#PesticidiAlLavoro

In Trentino la transizione verso la melicoltura biologica su larga scala è ancora difficile
Il quantitativo di pesticidi usati è doppio rispetto alla media nazionale. Le percentuali coltivate a biologico sono ancora trascurabili. E le alternative, come l'agricoltura biodinamica, non hanno validità scientifica
25 Maggio 2022

Edoardo Anziano
Francesco Paolo Savatteri

«La dottoressa mi ha detto che se volevo guarire avrei dovuto cambiare, non potevo continuare a utilizzare i prodotti chimici». Giorgio Baldo ha 65 anni e lavora in agricoltura da quando aveva 14 anni nella zona di Aldeno, in Trentino. Nel 2013 gli è stato diagnosticato un linfoma non Hodgkin. Secondo il personale medico la causa è da imputare agli anni trascorsi a lavorare con i pesticidi. Così è passato al biologico e dopo alcuni anni all’agricoltura biodinamica, un metodo di coltivazione molto controverso. Se infatti da un lato il biodinamico fa ancora meno uso di prodotti a base di rame o zolfo rispetto al biologico (infatti i prodotti biodinamici sono anche biologici ma non viceversa), dall’altro include tutta una serie di credenze e “preparati” che non hanno alcun fondamento scientifico.

Quando chiediamo a Giorgio se ha mai provato ad ottenere un’indennità dall’Inail o da qualche altro tipo di assicurazione, la sua voce viene coperta da quella di sua moglie Elisabetta Coser e di sua figlia Monica, che lo aiutano nella gestione dell’azienda agricola. Tutti e tre dicono la stessa cosa: è troppo difficile raccogliere tutta la documentazione necessaria e non ne vale la pena, vista la scarsa possibilità di vedere riconosciuta la malattia. I dati dell’Inail, come avevamo già raccontato nella prima puntata di #PesticidiAlLavoro, suggeriscono che quello di Giorgio non è un caso isolato: negli ultimi cinque anni solo sette lavoratori hanno denunciato un linfoma non Hodgkin come malattia professionale, e soltanto uno è stato accertato come tale.

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L'inchiesta

#PesticidiAlLavoro è un’inchiesta collaborativa sulle conseguenze sanitarie per gli agricoltori che impiegano i pesticidi. L’inchiesta è coordinata da Investigative Reporting Denmark e Le Monde. Partecipano Tygodnik Powszechny (Polonia), Ostro (Croatia e Slovenia), De Groene Amsterdammer (Olanda), Ippen Investigativ (Germania), TV2 (Danimarca), Marcos Garcia Rey (Spagna) e The Midwest Center for Investigative Reporting dagli Stati Uniti. In Italia, IrpiMedia è in partnership con Scomodo.

Mentre ci racconta la sua storia, Giorgio, con sua figlia Monica, ci accompagna in macchina tra i campi della Provincia autonoma di Trento. Questa è una delle zone che produce più mele in Italia e in Europa. Si trovano qui le sedi e i terreni di alcuni giganti del settore come Melinda, in Val di Non. Basta poco per accorgersi dell’intensità dell’agricoltura nell’area: tutt’intorno, andando da un paesino all’altro, si vedono campi di mele a perdita d’occhio. In alcuni casi i filari si trovano praticamente dentro i centri abitati, con i meli che vengono piantati in ogni angolo di terreno disponibile. I dati confermano questa impressione: l’Italia è la maggiore produttrice di mele in Europa e nel 2009 il Trentino-Alto Adige forniva il 65% delle mele in Italia. Ora la percentuale è ancora più alta visto che nel 2020 la produzione nella regione è aumentata e al contempo è diminuita quella totale italiana.

Il Trentino è anche la seconda regione in cui vengono venduti più pesticidi in Italia rispetto alla superficie agricola utilizzata. Come si legge infatti in un rapporto di ISPRA, nel 2018 la media nazionale italiana di principi attivi venduti era 4,3 kg per ettaro. Per la Provincia autonoma di Trento, questo valore è 9,8 kg/ha, più del doppio. Inoltre, non sembra che lo sfruttamento dei terreni dell’area sia diminuito. In un lungo giro in macchina, alcuni esponenti del Comitato per il Diritto alla Salute in Val di Non – un gruppo di attivisti legato a PAN Italia – ci mostrano l’ultimo caso di disboscamento a fini agricoli della zona, che ha sollevato non poche proteste. Nonostante le opposizioni, gli alberi sono stati sradicati tra settembre e ottobre 2019 – le date sono state confermate sia dal Comitato, sia dalle immagini satellitari – per fare spazio a nuovi meleti.

