Navi perdute. Il cimitero nel porto di Ravenna
Abbandonate e arrugginite: sono le navi che popolano il “cimitero delle navi” al porto di Ravenna. Le loro storie, a partire da quella della Berkan B, raccontano disastri ambientali, violazioni delle leggi e responsabilità poco chiare
11 Luglio 2022
Sofia Nardacchione

Quando la Capitaneria di Porto nel 2018 arriva nel cantiere della nave Berkan B, nel porto di Ravenna, trova un operaio solo a smantellare la portarinfuse che era stata abbandonata qualche anno prima: con una giacca a vento bruciacchiata e come unico presidio di sicurezza delle scarpe antinfortunistiche, l’uomo, un ex cuoco, sta smantellando una nave lunga più di cento metri. Il suo lavoro, già quasi impossibile da affrontare per un uomo solo, è ancora più surreale per il panorama in cui si svolge. La Berkan B infatti non è isolata in un bacino di carenaggio o struttura industriale apposita allo smantellamento. È invece solo una delle sei vecchie navi rugginose, spiaggiate come carcasse di balena fra le banchine del porto.

La situazione, negli specchi d’acqua salmastra nati dall’avvallamento dei terreni paludosi della zona e chiamati quindi “valli”, è talmente grave che ha dato origine a diverse denunce e proteste. «È cinquant’anni che vado in canoa, io delle valli di Ravenna conosco tutto, ci giro di giorno, faccio i miei allenamenti, ci faccio le gare e una cosa sola pretenderei: che l’acqua fosse trasparente come nei torrenti alpini», afferma Pietro Molduzzi, canoista, fuori dal Tribunale di Ravenna e davanti a uno striscione in cui viene indicata la direzione del “cimitero delle navi”. «Qua invece è tutto al rovescio. Nella Pialassa dei Piomboni la situazione è catastrofica».

L'inchiesta in breve
  • A Ravenna, in una delle zone lagunari vicine al porto, c’è quello che viene chiamato il “cimitero delle navi”: è qua che giacciono sei imbarcazioni abbandonate da anni, piene di ruggine, semi-affondate.
  • Fino a un anno fa c’era anche la Berkan B, una portarinfuse arrivata nel porto ravennate nel 2010, bloccata a causa dei debiti dell’armatore. L’ultimo dei marittimi muore a bordo della nave nell’estate del 2011 e da allora è definitivamente abbandonata.
  • Oggi in corso c’è un processo per inquinamento ambientale. Nel 2017, durante le operazioni di smantellamento, la nave si spezza e nel 2019 affonda: nell’area naturale protetta in cui si trova finiscono tonnellate di liquidi inquinanti.
  • Le responsabilità dello smantellamento delle navi abbandonate, oltre 700 solo in Italia, non sono chiare e vengono spesso passate di autorità in autorità. Nel 2021 il Mims ha stanziato dei fondi per la parziale copertura dei costi per la rimozione, ma sono di quantità nettamente inferiore rispetto alle reali necessità.
  • A livello globale, il settore dello smantellamento delle navi è caratterizzato da incidenti sul lavoro e danni ambientali e le normative che tentano di arginare i problemi sono facilmente aggirabili.

La Pialassa dei Piomboni è un’area lagunare che occupa una delle aree depresse parallele al litorale ravennate, in comunicazione con il porto canale. Quando ci si arriva sembra di essere tornati indietro nel tempo di qualche decennio: la prima cosa che si vede sono delle grandi imbarcazioni, ai margini di un sentiero tra l’erba alta. Sono abbandonate, e lo sono da anni: arrugginite, ormai non galleggiano più, ma restano in piedi solo grazie a sostegni, in quello che viene chiamato il “cimitero delle navi”. Le più grandi oggi sono tre, dai nomi russi sbiaditi sulla prua, ma fino a pochi anni fa erano di più: c’era anche la Berkan B. Oggi non si vede più, perché nel 2017, dopo l’inizio delle operazioni di demolizione, collassa e nel 2019 affonda definitivamente, sversando in mare centinaia di tonnellate liquidi inquinanti ancora presenti a bordo nonostante fosse già iniziato lo smantellamento. Nell’acqua a pochi metri dal parco naturale protetto del Delta del Po finiscono idrocarburi e altre sostanze che, pian piano, circondano tutta la nave: per la precisione, 619 metri cubi di miscela oleosa e 60 metri cubi di olio pesante. Il relitto viene allora protetto da barriere galleggianti antinquinamento e solo nel 2021 viene portato via per essere definitivamente demolito, nel porto di Piombino.

