28 Maggio 2021 | di Holly Pate, Charlotte Norsworthy (The Outlaw Ocean Project)
Il vuoto politico dei negoziati europei
di Lorenzo Bagnoli
Con la morsa della pandemia che comincia ad allentare, gli sbarchi in Italia hanno ripreso a saturare il dibattito pubblico. Al 26 maggio, gli arrivi sono stati 13.766, quasi il triplo di quanto registrato nei cinque mesi gennaio-maggio nel 2020. Per quanto l’incremento sia significativo, negli anni di massima pressione migratoria, tra il 2014 e il 2017, gli sbarchi sono andati sotto i 120 mila all’anno, cifre lontanissime dalle proiezioni attuali. Se c’è stato un problema, oggi come allora, non si è consumato tanto nell’atto del salvataggio in mare (per altro sotto il governo guidato da Enrico Letta, nel 2013, l’Italia aveva lanciato la prima e unica missione umanitaria condotta da una marina militare, Mare Nostrum, rievocata in questi giorni da qualche esperto) quanto nella gestione successiva, tra inesistenti meccanismi di ripartizione delle quote dei richiedenti asilo tra gli Stati europei e una cronica mancanza di visione comunitaria sulla gestione del fenomeno migratorio.
Sarebbe scorretto dire che da allora non è cambiato nulla: oggi esistono possibili ricollocamenti stabiliti con accordi bilaterali che hanno permesso, come dichiarato dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese a Repubblica il 23 marzo, «di trasferire in Europa 987 richiedenti asilo, l’89% degli sbarcati in Italia sulla cui ricollocazione hanno dato la loro disponibilità alcuni Paesi membri a noi più vicini, come la Francia, la Germania, la Spagna e il Portogallo». Non è però cambiata l’ostilità generale verso l’opzione di trasformare il meccanismo delle quote in una prassi automatica da applicare a ogni sbarco, tanto è vero che il presidente del Consiglio Mario Draghi a margine del Consiglio europeo del 25 maggio ha ribadito che «continueremo ad affrontare il problema (migranti, ndr) da soli» fino al prossimo summit previsto in giugno. È il solito gioco delle parti tra Italia e altri Paesi europei: Roma si dichiara pubblicamente isolata e lo fa pesare per alzare la posta, le altre capitali spergiurano di essere solidali ma non vogliono impegnarsi in concreto, se non il minimo indispensabile. Alla fine si troverà una soluzione temporanea con qualche ricollocamento spot e il sistema dei ricollocamenti continuerà a funzionare nell’emergenza di routine.
Accanto alla questione politica c’è però una vera emergenza umanitaria: a maggio sono già 770 i morti lungo tutte le rotte del Mediterraneo nel 2021. Se nella seconda metà del 2021 si raggiungesse lo stesso numero di morti, il risultato complessivo sarebbe paragonabile a quanto raggiunto nel 2014 quando però gli sbarchi erano stati oltre 170 mila (lungo la sola rotta del Mediterraneo centrale).
Da marzo, quando i numeri hanno cominciato a crescere, la preoccupazione del Viminale nei confronti dell’opinione pubblica è sempre stata allontanare il problema dall’Italia. La ministra dell’Interno il 20 maggio è volata a Tunisi per riproporre il solito pacchetto di aiuti in cambio di rimpatri dei tunisini (con il contributo anche di Frontex) e cooperazione nel blocco delle partenze. Si lavora a un nuovo patto con la Libia, che sia europeo, come se non si fosse già dimostrato quanto pericoloso sia quel genere di negoziato, come dimostra il patto stretto nel 2019 con il protocollo di intesa per il blocco delle partenze.