Comparazione satellitare (2015 – 2022) a Ville D’Anaunia (TN), dove il Comune ha disboscato 24mila m2 per fare posto a nuovi meleti
Comparazione satellitare (2015 – 2022) a Ville D’Anaunia (TN), dove il Comune ha disboscato 24mila m2 per fare posto a nuovi meleti

Questione di priorità

Tutto questo rende il Trentino un caso esemplare di rappresentazione delle contraddizioni e delle tensioni interne al sistema agricolo attuale. Politicamente, ciò si traduce in continui scontri tra i sostenitori di diverse posizioni su come superare il tradizionale modello di agricoltura intensiva basata sui pesticidi. Quello che è certo è che nessuno è esplicitamente a favore dei pesticidi e tutti riconoscono la necessità di diminuirne l’utilizzo. Ciò che cambia, ovviamente, è l’urgenza con cui viene sentita questa necessità, la percezione del rischio e la soluzione proposta. Alcuni pensano che serva urgentemente passare all’agricoltura biologica, se non addirittura biodinamica. Altri invece pensano che l’unico metodo realistico sia investire sempre di più nella tecnologia e nella ricerca, in modo da trovare pesticidi meno dannosi e piante che richiedono meno trattamenti.

Di questa opinione sono Sergio e Giovanni (nomi di fantasia), entrambi sulla 60ina, che lavorano come agricoltori part-time in un campo vicino alla sede dell’Unione Frutticoltori Rallo (TN), affiliato a Melinda. Uno dei due definisce il biodinamico come il Medioevo e insiste sul fatto che non bisogna andare indietro nel tempo. «Si deve andare avanti con il progresso – spiega – e con le nuove tecnologie. Questo è l’unico modo». Ci indicano alcuni filari di meli piantati da poco: si tratta di una varietà su cui Melinda sta investendo ultimamente, che è più resistente ad alcune malattie come la ticchiolatura e quindi ha bisogno di molti meno trattamenti con pesticidi rispetto alle varietà tradizionali. Secondo Sergio e Giovanni, questo è solo uno dei tanti sforzi che Melinda sta facendo per passare all’agricoltura biologica.

In realtà la transizione è più complicata. William Cattani, 33 anni, dal 2007 fa melicoltura biologica con il colosso della Val di Non. «Con l’agricoltura biologica, l’assistenza tecnica è così e così in Melinda: c’è un tecnico solo su oltre trecento ettari». «A dicembre – continua Cattani – ad un’assemblea proprio per il biologico c’erano alcuni agricoltori biologici, circa un centinaio. Un ragazzo giovane ha chiesto al direttore di Melinda: “Ma a voi interessa il biologico? O vi serve?”. E il direttore non ha risposto. Ha fatto un bel giro di parole, come fanno i bravi giocolieri, però la risposta non c’è stata».

Campi di mele intorno a Tuenno (TN) visti dal Malghetto di Tassullo. La superficie agricola coltivata del Trentino è quasi raddoppiata, passando dal 5,4% del 2016 al 9.8% del 2020 - Foto: Edoardo Anziano
Campi di mele intorno a Tuenno (TN) visti dal Malghetto di Tassullo. La superficie agricola coltivata del Trentino è quasi raddoppiata, passando dal 5,4% del 2016 al 9.8% del 2020 – Foto: Edoardo Anziano
La ticchiolatura

Ticchiolatura è il nome comune di una malattia del melo causata dal fungo Venturia Inaequalis, che colpisce foglie, rami e frutti. Sulla pianta infettata dal fungo si formano macchie di colore scuro, che causano la morte di rami e foglie e la deformazione delle mele. La ticchiolatura viene combattuta con trattamenti fitosanitari a base di polisolfuro di calcio o rame. Nel 2013 i meli della Val di Non sono stati aggrediti con una forza mai vista dal fungo, con circa il 15% delle piante che si sono ammalate.