«Dopo che la nave è affondata, anziché provare a correre rapidamente ai rimedi, come prescrivono le linee guida dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ndr) sugli sversamenti in mare degli idrocarburi, è stato lasciato tutto al caso», racconta Francesca Santarella, presidente della sezione ravennate di Italia Nostra – associazione che ha sempre tenuto alta l’attenzione sul caso – mentre indica le banchine in cemento armato dove era ormeggiata la Berkan B e su cui si vedono ancora i segni neri della morchia fuoriuscita dalla nave.

Di chi è la colpa? Per stabilirlo, la storia e le vicende processuali si dividono in due filoni.

Il primo riguarda il reato di inquinamento ambientale, su cui la Procura nel 2019 ha avviato le indagini: imputati sono i vertici dell’Autorità di sistema portuale (AdSP) di Ravenna, il presidente Daniele Rossi e il segretario Paolo Ferrandino. Secondo l’accusa – rappresentata dal Pubblico Ministero Angela Scorza – le competenze erano dell’Autorità portuale, che non sarebbe intervenuta per evitare l’inquinamento ambientale. Secondo la difesa, invece, le competenze sarebbero dell’Autorità Marittima e dei proprietari della nave.

Ed è su questo punto che si aggiunge un altro pezzo della storia, anche giudiziaria, legata al relitto affondato dopo anni di abbandono. Nel Tribunale di Ravenna è infatti in corso un altro processo: ha al centro le due società che, autorizzate dall’Autorità Portuale, nel 2017 iniziano i lavori di demolizione della nave. Sono la Mediterranean Ship Recycling, azienda ligure che subappalta i lavori di smantellamento all’impresa individuale di Loriano Bernardini. Per i rappresentanti legali delle società l’accusa è di deposito incontrollato di rifiuti: le ditte hanno infatti lasciato nel cantiere sacchi e container pieni di rifiuti, anche pericolosi e tossici. Resti di scialuppe, bombole di gas, estintori, segatura, polistirolo, ma anche amianto e contenitori di olii esausti occupavano, dentro diciassette grandi sacchi, buona parte di quello che rimaneva del cantiere della Berkan B.

La Berkan B

La Berkan B era una nave classificata come “General Cargo Ship”, una portarinfuse destinata al trasporto di merce solida, lunga poco più di cento metri, costruita nel 1984 e di proprietà della compagnia navale turca Bilgili Denizcilik Nakliyat Sanayi. Arriva nel porto di Ravenna nel 2010, sotto bandiera di Panama e con a bordo 19 marittimi. Sarà il suo ultimo viaggio: l’armatore è indebitato e non riesce più a garantire l’operatività della nave. Il 2 agosto del 2010, quindi, la Berkan B viene sequestrata e fatta sostare in rada, con l’equipaggio bloccato a bordo, come spesso succede. «Quando l’armatore fallisce abbandona, insieme alla nave, anche il suo equipaggio: a quel punto i marittimi non esistono più civilmente, non hanno più documenti, non possono sbarcare, non possono tornare a casa, non possono più fare niente». A raccontarlo è Carlo Cordone, presidente del Comitato Welfare della Gente di Mare di Ravenna, che dal 2009 si occupa di assistere i marittimi che, da tutto il mondo, arrivano nel porto adriatico.

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Bloccati nella Berkan B, a fine agosto alcuni dei marittimi, dopo essere rimasti senza viveri e acqua, si buttano in mare per attirare l’attenzione sulla situazione della nave: a intervenire sono la Stella Maris – associazione cattolica, conosciuta anche come “Apostolato del mare”, che si occupa di mutuo soccorso dei marittimi di tutto il mondo – e il Comitato Welfare della Gente di Mare, che riescono a organizzare il rimpatrio. A bordo, alla fine, c’è solo un uomo, rimasto come guardiano su richiesta dell’armatore: il suo nome è Lusret Santilms e morirà a bordo mesi dopo, nel luglio del 2011. Una storia dai contorni non sempre chiari: secondo alcuni racconti è uno dei marinai della nave, secondo altri, come quello di Carlo Cordone, è un parente dell’armatore, arrivato nel porto di Ravenna solo per controllare l’imbarcazione.

I racconti si uniscono in alcuni punti: Lusret è diabetico, scende tutti i giorni dalla nave, conosce bene le persone che abitano il porto, stringe amicizia con i membri della Stella Maris e pranza con loro quasi tutti i giorni. Fino a che, a luglio, una telefonata tra il presidente dell’associazione cattolica e il capitano Cordone fa presagire qualcosa: Lusret Santilms non è sceso dalla nave, non si è fatto vedere. Ed è sulla nave a cui faceva da guardiano che viene trovato, solo e senza vita. È lui l’ultima persona che la abita, perché dopo la sua morte la Berkan B è definitivamente abbandonata: diventa allora una delle centinaia che abitano i porti di tutta Italia, 749 secondo i dati più recenti.

