16 Settembre 2020 | di Lorenzo Bodrero
Il Russiagate è reale. A metterlo nero su bianco in maniera definitiva è stata la Commissione Intelligence del Senato degli Stati Uniti, chiamata a valutare l’ingerenza russa nelle presidenziali americane del 2016. La Commissione ha pubblicato lo scorso 18 agosto il quinto e ultimo capitolo – pesantemente redatto – di un’indagine bipartisan durata tre anni in cui, benché le fattispecie di reato riscontrate non possano essere perseguite penalmente data la natura dell’indagine, ha confermato che «il governo russo ha intrapreso uno schema complesso e aggressivo per influenzare i risultati» delle elezioni. La conclusione a cui arrivano i firmatari del report è senza precedenti. Scrivono infatti che «l’operato dei russi e la partecipazione fornita da Trump e i suoi collaboratori rappresentano la più grave minaccia di controspionaggio per la sicurezza nazionale nell’era moderna».
In apparenza il risultato non è troppo distante da quello raggiunto dal procuratore speciale ed ex direttore dell’Fbi, Robert Mueller, incaricato nel maggio 2017 di indagare sulla presunta collusione tra lo staff dell’allora candidato repubblicano ed esponenti del Cremlino. Due anni più tardi, se da un lato la sua indagine non aveva riscontrato reati di collusione con potenze straniere da parte dello staff di Trump, dall’altro specificava che «non esonera completamente» il presidente dal reato di intralcio alla giustizia. Tra rinvii a giudizio, condanne e patteggiamenti l’inchiesta di Mueller aveva portato alla sbarra 34 persone e tre società per reati che vanno dall’hackeraggio di email, alla corruzione di testimoni fino alla falsa testimonianza. La Commissione Intelligence ha però aggiunto elementi a cui Mueller e i suoi collaboratori non erano arrivati. Le nuove risultanze rappresentano una minaccia anche per la campagna presidenziale in corso e per le elezioni del prossimo novembre, oltre ad aprire nuovi e pesanti interrogativi sia su Donald Trump sia sui suoi più stretti collaboratori di oggi e di allora, Paul Manafort in primis.
Condanne e patteggiamenti del Russiagate
La spia russa e il consigliere di Trump
Manafort, ex responsabile della campagna presidenziale di Trump, è risultato in costante contatto con quello che si è poi rivelato essere una spia russa con la quale condivideva non solo documenti elettorali ma anche la strategia del proprio team. L’agente russo è Konstantin Kilimnik, vecchia conoscenza di Manafort. I due avevano rapporti da molto prima dell’inizio della campagna elettorale per le presidenziali americane del 2016. Kilimnik era infatti il responsabile della sede di Kiev, in Ucraina, della società di consulenza di proprietà di Manafort e i loro rapporti erano già emersi nell’indagine di Mueller nella quale, però, Kilimnik veniva indicato come «vicino ad ambienti dell’intelligence russa». L’ultimo report ha invece aggravato la sua posizione, e di conseguenza quella dello stesso Manafort, definendolo a tutti gli effetti «un agente del Gru (i servizi segreti russi, ndr)».
Manafort era solito condividere con Kilimnik dati sui sondaggi elettorali e le strategie in campo per «battere Hillary». Per farlo, i due utilizzavano programmi di messaggistica criptati, oppure condividevano uno stesso account di posta elettronica in cui i messaggi erano digitati su una bozza che non veniva mai inviata, evitando così il rischio di venire intercettati, mentre su dispositivi in chiaro prediligevano un linguaggio in codice. Un collaboratore di Manafort si è persino spinto a cancellare diverse prove delle comunicazioni con la spia russa, considerato dalla Commissione un segno tangibile di intralcio alla giustizia.
Sul ruolo del Cremlino dietro la campagna per danneggiare Hillary Clinton, la Commissione del Senato americano indica in Vladimir Putin il “mandante” dell’operazione che ha portato al furto della corrispondenza elettronica di membri del partito democratico e, successivamente, alla loro diffusione tramite Wikileaks.
In quanto agente del Gru, Kilimnik ne era a conoscenza, afferma la Commissione, la quale conclude che tutti questi elementi costituiscono «la definizione di collusione».