La produzione biologica, in Trentino, sembra essere finalizzata esclusivamente al riempimento di una nicchia di mercato. L’Associazione dei Produttori Ortofrutticoli del Trentino (APOT) – un consorzio di “secondo livello”, cioè un’associazione che a sua volta raggruppa sotto di sé i consorzi di Melinda, la Trentina e Copag – coltiva 500 ettari di meleti biologici, il triplo rispetto al 2015. Tuttavia, spiega Alessandro Dalpiaz, direttore di APOT, «nel prossimo futuro questo progetto dovrà assestarsi e le prospettive di ulteriore espansione saranno valutate in ragione dello sviluppo del segmento biologico del mercato». Questo perché, continua Dalpiaz, gli agricoltori biologici devono essere remunerati in modo da «coprire l’aumento dei costi di coltivazione e la minore produttività».

Nella sede nazionale del WWF a Roma, Franco Ferroni, responsabile Agricoltura e Biodiversità dell’associazione, presenta un quadro simile. «In occasione del referendum sul biodistretto – spiega parlando di una consultazione tenutasi a settembre 2021 in Trentino, che non ha raggiunto il quorum necessario – da Melinda ci dicevano spesso che loro stavano investendo nel biologico. Peccato che si tratta di cifre irrisorie, il 2-3% della produzione». I dati presenti sullo stesso sito di Melinda confermano questa tesi. Su 6.700 ettari di meleti, solo 175 sono dedicati all’agricoltura biologica. Una ricerca tra le vecchie versioni del sito mostra che i numeri sono identici da almeno due anni, nonostante venga sottolineato che prevedono «di raggiungere in cinque anni una superficie coltivata a bio di 500 ettari».

Il referendum per il "biodistretto" in Trentino

Il 29 settembre 2021 gli abitanti del Trentino sono stati chiamati a votare per decidere la trasformazione della Provincia Autonoma in un “distretto” in cui la produzione agroalimentare avvenisse “prevalentemente con i metodi biologici”, ai fini “di tutelare la salute, l’ambiente e la biodiversità”. Sostenuto da Greenpeace, Legambiente e WWF, il referendum avrebbe imposto un minimo del 50% di superficie agricola coltivata con tecniche biologiche. La Confederazione Italiana Agricoltori si è invece dichiarata contraria. La consultazione non ha raggiunto il quorum necessario del 40%, fermandosi al 15.58%.

La posizione di Sergio e Giovanni nei confronti del biologico rimane in ogni caso ambigua. Da un lato sottolineano gli sforzi di Melinda, dall’altro enfatizzano gli aspetti negativi di questo metodo di coltivazione. «Il biologico è ancora peggio [del biodinamico, ndr] perché ogni volta hai un odore spaventoso di uova marce per due giorni», dice uno dei due riferendosi all’odore dei prodotti a base di zolfo, ammessi in agricoltura biologica. L’altro subito dopo lo corregge sottolineando che «non è né meglio né peggio. Alla fine sono tutti prodotti nocivi che avranno delle loro controindicazioni. Però il biologico usa prodotti di trent’anni fa mentre uno spera che con il progresso i prodotti diventino meno dannosi».

In realtà le evidenze scientifiche mostrano abbastanza chiaramente come lo zolfo sia uno dei prodotti meno tossici rispetto ai pesticidi convenzionali, nonostante l’odore sgradevole. Man mano che parliamo, si nota sempre di più che la percezione del rischio dei due agricoltori non è conforme alla realtà. I due minimizzano i pericoli dicendo che i prodotti ormai hanno un tasso di dispersione bassissimo.

Un meleto intensivo nel comune di Cles (TN). Dei 10.700 ettari dedicati alla frutticoltura in Trentino, 1.071 sono biologici, il doppio rispetto al 2016 - Foto: Edoardo Anziano

Un meleto intensivo nel comune di Cles (TN). Dei 10.700 ettari dedicati alla frutticoltura in Trentino, 1.071 sono biologici, il doppio rispetto al 2016 – Foto: Edoardo Anziano

Contaminazioni

Proprio a Clés incontriamo il Comitato per il Diritto alla Salute in Val di Non, che ci spiega perché i pesticidi vengano percepiti come meno dannosi di quanto in realtà siano. I membri del Comitato hanno richiesto di rimanere anonimi. «Per noi – ci scrivono dopo l’intervista – è una grande umiliazione non poter parlare liberamente e metterci la faccia, ma abbiamo delle responsabilità su altri soggetti (parenti e figli) che non ci permettono di rischiare un’altra volta». Nel 2012, infatti, il Comitato era stato denunciato per diffamazione da APOT, il consorzio di cui fa parte Melinda, per aver «diffuso notizie false e tendenziose circa gravi pericoli alla salute derivanti dall’utilizzo di sostanze fitosanitarie nel locale ambiente agricolo». Accuse infondate secondo il PM Marco Gallina che, nella richiesta di archiviazione, aveva sottolineato come le preoccupazioni del Comitato fossero supportate «da analisi chimiche e biologiche evidenzianti situazioni inquinanti – se non allarmanti, certamente preoccupanti».

