Gli ultraricchi dell’agricoltura europea

Gli ultraricchi dell’agricoltura europea

Edoardo Anziano
Paolo Riva

Negli ultimi otto anni, l’1% delle aziende agricole europee ha incassato 150 miliardi di euro in fondi messi a disposizione dalla Politica agricola comune (PAC). Si tratta di un terzo dell’intera torta dei finanziamenti. È il risultato dell’ultimo aggiornamento di FarmSubsidy.org, sito che raccoglie tutti i dati sui beneficiari dei fondi PAC nei 27 Stati membri dell’Unione europea (più il Regno Unito). Quest’elaborazione, realizzata da FragDenStaat in collaborazione con Arena for Journalism, si basa sui dati relativi al periodo che va dal 2014 al 2021.

La piattaforma FarmSubsidy.org è stata lanciata nel 2005 e mette a disposizione informazioni provenienti da registri pubblici e richieste di accesso agli atti con l’intento di rendere tracciabile la distribuzione dei fondi europei per l’agricoltura: i dati che esistono sono infatti parziali e spesso non sono nemmeno ricercabili. Prima dell’avvento di FarmSubsidy, non erano nemmeno pubblici. Dopo le prime uscite, si scoprì che tra i maggiori beneficiari comparivano rampolli della famiglia reale inglese ed ereditieri di famiglie nobili europee, il cui nome fino a quel momento era rimasto nascosto. Oggi si leggono anche nomi di grandi gruppi agroindustriali, aziende chimiche ed energetiche, enti pubblici e religiosi.

La Politica agricola comune, finanziata con le tasse dei contribuenti dell’Unione europea, è stata varata per la prima volta sessant’anni fa, nel 1962. Anche se il suo peso è andato diminuendo nel corso dei decenni, è ancora la voce del bilancio comunitario più rilevante. Nel periodo 2014-2020, la dotazione era di 408 miliardi di euro, mentre in quello attuale, 2021-2027, l’ammontare è sceso a 378 miliardi di euro, che valgono comunque più del 30% del budget complessivo dell’Unione.

Per i suoi sostenitori, come le principali associazioni di agricoltori e alcuni accademici, nel lungo periodo, la politica agricola comune ha migliorato la produttività, ha assicurato un’integrazione al reddito fondamentale per i contadini e ha garantito ai cittadini approvvigionamenti di cibo sicuri e a prezzi complessivamente ragionevoli. Per i suoi critici, tra cui molte organizzazioni ambientaliste, invece, questa politica ha generato un sistema insostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, favorendo l’agroindustria a discapito dei piccoli produttori. Accuse che trovano conferma in diversi elementi contenuti nel database FarmSubsidy, che viene pubblicato alla vigilia di un importante momento di passaggio: il primo gennaio 2023, infatti, con due anni di ritardo, entrerà in vigore la più recente riforma settennale della PAC.

Scarsa trasparenza sui beneficiari

Il database FarmSubsidy.org contiene informazioni su circa 131 milioni di pagamenti a 17,3 milioni di beneficiari della Politica agricola comune. A partire dal 2014, almeno 453 miliardi di euro sono stati erogati in 27 Paesi dell’Unione (più la Gran Bretagna). La maggior parte dei fondi è andata a Francia (79,5 miliardi), Spagna (57,6), Germania, (53,2), Polonia (51,8). Lo stato membro più piccolo, Malta, è anche il Paese che ha ricevuto meno fondi (solo 149 milioni). I dati contenuti in FarmSubsidy sono stati raccolti direttamente dai governi degli Stati membri che li hanno pubblicati, oppure richiesti attraverso FOIA. I dati disponibili, tuttavia, contengono solo informazioni sui beneficiari diretti, ovvero le aziende che ricevono i fondi dall’agenzia di pagamento nazionale, che nel caso dell’Italia è l’AGEA, l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura. I beneficiari ultimi sono invece coloro che – società o persone – controllano più del 25% del beneficiario diretto.

Come riporta uno studio del Parlamento europeo non esiste un database, né comunitario né nazionale, per identificare i beneficiari ultimi. Questo pone un problema di trasparenza e di controllo, anche perché la pubblicazione dei dati sui beneficiari ultimi non è obbligatoria. Lo studio dell’Europarlamento si è concentrato sui 50 maggiori beneficiari della PAC tra 2018 e 2019. Si tratta di una fotografia estremamente limitata, considerando che negli stessi due anni oltre 10 milioni di beneficiari hanno ricevuto fondi per l’agricoltura. I risultati della ricerca mostrano che i principali beneficiari – ultimi e diretti – sono stati persone o famiglie. Un quarto dei beneficiari diretti è risultato anonimizzato, mentre nel 13% dei casi non è stato possibile identificare i beneficiari diretti a causa della cattiva qualità dei dati. Proprio per questi motivi, un altro studio sempre commissionato dal Parlamento europeo ha chiesto che fosse introdotto un database unico dei beneficiari di tutti i fondi europei.

Negli ultimi anni, anche grazie a inchieste come #OpenLux, è emersa l’importanza di avere registri dei beneficiari ultimi delle società che siano pubblicamente consultabili. La giurisprudenza europea, tuttavia, sembra andare in direzione opposta. A fine novembre, infatti, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha invalidato una disposizione contenuta nella Quinta direttiva Ue anti-riciclaggio, che prevedeva proprio la possibilità di «qualsiasi membro del pubblico» di accedere alle informazioni sui titolari effettivi.

In un’ottica di trasparenza, FragDenStaat in collaborazione con Arena for Journalism in Europe ha raccolto e reso cercabili i dati sui beneficiari della Politica agricola comune dell’ultimo decennio. I dati per questa inchiesta sono stati analizzati in collaborazione con NDR, WDR, Süddeutsche Zeitung, Correctiv, Der Standard, IrpiMedia, Reporter.lu, Reporters United Greece, Expresso, Follow the Money and Gazeta Wyborcza.

Distribuzione dei fondi PAC: in Europa vincono le grandi aziende

L’analisi dei dati mostra che nei Paesi presi in esame dalle testate che partecipano al progetto insieme a IrpiMedia sono soprattutto le grandi aziende agricole e grandi imprese ad aver ottenuto la quota maggiore dei fondi PAC. Le ricerche svolte, in diversi casi, confermano che la situazione potrebbe non migliorare con l’entrata in vigore della riforma, l’anno prossimo. Gli esempi sono diversi. Le multinazionali alimentari Südzucker AG e FrieslandCampina, per esempio, ricevono decine di milioni di euro in sussidi PAC in tutta l’Ue mentre, in Germania, tra i beneficiari dei fondi ci sono anche grandi aziende chimiche come BASF e Bayer, il gigante dell’energia RWE o le holding di alcuni dei tedeschi più ricchi, come la fondazione degli eredi della catena di discount ALDI.

In Austria, una buona parte dei sussidi va alla Chiesa cattolica e agli aristocratici che hanno ereditato grandi possedimenti terrieri. Inoltre, nonostante la percentuale di agricoltori biologici del Paese sia la più alta d’Europa, l’associazione di categoria che li rappresenta sostiene che, con la nuova PAC, i sussidi che riceveranno dal 2023 saranno inferiori a quelli dei periodi precedenti. In Polonia, a ricevere la maggior parte dei sussidi sono istituzioni statali e locali. E, anche in questo caso, la Chiesa cattolica: 2.600 parrocchie hanno ricevuto un totale di oltre 160 milioni di euro nel corso degli ultimi anni. Tra i beneficiari, anche monasteri, fattorie appartenenti alle arcidiocesi e uno dei più importanti vescovi del Paese.

Anche nei Paesi Bassi la PAC sostiene soprattutto gli agricoltori e i proprietari terrieri più ricchi, in particolare gli allevatori di bestiame. Con i fondi che finiscono per favorire un’ulteriore intensificazione degli allevamenti non una loro riduzione, rendendo limitato l’effetto dei sussidi per un’agricoltura rispettosa dell’ambiente. In Lussemburgo, sebbene la concentrazione dei fondi sia meno pronunciata rispetto alla maggior parte degli Stati Ue, le imprese ricevono in media molti più sussidi di quelli che spettano alle aziende agricole a conduzione famigliare.

In Grecia, infine, nell’ultimo decennio sono emersi gravi problemi sistemici relativi ai criteri di distribuzione dei sussidi agricoli. Infatti, i principali beneficiari nella stragrande maggioranza dei casi sono stati istituzioni pubbliche, enti di diritto privato e talvolta aziende, ma raramente agricoltori. Anche il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis, ha ricevuto sovvenzioni per terreni che, a Creta, sono storicamente proprietà della sua famiglia. I rapporti della Commissione europea pubblicati dopo le verifiche di conformità in Grecia parlano di mancanza di trasparenza nella selezione dei progetti, inadeguatezza del monitoraggio degli agricoltori che violano le norme sui sussidi e altre criticità. E con l’avvio della nuova PAC nel 2023, che garantirà agli Stati membri una maggiore autonomia nell’erogazione dei sussidi, si teme che la situazione possa peggiorare ulteriormente.

