#PesticidiAlLavoro
Edoardo Anziano
Lorenzo Bagnoli
Francesco Paolo Savatteri
Èun mistero il numero di lavoratori agricoli che si sono ammalati o sono morti in Europa di malattie come Parkinson e tumore alla prostata negli ultimi cinquant’anni. Nonostante la pletora di studi che riconoscono il nesso tra alcune patologie e le sostanze attive dei fitofarmaci, i dati sanitari sui lavoratori scarseggiano, anche per la poca volontà di conoscere fino in fondo la situazione, come raccontato nella scorsa puntata di #PesticidiAlLavoro.
A mantenere l’alone di mistero intorno ai dati italiani sulle malattie correlate all’uso dei pesticidi, ci sono prassi consolidate, regolamenti sorpassati e disinteresse nella gestione dei rischi di infortunio sul lavoro. Di fondo, c’è un’opacità del mondo agricolo che è dovuta in parte alla mancanza di personale che dovrebbe svolgere i controlli: ispettori del lavoro, forze dell’ordine (Guardia di finanza e Nas), ispettori Inps e Inail, ispettori regionali dei fitofarmaci. Sei categorie sotto organico – hanno spiegato a IrpiMedia fonti del settore – che non riescono a controllare quanto dovrebbero, soprattutto le aziende più piccole, le più numerose e le più esposte.
L'inchiesta in breve
- In Italia i pochi dati sulle morti e i casi di malattia riconducibili all’uso dei pesticidi sono dovuti a una serie di fattori strutturali.
- Il mercato agricolo italiano è composto da aziende a conduzione familiare spesso piccole e con poca capacità ad adeguarsi alle regole per la sicurezza. Le organizzazioni che dovrebbero svolgere controlli periodici sulle condizioni di lavoro sono sotto organico e questo incentiva delle condizioni di irregolarità nella gestione dei prodotti più pericolosi.
- Momo e Job Tax sono due inchieste delle procure di Cuneo e Latina per sfruttamento lavorativo. Entrambe, però, hanno raccolto prove dell’uso di fitofarmaci senza mascherine e senza la minima formazione da parte degli stessi lavoratori stagionali stranieri sfruttati.
- Tra i fitofarmaci usati senza precauzioni ci sono anche prodotti che sono stati recentemente vietati dalla Commissione europea perché ritenuti pericolosi.
- Tra questi ce n’è anche uno di quelli inseriti dall’Inail tra le lavorazioni previste per il riconoscimento del morbo di Parkinson. Lavorazione, malattia e tempo utile della denuncia sono le tre condizioni richieste per l’ottenimento della malattia occupazionale.
- C’è la possibilità anche di ottenere il riconoscimento di un indennizzo attraverso una causa legale, ma non sempre medici del lavoro e patronati sono preparati a sufficienza per dare un vero contributo ai ricorsi.
L’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) spiega che solo 260 ispettori (dati 2020) si occupano della categoria Salute e sicurezza, in cui rientrano anche il mancato uso dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) e la mancata formazione dei lavoratori. Per il settore agricolo, le violazioni in materia di Salute e sicurezza accertate dall’Inl nel 2020 sono state 660. «Si sta cercando solo adesso di incentivare la conoscenza e di migliorare le condizioni di prevenzione alla sicurezza nell’uso dei fitofarmaci», spiega l’agronomo Carlo Antellini, formatore di corsi Inail per l’uso dei fitofarmaci che opera nella regione della Sabina, nel Lazio.
Malgrado le regole da seguire, «il mercato è talmente viziato che i prodotti si vendono online», aggiunge. In teoria, infatti, il mercato dei pesticidi dovrebbe essere altamente regolato. I punti vendita dovrebbero consegnare il prodotto solo a chi può esibire un patentino. Invece sulle piattaforme e-commerce generaliste chiunque può comprare, anche prodotti che ormai sono vietati sul mercato europeo, ma che continuano a circolare altrove (vedi articolo precedente). Significa che il patentino obbligatorio per l’acquisto di un fitosanitario non verrà richiesto. «Servirebbero più controlli», è l’auspicio di Antellini. I consorzi di agricoltori autorizzati a vendere i pesticidi non hanno risposto alle richieste di chiarimenti di Scomodo e IrpiMedia in merito al funzionamento del mercato dei prodotti fitosanitari e ai connessi problemi di controlli..
Da alcuni casi giudiziari è possibile comunque ricostruire il modo in cui alcune aziende hanno gestito i fitofarmaci negli ultimi anni. Sono una fonte collaterale, perché i procedimenti sono scaturiti dopo segnalazioni di sfruttamento lavorativo, quindi nulla a che vedere con l’uso dei fitofarmaci.
