#OperazioneMatrioska
Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi
Giulio Rubino
«Putin è un uomo senza ideologie, non può avere ideologi». Milano, 20 giugno 2018, hotel Ramada Plaza. Sul palco c’è il filosofo russo Aleksandr Dugin, l’uomo che sulla stampa italiana viene spesso etichettato come “l’ideologo di Putin”. Barba lunga e folta, capelli venati di grigio che arrivano fino alle spalle. Sguardo fiero, un po’ torvo: affabile e visionario come un predicatore. Un Rasputin moderno.
È in tour per presentare un libro che si chiama Putin contro Putin, pubblicato con la casa editrice di estrema destra Altaforte. Il volume è una disamina delle due anime del leader della Russia: da un lato quella “solare”, quella forte, autoritaria, cristiano-ortodossa. Dall’altro quella “lunare”, imperfetta, titubante, distante dal popolo.
La prima è l’anima identitaria, l’altra quella europeista.
Putin sarà anche non ideologico, ma Dugin in questi anni ha saputo trasformarlo in un feticcio: l’incarnazione di un’ideologia politica da esportare in tutto il mondo. Sotto la stella del Putin identitario, in parte seguendo quanto teorizzato da Dugin e in parte secondo un’emulazione spontanea, senza regia, si è forgiata una rete internazionale di alleati, in Europa e non solo, che guardano a Mosca come un esempio di “democrazia autoritaria”, un sistema politico più funzionale delle attuali democrazie europee.
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È ciò che più si avvicina a un’ideologia, in tempi come i nostri.
Nazionalismo e tradizione opposti al globalismo, il «pensiero unico» che secondo Dugin appiattisce ogni distinzione nazionale, alimenta l’immigrazione di massa, cancella le radici cristiane dell’Europa. È la battaglia politica del secolo, lo scontro che più rassomiglia alla guerra delle idee che ha caratterizzato il Novecento. È la costruzione di un nuovo asse attraverso cui classificare idee e partiti: non più solo destra e sinistra, ma globale contro identitario.
La sublimazione del globalismo, nell’ottica di Dugin, è l’Unione europea, il più importante organismo sovranazionale mai concepito. Una parte del fronte che vede in Putin il proprio eroe si pone il dichiarato obiettivo di annientare quel simbolo. Il presidente russo, ovviamente, no. Almeno non in pubblico.
L’uomo più potente di Russia, però, porta avanti la sua guerra a Montesquieu, il barone che teorizzò la suddivisione democratica dei poteri. Dispone di oligarchi fedeli che lavorano per la sua causa politica, a volte come parlamentari (in Russia e non solo), a volte imprenditori, altre volte come mercenari.
Al momento, non sono state ancora accertate precise responsabilità penali degli attori in campo. Non è nemmeno possibile attribuire una vera regia unitaria alle varie fasi dello scontro senza cadere nel complottismo.
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Oligarca, cos'è?
Per approfondire:
Oligarca non significa necessariamente vicino al governo. È una metafora di “potente”, sia in termini economici, sia in termini politici. Alcuni degli scontri più feroci per ottenere il governo in Russia e nei Paesi sotto l’influenza russa (primo fra tutti l’Ucraina) sono proprio tra oligarchi che appartengono a diverse fazioni. Gli schieramenti sono quindi fluidi e mutevoli nel tempo.
A ripercorrere i fili disseminati nelle cronache di questi ultimi due anni, però, si ritrovano strategie comuni, appartenenze, affinità d’intenti tra un’ampia rete di personaggi. È l’operazione Matrioska: guerriglia politica più che scontro tra eserciti; inquinamento del discorso pubblico più che preciso dossieraggio; spaesamento collettivo più che rivoluzione. È la più grossa infiltrazione del tessuto economico, politico e culturale dalla fine della Guerra fredda, una guerra di dati asimmetrica che ha per vittime i cittadini/elettori di qualsivoglia Paese e per risultato la dissoluzione delle categorie di vero e falso.
Ogni personaggio di questa vicenda all’esterno appare in un modo, ma all’interno nasconde altre vesti, altri legami, un’altra agenda.
Operazione Matrioska è il racconto della loro infiltrazione, anche in Italia.
L’annessione della Crimea e la guerra in Donbass
L’inizio della crisi in Ucraina ha coinciso con la fine di Viktor Yanukovich, il presidente ucraino tra i beneficiari di diversi conti delle società delle lavanderie, costretto a lasciare il Paese a seguito della contestazione di piazza Maidan del febbraio 2014. I manifestanti filo-europeisti lo accusavano di corruzione. A seguito della sua cacciata, le regioni meridionali e orientali a maggioranza russa hanno smesso di riconoscere i nuovi governati a Kiev.
In Crimea, pensiola a maggioranza russa (58%), la popolazione ha iniziato una sommossa. Approfittando del caos, si è mosso anche l’esercito russo, che a Sebastopoli, grazie a un accordo stipulato ai tempi di Yanukovich, ha un’importante base navale, occupando militarmente la regione. Nel frattempo, il governo regionale ha indetto un referendum per chiedere l’indipendenza e l’annessione alla Russia. Dichiarato incostituzionale da Kiev, Nazioni Unite e Unione europea, ha ottenuto il 97% dei consensi.
Un mese dopo, ad aprile 2014, una situazione si è registrata anche nella regione orientale dell’Ucraina, il Donbass, nelle regioni di Lugansk e Donetsk. Entrambe hanno dichiarato un governo indipendente, filo-russo. In questo caso, però, l’esercito ucraino ha reagito, con una controffensiva. Stati Uniti e Unione europea considerano alcuni uomini d’affari russi responsabili del finanziamento delle organizzazioni indipendentiste filorusse in Ucraina.
CREDITI
Autori
Lorenzo Bagnoli
Luca Rinaldi
Giulio Rubino
Illustrazioni
Lorenzo Bodrero/IrpiMedia