Perché, dunque, l’inchiesta di Robert Mueller non è arrivata alla stessa conclusione? Per la profonda differenza nella natura delle due indagini. Quella del procuratore speciale era un’indagine giudiziaria, incaricata di valutare i rapporti tra il comitato elettorale di Trump ed esponenti di spicco del Cremlino e dei servizi segreti russi e, qualora trovate prove sufficienti, depositare formali accuse. La Commissione Intelligence del Senato, invece, è per definizione chiamata a stimare l’entità del pericolo in cui incorre la sicurezza nazionale, in questo caso rappresentata dall’ingerenza straniera in un processo elettorale.
Il report di Robert Mueller e il misterioso professore che ama l'Italia
Il report del procuratore speciale Robert Mueller è stata la prima indagine sul Russiagate. Il documento, 448 pagine, è stato depositato al ministro della Giustizia William Barr a marzo 2019, dopo due anni di indagini. Lo stesso procuratore, secondo il Washington Post, nel 2018 è stato bersaglio di attacchi informatici provenienti dalla Russia. Nello stesso anno Mueller ha rinviato a giudizio 13 soggetti russi e tre società perché ritenute coinvolte nel dirottamento del voto negli Stati Uniti.
Nell’indagine di Mueller l’Italia è un elemento che ricorre spesso, in quanto Paese molto frequentato da un misterioso professore maltese, Joseph Mifsud. È ritenuto sia nel Mueller report, sia nell’ultimo report della Commissione Intelligence una spia russa, la prima a informare uno dei membri dello staff della campagna di Donald Trump dell’esistenza delle mail scottanti nei riguardi di Hillary Clinton.
Le mail rubate, «pubblicatele immediatamente»
Secondo la Commissione, lo staff di Trump fu informato prima che l’attacco ai server democratici avesse luogo direttamente da una fonte vicina al Cremlino. Una volta venuti a conoscenza dell’imminente operazione, non solo non hanno informato le autorità sull’ingerenza straniera ma «il candidato Trump e il suo team hanno accolto, incoraggiato e poi sfruttato» l’operazione russa. Né Trump né il suo staff erano quindi spettatori disinteressati. In totale, gli hacker russi avevano sottratto quasi 20mila email e oltre ottomila allegati. Nelle settimane trascorse dall’attacco informatico – aprile 2016 – alla pubblicazione delle mail – tra luglio e ottobre 2016 – hanno avuto tutto il tempo per programmare le attività della propria campagna elettorale e massimizzarne gli effetti: un vantaggio tutt’altro che irrilevante, a poche settimane dal voto. La tempistica sulla pubblicazione delle mail era, scrivono i firmatari dell’indagine del Senato, interamente nelle mani del Gru e di Wikileaks, a cui il servizio segreto russo aveva consegnato i dati sottratti. Per concordare il momento migliore in cui renderle pubbliche, i servizi segreti russi avevano creato due account su Twitter apparentemente indipendenti uno dall’altro ma in realtà, precisa la Commissione, utilizzati per comunicare con Wikileaks e fare disinformazione.
Di questa trattativa era a conoscenza Roger Stone, lobbista nonché ex politico e allora consulente del comitato elettorale di Trump. Il 7 ottobre 2016 Stone viene a sapere che a breve il Washington Post avrebbe pubblicato un video potenzialmente dannoso per l’allora candidato repubblicano (l’Access Hollywood tape). Per minimizzare i danni che l’immagine di Trump avrebbe subito, Stone comunicò ai suoi collaboratori che le mail sottratte ai democratici andavano «pubblicate immediatamente». La Commissione sostiene, infatti, che Wikileaks «molto probabilmente era a conoscenza dell’apporto che stava dando all’operazione di intelligence russa».
Va detto che ciascuna conclusione a cui è giunto il report prima di essere reso pubblico ha ricevuto l’approvazione dei membri che la compongono, la maggioranza dei quali è repubblicana.
L’ “Access Hollywood tape” il “Dossier Steele”
Nel video conosciuto come Access Hollywood tape Donald Trump è intento a conversare con Billy Bush, allora conduttore del programma televisivo Access Hollywood. È il 2005 e i due sono su un bus diretti allo studio televisivo per registrare un episodio del programma. In quell’occasione Trump rilascia commenti volgari e maschilisti nei confronti del mondo femminile. Il video fu pubblicato dal Washington Post due giorni prima del secondo dibattito tra i due candidati presidenti e causò un’ondata di sdegno nei confronti di Trump, indicato da più parti come un predatore sessuale. Secondo l’indagine della Commissione Intelligence del Senato Usa, membri della campagna presidenziale di Trump fecero pressione perché Wikileaks pubblicasse, subito dopo lo scoop del Washington Post, i contenuti delle mail del partito democratico, così da bilanciare l’attenzione dell’opinione pubblica che in quel momento era giudicata sfavorevole al candidato repubblicano.