Soldi alle imprese

Media dei fondi PAC ricevuti per soggetto beneficiario nei Paesi europei (più il Regno Unito) fra 2014 e 2021 in euro

AOP e OP: chi sono i principali beneficiari della PAC in Italia

Nel 2021, su un bilancio totale di 168,5 miliardi di euro, l’Unione europea ne ha stanziato oltre un terzo per la PAC (55,71 miliardi di euro, pari al 33,1%). Gli stanziamenti sono in netto calo rispetto agli anni Ottanta, quando all’agricoltura era destinato il 66% del bilancio comunitario, ma rappresentano comunque la voce di spesa più rilevante. La necessità di supportare in modo estensivo il settore primario deriva dalla maggiore dipendenza dell’agricoltura dai cambiamenti del clima e dalla difficoltà di adeguare rapidamente l’offerta a una domanda crescente di cibo. A questo si aggiunge il fatto che un agricoltore guadagna approssimativamente il 40% in meno rispetto alle altre categorie professionali.

Di fronte a queste difficoltà, la PAC interviene con integrazioni al reddito degli agricoltori (i cosiddetti “pagamenti diretti”), con misure di tutela del mercato e stanziamenti per lo sviluppo rurale. Il 94% delle risorse stanziate nel 2019 sono andate ad aiutare direttamente gli agricoltori. Inoltre, la maggior parte dei pagamenti sono stati di piccola entità (inferiori a cinquemila euro), mentre solo l’1,93% dei beneficiari ha ricevuto più di 50 mila euro.

Per l’Italia, tra i primi cinque beneficiari degli ultimi otto anni troviamo tre Associazioni di organizzazioni di produttori (AOP) e due Organizzazioni di produttori (OP). In pratica, non stiamo parlando di singole grandi imprese, che pure figurano nelle posizioni successive e hanno un loro peso, ma di enti di secondo o terzo livello che raggruppano numeri elevati di aziende agricole e agricoltori. Chi ha ottenuto più fondi in assoluto, superando i 238 milioni di euro, è l’AOP italo-francese Finaf, che si occupa di ortofrutta. Poi, sempre nello stesso settore, viene l’Associazione di Organizzazioni di Produttori Gruppo Viva con 174 milioni, quindi il consorzio olivicolo Unaprol (anch’esso AOP, con 73 milioni) e i giganti delle mele Vip in Val Venosta e Melinda in Val di Non (entrambe OP, con rispettivamente 72 e 60 milioni di euro). Le AOP Viva e Finaf sono anche tra i primi dieci beneficiari di tutta l’Unione europea.

Le OP e le AOP aiutano gli agricoltori a ridurre i costi di operazione e a collaborare alla trasformazione e alla commercializzazione dei loro prodotti. Servono a rafforzare il potere contrattuale collettivo degli agricoltori, per esempio concentrando l’offerta, migliorando la commercializzazione o fornendo assistenza tecnica e logistica. Per questo, l’Ue riconosce il ruolo di queste organizzazioni sia garantendo loro alcune deroghe in materia di concorrenza sia dando loro accesso ad alcuni fondi della Politica agricola comune.

«La PAC è fatta di tre strumenti: pagamenti diretti, sostegni settoriali e sviluppo rurale. I pagamenti diretti vanno principalmente a chi ha più ettari. Questo ha favorito le grandi aziende. Poi ci sono i fondi per lo sviluppo rurale e l’8% che va ai sostegni settoriali, i cui beneficiari sono le Organizzazioni dei produttori (OP) e i consorzi. Gli stanziamenti per vino, olio e ortofrutta vanno a pochi soggetti aggregati, ma i benefici vanno ai soci, quindi a tanti agricoltori. La concentrazione di soldi della PAC alle OP c’è in tutta Europa, ma non va letta come concentrazione in poche mani, ma in tante mani. Significa favorire gli agricoltori che si aggregano», commenta Angelo Frascarelli, professore associato del Dipartimento di scienze agrarie alimentari e ambientali presso l’Università di Perugia e presidente dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (ISMEA).

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«Una volta che le organizzazioni di produttori o i gruppi di produttori sono riconosciuti dagli Stati membri in determinati settori (ortofrutticolo, apicoltura, vitivinicolo, luppolo, olio d’oliva e olive da tavola…) le entità che operano in uno di questi settori possono beneficiare dell’assistenza finanziaria dell’Unione per i sostegni settoriali (ad esempio, investimenti, promozione, formazione, ecc.). La possibilità di beneficiare dei sostegni settoriali può favorire la creazione di tali entità», aggiunge un funzionario Ue sentito per email da IrpiMedia.

L’Italia è, con Francia e Germania, uno dei Paesi in cui le Organizzazioni di produttori sono più presenti, anche se con un numero medio di membri molto più elevato del dato comunitario: un quarto delle OP riconosciute ha più di duemila membri, mentre nella maggior parte dei casi in Europa le organizzazioni ne hanno meno di 100. Diversa, invece, è la situazione per le Associazioni di organizzazioni di produttori.

«In base alle informazioni della Commissione – riprende il funzionario Ue – le AOP sono comuni in Italia, ma le singole organizzazioni di produttori membri di tali AOP potrebbero non essere così grandi. Queste organizzazioni sono molto meno diffuse in altri Stati membri importanti come la Spagna o la Germania, mentre alcuni esempi di AOP si trovano anche in Belgio e in Francia». Finaf, ad esempio, è nata nel 2001 sfruttando la possibilità di associarsi a livello transnazionale tra AOP, grazie alla fusione tra la AOP italiana Conerpo e l’organizzazione di produttori francese Conserve Gard. E oggi è la più grande associazione di produttori agricoli in Europa, con oltre novemila membri.

Tra i top beneficiari, c’è l’AOP Vi.Va, al primo posto nel 2020 (con 34 milioni) e al terzo posto l’anno successivo (con 17 milioni). Presidente del gruppo è Marco Casalini, a sua volta presidente della Cooperativa Terremerse, beneficiaria di oltre 230 mila euro negli ultimi sei anni. Direttore di Vi.Va è Mario Tamanti, responsabile finanziamenti della cooperativa ortofrutticola Apofruit, che fra 2015 e 2020 ha incassato quasi 20 milioni in contributi PAC. Sia Apofruit sia Terremerse sono membri di CSO Italy – Centro Servizi Ortofrutticoli, un’organizzazione che aggrega oltre 70 fra Organizzazioni di Produttori, Associazioni di Organizzazioni di Produttori e aziende della logistica. La stessa CSO ha preso quasi sette milioni di fondi europei. Sempre fra i primi 25 c’è la già citata Unaprol (29 milioni totali in due anni), consorzio olivicolo con a capo David Granieri, Vicepresidente di Coldiretti e Presidente di Coldiretti Lazio. Tutti casi esemplificativi di come i soggetti organizzati e con una presenza consolidata nel settore riescano ad accaparrarsi la fetta più grossa dei sussidi.

Un’azione dimostrativa di Greenpeace per sollevare il tema del “greenwashing” in seno alla Politica agricola comune, il 26 maggio 2021 – Foto: Thierry Monasse/Getty

Le principali S.p.a. d’Italia in agricoltura

Un altro ambito di analisi importante dei dati italiani della PAC è quello legato alle società per azioni che, stando all’ultimo censimento Istat sullo stato dell’agricoltura, tra 2010 e 2020, sono cresciute del 42%. «Le società di capitali sono talmente poche che è bastato qualche cambiamento per far registrare un loro significativo aumento», commenta Frascarelli. Rispetto ad AOP e OP, la presenza delle S.p.a. su FarmSubsidy.org è molto meno evidente. Il database contiene i nomi di 435 società per azioni italiane cui, tra 2015 e 2021, sono stati erogati dei sussidi PAC, per un totale di 293 milioni di euro. Si va dai 60 milioni del 2015, ai 27 toccati l’anno dopo e ai 47 del 2021. In media, si tratta solo dello 0,96% dei fondi italiani, l’1,08% se prendiamo solo il 2021.

Secondo Frascarelli, «non c’è una diffusione enorme di queste realtà. Ci sono alcuni grandi attori». Che, consultando FarmSubsidy.org, spiccano in maniera evidente. Due in particolar modo.

Il primo è Genagricola S.p.a. che, tra 2015 e 2021, ha ottenuto 15.283.563,56 euro di fondi PAC. La società, che si definisce «la più grande azienda agricola italiana», è controllata dal Gruppo Generali e ha ventidue tenute in tutto il Paese, dal Veneto alla Calabria, dal Friuli al Lazio e all’Emilia Romagna. Genagricola ha chiuso il 2021 con un fatturato che si assesta sui 60 milioni di euro e, come ha spiegato il Ceo Igor Boccardo al Sole 24 Ore, ora punta «sull’integrazione verticale»: «Le produzioni agricole sono pagate poco. […] Nella filiera agricola il valore aggiunto è soprattutto nella trasformazione e noi dobbiamo riappropriarcene. […] Vogliamo trasformare quello che produciamo», ha dichiarato.