La nave VomvGaz - Foto: Sofia Nardacchione
La nave VomvGaz – Foto: Sofia Nardacchione

Ci vogliono sei anni prima che inizino le operazioni di demolizione: nel frattempo la nave viene lasciata al suo destino. Degrada, arrugginisce, lontano da sguardi e responsabilità che, per le navi abbandonate, non sono mai chiare. Ad occuparsi dello smantellamento della nave dovrebbe essere il proprietario, ma, in questo caso come in tanti altri, per l’Autorità portuale e la Capitaneria di Porto è quasi impossibile rintracciarlo. Le responsabilità, così, passano di autorità in autorità.

Carlo Cordone, davanti a una mappa che occupa buona parte della parete del suo ufficio, insieme a riconoscimenti per il suo impegno per la gente di mare e una foto con Papa Francesco di cui va particolarmente orgoglioso, spiega: «Di solito ci sono delle ipoteche bancarie sulla proprietà navale, per cui quando la nave viene abbandonata un giudice non può venderla all’asta, ma deve comunicare al suo proprietario e a chi ha le ipoteche bancarie che la nave è bloccata e chiedere se vogliono intervenire. Il più delle volte, però, le ipoteche sono di banche delle Bahamas o di Panama e i tempi sono lunghissimi».

«In questi casi la grossa complicazione – racconta il funzionario dell’Autorità portuale – è che le navi abbandonate nel porto di Ravenna erano ancora iscritte al registro navale per cui avevano una bandiera e un proprietario. E in questi casi non si può procedere subito con la demolizione: non è colpa dell’ente di Ravenna, è un problema nazionale. Teoricamente dovrebbe risolverlo questa normativa che è stata adottata a settembre 2021, un decreto per mettere in attuazione dei fondi che erano stati stanziati appositamente: quattro soldi rispetto alla necessità reale che c’è».

Il decreto del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili sul Fondo per la rimozione delle navi, delle navi abbandonate e dei relitti, pubblicato nell’ottobre del 2021, ha stanziato 12 milioni di euro: 2 milioni per il 2021, 5 milioni per il 2022 e 5 milioni per il 2023, per la parziale copertura dei costi sostenuti dalle Autorità di sistema portuale per la rimozione delle navi, delle navi abbandonate e dei relitti. E se 12 milioni di euro per rimuovere più di 700 navi sembrano già pochi, in realtà sono ancora meno, perché una buona parte dei fondi – 7,5 milioni di euro – è riservata a navi e galleggianti radiati dalla Marina militare presenti nelle aree portuali militari di Augusta, Taranto e La Spezia. Solo l’appalto per rimuovere la Berkan B, secondo quanto riportato sul sito dell’Autorità Portuale di Ravenna, valeva 10 milioni di euro. 

Così, solo dopo alcune denunce, tra cui quelle dell’associazione Italia Nostra, nel 2017 iniziano le operazioni di demolizione e rimozione del relitto della Berkan B. È a questo punto che arrivano nel porto di Ravenna le due società liguri oggi a processo per deposito incontrollato di rifiuti: a giugno del 2022 il vice procuratore di Ravenna ha chiesto la condanna a una pena di sei mesi e al pagamento di 3.000 euro di ammenda per Adele Malco, legale rappresentante della Mediterranean Ship Recycling, e per Loriano Bernardini, titolare dell’omonima impresa individuale, che era stato già condannato nel 2020 al pagamento di 6.750 euro per le violazioni emerse dal controllo della Capitaneria di Porto nel marzo del 2018. Per i lavori non era stato fatto alcun documento di valutazione dei rischi, né preparata alcuna documentazione tecnica. E a lavorare allo smantellamento era quell’unico operaio individuato durante il controllo: un ex cuoco senza formazione specifica.

Lo smantellamento delle navi, tra incidenti sul lavoro e danni ambientali

Questa storia purtroppo non rappresenta un caso isolato, neppure per quanto riguarda il porto di Ravenna. Il 13 marzo del 1987, durante le operazioni di manutenzione straordinaria della Elisabetta Montanari, nave adibita al trasporto di gas GPL, scoppia un incendio causato involontariamente dalle operazioni di una squadra di operai che stavano facendo lavori di saldatura della cisterna. La nave è in uno dei cantieri di manutenzione di cui era titolare la Mecnavi s.r.l. – una delle società che si occupava di riparazione e smantellamento delle navi – in un bacino di carenaggio del porto di Ravenna.