Ex-agente dello spionaggio britannico, Christopher Steele è l’autore di un dossier che contiene gravi accuse sui legami di Trump con la Russia, alla base del Russiagate. Per l’MI6, l’agenzia di spionaggio per l’estero della Corona britannica, ha ricoperto un ruolo di rilievo a Mosca negli anni Novanta. Ritiratosi nel 2009 e avviata una carriera nel settore privato, Steele fu assunto dall’agenzia di intelligence privata Fusion Gps, a sua volta commissionata dal giornale di stampo democratico Washington Free Beacon, per svolgere indagini sui candidati repubblicani, incluso Trump.
Il dossier, scritto tra giugno e dicembre 2016, è stato pubblicato da BuzzFeed nel gennaio 2017 prima ancora di essere completato. Il Guardian lo ha descritto come «uno dei documenti più esplosivi della storia politica moderna». Dal rapporto emergerebbe che i russi fossero in possesso di informazioni compromettenti su Donald Trump: dai dettagli a sfondo sessuale sugli incontri del presidente con prostitute russe a Mosca ai frequenti contatti tra i funzionari del governo russo e i rappresentanti di Trump durante la campagna elettorale.
Sia il governo russo sia Donald Trump hanno smentito il contenuto del documento.
I membri repubblicani della Commissione di Intelligence scrivono che «non sono state trovate prove che l’allora candidato Donald Trump e la sua campagna presidenziale abbiano colluso con il governo russo», respingendo quindi al mittente l’ipotesi di una regia comune dietro l’attacco informatico. Il risultato è simile alle conclusioni a cui era giunto il procuratore Mueller e quello di Trump, affermano i firmatari repubblicani, deve essere interpretato come un tentativo di migliorare le relazioni con Mosca. Tale tesi è ripresa indirettamente nei commenti finali dei membri democratici della Commissione i quali ammoniscono sui tentativi di «minimizzare la gravità dell’operato di Trump», sostanzialmente perché l’attuale presidente espone il fianco a due «gravi» vulnerabilità.
La prima è l’esistenza di video potenzialmente compromettenti per Trump registrati a Mosca durante una delle numerose visite del magnate americano nella capitale russa e della cui esistenza, sostengono i senatori repubblicani, Trump era al corrente. Il report non specifica quali siano i video e sottolinea che sono stati acquisiti indipendentemente dal Dossier Steele, il quale – precisano – non è stato utilizzato dalla Commissione. L’esistenza di quei video, tuttavia, secondo i senatori americani, rappresenta una potenziale leva nelle mani russe per fare pressione sul presidente.
La seconda vulnerabilità riguarda gli interessi economici personali di Trump in Russia durante le presidenziali.
“Follow the money”
La celebre frase è utilizzata nel report dal senatore Ron Wyden a sostegno dell’importanza di analizzare le transazioni economiche di Donald Trump per capire «la reale natura dei suoi interessi con avversari stranieri» e per fare luce sulle sue vulnerabilità economiche, potenzialmente utilizzate dai russi per ricatto.
Di origini azere, Aras Agalarov è un potente immobiliarista russo con interessi anche nel settore dei centri commerciali e con un patrimonio netto stimato intorno a 1,7 miliardi di dollari. Cominciano nel 2013 i rapporti tra la sua famiglia e quella di Donald Trump quando all’imprenditore americano viene l’idea di ospitare a Mosca la 62ma edizione di Miss Universo. Da allora tra le due famiglie nasce un rapporto che proseguirà fino ai giorni nostri, condito da diversi incontri in Russia e negli Stati Uniti, regali reciproci e innumerevoli messaggi ed email. Secondo la Commissione gli Agalarov sono una conoscenza a dir poco scomoda:

Un estratto dell’indagine del Comitato per l’Intelligence del senato americano in cui viene citato Tevfik Arif.
«Hanno significativi legami con la criminalità organizzata russa e sono stati a stretto contatto con persone coinvolte nel giro della prostituzione, omicidi, traffico di droga, estorsione, riciclaggio, traffico di armi e sequestri di persona», si legge nel report.