Soldi alle aziende agricole “S.p.a.” in Italia

Fondi PAC ricevuti da Società per Azioni (SpA) in Italia fra il 2015 e il 2021 in milioni di euro.

Il secondo grande attore è Bonifiche Ferraresi S.p.a. Nel database FarmSubsidy compaiono tre nominativi diversi per indicare la società per azioni che, in totale, ha beneficiato di 19.824.529,73 di euro di fondi PAC tra 2015 e 2021. Bonifiche Ferraresi S.p.a. fa parte del Gruppo BF S.p.a., una holding quotata alla Borsa di Milano che, si legge sul suo sito, è in grado di presidiare «tutta la filiera agricola, industriale e distributiva». L’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm) definisce BF S.p.a. un «primario operatore nazionale attivo, a livello integrato, nel settore agroindustriale».

Secondo Altreconomia, che al gruppo ha dedicato un’inchiesta, BF S.p.a. «con le sue controllate ha inglobato ormai i segmenti chiave del comparto. Dalla selezione, lavorazione e vendita delle sementi alla proprietà dei terreni, dalla progettazione di contratti di filiera alla realizzazione di impianti per la macinazione di cereali, dalla trasformazione dei prodotti alla loro commercializzazione nei canali della Grande distribuzione organizzata anche tramite un marchio di proprietà».

Come per Genagricola, anche in questo caso e, anzi, in proporzioni ancora maggiori, torna il tema dell’integrazione verticale, che può influenzare l’intero settore. Sia per le dimensioni di BF Spa sia per i suoi consolidati rapporti. Uno è quello con Coldiretti, con la quale ha diverse collaborazioni, a cominciare da quella societaria in Filiera Italia. Un altro è con Eni, con cui ha appena firmato un accordo per lo sviluppo di colture per uso energetico.

Le società di capitali operanti nel settore, quindi, sono poche ma importanti perché grazie alle loro risorse possono indicare possibili evoluzioni del settore, ma anche contribuire a determinarle.

Per Riccardo Bocci, «la loro crescita consente di riflettere sulla crisi dell’agricoltura». Il ragionamento di Bocci, agronomo e direttore tecnico di Rete Semi Rurali, parte da lontano. «Sul finire degli anni Duemila, il sociologo rurale olandese Jan van Der Ploeg indicava come strategia di sopravvivenza possibile per gli agricoltori quella di scollegarsi dai mercati mondiali sia in relazione alla fornitura dei mezzi di produzione sia al mercato dei prodotti, per rinforzare la loro autonomia e costruire nuove relazioni con gli attori delle filiere locali a partire dai consumatori». Quest’idea è definita “ricontadinizzazione”, ma non è l’unica strategia di sopravvivenza possibile. «L’altra – riprende Bocci – è la finanza. La finanza consente di far fronte ai costi di produzione più alti, coprendo le differenze e spalmando i costi su più anni, come invece non possono fare le aziende agricole senza particolari capitali a disposizione. È un elemento nuovo, ma sta crescendo».

La fotografia dell’agricoltura in Italia

Nel 2022 l’Istat ha pubblicato il settimo censimento generale sullo stato dell’agricoltura in Italia. Le statistiche confermano una tendenza alla concentrazione delle aziende agricole che, seppur in atto da tempo, ha subito un’accelerazione significativa negli ultimi vent’anni. L’Istat certifica la presenza in Italia di 1.133.023 aziende agricole nel 2020. Nel 2000 erano più del doppio, quasi 2,4 milioni, mentre rispetto al terzo censimento (1982) il settore agricolo ha perso più di due terzi delle sue aziende (-63,8%). Alla diminuzione delle aziende agricole non corrisponde una altrettanto marcata riduzione dell’estensione della superficie agricola utilizzata (SAU, -20,8%) e totale (SAT, -26,4%) rispetto al 1982. Questo significa che il numero di aziende sta diminuendo molto più velocemente rispetto alla superficie agricola, mentre le loro dimensioni medie raddoppiano se confrontate con quelle di circa quarant’anni fa. Solo negli ultimi 10 anni, riporta l’Istat, a un calo del 30% nel numero di aziende (-487 mila), la Superficie agricola utilizzata è diminuita appena del 2,5%, la Superficie agricola totale del 3,6%.

Meno aziende possiedono, mediamente, appezzamenti di terreno più grandi. Anche i dati sulla proprietà confermano questo trend. Fra 2020 e 2010, l’unica forma societaria in diminuzione è quella dell’azienda individuale o a conduzione familiare (-2,6%) – che rimane pur sempre la quasi totalità delle aziende agricole italiane (93,5%). Quasi raddoppiano, però, società di persone (dal 2,9 al 4,8%) e società di capitali (dallo 0,5 all’1%). Queste due forme societarie hanno dimensione media molto più grande, e pesano in proporzione di più delle aziende familiari o individuali in termini di superficie agricola che utilizzano.

Complessivamente, conclude il censimento Istat, l’agricoltura italiana è caratterizzata «dall’inevitabile e progressivo processo di uscita dal mercato delle aziende non più in grado di sostenere la propria attività – prevalentemente di piccole dimensioni e a gestione familiare».

A fare da contraltare alla diminuzione delle aziende individuali e famigliari, in Italia, c’è l’aumento delle società di capitali di cui, tra 2010 e 2020, l’Istat ha certificato una crescita del 42 per cento. È la tipologia di azienda che è cresciuta maggiormente. Il dato impressiona, ma non deve trarre in inganno. Come detto, le SpA sono solo l’un per cento di tutte le aziende agricole italiane.

Pro e contro la PAC

AOP, OP e S.p.a. però sono solo alcuni degli elementi su cui ragionare per cercare di capire quali sono gli effetti dei miliardi con cui la Politica agricola comune sostiene l’agricoltura italiana. «Per il sostegno al reddito degli agricoltori, la PAC ha avuto un ruolo importante perché i redditi dei settori extra agricoli sono molto più alti di quelli agricoli, lo dicono i dati Ue: extra agricoli 29 mila euro per lavoratore, agricoli 18 mila euro. Sarebbero stati 14 mila senza la PAC. L’integrazione al reddito ha favorito la permanenza degli imprenditori e dei lavoratori in agricoltura», spiega Frascarelli. Il professore fa riferimento ad altri dati del censimento Istat sullo stato dell’agricoltura, quelli secondo cui, negli ultimi dieci anni, le aziende familiari e individuali in Italia sono le uniche ad essere drasticamente diminuite. Da un lato, per Frascarelli, si tratta di un processo di concentrazione «inevitabile, che in altri settori avviene da cinquant’anni». Dall’altro, «se non ci fosse stata la PAC, probabilmente avrebbero chiuso più aziende».

Di segno opposto, invece, sono le valutazioni di molte organizzazioni non governative, soprattutto ambientaliste, le cui critiche partono spesso da un dato: il 20% dei beneficiari PAC ottiene l’80% del sostegno. La cifra, spiega un altro funzionario Ue, «riguarda i pagamenti diretti» che, come abbiamo visto, sono una delle componenti dei fondi. «Questo valore varia ampiamente tra gli Stati membri, dal 48% al 91%. Infatti, essendo i pagamenti diretti pagati per lo più in ettari, il cosiddetto “rapporto 80/20” riflette principalmente la concentrazione della proprietà terriera, che varia a seconda degli Stati», prosegue il funzionario. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2021, il 20% dei beneficiari ha ricevuto il 77% dei pagamenti diretti.

Secondo il WWF quella operata dalla PAC è «una distribuzione non equa delle risorse pubbliche basata essenzialmente sul possesso della terra e dei titoli storici e non sul riconoscimento economico delle esternalità positive per l’ambiente e la società dei diversi processi produttivi». «La distribuzione dei fondi pubblici della PAC con l’80% delle risorse assegnate al 20% dei beneficiari, con le piccole aziende che resistono nei territori più svantaggiati, come le aree montane, inevitabilmente penalizzate se non hanno la capacità o possibilità di aggregarsi, rimane del tutto inefficiente e inefficace per sostenere il tessuto agricolo di qualità e dall’alto valore sociale e ambientale», aggiunge WWF insieme ai partner di #CambiamoAgricoltura, una coalizione nata per chiedere una nuova PAC, più sostenibile.

