei rider quella è solo una chimera. In sostanza, si crea un sistema di finta meritocrazia dove va avanti solo chi lavora sempre, in qualunque condizione, a qualunque costo.

La definizione - Gig economy

La traduzione italiana è “economia dei lavori occasionali”. È quel modello economico che si è fatto strada grazie al progresso tecnologico da un lato e l’assenza di contratti di lavoro dall’altro per cui i freelance mettono a disposizione del tempo per fare piccoli lavori a quali si corrisponde un piccolo compenso.

Per il sindacato, i lavoratori più difficili da raggiungere sono richiedenti asilo o migranti irregolari che hanno bisogno di guadagnare qualcosa. «C’è una certa diffidenza», secondo Mario Grasso, sindacalista Uiltucs Networks, la sigla che si occupa degli impiegati nel settore informatico. Chi viene da contesti dove non esiste la cultura europea del lavoro è più facile che caschi nel tranello della promessa “più lavori, più guadagni”. Ousmane Sacko ne è l’esempio: per lui il problema non era quello della paga. È dovuto tornare a Cascina Priola, da Guglielmo Stagno D’Alcontes «perché Uber non fa contratti». In caso la sua domanda di asilo vada male, infatti, deve trovare il modo di avere un contratto di lavoro attraverso cui ottenere un permesso di soggiorno. Altrimenti rischia di diventare invisibile due volte.

Invisibile due volte

In precario equilibrio sulla panchina, con un gruppo di ragazzi in sottofondo alla disperata ricerca di un pacchetto di sigarette, Ousmane Sacko entra nel capitolo del suo racconto dedicato a come sia arrivato in Italia. «È una storia un po’ lunga», premette. Figlio di una famiglia benestante, Sacko si ritrova con la vita distrutta quando nel 2009 il padre, «che si occupava di politiche agricole», viene ucciso. Non fornisce altri dettagli, se non che a un certo punto i fratelli di suo padre si sono appropriati del pezzo di terra nel quale Ousmane aveva cominciato a lavorare. Lascia il suo Paese per cercare di guadagnarsi da vivere in Mali, dove le cose vanno a rilento. Dal Mali, nel 2012, si lascia abbindolare dalle sirene dell’Europa, sapendo che alle spalle non gli resta ormai più nulla.

Intanto, in Guinea, lascia due figli da sfamare: le «responsabilità» che scorrono, carsiche, sotto il suo flusso di coscienza e che nomina ogni tanto, con un tremore alla voce. Segue così un amico in Libia, dove lavora come commerciante per qualche mese, prima di finire in una prigione, cioè un centro per migranti. Passano cinque mesi prima che un certo Aziz lo riscatti. È una pratica diffusa, con il quale si crea un debito tra chi ha pagato la liberazione di un migrante e il migrante stesso, il quale così deve lavorare, senza paga, fino a quando quel debito, agli occhi del pagatore del riscatto, non è esaurito. Quel giorno arriva nel marzo del 2017: «Puoi tornare in Guinea – Ousmane ricorda che Aziz gli ha detto così -. Oppure, se vuoi, posso aiutarti ad andare in Europa». Ormai l’allora 27enne guineano si sogna altrove, così s’imbarca. Passa tre giorni in mare, non sa né chi lo salva, né dove approda. Il primo posto che ricorda in Italia è l’hotspot di Trapani, perennemente sovraffollato. Il Viminale organizza così dei pullman per ricollocare i richiedenti in regioni disposte a farsene carico: Sacko viene portato così a Milano.

Ha cercato di inserirsi fin da subito, ma la Commissione territoriale, l’organismo ministeriale preposto a valutare le richieste d’asilo, nel 2018 gli dà il diniego. Fa appello e da allora, insieme al fantasma del lavoro, lo attanaglia anche quello dei documenti. Appena ha saputo che in estate era in corso la regolarizzazione dei braccianti, attraverso la quale era possibile ottenere un permesso di soggiorno, ha provato a chiedere a Stagno D’Arcontes, il suo datore di lavoro a StraBerry, di percorrere quella strada. Dice che il proprietario non si è reso disponibile, ma quello che non sa è che anche volendo, Stagno D’Alcontres non avrebbe potuto farlo. Per fare una regolarizzazione c’è bisogno che un datore di lavoro denunci il proprio dipendente in nero. Ma il contratto di Ousmane è regolare. In quanto richiedente asilo, infatti, ha i documenti in regola e la facoltà, se trova un impiego, di lavorare. Tutto questo però può interrompersi bruscamente nel caso in cui la richiesta d’asilo venga respinta. Non è possibile infatti, per un richiedente asilo con un contratto, trasformare i suoi documenti in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Il fallimento della regolarizzazione

La regolarizzazione dei braccianti, per i sindacati, è stata un enorme fallimento. A partire dai numeri: quando è stata lanciata, lo slogan era combattere il caporalato e garantire che i migranti sul territorio che volevano partecipare alla stagione della raccolta di frutta e verdura potessero farlo in piena legalità. Con la chiusura dei confini per il Covid, il timore, rivelatosi infondato, era che mancasse manodopera nei campi.