Come per Trump, anche il primogenito di Aras Agalarov segue fedelmente i passi del padre. Emin, questo il suo nome, non solo è un promettente businessman ma anche un apprezzato cantante in Russia. È lui ad assecondare Trump Jr. che, dietro la regia del padre, intende costruire un grattacielo a Mosca, da chiamare – naturalmente – Trump Tower Moscow. Dopo oltre un anno di trattative alla fine l’affare non andrà in porto, ciononostante la Commissione Intelligence rileva «relazioni economiche di lunga data» tra le due famiglie, sia in Usa sia in Russia. I dettagli però sono interamente redatti e l’ostruzionismo di Donald Trump finora mostrato circa le sue dichiarazioni dei redditi impedisce un dettagliato resoconto (una diatriba legale in cui la richiesta della procura distrettuale di Manhattan di visionare i redditi dell’attuale presidente è giudicata come «motivata da interessi politici», secondo Trump).
Fu lo stesso Trump Jr ad ammettere, durante una conferenza a New York nel 2008, che l’impero economico del padre è dipendente dagli investimenti russi, cosa che per il senatore Wyden «costituisce in sé una minaccia per il controspionaggio».
Vecchie abitudini, nuovi rischi
Le informazioni raccolte durante l’indagine della Commissione Intelligence non hanno però un valore esclusivamente storico. Nelle conclusioni, i membri della commissione invitano a non abbassare la guardia e a considerare ciò che è successo nel 2016 come un campanello d’allarme per l’intera nazione circa la minaccia rivolta al voto presidenziale di quest’anno. «È di vitale importanza che il Paese si faccia trovare preparato» ad affrontare una tale minaccia, scrivono i senatori democratici, poiché «la Russia è attivamente impegnata a influenzare le elezioni 2020 in favore di Donald Trump».
Parole che hanno trovato riscontro nelle attività di monitoraggio messe in piedi in questi mesi sia dalle autorità americane sia dai più importanti social network.
La Internet Research Agency (Ira), lo stesso gruppo che secondo l’indagine Mueller si era intromessa nelle elezioni del 2016 dietro la regia del Cremlino, fin dallo scorso ottobre gestiva Peace Data, un sito web col preciso intento di fare disinformazione e disaffezionare gli elettori dal candidato democratico Joe Biden. A lanciare l’allarme sono stati Facebook e Twitter lo scorso 1 settembre dopo che un’informativa ricevuta dall’Fbi aveva portato i due colossi del web a svolgere un’indagine sulle rispettive piattaforme. Sono stati quindi identificati almeno 15 account e profili creati sui social e utilizzati per far circolare sul web “notizie” faziose e a detrimento della campagna democratica. Il meccanismo svelato è risultato molto simile a quello utilizzato quattro anni fa. Con una novità non irrilevante. Tra gli autori degli articoli figuravano anche giornalisti americani, ignari delle reali intenzioni della piattaforma.
Il 10 settembre scorso è toccato invece a Microsoft informare SKDK, la più importante società di consulenza per la campagna democratica, di un tentativo di attacco informatico volto ad hackerare le mail dei suoi impiegati. Secondo il colosso americano, la metodologia dell’attacco e la struttura dei profili suggeriscono che a compierlo sia stato “Fancy Bear”, lo stesso gruppo russo responsabile del furto delle mail del Partito democratico di quattro anni fa e della loro successiva pubblicazione.
Lo stesso giorno, il Tesoro americano ha sanzionato Andrii Derkach per reiterati tentativi di influenzare le elezioni 2020. Imprenditore e politico ucraino, Derkack è considerato un agente al soldo dei servizi segreti russi da più di dieci anni. Era balzato alle cronache internazionali quando nell’ottobre 2019 aveva accusato il figlio di Joe Biden, Hunter, di riciclaggio di denaro tra un colosso dell’energia ucraino e il fondo di investimenti da lui presieduto. Nello stesso provvedimento del Tesoro figurano tre persone di nazionalità russa, accusati di aver gestito la parte economica del gruppo di hacker Internet Research Agency in quanto responsabili degli account di criptovalute collegate al gruppo di hacker russi. Lo scorso dicembre Derkach aveva incontrato a Kiev l’ex sindaco di New York nonché avvocato personale di Donald Trump, Rudolph Giuliani, per mettere insieme le accuse rivolte a Hunter Biden. Il Dipartimento del Tesoro ha congelato tutti i beni situati negli Stati Uniti e ricollegabili a Derkach.
Foto: il presidente russo Vladimir Putin e quello americano Donald Trump al G20 di Osaka nel giugno 2019 – PixArena/Shutterstock | Editing: Lorenzo Bagnoli | Ha collaborato: Silvia Pittoni