I fondi della PAC in Italia

Distribuzione dei beneficiari diretti dei fondi PAC 2019 in Italia divisi per tipologia di azienda

L’alba di una nuova, vecchia PAC

Il primo gennaio 2023 entrerà in vigore la riforma della Politica agricola comune approvata dal Consiglio dell’Unione europea a dicembre 2021. Fra gli obiettivi della nuova PAC, in ritardo a causa della pandemia, ci sono il sostegno agli agricoltori e all’economia rurale, la gestione sostenibile delle risorse, la salvaguardia del paesaggio. Una delle questioni centrali del nuovo corso è «aumentare il contributo dell’agricoltura nel raggiungimento degli obiettivi ambientali e climatici dell’Ue», allineando i fondi per l’agricoltura agli obiettivi del Green Deal.

L’idea è che anche l’agricoltura europea debba fare la sua parte nella lotta al cambiamento climatico. Perché la crisi ambientale è sempre più evidente. Ma anche perché, finora, quel che ha provato a fare sembra essere stato poco efficace. Uno studio della Corte dei Conti europea pubblicato nel 2021 sostiene che la PAC, nel periodo 2014-2020, quello in larga parte al centro dell’aggiornamento di FarmSubsidy.org, non abbia contribuito a ridurre le emissioni del settore zootecnico, né ad aumentare il «contenuto di carbonio stoccato nel suolo e nelle piante». Le misure ambientali della precedente programmazione, insomma, non hanno funzionato. E il rischio è che non lo facciano nemmeno in questa.

La riforma, infatti, pone maggiori responsabilità in capo ai singoli Stati, chiedendo a ciascuno di loro di elaborare un Piano strategico nazionale, con obiettivi specifici, diversi da Paese a Paese. I documenti di ventuno Stati sono già approvati, gli altri dovranno esserlo entro la fine dell’anno. Secondo le associazioni ambientaliste European Environmental Bureau e Bird Life la maggior parte dei piani non presenta obiettivi concreti in termini di riduzione della perdita di biodiversità e riduzione di gas serra. Del resto, come spiega un funzionario Ue, «il Parlamento europeo e il Consiglio non hanno integrato obiettivi specifici per il Green Deal nella legislazione sulla PAC. Ciò significa che, sebbene la Commissione abbia invitato gli Stati membri a essere ambiziosi per quanto riguarda il Green Deal, questo non è un requisito legale per i piani strategici».

Vecchie e nuove questioni, quindi, si intrecciano, nelle critiche alla PAC. L’accusa di sostenere troppo i grandi attori che ora diventa ancora più pesante perché si lega a quella di causare troppe emissioni dannose per il clima. Vale anche per l’Italia, il cui piano strategico è stato approvato agli inizi di dicembre 2022. Nel dialogo tra la Commissione e il precedente ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli, i funzionari Ue avevano rilevato che la prima bozza inviata da Roma a Bruxelles nei mesi scorsi conteneva obiettivi di contrasto al cambiamento climatico insufficienti. Allo stesso modo, quattordici organizzazioni ambientaliste e dei consumatori che avevano partecipato al Tavolo di partenariato creato dal Ministero dell’agricoltura per redigere il piano si erano dissociate dal documento finale «ritenuto deludente e inefficace».

«Il Piano è stato redatto secondo il principio prevalente, se non esclusivo, della tutela del reddito delle aziende agricole di grandi dimensioni […], mantenendo un sistema iniquo che premia le aziende in funzione della loro dimensione, senza contrastare la drammatica emorragia di piccole aziende agricole sempre più in difficoltà nelle aree interne e senza affrontare in modo efficace i pesanti impatti del settore zootecnico su ambiente e salute», scrivono Slow Food, Terra! e WWF, tra gli altri. «L’Italia – concludono le associazioni – conferma così l’interpretazione della Politica comune dell’Unione europea per l’agricoltura essenzialmente come una politica economica basata su sussidi a pioggia, ignorando l’enorme spazio di manovra con cui il settore primario potrebbe agire, se opportunamente incentivato, per ridurre il proprio impatto sul clima e sulla perdita della biodiversità».

 

 

L’articolo è stato aggiornato in data 5/12/2022 riportando la notizia dell’approvazione del Piano Nazionale Strategico sulla PAC per l’Italia. 

CREDITI

Autori

Edoardo Anziano
Paolo Riva

In partnership con

FragDenStaat (Germania)
Arena for Journalism (Paesi Bassi)
NDR (Germania)
WDR (Germania)
Süddeutsche Zeitung (Germania)
Correctiv (Germania)
Der Standard (Austria)
Reporter.lu (Lussemburgo)
Reporters United (Grecia)
Expresso (Portogallo)
Follow the Money (Paesi Bassi)
Gazeta Wyborcza (Polonia)

Editing

Lorenzo Bagnoli

Infografiche

Edoardo Anziano

Foto di copertina

Una collina di vigneti a Greve in Chianti, Toscana
(DEA/S.AMANTINI/Getty)

La marea delle consulenze per le riforme dei Pnrr europei

#RecoveryFiles

La marea delle consulenze per le riforme dei Pnrr europei

Francesca Cicculli
Carlotta Indiano

Amarzo 2021, il premier Mario Draghi ingaggia la società di consulenza McKinsey nell’ambito della redazione del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) nazionale stipulando un contratto da 25.000 euro. Lo stesso giorno, il Ministero delle finanze italiano pubblica una dichiarazione per chiarire che McKinsey «non è coinvolta nella definizione dei progetti del Pnrr», ma che questi sono saldamente in mano alle amministrazioni pubbliche competenti. Due giorni dopo però, Domani svelava che il contratto con McKinsey era da 30.000 euro e che «prevedeva l’attività di confronto con gli altri piani europei e anche di project management e di monitoraggio sull’avanzamento dei progetti».

Si tratta di una piccola voce di spesa, praticamente una nota a margine a confronto dell’enorme budget del più grande piano di investimenti pubblici in Europa dai tempi del Piano Marshall, eppure il coinvolgimento di società come McKinsey è significativo, e problematico.

Il ricorso alle grandi società di consulenza internazionali che offrono assistenza ad aziende e pubbliche amministrazioni, come McKinsey, è infatti una pratica sempre più diffusa sia in Italia sia in Europa. A queste vengono appaltati continuamente servizi che le amministrazioni pubbliche sarebbero in grado di svolgere da sole con le proprie competenze interne.

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L’attività di confronto tra i piani europei che McKinsey ha fatto per l’Italia infatti, poteva essere svolta gratuitamente dalla Commissione. Il regolamento sul Recovery and Resilience Fund (RRF) prevede infatti che: «Nel preparare i loro piani di ripresa e di resilienza, gli Stati membri possono chiedere alla Commissione di organizzare uno scambio di buone pratiche per consentire agli Stati membri richiedenti di beneficiare dell’esperienza di altri Stati membri». In altre parole: se il governo italiano era interessato a sapere cosa stavano facendo gli altri Paesi, avrebbe potuto inviare una richiesta gratuita a Bruxelles.

Come sottolinea la Federazione sindacale europea dei servizi pubblici (Epsu), nel suo ultimo report pubblicato il 5 ottobre, a partire dagli anni ‘70 le funzioni della pubblica amministrazione sono state sempre più esternalizzate al settore privato. In particolare, nell’ultimo ventennio la delega di funzioni governative è aumentata notevolmente, allargandosi a nuovi settori come la sanità e il welfare, nella convinzione che le aziende e le istituzioni pubbliche debbano dedicarsi solo alle loro attività principali e delegare gli altri compiti a società “specializzate” del settore privato, inclusa la stesura di testi di legge e di contratti pubblici, l’elaborazione di politiche e la dislocazione di dipendenti pubblici.

Società come McKinsey, sottolinea il report dell’Epsu, non solo sono fortemente coinvolte nelle funzioni di base della pubblica amministrazione, ma spingono anche per ristrutturazioni del settore pubblico tramite tagli al personale che crea ancora più domanda per consulenti esterni.

Il Segretario generale dell’Epsu Jan Willem Goudriaan parla di una vera e propria «cultura della consulenza», dove il ricorso ai consulenti esterni si autoalimenta. Tra il 2017 e il 2020 la Commissione europea, per esempio, avrebbe stipulato 8.009 contratti con consulenti esterni – non solo con società di consulenza – per un valore complessivo di 2,7 miliardi di euro, di cui 462 milioni di euro solo per le grandi società di consulenza.

Il rischio è che la Commissione sempre secondo Goudriaan stia finanziando «la sua stessa distruzione», con un impatto negativo «sulla [sua] capacità di prendere decisioni nell’interesse pubblico».

Recovery Files

Questa è la quinta uscita di Recovery Files, un progetto di ricerca paneuropeo che indaga le spese dei fondi di ripresa e resilienza nei mesi a venire. Il progetto è coordinato da Follow the Money, piattaforma di giornalismo olandese.

Il progetto d’inchiesta è importante non solo in termini di quantità di investimenti pubblici – circa 725 miliardi di euro – ma anche per il modo in cui questa enorme quantità di denaro verrà spesa.