Alla fine dei conti (la regolarizzazione si è chiusa il 15 agosto) su 207.542 domande inviate, solo il 15% hanno riguardato braccianti. Il restante 85% riguardava colf e domestici, categorie alla quale è stato aperto solo in un secondo momento. Nessun altro poteva inviare domanda di emersione. Un secondo canale permetteva a chi aveva il permesso di soggiorno scaduto da poco, di farselo rinnovare. Sempre a patto che fosse impiegato in questi settori: «Con queste restrizioni, il risultato che si ottiene è parzialissimo», commenta Maurizio Bove, sindacalista Cisl che, tra le varie cariche, è responsabile del Dipartimento immigrazione per Milano Metropoli. «Le circolari ministeriali (con i quali il Ministero chiarisce dubbi operativi a regolarizzazione in corso, ndr) sono arrivate tardissimo. Ancora oggi, a regolarizzazione chiusa, non è stato specificato quale sia il costo per il datore di lavoro», aggiunge.

Maglie tanto strette e chiarimenti in ritardo hanno dato il via al solito spettacolo delle regolarizzazioni. «Sono sempre contrario, ma a questa in modo particolare – aggiunge Bove – perché ha tagliato fuori moltissime persone e ha spinto la legittima disperazione di chi ha cercato di trovare altri modi per potersi regolarizzare». I casi virtuosi sono quelli di datori di lavoro di esercizi commerciali che hanno fatto licenziare i loro dipendenti per assumerli come collaboratori domestici, regolizzarli e poi assumerli per il loro vero lavoro. Nei casi peggiori di cui hanno avuto notizia alla Cisl, invece, ci sono stati lavoratori che hanno pagato fino a seimila euro dei centri servizio finti.

Per quanto gli addetti ai lavori se l’aspettassero, il ministero ha chiarito solo molto tardi che i richiedenti asilo non potevano partecipare alla regolarizzazione. La loro situazione è paradossale, secondo Maurizio Bove, sindacalista della Cisl che si occupa di immigrazione a Milano: dall’introduzione dei cosiddetti Decreti Sicurezza, i provvedimenti legislativi voluti da Matteo Salvini per limitare la presenza degli irregolari, è vietato convertire il permesso per richiedenti asilo in permesso di lavoro, seppur ai richiedenti asilo sia concesso di lavorare e in qualche caso i datori sarebbero anche disposti ad assumere. Per Bove è un danno doppio: un’azienda si trova a investire, per anni – perché questi sono i tempi delle decisioni delle Commissioni territoriali – su una persona, farla crescere, insegnarle un mestiere, per poi trovarsela d’improvviso sprovvista di documenti, irregolare, con un foglio di via in mano.

«Il mio nome lì dentro, ah! Mi fa male la testa. Non so come fare», ripete tra sé e sé Ousmane Sacko, ripensando al procedimento per commissariare StraBerry. Il male è la conseguenza dei fantasmi che si appalesano. Il pensiero a tutto ciò che ha passato per farcela, lo divora. Lo si capisce dai tic, da come si torna ossessivamente su certe parole, dall’ostentata risolutezza con cui si descrive sul lavoro, quasi fosse a un colloquio per un nuovo impiego.

Sa che l’essere iscritto al registro degli indagati è un problema per la Commissione territoriale, verso la quale la sua posizione già non è semplice, visto che il Paese dal quale proviene non è in guerra. Se anche l’appello dovesse andare male, senza un permesso di soggiorno, dovrà per forza diventare invisibile, per cercare di sfuggire ai controlli della polizia. Mentre ora è invisibile come lavoratore, al quale ci si può permettere di non riconoscere nessuno dei suoi diritti, senza un permesso di soggiorno diventa immediatamente un criminale.

Ousmane Sacko prende la strada per il centro di accoglienza per qualche ora di riposo. L’indomani si alzerà come tutte le mattine per andare al lavoro.

Infografiche: Lorenzo Bodrero | Editing: Giulio Rubino | Foto: Elaborazione IrpiMedia su immagini tomaskju/PxHere e straberry.it

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