Il pezzo che segue firmato dalle giornaliste Holly Pate e Charlotte Norsworthy di The Outlaw Ocean Project mette l’accento sul vuoto politico lasciato dall’Europa nella gestione migratoria e sul ruolo che hanno svolto le ong per tamponare l’emergenza naufragi. Solo a maggio le navi di ricerca e salvataggio hanno ricominciato a prendere il mare, dopo aver dovuto affrontare, dal 2017 ad oggi, venti processi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Gli esiti finora, fa sapere il ricercatore dell’ISPI Matteo Villa, sono stati «otto archiviazioni, due rinvii a giudizio, nessuna condanna».
Ad aprile, una fatiscente barca di legno che trasportava circa 130 migranti si è capovolta nel Mar Mediterraneo, senza lasciare sopravvissuti. Questo tragico incidente è diventato una triste ricorrenza stagionale, con oltre 350 morti in simili circostanze già quest’anno.
Il peggio deve ancora venire, visto che coloro che studiano i flussi migratori prevedono che il 2021 sarà l’anno con più morti fino ad ora. In parte, questa cupa previsione è il risultato del fermo da parte dei Paesi dell’Ue di navi di ricerca e salvataggio che in precedenza avevano salvato i migranti in mare durante le pericolose traversate.
Ma la ragione più profonda di questa continua crisi umanitaria è dovuta al fatto che i Paesi dell’Unione europea evadono dalla loro responsabilità di gestione del problema in vari modi. Anche gli Stati più grandi infatti delegano le loro responsabilità ai Paesi rivieraschi e alle organizzazioni non governative, alleggerendosi dal peso della migrazione, spostando i propri confini e offrendo ai Paesi di provenienza il denaro delle rimesse dei migranti piuttosto che assistenza.
Il peso scaricato sulle spalle delle ong
I più grandi Stati europei evitano di fare la loro autorevole parte nei confronti dei richiedenti asilo in arrivo in Grecia, Malta e soprattutto in Italia. Nel frattempo, sempre gli stessi governi passano il lavoro a ong, come la Croce Rossa, Mezzaluna Rossa Internazionale e Medici Senza Frontiere.
Sfortunatamente, a queste organizzazioni mancano le risorse e il personale medico per svolgere una missione così pesante e la pandemia non ha fatto altro che peggiorare la situazione.
La Croce Rossa Italiana ha convertito navi da crociera di lusso in prigioni improvvisate, noleggiate dal governo italiano e gestite da lavoratori della Croce Rossa nel tentativo di mettere in quarantena i migranti salvati in mare, lontano dalla costa in modo da impedire loro di portare il Covid-19 a terra.
Queste navi costano oltre un milione di euro al mese e ospitano migliaia di sfollati, principalmente dal Medio Oriente e dall’Africa, che sono fuggiti da guerre, torture, povertà, estorsioni, violenze sessuali e lavoro forzato.
Tuttavia, questo flusso di migranti attraverso il Mediterraneo non è nuovo: secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni delle Nazioni unite (Oim), più di 2,5 milioni di persone hanno effettuato traversate non autorizzate dal Nord Africa all’Europa dagli anni ’70. Ma di recente, questo trend è aumentato vertiginosamente poiché sempre più persone fuggono dal Nord Africa per eludere la guerra e l’instabilità politica. In risposta, gli Stati europei hanno cercato di sigillare questo fenomeno, che alla fine ha portato a un viaggio definito dall’Oim come «il più mortale del mondo».
Controlli ai confini invece di salvataggi
Solo negli ultimi due decenni, nel Mediterraneo sono annegate più di 30 mila persone. Nel 2016, nove diverse organizzazioni non governative, tra cui Medici Senza Frontiere, hanno pattugliato le acque internazionali e realizzato circa il 25% dei soccorsi nel Mediterraneo. A peggiorare le cose, i governi europei hanno deciso di criminalizzare le ong per operazioni che gli Stati dovrebbero gestire da soli.