IrpiMedia lavora al progetto insieme al resto del team di Recovery Files:

Ada Homolova, Follow the Money, Olanda
Adrien Senecat, Le Monde, Francia
Ante Pavić, Oštro, Croazia
Attila Biro, Context Investigative Reporting Project Romania, Romania
Beatriz Jimenez, Grupo Merca2, Spagna
Carlotta Indiano, IrpiMedia, Italia
Francesca Cicculli, IrpiMedia, Italia
Emilia Garcia Morales, Grupo Merca2, Spagna
Giulio Rubino, IrpiMedia, Italia
Hans-Martin Tillack, Die Welt, Germania
Janine Louloudi, Reporters United, Grecia
Karin Kőváry Sólymos, Investigatívne centrum Ján Kuciak, Slovacchia
Lars Bové, De Tijd, Belgio
Lise Witteman, Follow the Money, Olanda
Marcos Garcia Rey, Grupo Merca2, Spagna
Matej Zwitter, Oštro, Slovenia
Roberta Spiteri, Daphne Foundation, Malta
Steven Vanden Bussche, Apache, Belgio

La cultura della consulenza nel post pandemia

Tra i principali consulenti della Commissione europea ci sono le “Big Four”: Deloitte, Ernst & Young, KPMG, e PricewaterhouseCoopers (PwC). Queste quattro società di revisione e consulenza finanziaria si spartiscono il mercato mondiale. I loro nomi appaiono frequentemente in inchieste come Open Lux, dove sono accusate di aver aiutato alcune multinazionali a ottenere regimi fiscali agevolati grazie ad accordi con le autorità del Lussemburgo. In questo modo, hanno fatto perdere miliardi di entrate di tasse dovute ai governi nazionali dei Paesi dove le multinazionali in questione operano.

Il ruolo delle “Big Four” nei processi politici fondamentali dell’Ue solleva importanti preoccupazioni su potenziali conflitti di interessi. Un’indagine del 2018 dell’Osservatorio Corporate Europe ha mostrato come le grandi società di consulenza siano attive in potenti gruppi di lobby che cercano di influenzare la politica dell’Ue in materia di evasione fiscale, tra cui l’European Business Initiative on Taxation (EBIT) e l’European Contact Group (ECG). Le stesse spingono inoltre per l’approvazione di accordi di pianificazione fiscale che, secondo il Tax Justice Network non sono altro che «sistemi di evasione fiscale su larga scala» a favore delle multinazionali. Eppure, PwC, Deloitte e KPMG hanno ottenuto dalla Commissione più di 10 milioni di euro per consulenze in tema fiscale e doganale.

Nonostante l’aumento dei fondi destinati alle società di consulenza, un report del 2022 della Corte dei conti segnala che «la Commissione non dispone di informazioni accurate sul volume e sul tipo di servizi dei consulenti esterni di cui si avvale (…) e non gestisce il ricorso a consulenti esterni in modo da assicurare pienamente un rapporto costi-benefici ottimale». La Corte aggiunge che: «Il ricorso a consulenti ha inoltre comportato potenziali rischi di eccessiva dipendenza, di vantaggio competitivo, di concentrazione dei prestatori e di conflitti di interesse». Durante le sue indagini, la Corte ha inoltre rilevato quattro casi in cui «sebbene fossero state organizzate regolarmente procedure di appalto aperte, i medesimi prestatori si sono aggiudicati appalti consecutivi per diversi anni» riscontrando una specie di dipendenza, da parte della Commissione, dai consulenti esterni.

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Una spinta al ricorso a consulenze esterne si è registrata soprattutto dopo l’istituzione del Structural Reform Support Programme (SRSP), fondo creato nel 2017 per offrire assistenza tecnica agli Stati membri per ideare e implementare le riforme strutturali, quelle riforme che modificano il quadro normativo, economico e istituzionale di un Paese, le cosiddette “regole del gioco”. Le riforme strutturali sono fondamentali per incoraggiare gli investimenti, stimolare la crescita e la creazione di posti di lavoro, anche attraverso l’assistenza nell’uso dei fondi dell’Unione. Il sostegno nell’ambito del programma SRSP è fornito dalla Commissione, su richiesta di uno Stato membro, e può riguardare un’ampia gamma di settori.

Il budget dedicato alle consulenze esterne è aumentato con l’istituzione nel 2021 del Tecnical Support Instrument (SST), fondo nato per mitigare le conseguenze sociali ed economiche nate dalla pandemia e utilizzato per la gran parte per sostenere le riforme interne che gli Stati membri devono implementare per spendere i soldi del Recovery Fund. Nel 2021 i soldi spesi dalla Commissione per le consulenze esterne ammonta a 51,5 milioni di euro.

«Il Fondo per la ripresa e la resilienza offre un sostegno senza precedenti alle riforme e agli investimenti degli Stati membri, ma rappresenterà una sfida amministrativa enorme, una sfida che richiede forti capacità di gestione dei progetti e una solida capacità amministrativa», ha dichiarato al Parlamento europeo Mariya Gabriel, commissaria europea per l’innovazione, la ricerca, la cultura, l’istruzione e la gioventù nel gennaio 2021, per presentare l’SST, creato appunto per «sfruttare al meglio il Fondo di ripresa e resilienza».

Lo Stato europeo che vuole richiedere assistenza tecnica deve fare richiesta alla Commissione che poi approva, tramite la Direzione generale per il sostegno alle riforme strutturali (DG REFORM), il ricorso alla consulenza esterna.

Secondo la Commissione europea interrogata dal team di Recovery Files in merito all’attività di questo strumento, circa il 60% delle richieste approvate nell’ambito della prima fase del programma erano legate all’attuazione di piani nazionali di ripresa e resilienza.

Le riforme per l’Italia firmate dalla società accusata di cattiva condotta

Il caso della consulenza appaltata a McKinsey è sicuramente il più noto, ma non è l’unico in Italia attorno al Pnrr.

Deloitte Consulting and Advisory e KPMG Advisory Spa continuano tutt’oggi a offrire assistenza al nostro Paese sull’applicazione del piano europeo.

KPMG Advisory Spa, società di consulenza con sede a Milano, ha stipulato infatti undici contratti con la Commissione europea per fornire supporto tecnico alle pubbliche amministrazioni italiane su altrettante riforme comprese nel Pnrr. Lo ha verificato IrpiMedia, assieme al team di Recovery Files, consultando il Financial Transparency System europeo, una sorta di registro finanziario dell’Unione europea, dove risulta che KPMG ha firmato contratti dal valore di 3,24 milioni di euro per le consulenze fornite all’Italia.

Il dato, però, non trova corrispondenze sul sito del Technical Support Instrument, dove è riportato solo uno degli undici contratti in questione, solo quello per la riforma “Data drive approaches to tax evasion risk analysis”.

I conti non tornano quindi e su diversi siti che la Commissione dedica alla trasparenza delle sue spese appaiono dati molto diversi. Recovery Files ha chiesto alla Commissione di spiegare come mai il sito dell’SST non riportasse gli stessi dati del Financial Transparency System, ma non ha risposto sulla questione.

I contratti con KPMG sono stati stipulati tra gennaio e giugno del 2021, eppure solo un mese dopo la percezione della Commissione nei confronti della società sembra essere cambiata. Il 13 luglio 2021, infatti, KPMG viene inserita nella black list delle società che non possono ricevere fondi europei fino al 14 gennaio 2023. Il motivo della sanzione è uno: «Grave scorrettezza professionale», che secondo l’articolo 136 del regolamento finanziario dell’Unione europea, potrebbe essere una «violazione dei diritti di proprietà intellettuale» o addirittura il «tentativo di ottenere informazioni riservate che possano conferire vantaggi indebiti nella procedura di aggiudicazione».

Recovery Files ha chiesto alla Commissione di spiegare quale sia stata la grave scorrettezza e che conseguenze abbia avuto la procedura di esclusione della società sui contratti in corso. Alla prima domanda non abbiamo ricevuto risposta, ma l’ente europeo ha commentato che «considerati i rischi rispetto alla protezione degli interessi finanziari, l’Unione ha deciso di portare avanti i contratti in corso per garantire la business continuity. La Commissione ha inoltre chiarito che dopo luglio 2021 non ha stipulato nessun altro contratto con la società, che comunque continuerà a lavorare sui progetti fino al 2023, anno di scadenza dei contratti già firmati, perché l’inserimento di una società nella lista nera non ha effetti retroattivi».

A settembre 2021 la società milanese ha presentato un ricorso contro l’istituzione europea chiedendo di annullare la decisione perché illegittima secondo i regolamenti finanziari dell’Unione.

Sulla questione abbiamo interrogato le istituzioni italiane che hanno ricevuto una consulenza da KPMG. Di queste, solo l’Agenzia delle entrate, che ha avuto assistenza per la riforma “Data drive approaches to tax evasion risk analysis”, ha risposto che «non ha avuto alcun ruolo nella procedura di selezione e contrattualizzazione del support provider né è intervenuta nelle procedure di controllo successivamente svolte».