«Una volta i pesticidi venivano polverizzati di meno – spiegano i membri del Comitato – quindi le gocce sparate erano più visibili: vedevi il nuvolone. Oggi vengono sparati sotto forma di aerosol perché coprono meglio le superfici delle foglie e dal punto di vista ottico è un vantaggio perché non vedi quasi nulla. Però in realtà si disperde ancora di più». Sono diverse le evidenze scientifiche a sostegno di questa tesi. Oltre ad una spiegazione strettamente fisica, nella stessa regione del Trentino-Alto Adige sono state trovate delle contaminazioni da pesticidi anche fuori dai terreni coltivati.

In uno studio del 2021, alcuni ricercatori hanno esaminato l’erba presente nelle aree di gioco per bambini a meno di 100 metri da campi agricoli intensivi e hanno trovato residui di molti pesticidi, tra cui anche potenziali cancerogeni come il captano o agenti neurotossici come il chlorpyrifos – vietato in Ue dal 2020. In alcuni casi, i livelli eccedevano anche il livello massimo di residui consentiti negli alimenti – il che vuol dire che se una persona iniziasse a curare un orto in quella stessa zona, rischierebbe di mangiare alimenti dannosi per la salute umana.

Risultati simili vengono anche da un report meno recente (2010) redatto proprio dal Comitato per il Diritto alla Salute in Val di Non. I membri hanno analizzato vari aspetti legati ai pesticidi, a partire dal numero di infrazioni commesse in una porzione di territorio della Val di Non. In soli tre mesi di monitoraggio, hanno notato circa 500 casi di violazione delle ordinanze comunali che regolano la distanza minima dalle case per utilizzare i pesticidi e le condizioni atmosferiche necessarie. Oltre a questo, hanno fatto analizzare dei campioni presi dalle loro case, trovando numerosi residui di varie sostanze attive contenute nei fitofarmaci. Infine hanno fatto analizzare le urine di alcuni abitanti dell’area, compresi alcuni bambini, scoprendo la presenza di alcuni valori anomali dovuti molto probabilmente alla contaminazione da pesticidi.

Questo stesso studio è stato citato dal PM Marco Gallina, il quale nella richiesta di archiviazione della denuncia per diffamazione che «estremamente significativa appare la relazione tecnica predisposta dallo stesso comitato, circa la problematica della “deriva” dei prodotti fitosanitari nelle zone residenziali della valle». Più avanti sottolinea anche che «il tutto viene supportato da analisi chimiche e biologiche evidenzianti situazioni inquinanti – se non allarmanti, certamente preoccupanti».

Giorgio Baldo mostra un preparato biodinamico a base di fiori - Foto: Edoardo Anziano
Giorgio Baldo mostra un preparato biodinamico a base di fiori – Foto: Edoardo Anziano

La soluzione ideale, per il Comitato, è passare all’agricoltura biodinamica. A più riprese ce ne sottolineano le qualità, e non sono gli unici. In un lungo discorso sulla storia agricola della Val di Non, Italo Francisci, un agricoltore della zona, ci parla del biodinamico come «la cura alla malattia», in cui la malattia è l’agricoltura intensiva e in generale la monocoltura. Quando facciamo notare ai vari sostenitori di questa dottrina che ci sono molti aspetti scientificamente infondati all’interno del biodinamico, dicono che spetterebbe alla scienza capire meglio perché l’agricoltura biodinamica dia luogo a frutti migliori e a una qualità del suolo più alta. In realtà non sono molti gli studi scientifici che analizzano questi aspetti e non esiste un accordo all’interno della comunità scientifica (due diverse review sulla letteratura scientifica sul tema, ad esempio, sono arrivate a conclusioni opposte).