Le malattie tabellate
Perché un lavoratore, una volta che si presentano i sintomi di una patologia, possa ottenerne da parte dell’Inail il riconoscimento “automatico” del suo carattere professionale, devono verificarsi tre condizioni: la malattia deve essere inserita nelle tabelle Inail delle malattie riconosciute come professionali; la malattia deve essere provocata da una lavorazione prevista dall’Inail; deve essere denunciata entro un periodo stabilito («periodo massimo di indennizzabilità»). Altrimenti può sempre percorrere la via giudiziaria e presentarsi di fronte a un giudice del lavoro. Strada che però è più difficile e costosa.
Per il morbo di Parkinson, le lavorazioni previste sono quelle «che espongono
all’azione del etilenbisditiocarbammato di manganese» entro dieci anni. L’etilenbisditiocarbammato di manganese è una molecola che si trova all’interno di certi fungicidi come il Mancozeb, revocato nel febbraio 2021.
Le operazioni Momo e Job Tax
I dati del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo dell’associazione AdiR – L’altro diritto aggiornati al 2020 riportano un solo caso, a Saluzzo, in cui i braccianti agricoli entravano a contatto con i fitofarmaci – sia nei campi che nei magazzini – senza alcun tipo di dispositivo di protezione personale. L’inchiesta, denominata operazione Momo, è iniziata nel maggio del 2019 sotto la guida della Procura di Cuneo. Un presunto caporale era stato arrestato, mentre due imprenditori erano finiti ai domiciliari con l’accusa di sfruttamento lavorativo. Durante il processo, iniziato a settembre 2020 e ancora in corso, gli imprenditori hanno rigettato l’accusa di sfruttamento, sottolineando di non aver mai effettuato trattamenti fitosanitari mentre i lavoratori si trovavano nei campi.
Ad aprile 2021, in provincia di Latina, sette persone – fra imprenditori agricoli e presunti caporali – sono state arrestate con l’accusa di associazione a delinquere dedita allo sfruttamento e all’estorsione. L’operazione, denominata Job Tax, è stata condotta dai Nas, con il coordinamento della Procura di Latina. Agli indagati è stato contestato l’impiego illegale di pesticidi, anche vietati.
L’operazione Momo a Cuneo e l’operazione Job Tax a Latina hanno in comune un contesto di presunto sfruttamento lavorativo, un minimo comune denominatore che fa da sfondo all’impiego di pesticidi senza protezioni per i lavoratori. Il fenomeno, come indicano le inchieste giudiziarie, appare diffuso in tutta Italia. Secondo Marco Omizzolo, sociologo esperto di sfruttamento in agricoltura di lavoratori migranti, «a livello nazionale ci sono stati interventi soprattutto delle forze dell’ordine e delle diverse procure. Hanno certificato l’esistenza del fenomeno sul piano investigativo ed è un dato interessante che riguarda sia il sud che il nord Italia, ovvero forme di economia, di sviluppo e produzione agricola diverse, ma spesso caratterizzate dall’utilizzo di fitofarmaci in quantità eccedente quella legale o l’utilizzo di fitofarmaci illegali».
Agricoltura a conduzione familiare
L’ultimo rapporto Istat sull’agricoltura (dati 2017, il prossimo censimento verrà aggiornato a giugno 2022) conta 413 mila imprese agricole, cioè imprese che hanno come attività primaria la gestione di campi, boschi o allevamenti. Sono inserite nel più ampio insieme delle aziende agricole (1,6 milioni), cioè tutte le imprese che svolgono attività relative all’agricoltura.
Le imprese agricole rappresentano due terzi della dimensione economica italiana e circa il 65% dei 12,8 milioni di ettari coltivabili. Poco più di un terzo del totale di tutte le aziende agricole hanno un titolare che è «unità economica non attiva». Significa che il settore agricolo non è il suo unico lavoro.
Un altro 30% delle aziende agricole è a conduzione familiare con dimensioni molto piccole, sotto i due ettari. In altri termini, l’agricoltura italiana è composta da piccole imprese. Dal censimento Istat 2010 emergeva anche che «la formazione dei capi azienda è decisamente ancora molto legata all’esperienza di campo e meno al grado di istruzione conseguito. Il 71,5% dei capi azienda ha un livello d’istruzione pari o inferiore alla terza media (70,8% per gli uomini e 73% per le donne). Solo il 6,2% dei capi azienda è laureato e inoltre solo lo 0,8% risulta aver acquisito una laurea ad indirizzo agrario».