Anche il Dipartimento italiano per le politiche di coesione, il punto di contatto nazionale con il Dg Reform per il Sostegno alle riforme strutturali, nega qualsiasi responsabilità del governo italiano e delle varie amministrazioni nella scelta del consulente e nelle fasi di controllo. Alla nostra richiesta di visionare i contratti firmati da KPMG per la consulenza all’Italia il Dipartimento per la Coesione ha interrogato la DG Reform, che però ha risposto negativamente.

KPMG ha risposto che preferisce non commentare l’intera vicenda. Nel frattempo sul suo sito è possibile scaricare gratuitamente «la nuova guida al Pnrr» stilata in partnership con la​​ sorella Wolters Kluwer e messa a disposizione per aiutare pubbliche amministrazioni e aziende «a orientarsi tra i provvedimenti in attuazione del Pnrr e le numerose Riforme e Missioni in cui si articola». La società, quindi, offre consulenza anche alle imprese italiane che vogliono accedere ai fondi del Pnrr.

Conflitti di interesse: il caso spagnolo

Il ricorso a società di consulenza esterne ha aperto la porta a potenziali conflitti di interesse in alcuni Paesi, come hanno dimostrato le ricerche della squadra di Recovery Files.

A gennaio 2021, l’Istituto per la diversificazione e il risparmio energetico (Idae), filiale del Ministero per la transizione ecologica spagnolo, ha assegnato a Deloitte España SL un contratto del valore di 280.000 euro per «tutti i compiti relativi alla preparazione e alla giustificazione delle proposte energetiche del Piano di recupero, trasformazione e resilienza», il Piano di ripresa spagnolo.

L’appalto è stato assegnato senza rispettare l’obbligo di pubblicità, possibilità prevista dalle semplificazioni derivate dalla pandemia. Ma il governo spagnolo non è stato l’unico cliente di Deloitte in quel periodo. La compagnia petrolifera spagnola Cepsa ha assunto infatti la società di consulenza per aiutarla ad acquisire sovvenzioni dal fondo di ripresa.

Deloitte, inoltre, è coinvolta nella preparazione annuale dello Studio macroeconomico dell’impatto del settore eolico. Il suo cliente per questo lavoro è l’Associazione delle imprese dell’energia eolica, che riunisce le principali aziende del settore, comprese le grandi società elettriche. Inoltre, ha un chiaro impegno commerciale nella consulenza in settori come l’idrogeno verde, che è uno dei progetti strategici del Piano nazionale spagnolo.

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L’agenzia governativa spagnola ha quindi assunto Deloitte per contribuire alla stesura del capitolo sull’energia del suo piano di rilancio, mentre questa faceva da consulente a numerose aziende energetiche.

Il team spagnolo di Recovery Files ha chiesto un commento sia all’agenzia governativa Idae sia a Deloitte, che ha risposto: «In relazione alla vostra richiesta, noi di Deloitte non rilasciamo mai dichiarazioni sui contratti, i potenziali clienti o altre organizzazioni». Da parte sua, l’Idae ha invece dichiarato che il piano spagnolo è stato «redatto interamente dal personale del Segretario di Stato per l’energia, in particolare dal personale dell’Idae». Un portavoce ha aggiunto: «Questa società [Deloitte] non ha partecipato alla stesura del Prtr ma ha fornito assistenza tecnica nella compilazione delle informazioni» poi inserite nel Piano spagnolo.

Sui rischi di conflitti di interesse nei contratti di consulenza stipulati dalla Commissione, la Corte dei conti europea ha confermato che la Commissione non fa abbastanza per evitarli. In particolare: non viene analizzato se l’attività dei consulenti esterni sia in conflitto con i contratti conclusi con la Commissione, né se i servizi dei consulenti esterni entrino in conflitto tra loro e nemmeno se i consulenti esterni che forniscono servizi a diversi clienti (all’interno o all’esterno della Commissione) abbiano interessi contrastanti relativi a incarichi strettamente correlati.

Per la Corte, i conflitti di interesse possono inoltre insorgere dal fenomeno delle “porte girevoli”, ovvero quando un funzionario europeo lascia l’incarico pubblico per assumere incarichi esterni (ad esempio nel settore privato) o, al contrario, se una persona impiegata nel privato viene assunto dalla Commissione. Tali conflitti di interesse potrebbero comportare un uso improprio dell’accesso a informazioni riservate, ad esempio, quando ex funzionari della Commissione utilizzano le proprie conoscenze e i propri contatti per svolgere attività di lobbying nell’interesse dei datori di lavoro o dei clienti esterni.

È il caso della Grecia e dell’ingegnere Paris Bayias. Ex membro del team di redazione del Piano di ripresa e resilienza greco, Bayias dal settembre 2022 è direttore della società di consulenza PwC Grecia, come dichiarato sul suo profilo LinkedIn. Lo stesso, dall’aprile 2018 all’ottobre 2020, ha lavorato come «esperto chiave IT/Senior Project Manager» presso la direzione generale della Commissione europea per il sostegno alle riforme strutturali (Dg Reform), il dipartimento che, come già spiegato, firma i contratti con le società come PwC per realizzare il sostegno alle riforme nell’ambito del programma STI.

Sempre su LinkedIn, Bayias ha dichiarato di essere stato, tra l’ottobre 2020 e l’agosto 2022, il «team leader di PwC Grecia per la formulazione dei progetti di trasformazione digitale del piano greco di ripresa e resilienza e membro del team di redazione del Piano (2020-2021)».

Follow the Money ha chiesto alla Commissione come abbia gestito il rischio di conflitto di interessi in questo caso. «In base alle condizioni generali che regolano i contratti di servizio, i contraenti hanno la responsabilità di garantire la riservatezza delle informazioni», ha risposto un portavoce. Bayias invece ha affermato che non è «assolutamente» vero che il passaggio a PwC subito dopo la sua consulenza per la Dg Reform costituisca un conflitto di interessi, perché mentre lavorava per la Dg Reform non ha avuto alcun coinvolgimento nei contratti firmati tra questa e PwC.

Intervistato da Follow The Money, Kenneth Haar, campaigner per il Corporate Europe Observatory, centro di ricerca sul ruolo delle lobby e delle corporation in Europa, ha commentato dicendo che «il caso greco mostra un’esternalizzazione di grandi decisioni politiche che lascia a bocca aperta, ma con un programma così vasto come il Piano di ripresa è inevitabile il coinvolgimento delle quattro più grandi società di consulenza». Allo stesso tempo, per il ricercatore «è oltraggioso vedere come la Commissione si affidi a poche grandi società di consulenza per fornire supporto ai programmi di ripresa». Il coinvolgimento di queste società crea una «marea di conflitti di interesse», la maggior parte dei quali a favore dei loro clienti e non dell’interesse pubblico.

CREDITI

Autori

Francesca Cicculli
Carlotta Indiano

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Giulio Rubino

Foto di copertina

Il marchio McKinsey e, sullo sfondo, il Palazzo dell’Eliseo, residenza ufficiale del Presidente della repubblica francese
(Lionel Bonaventure/Getty)

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Nel 2021 la Commissione europea ha approvato una serie di fondi e prestiti destinati agli Stati membri per far fronte alla crisi economica portata dalla pandemia. Un pacchetto di stimoli senza precedenti nel continente: 723,8 miliardi di euro.

Per potervi accedere, i Paesi membri hanno dovuto presentare dei piani, tanto dettagliati quanto ambiziosi.

Ma le prime ricerche dimostrano che tali piani sono stati redatti in modo molto poco trasparente, senza il contributo degli attori della società civile e, nella maggior parte dei paesi Ue, senza neppure quello dei Parlamenti eletti.

L’enorme spesa è finanziata aumentando il debito pubblico. La Corte dei conti europea ha sollevato l’allarme sulla necessità di «controlli efficaci su come il denaro venga speso in realtà». Una fonte interna alla Corte dei conti ha ammesso, sotto condizione di anonimato, che l’Europa non ha sufficienti risorse per fare controlli continui e dettagliati.

Ma cosa contengono effettivamente i piani dei vari Paesi, e come sono stati negoziati con la Commissione? Chi ne trarrà il maggior vantaggio e come assicurarsi che ci sia trasparenza su tutto il processo? Per rispondere a queste domande IrpiMedia partecipa al progetto #RecoveryFiles messo in piedi dai colleghi olandesi di Follow The Money, assieme a colleghi di altre 11 testate in tutto il continente.