Resta il fatto che l’agricoltura biodinamica sembra impraticabile su larga scala. Tutti gli agricoltori biodinamici con cui abbiamo parlato ammettono che questo tipo di agricoltura rende ancora meno di quella biologica in termini di produzione e richiede molto più lavoro, oltre ad essere attualmente molto poco diffusa – secondo il Sole24Ore, solo il 5-6% delle aziende biologiche in Italia applicano anche metodi biodinamici.

Il partito degli agricoltori

In un contesto in cui ci sono così tanti conflitti di priorità, visioni e interessi tra i cittadini, il ruolo delle istituzioni politiche, economiche e scientifiche dell’area è fondamentale. Queste intervengono nel dibattito e lo influenzano in vario modo, oltre a fornire le direttive e le normative a cui gli agricoltori devono attenersi. Il problema è che rapporti tra i soggetti coinvolti non sono limpidissimi.

Uno dei maggiori attori in questo gioco è proprio APOT (Associazione Produttori Ortofrutticoli Trentini). É questo infatti che, insieme a vari gruppi tecnici e alla giunta provinciale, definisce e aggiorna annualmente i Disciplinari di Produzione, delle regole precise che servono ad rendere effettive le linee guida date dal Ministero a livello nazionale. É evidente quindi che si tratta di un soggetto molto influente nelle dinamiche politiche locali.

Non è facile definire il peso di Melinda all’interno di APOT (e quindi anche nella politica locale). Sergio e Giovanni non sono d’accordo fra di loro. Uno dice che sono due cose totalmente diverse, che Melinda non c’entra nulla nel processo di definizione delle regole e delle normative tecniche. L’altro nel frattempo ridacchia e sottolinea che alla fine è comunque Melinda che organizza i corsi di aggiornamento e che si spende per fare in modo che gli agricoltori partecipino. Dal Comitato ci dicono che effettivamente Melinda ha un ruolo importante sia dentro APOT – dopotutto ne è il socio più grande – sia in generale nella politica dell’area. «Gli agricoltori in questa zona sono 12-15mila – spiega un esponente del Comitato – e sono una parte influente della popolazione. É normale quindi che un consorzio così grande come Melinda sia sempre presente ai tavoli politici. E anche quando non c’è formalmente, in qualche modo influisce».

Nella sede del Consiglio Provinciale, nel centro storico di Trento, il consigliere ex-5Stelle Filippo Degasperi ci descrive più nel dettaglio chi sono i personaggi principali in questa dinamica. In particolare parla della Fondazione Mach, un’organizzazione che – come si legge sul sito – si occupa di ricerca scientifica, istruzione e formazione, sperimentazione, consulenza e servizio alle imprese, nei settori agricolo, agroalimentare e ambientale. Alessandro Dalpiaz entra più nel dettaglio e sottolinea che tra Fondazione Mach e APOT è stata stipulata una convenzione triennale, che comprende «le attività di ricerca e sperimentazione, le attività di consulenza tecnica e di controllo», e che vede un impegno finanziario diretto da parte di APOT è di un milione di euro l’anno.

Secondo Degasperi, è da Fondazione Mach che la politica prende le conoscenze tecniche necessarie per sviluppare i regolamenti e le norme tecniche sui trattamenti fitosanitari. «La regia vera – dice – ce l’ha la Fondazione Mach». La Fondazione ha aiutato la Giunta Provinciale a sviluppare gli ultimi Disciplinari di Produzione del Trentino. Il problema per Degasperi è che anche dentro Mach è mancata la spinta per andare verso soluzioni più sostenibili: «Ci si è adagiati su una situazione di vantaggio competitivo, che ha portato tanti benefici alla Val di Non ma che ha avuto molte ricadute sull’ambiente».

La fascia di diserbo in un meleto in prossimità del Rio Ribosc (Cles), un torrente inquinato dai pesticidi già a pochi chilometri dall'origine. I campionamenti ISPRA nel 2019 avevano rilevato 25 differenti fitofarmaci nell'acqua - Foto: Edoardo Anziano
La fascia di diserbo in un meleto in prossimità del Rio Ribosc (Cles), un torrente inquinato dai pesticidi già a pochi chilometri dall’origine. I campionamenti ISPRA nel 2019 avevano rilevato 25 differenti fitofarmaci nell’acqua – Foto: Edoardo Anziano