Il livello di istruzione dei titolari di aziende agricole
«Riteniamo certo che in dieci anni la quota dei conduttori fino alla terza media sia molto diminuita», precisa Roberto Gismondi, dirigente di ricerca dell’Istat che si che si occupa del Servizio statistiche e rilevazioni sull'agricoltura, ma resta molto significativo. Conduzione familiare e scarso livello di istruzione sono due fattori che possono spiegare la scarsa attenzione alla dimensione della sicurezza sul lavoro che da un lato si può tradurre in poca attenzione all’uso dei Dpi e alla conservazione dei fitofarmaci, che a sua volta è un impedimento per ottenere il riconoscimento della malattia professionale.
Nessuna protezione
Durante il processo di Cuneo, il presunto caporale, Tassembedo Moumouni – dal cui soprannome, Momo, prende il nome l’inchiesta – interrogato dal Pubblico Ministero Carla Longo, spiega che i lavoratori non avevano alcun tipo di dispositivo di protezione personale. Moumouni racconta di non aver «mai» ricevuto guanti o occhiali protettivi, e spiega come, mentre i braccianti lavoravano nei campi, venivano sparsi fitofarmaci tutto intorno. «Quindi, voi lavoravate nella raccolta e… in altre zone o nella stessa zona dove eravate voi si buttava il diserbante?» domanda il magistrato. «Nella stessa zona – spiega Moumouni –. Stiamo lavorando in questa fila, lui passa qua, nella fila si butta. Qualche volta ci spostiamo solo due metri e poi ritorniamo».
Questo viene confermato da uno dei lavoratori costituitisi parte civile nel processo. Il bracciante, originario del Burkina Faso, spiega che sostanze antiparassitarie venivano irrorate nei campi mentre, in contemporanea, veniva effettuata la potatura. «Ogni tanto – racconta – il prodotto toccava anche loro». I lavoratori dormivano nello stesso magazzino in cui i pesticidi venivano stoccati, «davanti a quella porta c’era pure un segno, con scritto pericoloso», e gli stessi pesticidi venivano poi sparsi «mentre loro lavorano». Tuttavia, due lavoratori interrogati come testimoni, affermano che i trattamenti fitosanitari venivano effettuati, ma non quando i lavoratori erano presenti sul campo.
Nelle carte dell’operazione Job Tax, invece, i proprietari di un’azienda agricola di San Felice Circeo, in provincia di Latina, vengono accusati di aver sfruttato manodopera straniera – di nazionalità bengalese, indiana e pakistana –, facendogli eseguire anche trattamenti con fitofarmaci, nonostante i lavoratori stessi non fossero in possesso dell’autorizzazione all’utilizzo di prodotti fitosanitari. Si tratta del cosiddetto “patentino”, che viene rilasciato dopo la frequenza di un corso di formazione e il superamento di un esame. Per i lavoratori agricoli è obbligatorio.
Dalle carte emerge come gli stessi proprietari avessero impiegato un cittadino indiano senza permesso di soggiorno, Kumar Ravi, per «compiti strategici nello svolgimento dell'attività agricola», fra cui l’«impiego di fitofarmaci nelle colture», senza che questi fosse abilitato all’utilizzo dei pesticidi, né tanto meno «formalmente istruito».
Ancora i proprietari, insieme all’agronomo dell’azienda agricola, sono accusati di aver “adulterato” gli ortaggi coltivati, nello specifico ravanelli, con pesticidi non autorizzati, rendendo le colture «pericolose per la salute pubblica». L’agronomo avrebbe fornito indicazioni sulle tempistiche in modo che dalle analisi non risultasse l’uso di prodotti che, secondo le valutazioni della polizia giudiziaria, erano «estremamente pericolosi per la salute pubblica». «All'interno di un locale pozzo artesiano – si legge nei verbali di perquisizione – sono stati rinvenuti e sequestrati prodotti fitosanitari risultati non consentiti sulle colture in atto».
Durante le ricerche dei Nas, «i responsabili aziendali […] freneticamente si adoperavano per occultare altre confezioni di fitofarmaci non autorizzati per l'impiego sui ravanelli». Nei certificati di analisi che l’azienda effettuava sui propri prodotti, gli investigatori troveranno concentrazioni di pesticidi più alte del consentito. Questo fatto, scrive il Giudice per le indagini preliminari, è particolarmente significativo considerando «che lavoratori dipendenti privi della prescritta autorizzazione risulteranno essere adibiti all'impiego di fitofarmaci vietati nell'utilizzo sulle colture».