Nel cantiere mancavano estintori e qualsiasi tipo di presidio antincendio: i 13 operai che stavano lavorando all’interno della nave – all’interno di cunicoli alti appena novanta centimetri e nei quali ci si poteva muovere solo strisciando – muoiono tutti per asfissia, dopo ore di agonia. Tre di loro erano al primo giorno di lavoro, la maggior parte erano assunti in nero, sfruttati, senza garanzie e tutele: «Non si può stare dieci ore in quei cunicoli, gli uomini non possono essere ridotti a topi», dirà l’arcivescovo di Ravenna Ersilio Tonini durante i funerali delle vittime dell’incidente, per cui verranno condannati, anni dopo, Enzo e Fabio Arienti, proprietari della Mecnavi.

Incidenti sul lavoro e danni ambientali sono ancora oggi i rischi attuali più grandi dello smantellamento delle navi: secondo la ong Shipbreaking Platform, sono 430 le persone che, dal 2009, sono morte nei cantieri di demolizione navale in tutto il mondo. Morti e incidenti che avvengono nonostante nuove normative cerchino di arginare il problema. A stabilire le modalità di demolizione delle navi che battono bandiera europea è il regolamento ​​1257/2013, che segue la convenzione internazionale di Hong Kong del 2009: scopo del regolamento è quello prevenire e ridurre gli incidenti ai danni della salute umana e dell’ambiente, di rafforzare la sicurezza e assicurare un corretto riciclaggio dei rifiuti pericolosi delle navi. Per farlo, è stato istituito un “elenco europeo” degli impianti di riciclaggio delle navi «che praticano metodi di demolizione delle navi sicuri e compatibili con l’ambiente anziché verso siti non conformi alle norme com’è attualmente la prassi». Nell’elenco, aggiornato regolarmente, è incluso un solo impianto in Italia: è a Genova ed è della società per azioni San Giorgio del Porto.

Nel caso della Berkan B, però, lo smantellamento è stato autorizzato nel porto di Ravenna: «Rimane un mistero che non siamo riusciti a capire», dice Francesca Santarella. «Sono state fatte delle richieste di parere, tra cui anche la capitaneria del porto, che si è pronunciata in modo favorevole. Rimane però un mistero comprendere perché un sito del genere sia stato autorizzato alla demolizione». Ma così è stato fatto e, dopo, che la nave si è spezzata in due ed è affondata nella Piallassa, dopo quarantamila ore di lavoro per recuperare il relitto e sezionarlo, la nave viene definitivamente demolita nei cantieri navali della Piombino Industrie Marittime, che fa parte dell’albo speciale dei demolitori presso il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili.

Flags of convenience

Cambiare bandiera è semplice ed è un meccanismo che viene utilizzato spesso: tutte le navi in navigazione devono avere una bandiera nazionale detta “insegna”, che determina la fonte di diritto che deve essere applicata: se la nave sventola una bandiera di una nazione diversa da quella del proprietario, il vessillo è una “Flag Of Convenience” o, in italiano, “bandiera di comodo”. Determinate bandiere infatti offrono condizioni più favorevoli agli armatori, tra costi di iscrizione al registro navale bassi, requisiti per i contratti di lavoro minimi, possibilità o meno di sicurezza armata a bordo, standard igienici sottozero, possibilità di turni di lavoro anche al di fuori dei limiti delle convenzioni internazionali. Il sindacato internazionale dei marittimi (Itf) ha stilato una lista delle bandiere di comodo.

Il problema dello smantellamento delle navi abbandonate, intanto, continua ad essere grave in tutto il mondo, con normative facilmente aggirabili. Secondo il regolamento del 2013, per le navi che sono classificate come “rifiuti pericolosi” è vietata l’esportazione dal territorio dell’Unione a fini di riciclaggio verso impianti situati in Paesi che non sono membri dell’OCSE, ma la normativa si basa solo sull’appartenenza della bandiera della nave: per demolire una nave in impianti extra europei e più convenienti a livello economico – a scapito di ambiente e lavoratori – basta cambiare bandiera. Non solo, ci sono cantieri, come gli otto siti turchi autorizzati e inseriti nell’elenco europeo, dove i costi sarebbero molto più bassi: qua sono state demolite anche alcune navi della Marina militare italiana.