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Francesca Cicculli
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Giulio Rubino

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Follow the Money (Paesi Bassi)
Rise (Romania)
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Die Welt (Germania)
Denik (Repubblica Ceca)
Ostro (Slovenia)
Atlatszo (Ungheria)
Le Monde (Francia)
Euractiv.com, Onet.pl (Polonia)
DEO.dk (Danimarca/Svezia)

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Giulio Rubino

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Il Parlamento europeo a Bruxelles
(Thierry Monasse/Getty)

Con il sostegno di

La China Tobacco alla conquista del mondo

La China Tobacco alla conquista del mondo

Alessia Cerantola
Andrei Ciurcanu

Èla più grande compagnia di sigarette di cui abbiate sentito parlare. La China National Tobacco Corporation (CNTC) produce quasi la metà delle sigarette del mondo, ma sono perlopiù consumate in casa. Almeno fino a poco tempo fa.

Nel 2015, la CNTC si è lanciata sul progetto della Nuova via della seta, una strategia globale per lo sviluppo di infrastrutture e rapporti commerciali che si basa sulla dottrina cinese del “go global”, diventare globali. L’azienda, che è spesso chiamata anche semplicemente China Tobacco, ha iniziato a spingere le sue sigarette verso nuovi mercati, espandendo la produzione di tabacco in altri paesi.

«Stanno cercando il dominio globale e un posto nel mondo», ha detto Judith Mackay, consigliera dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) esperta dell’industria globale del tabacco. «Il dragone sta ruggendo», ha aggiunto.

Si sa relativamente poco della la CNTC, nonostante il gruppo sia cresciuto fino a diventare la più grande compagnia dei tabacchi del mondo. Le sue sigarette hanno un gusto diverso rispetto a quelle occidentali.

«Questa è la ragione principale per cui China Tobacco sta faticando a promuovere le proprie marche di sigarette a un pubblico di consumatori più vasto in altri Paesi», ha spiegato Gan Quan, responsabile del dipartimento che si occupa dei danni del fumo per la non-profit International Union Against Tuberculosis and Lung Disease, organizzazione con sede a Parigi che ha lo scopo di promuovere la prevenzione sanitari in Paesi dal reddito medio-basso.

Questa inchiesta OCCRP svela che l’enorme industria di Stato del tabacco cinese ha perseguito una strategia di espansione che è eticamente dubbia, e talvolta del tutto illegale.

Lavorando attraverso una rete di filiali, joint venture e altre controllate – alcune con connessioni a reti di contrabbando – la China Tobacco ha inondato i mercati con i suoi marchi di sigarette, anche quando i prodotti non sono regolarmente registrati dalle autorità competenti nei vari Paesi.

L’azienda ha anche comprato il favore dei consumatori attraverso la pubblicità, e finanziando progetti sociali in Cina e all’estero. Gli impegni che la Cina ha preso nella Convenzione quadro sul controllo del tabacco (FCTC), un trattato globale supervisionato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), prevedono però che CNTC non finanzi né l’una, né gli altri. Lo scopo del trattato, infatti, è quello di ridurre il consumo di sigarette a livello globale.

Nelle sue strategie di espansione, la CNTC si è ispirata ai suoi concorrenti, noti anche con il nome collettivo di “Big Tobacco”, secondo Mackay, che nel suo ruolo di consigliera dell’OMS si occupa proprio dell’attuazione della FCTC.

Queste aziende – la Philip Morris International (PMI), la British American Tobacco (BAT), Imperial Brands e Japan Tobacco International (JTI) – sono state tutte coinvolte nel corso degli anni da scandali che riguardano il contrabbando o la pubblicità non etica.

«Come modello, si potrebbe sostenere che questo è proprio quello che la Cina sta facendo ora», ha detto Mackay.

E China Tobacco lo ha implementato bene. Secondo una stima del 2019 del suo maggiore concorrente, PMI, China Tobacco controlla circa il 45% del mercato globale. È una quota maggiore di PMI, BAT, JTI e Imperial Brands messe insieme. Vuol dire che è diventata il principale attore del mercato.

Poiché la CNTC è interamente di proprietà statale, a differenza dei suoi principali concorrenti, il suo successo mette il governo cinese nella posizione scomoda di lavorare direttamente contro i suoi stessi obblighi per l’OMS.

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Il museo del tabacco di Hongta Group – Foto: Rocco Rorandelli

Ma i soldi parlano chiaro: China Tobacco è la quarta azienda più redditizia del Paese, secondo gli autori di un articolo del 2017 pubblicato sulla rivista Global Public Health. Il gruppo fornisce tra il 7 e l’11 % delle entrate fiscali della Repubblica popolare cinese. Non sono un’azienda dalla quale il Paese può prescindere, anche se in contrasto con quanto firmato con l’Organizzazione mondiale della sanità.

«Il mercato principale della CNTC rimane in Cina e la società non è conosciuta all’estero, fuori dalla la diaspora cinese – ha spiegato in una e-mail Jennifer Fang, esperta nel settore del tabacco in Asia e ricercatrice alla Simon Fraser University in Canada -. Penso che questo sia il motivo principale per cui è passata inosservato ai ricercatori che si occupano di tabacco, alle istituzioni, ai media, e così via».

Ma la situazione sta cambiando.

Negli ultimi anni, Fang e i suoi colleghi hanno documentato la spinta della China Tobacco alla conquista del mercato globale.

«Più scaviamo a fondo, più ci rendiamo conto di quanto la CNTC sia stata aggressiva nella sua strategia di globalizzazione, in quanto punta alle materie prime, ai prodotti, allo sviluppo del marchio e al funzionamento», ha aggiunto.

L’inchiesta di OCCRP ha portato alla luce un proliferare di filiali della CNTC in tutto il mondo. Alcune sono responsabili dell’acquisto di foglie di tabacco e della produzione di sigarette. Le filiali in Paesi come il Brasile e lo Zimbabwe sono diventate attori importanti anche nella coltivazione, a volte a spese degli agricoltori locali.

Persone e società collegate alla CNTC hanno consegnato alcune delle sigarette prodotte a contrabbandieri che le hanno rivendute nel mercato nero di Europa e America Latina. Si tratta di una strategia ben documentata che la PMI ha usato in Colombia negli anni Novanta

China Tobacco sta anche forgiando nuovi mercati – spesso in Paesi dove i suoi marchi non possono essere venduti legalmente, in quanto non sono registrati tra i tabacchi autorizzati da Dogane e Monopoli. L’inchiesta rivela inoltre che persone e società collegate alla CNTC hanno consegnato alcune delle sigarette prodotte a contrabbandieri che le hanno rivendute nel mercato nero di Europa e America Latina.

Si tratta di una strategia ben documentata che la PMI ha usato in Colombia negli anni Novanta, quando le sue sigarette Marlboro hanno inondato illegalmente il mercato. Il governo ha poi scelto di legalizzare e tassare la multinazionale. Oggi, invece, la Colombia è piena di marchi di sigarette made in China come Golden Deer e Silver Elephant.

«Se volete capire cosa sta succedendo ora, guardate cosa è successo negli anni Ottanta e Novanta con i produttori delle multinazionali del tabacco», ha riferito un funzionario doganale rimasto anonimo perché non autorizzato a parlare con i giornalisti.

In Italia, un ufficiale della Guardia di finanza ha detto che si potrebbe sospettare CNTC stia usando la stessa tattica, incoraggiando la proliferazione nel mercato nero di sigarette poco costose, che entrano senza pagare nessuna accisa ai Monopoli di Stato o che vengono prodotte in laboratori non autorizzati.

La polizia colombiana esamina degli scatoloni di sigarette sequestrati a Bogotà e provenienti dalla Cina – Foto: Policia National

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Queste sigarette si chiamano Regina, «un nome legato alla tradizione italiana, alla lingua italiana» – ha detto Cosimo De Giorgi, responsabile della sezione dogane per la Guardia di finanza, e sembrano essere specificamente progettate per attrarre il mercato locale.

«Questo potrebbe anche essere un cavallo di Troia», ha detto. Potrebbe infatti diventare un modo per entrare nel mercato legale in Italia.

Contrabbando globale

Regina e altri marchi sono prodotti nell’unica fabbrica di China Tobacco presente in Europa, in Romania, a 140 chilometri dalla capitale Bucarest, vicino a un fiume e circondata da colline ricoperte di foreste.

La filiale si chiama China Tobacco International Europe Company (CTIEC) e le sue sigarette sono vendute legalmente in tutta Europa, soprattutto nei negozi duty-free degli aeroporti. Ma le sigarette prodotte in Romania sono anche contrabbandate attraverso i confini, anche con metodi ingegnosi.

Nell’inchiesta è emersa una rete di persone collegate alla criminalità organizzata e una funzionaria della CTIEC, Adina Ionescu, coinvolti. Assieme avevano organizzato una truffa per contrabbandare sigarette ed evitare di pagare le accise in Italia, usando come stratagemma un container “clonato”.