Prodotti vietati eppure in circolazione
Dalle intercettazioni emerge che lavoratori senza abilitazione né formazione – e quindi verosimilmente senza dispositivi di protezione personale – venivano impiegati in trattamenti fitosanitari. Al telefono con Kumar Ravi, uno dei soci dell’azienda agricola domanda «Tu capace sicuro?». Alla risposta affermativa del bracciante indiano, l’imprenditore detta le istruzioni con i quantitativi di fitofarmaci da irrorare: «1,5 litri di Reldan» e «85 di Butisan». «[…] tu mi raccomando non ti sbaglià mai a misurà la medicina eh il Reldan e Butisan eh» si preoccupa al telefono l’imprenditore, che dopo le rassicurazioni del bracciante aggiunge: «Eh non fare cazzate, perchè dopo esci quando fai analisi sopra i ravanelli esce fuori io ammazzo te eh!».
Il Reldan è un insetticida a base di Chlorpyrifos-Methyl. La Commissione Europea ha confermato, il 10 gennaio 2020, la decisione degli stati membri di non rinnovare l’autorizzazione di prodotti contenenti Chlorpyrifos-Methyl, per la sua possibile genotossicità e neurotossicità. All’epoca delle intercettazioni dell’operazione Job Tax (2019) il prodotto non era ancora stato vietato. Uno studio pubblicato nel 2018 sulla rivista Environmental Health ha revisionato test di tossicità forniti dai produttori di pesticidi a base di Chlorpyrifos e Chlorpyrifos-Methyl: «Uno studio di tossicità finanziato dall'industria conclude che non si verificano effetti selettivi sul neurosviluppo nemmeno in caso di esposizioni elevate». Tuttavia, secondo i ricercatori, gli studi contengono «problemi che riducono impropriamente la capacità degli studi di rivelare effetti reali, tra cui un regime di dosaggio che ha portato a un'esposizione troppo bassa». Ciò ha conseguenze sulla «capacità delle autorità di regolamentazione di effettuare una valutazione valida e sicura di tali antiparassitari». Fra la pubblicazione dello studio e la revoca di fitofarmaci a base di Chlorpyrifos-Methyl sono passati due anni.
In Italia la maggior parte dei prodotti commercializzati come “Reldan” sono stati revocati fra gli anni ‘90 e i primi anni 2000. Soltanto per il Reldan 22 – lo stesso trovato nell’azienda agricola di Latina durante una perquisizione dei Nas a Dicembre 2019 e revocato a Gennaio 2020 – è stato concesso lo smaltimento fino all’Aprile dello stesso anno. Come dichiarato dal Ministero della Salute in una richiesta di accesso civico generalizzato presentata da Scomodo, «lo smaltimento si applica ai lotti di prodotti fitosanitari che riportano una data di produzione antecedente a quella del provvedimento di revoca del prodotto stesso o di modifica delle condizioni di autorizzazione del prodotto oggetto dello smaltimento». Tuttavia, «il dato riferito al quantitativo dei prodotti fitosanitari da smaltire non è oggetto di specifica valutazione o comunque non a conoscenza dell’Ufficio, in quanto afferisce alla gestione interna dell’azienda che detiene la proprietà del prodotto».
Il Ministero, quindi, non è a conoscenza delle quantità di pesticidi (proibiti in quanto pericolosi) le cui scorte possono comunque essere utilizzate per molti mesi dopo la revoca. La conferma arriva da Agrofarma - Federchimica: l'associazione di categoria non è in grado di sapere quanti lotti erano nei magazzini al momento della revoca, né quanti siano stati effettivamente smaltiti. Lungo la filiera, infatti, ci sono altri attori, fra cui le imprese produttrici e i rivenditori. I consorzi agrari e le aziende produttrici contattate non hanno fornito chiarimenti.
Dalle intercettazioni di Job Tax emergono ulteriori dettagli rispetto all’utilizzo di pesticidi ormai vietati da tempo. Intercettato, l’agronomo dell’azienda spiega preoccupato a uno dei soci: «L'altra volta quando abbiamo fatto pulire il magazzino degli attrezzi io non so chi l'ha pulito hanno lasciato un cartone di SCLEROSAN dentro». Come risulta dalla banca dati dei prodotti fitosanitari del Ministero della Salute, l’ultimo prodotto in commercio col nome di Sclerosan è stato revocato nel 2009. L’esposizione al Dicloram, il principio attivo contenuto in questo fungicida, «può danneggiare la riproduzione e/o lo sviluppo».