Dalpiaz fornisce alcune informazioni in più sull’impegno della fondazione per cercare soluzioni alternative all’agricoltura convenzionale. «Come frutto di una stretta cooperazione – spiega – con la Fondazione E. Mach e con i suoi ricercatori e tecnici, nel rispetto dei disciplinari di difesa integrata e biologica nazionali e provinciali, si possono oggi testimoniare importanti risultati». Fra questi, c’è il metodo della «confusione sessuale», che impedisce la riproduzione di alcuni lepidotteri dannosi per i meli, applicato stabilmente su «oltre 7.000 ettari di superficie melicola». Dalpiaz sottolinea comunque che oggi è ancora necessario usare i pesticidi per garantire la sostenibilità economica alle famiglie impiegate nel settore, ma che la ricerca scientifica porterà sempre di più verso soluzioni sostenibili applicabili su larga scala. Ed è proprio questa la linea che emerge da alcune delle ultime dichiarazioni provenienti da Mach: il biologico non può funzionare su larga scala, la soluzione arriva dal progresso della ricerca tecnica. Fondazione Mach non ha risposto alle domande presentate da Scomodo e IrpiMedia.

Ai piani alti

Secondo chi vuole un passaggio più rapido possibile verso un’agricoltura biologica su larga scala in Val di Non, è anche la presenza di questi tre attori – APOT, Melinda e Fondazione Mach – a rallentare la trasformazione. Ma, come sottolinea anche Degasperi, tutto questo è possibile solo perché la legislazione a livelli più alti – statale e europeo – offre un quadro normativo poco stringente. In Europa, la principale strategia per la riduzione dell’utilizzo dei pesticidi si chiama Farm to Fork. Tra i suoi obiettivi c’è quello di abbassare del 50% l’uso dei prodotti fitosanitari più pericolosi. Il problema è che questi rischiano di rimanere solamente sulla carta.

Ferroni del WWF la racconta come una delle maggiori occasioni perse degli ultimi tempi: «Le strategie non sono vincolanti per gli Stati membri. La possibilità di rendere vincolanti gli obiettivi ce la siamo giocata quando il Parlamento europeo ha votato i nuovi regolamenti della Politica Agricola Comune (PAC) e non ha recepito gli obiettivi delle strategie». E questo sarebbe stato molto importante, perché legare gli obiettivi alla PAC voleva dire legarli «ai soldi che la Commissione europea mette sull’agricoltura». Anche altri osservatori confermano questo scollamento tra gli obiettivi del Green Deal europeo e la Politica Agricola Comune. Il consorzio Melinda inoltre è stato uno dei maggiori beneficiari dei soldi della PAC nel 2018, ricevendo più di 16 milioni di euro (nel 2019 questa cifra si è molto ridotta, arrivando a poco più di 3 milioni).

Per il nostro Paese inoltre l’eccessiva elasticità delle leggi in materia è un problema particolarmente accentuato. Ogni Stato deve fornire alla Commissione europea un “Piano Strategico”, sostanzialmente un insieme di criteri e misure attuative per amministrare e distribuire i fondi della PAC. Il Piano italiano è stato criticato dalla Commissione europea proprio perché troppo vago sugli obiettivi ecologici legati ai pesticidi. In generale poi viene sottolineato che, rispetto agli impegni ambientali presi dall’Unione, «è improbabile che il piano proposto possa contribuire in modo sufficiente ed efficace a questo obiettivo generale».

E questo è solo uno degli aspetti deboli della legislazione italiana sul tema. Lo stesso Ferroni spiega come ogni Stato dovrebbe anche stilare un Piano d’Azione Nazionale per l’utilizzo sostenibile dei prodotti fitosanitari. Questo dovrebbe fornire una serie di prescrizioni precise come la distanza minima dalle case quando si utilizzano i pesticidi. «Beh, in Italia – dice Ferroni – abbiamo un Piano d’Azione che è scaduto a febbraio 2019. È stata poi fatta una consultazione pubblica chiusasi a ottobre 2019, sulla base di una bozza del piano che abbiamo trovato molto deficitaria in materia ambientale». Ad oggi, il Piano ancora non è stato reso definitivo.

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Francesco Paolo Savatteri

Editing

Lorenzo Bagnoli

Mappe

Edoardo Anziano

Foto di copertina

Un trattore attrezzato con atomizzatore per i trattamenti fitosanitari passa fra i meleti di Aldeno (TN)
(Edoardo Anziano)