Secondo l’Oim, più di 2,5 milioni di persone hanno effettuato traversate non autorizzate dal Nord Africa all’Europa dagli anni ’70. Solo negli ultimi due decenni, nel Mediterraneo sono annegate più di 30 mila persone
«Rischiamo fino a 15 anni di prigione e milioni di dollari di risarcimento per salvare vite umane», è quello che ha detto Óscar Camps, direttore della Ong spagnola Open Arms, durante una conferenza stampa tenutasi al Parlamento europeo dopo che la sua principale nave di salvataggio venne confiscata in Sicilia per «aver incentivato l’immigrazione illegale».
Solo nell’ultimo anno, l’Italia ha gestito da sola più di 100 mila operazioni di salvataggio portandole a termine con successo, ma di recente ha dovuto arrestarsi poiché l’Ue si è rifiutata di contribuire finanziariamente. Di conseguenza, l’Italia e altri Stati hanno iniziato a dare in appalto le navi della Guardia costiera a Paesi come la Tunisia e la Libia.
I grandi sforzi da parte dell’Europa si concentrano più sui “controlli di confine” e meno sul salvare vite.
I soldi alle guardie costiere che abusano dei diritti umani
L’Ue paga altri Stati per impedire ai migranti di arrivare sulle proprie coste, “spostando” più lontano i suoi confini de facto e investendo ingenti quantità di denaro, tutto ciò per impedire a queste persone di iniziare il loro percorso. Di fatto, secondo un report di Ftdes (Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali), questo procedimento implica che gli Stati europei paghino sussidi alle discutibili Guardie costiere libiche e tunisine.
Queste guardie costiere, al contrario di molte altre nel corso della storia, il più delle volte non si rivolgono all’esterno delle coste della Libia o della Tunisia per proteggere da minacce esterne. Al contrario, sono finanziate per rivolgersi all’interno dei loro mari e bloccare le persone che tentano di lasciare l’Africa e raggiungere l’Europa.
Nel 2016, facendo parte dell’Operazione Sophia ― il pattugliamento delle acque antistanti la Libia operato dalle marine militari europee, ndt― l’Italia ha deciso di fornire navi, milioni di euro, corsi di formazione e addestramento a quanto rimaneva della Guardia costiera libica per ridurre i flussi migratori. Poco dopo, la guarda costiera ha cominciato a minacciare, a salire a bordo e anche ad aprire il fuoco contro le navi delle ong intente a salvare i migranti.
Le conseguenze dei respingimenti per procura
Questa politica europea di usare forze marittime mercenarie per fermare preventivamente i richiedenti asilo ha anche contribuito alle brutalità nei confronti di decine di migliaia di migranti. Molti di essi muoiono in mare in seguito a tentativi fallimentari di evitare la Guardia Costiera, ma anche a causa dello stupro sistematico, della tratta di esseri umani e degli abusi fisici (dai pestaggi alle spatatorie) che si verificano nelle strutture di detenzione. Ciò avviene soprattutto in Libia, dove gli sfollati vengono catturati e detenuti dopo il loro viaggio.
Per esempio, nel settembre 2018 centinaia di rifugiati sono stati trasportati al centro di detenzione di Zintan, sulle montagne libiche di Nafusa. Durante l’anno successivo, almeno 23 di loro sono morti ― inclusi un bambino del Gambia, suo padre e un’adolescente somala ― a causa di malattia, cattive condizioni di vita e trascuratezza. Altre due persone sono morte nel 2020: una per una presunta insolazione e un’altra in seguito allo scoppio di un incendio.
Schiacciati in una battaglia in continua evoluzione per la loro custodia – tra gli Stati e i governi, le leadership e le organizzazioni – i migranti sopportano queste conseguenze strazianti sentendosi estremamente soli. Ogni debole tentativo europeo di agire all’unisono è portato a termine per rafforzare le misure deterrenti contro i migranti.
Di conseguenza, coloro che sono bloccati nei campi di tortura libici o che affogano a largo delle coste europee, rimangono in uno stato di limbo permanente, un confine tra due mondi, uno controllato dai ricchi e l’altro sofferto dai poveri.