Come sintetizza il Gip, «le sostanze rinvenute sono risultate non utilizzabili nelle colture di ravanelli oltre che caratterizzati da un profilo di “conclamata pericolosità”, tanto da aver determinato per talune una revoca dell'autorizzazione all'uso (è il caso del Clorpirifos Metil)». Nonostante ciò, l’utilizzo di questi pesticidi «in maniera sistematica e diffusa», è pienamente consapevole: secondo il Gip, infatti, tutti gli indagati «sono a piena conoscenza del fatto che se tali sostanze attive vengono rilevate dalle analisi verrebbe bloccata la commercializzazione del prodotto».
Quello che emerge dai casi giudiziari di Latina e Cuneo è un quadro in cui si intrecciano lavoro nero, sfruttamento e mancato rispetto delle norme di sicurezza. Il sociologo Marco Omizzolo ne ha avuto esperienza diretta: «Io ho lavorato nelle campagne pontine (nella stessa provincia di Latina in cui è stata condotta l’operazione Job Tax, ndr) per diversi mesi come infiltrato – racconta a Scomodo – accanto ai braccianti immigrati, soprattutto indiani. Una delle cose per me più inquietante è l’assenza di qualunque misura di sicurezza, e quando dovevamo distribuire i veleni lo facevamo senza alcun genere di protezione, già dieci anni fa. Noi braccianti andavamo nelle campagne anche d’inverno indossando una sciarpa per proteggerci dal freddo, la sciarpa diventava la nostra mascherina anche quando diffondiamo quei veleni. Quella sciarpa si trasformava in una sorta di aerosol di veleno per i lavoratori, perché si impregna di quelle sostanze. Non c’era quindi l’effetto protettivo, al contrario, diventava un bagno tossico di quei prodotti».
Omizzolo ha anche raccolto centinaia di testimonianze dei cosiddetti “bagni di veleno”: quando i braccianti lavorano alla raccolta, «il caporale o il datore di lavoro passa con il vaporizzatore, ovvero una botte piena di veleni e acqua, il cui contenuto viene poi spruzzato in aria e loro si fanno il bagno. Alcuni mi hanno raccontato che hanno delle irritazioni cutanee, altri iniziano a perdere liquidi dal naso, a lacrimare, a tossire. Fare tutto questo per 14 ore al giorno quasi tutti i giorni del mese significa vivere sotto una pressione costante, prima o poi ti rompi».
Patronati e medici del lavoro
I primi a riconoscere le caratteristiche della malattia professionale dovrebbero essere i medici del lavoro. Nell’esperienza di Alberto Vedrani, avvocato di Lucca che ha difeso durante la sua carriera decine di lavoratori, da due anni è in pensione: «I medici dei patronati - racconta Vedrani - sono i primi ad istruire la pratica per il lavoratore e non sempre sono inattaccabili. A volte c'è manchevolezze sul piano professionale e a volte non riescono a dare una svolta alle pratiche in termini di evidenze mediche».
Vedrani che si è trovato a difendere lavoratori quando le malattie “tabellate”, quindi riconosciute dall’Inail, erano di molto inferiori, spiega: «Quando una malattia non è tabellata non è che la porta è chiusa - spiega -. Rimane aperta, solo che comporta un lavorìo notevole per il ricorrente, il quale deve dimostrare in modo certo che quella malattia è in connessione con l'attività lavorativa svolta: è il rapporto cosiddetto di causa-effetto. Si riesce abbastanza spesso, non tutte le volte ma spesso».
Nel 2005 è riuscito a ottenere il riconoscimento del morbo di Parkinson per un floricoltore della piana di Lucca che aveva fatto per anni uso di pesticidi a base di manganese, quelli che sono tabellati oggi. Come ha scritto in un contributo pubblicato nel 2019 da Olympus - centro di ricerche nato dalla collaborazione tra la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, della Regione Marche e dell'Inail - Direzione regionale per le Marche - «a seguito di consulenza medico-legale disposta dalla stessa Corte, veniva dichiarata sufficiente la probabilità indicata nel 70 % circa il rapporto di causa-effetto fra uso di pesticidi a base di manganese e morbo di Parkinson».
La causa è durata dieci anni e si è conclusa solo con la compensazione delle spese. Nonostante l’esito positivo, non c’è stato nessun altro lavoratore che ha chiesto all’avvocato di dedicarsi a una causa analoga.
CREDITI
Autori
Edoardo Anziano
Lorenzo Bagnoli
Francesco Paolo Savatteri
Hanno collaborato
In partnership con
Scomodo (Italia)
Le Monde (Francia)
Ippen Investigativ (Germania)
BR (Germania)
Investigative reporting Denmark (Danimarca)
Oštro (Slovenia/Croazia)
Tygodnik Powszechny (Polonia)
TV2 (Danimarca)
De Groene Amsterdammer (Olanda)
Infografiche
Lorenzo Bodrero
Editing
Luca Rinaldi