Lo smantellamento, quindi, se incontrollato diventa un vero e proprio business, grazie alla rivendita dei materiali delle navi, anche perché, spesso, è più conveniente per l’armatore smantellare la nave o abbandonarla piuttosto che ripararla.

La nave Orenburg Gazprom - Foto: Sofia Nardacchione
La nave Orenburg Gazprom – Foto: Sofia Nardacchione

Il cimitero delle navi

Una nave lunga tra i 60 e gli 80 metri può valere dai 200 ai 400 mila euro grazie alla rivendita del ferro, ma se i costi di smantellamento aumentano, con gli anni di abbandono delle imbarcazioni, la situazione cambia ancora: «Dopo dieci anni di abbandono – afferma Carlo Cordone – una nave che poteva valere un milione di dollari, non vale più abbastanza. Il Berkan B in ferro può valere 300 mila euro, portarla via costa di più. Ecco, in questi casi chi se ne deve fare carico?».

Quello della Berkan B non è l’unico caso. Lo stesso è successo con le tre navi che popolano ancora oggi il cimitero delle navi nel porto di Ravenna: la Orenburg Gazprom, la VomvGaz e la V-Nicolaev. Le tre imbarcazioni, costruite negli anni Novanta, appartenevano a un azienda della galassia della Gazprom, multinazionale del gas controllata dal governo russo. Trasportavano ghiaia, un materiale dal bassissimo valore che portava a risparmiare sui costi: venivano, quindi, manutenute poco. Il finale è quasi scontato: fermate nel 2006 per problemi di sicurezza, l’armatore le abbandona.

La decisione, allora, è di spostarle in un luogo dove non diano fastidio: nella Pialassa dei Piomboni, dove sono ancora oggi, insieme a due piccole imbarcazioni dal fondo piatto che sono là da decenni, mezze affondate. «Si tratta di una discarica incontrollata a cielo aperto – denuncia Francesca Santarella – in cui vengono riversati materiali inquinanti in acqua, a diretto contatto con un sito protetto dalle normative europee».

Sempre nella Pialassa dei Piomboni, poco distante dalle altre navi abbandonate, c’è un’altra imbarcazione, la Gobustan. Viene sequestrata nell’estate del 2020 mentre è ferma nel porto di Ravenna: l’armatore è il gruppo turco Palmali, con debiti in tutto il mondo. Insieme alla Gobustan viene sequestrata anche un’altra nave: la Sultan Bey.

Per entrambe le imbarcazioni, a essere colpiti dal sequestro sono gli stessi marinai che devono aspettare mesi prima di essere rimpatriati. È il caso di diverse navi che appartenevano al gruppo Palmali e al suo proprietario, Mübariz Mansimov, rimaste bloccate per mesi in tutta Italia, anche a causa del Covid-19 e della difficoltà dei viaggi intercontinentali, come quello per raggiungere l’Azerbaigian, Paese di provenienza della maggior parte dei marinai di Sultan Bey e Gobustan: «È stata una tragedia nella tragedia», racconta Carlo Cordone. «Era il periodo della pandemia, non si poteva scendere a terra, tutti gli aeroporti erano chiusi e non avevamo nessuna possibilità di mandarli a casa: fino all’autunno abbiamo quindi dovuto sostenere i marittimi con i viveri, con l’acqua, con il gasolio, il cui solo costo tra tutte e due le navi si aggirava circa sui 700 euro al giorno».

A Ravenna, però, è andata meglio che in altri luoghi. Qua il presidente del Comitato Welfare della Gente di Mare non è il capitano del porto, come in tutti gli altri casi, ma un civile: può quindi chiedere più facilmente soldi alle banche e alle istituzioni, riuscendo così a mettere da parte fondi per intervenire in situazioni di emergenza. Così, nell’autunno del 2020 tutti i marinai delle due navi sono stati rimpatriati.

A distanza di due anni, invece, rimane ancora a Ravenna la Gobustan, a seguire quella che sembra ormai una storia normale per la città dell’Adriatico. Non ancora affondata, a differenza delle altre navi che popolano il cimitero, potrebbe ancora avere un corso diverso, ma così, al momento, non sembra: nella Pialassa dei Piomboni continuano a intrecciarsi non solo storie di marinai, ma anche di navi abbandonate, di normative complicate e responsabilità difficili da dimostrare, di inquinamento ambientale e relitti lasciati a loro stessi. Da anni o, addirittura, da decenni.

CREDITI

Autori

Sofia Nardacchione

Editing

Giulio Rubino

Foto di copertina

Le navi Orenburg Gazprom e VomvGaz
(Sofia Nardacchione)