Per prima cosa, i contrabbandieri, tra cui spicca il nome di Raffaele Truglio (già noto per i suoi traffici), hanno affittato un container nel porto di Salerno, dichiarando che sarebbe stato usato per spedire sigarette in Libia – evitando così le tasse europee. Invece, hanno riempito il container con mattoni e materassi esattamente dello stesso peso del carico di sigarette. Poi hanno comprato un altro container, l’hanno dipinto dello stesso colore, hanno attaccato un adesivo con lo stesso codice di identificazione dell’originale e l’hanno mandato alla fabbrica della CTIEC, in Romania, per caricarlo di sigarette.

Alle guardie di frontiera e ai funzionari doganali sono stati mostrati dei documenti che indicavano che questo container clonato era legittimo e poteva essere portato in Italia, in transito verso la Libia. In realtà il carico sarebbe stato contrabbandato in Europa e venduto – esentasse – sul mercato illegale.

O almeno è così che doveva andare.

Sfortunatamente per i contrabbandieri, la polizia ha scoperto la truffa, che gli investigatori italiani hanno poi definito «ingegnosa».

La polizia ha intercettato i telefoni dei membri della rete criminale. Uno dei sospetti chiave era una dirigente della sezione marketing della CTIEC, secondo le trascrizioni delle intercettazioni ottenute da OCCRP. I procuratori dicono che si è coordinata per mesi con i contrabbandieri, soggetti che hanno anche connessioni con la camorra.

Dei finanzieri traggono in arresto un uomo nel 2016 sospettato di essere parte di un gruppo dedito al contrabbando di sigarette CNTC prodotte in Romania – Foto: Guardia di Finanza

I dati italiani elaborati dalla Guardia di finanza mostrano anche che 30 tonnellate di sigarette cinesi sono state contrabbandate dall’Ucraina in soli due anni. Queste stesse marche di sigarette erano tra i 500 milioni esportati negli ultimi sette anni dalla fabbrica rumena in Ucraina, dove non possono essere vendute legalmente. Alcune sono state portate da aziende ora sotto inchiesta per contrabbando.

Oltre ai Paesi dell’Unione europea, le sigarette sono portate in zone di conflitto, tra cui la Libia e l’Iraq. L’inchiesta ha anche rivelato un altro nodo per il contrabbando di sigarette cinesi in una zona di libero scambio alla foce del canale di Panama. Il criminologo colombiano Daniel Rico l’ha definita «la Disneyland del contrabbando». Rintracciando l’origine delle sigarette di contrabbando trovate in Colombia e gli Stati Uniti, i giornalisti hanno trovato una scia di società di comodo che porta alla CNTC.

Questa rete di aziende si estende a nord, in Messico, in Texas e fino a Vancouver, Canada. Ma la maggior parte delle sigarette prodotte in Cina che passano per Panama vengono spostate in Sud America – anche se l’unico Paese del continente con un mercato legale per queste sigarette è il Cile.

Nel giugno del 2020, le autorità colombiane hanno fatto un sequestro storico di sigarette cinesi, fermandone quasi abbastanza perché ciascuno dei 50 milioni di abitanti del paese ne possa fumare due a testa. Erano state prodotte in Cina e spedite a Colon, poi si sono fatte strada attraverso i Caraibi, attraverso la Giamaica e Aruba, prima di arrivare finalmente nella città costiera colombiana di Cartagena.

«Il contrabbando è un modo per espandere il mercato», ha spiegato Rico, che dirige la società di ricerca con sede in Colombia chiamata C-Analisis.

Tabacco d’importazione

Mentre la CNTC sta spingendo i suoi marchi di sigarette in tutto il mondo, il conglomerato ha anche incrementato la produzione di tabacco in altri Paesi. La Cina ha ridotto la coltivazione del tabacco in patria, in conformità con i suoi obblighi FCTC, e Paesi come il Brasile e lo Zimbabwe hanno contribuito a colmare il deficit.

China Tobacco è entrata in Brasile, il secondo produttore mondiale, nel 2002, formando una filiale per comprare le foglie e spedirle a casa. Circa un decennio dopo, ha formato una joint-venture con un gigante americano del commercio del tabacco, che ha iniziato a contrattare direttamente i contadini brasiliani.

Nel 2019, la Cina rappresentava più del 19% delle esportazioni di tabacco del Brasile, per un valore di quasi 386 milioni di dollari. Questa cifra è cresciuta di appena 12 milioni di dollari di tabacco brasiliano – solo l’1% delle esportazioni – nel 1997.

Nonostante la crescita di una delle principali aziende di tabacco del Brasile, i giornalisti hanno scoperto che la joint-venture della CNTC con la Pyxus International Inc, China Brasil Tabacos Exportadora SA (CBT), è sfuggita al radar dei controlli. Le autorità hanno sanzionato CBT solo quattro volte dal 2014, mentre molte più sanzioni sono state emesse ad altre aziende di tabacco per abusi sul lavoro che affliggono il settore.

«Il contrabbando è un modo per espandere il mercato»

Dirigente della società di ricerca con sede in Colombia, C-Analisis

In un caso, la filiale della Pyxus che possiede il 49%della CBT è stata multata per aver permesso il «lavoro in condizioni di schiavitù» in una azienda contrattualizzata per la vendita di tabacco. In un altro caso, la filiale della Pyxus è stata multata per aver costretto le dipendenti incinte a lasciare il loro lavoro in una fabbrica dove anche la CBT aveva la sua sede.

Le autorità hanno riferito a OCCRP che in entrambi i casi, non erano a conoscenza del coinvolgimento di CBT con la filiale Pyxus.

In Zimbabwe, il più grande produttore di tabacco dell’Africa, la Cina era il primo importatore di tabacco locale nel 2019, comprando almeno un terzo dell’intero raccolto del paese attraverso una filiale della CNTC. Ma i contadini hanno contratti svantaggiosi e il sistema di cambio della valuta contribuisce a rendere i loro stipendi da fame.

Da quando la moneta dello Zimbabwe ha iniziato a crollare nel 2007, la Banca Centrale non è stata infatti in grado di ottenere abbastanza dollari americani per mantenere l’economia a galla. La maggior parte della gente è pagata in “quasi-valuta”, un sistema che può essere usato solo all’interno del Paese, e che comprende le scarse banconote conosciute come “bollars” così come una valuta digitale locale. Entrambe sono scambiate a un tasso di cambio ufficiale che è solo una frazione di quello che valgono in strada.

La filiale della CNTC Zimbabwe, la Tian Ze Tobacco (Pvt), Ltd è tenuta a pagare gli agricoltori attraverso la Banca Centrale con un misto di quasi-valuta locale e di dollari statunitensi. Gran parte dei pagamenti in dollari sono usati per ripagare i prestiti per strumenti produttivi come il fertilizzante e il carburante, che i contadini comprano dai fornitori della Tian Ze. Il pagamento in valuta locale, nel frattempo, viene convertito al tasso ufficiale enormemente sopravvalutato, prosciugando gran parte del suo valore.

Crescita furtiva

Le società di China Tobacco in Romania, Brasile, Panama e Zimbabwe sono solo quattro punti di una costellazione che si estende in tutto il mondo, dalla Corea del Nord alla Svizzera, dalla Namibia agli Stati Uniti. Nel 2019, ha lanciato China Tobacco International (HK) Company Limited, che è quotata alla Borsa di Hong Kong, per supervisionare l’espansione globale.

Nonostante la sua spinta espansiva, la China Tobacco rimane misteriosa anche per le autorità globali che supervisionano la FCTC.

«Le informazioni sono molto frammentate – ha detto Mackay -. Abbiamo così poche idee, perché è un dipartimento del governo statale e il modo in cui interagisce con altri dipartimenti del governo statale è tutto a porte chiuse. Non c’è trasparenza».

Come ha notato una pubblicazione del 2020 finanziata dalla Foundation for a Smoke-Free World, fondazione per combattere il fumo finanziata dalla PMI, l’azienda non è stata menzionata nemmeno una volta nel rapporto dell’OMS del 2019 sulle tendenze globali dell’uso del tabacco. Al contrario, hanno sottolineato gli autori, concorrenti come PMI e BAT sono stati menzionati venti volte o più.

L’OMS ha rifiutato di commentare le domande sul rispetto della FCTC da parte della Cina.

C’è una contraddizione intrinseca tra gli impegni della Cina nella FCTC per combattere il fumo e la sua proprietà della più grande azienda di tabacco del mondo. Non solo le fortune del governo e dell’azienda sono saldate insieme, ma sono unite anche a livello politico.

China Tobacco condivide lo stesso sito web dell’autorità incaricata di regolare l’industria, la State Tobacco Monopoly Administration (STMA). I due enti, apparentemente separati, impiegano anche molto dello stesso personale.

«In realtà, la STMA e la CNTC sono la stessa organizzazione, con due nomi diversi», hanno scritto gli autori di uno studio del 2012 pubblicato dalla Società giapponese di igiene.

Nel frattempo, abbondano gli esempi di come la Cina viola la FCTC cercando di attirare i fumatori con la pubblicità e attraverso progetti di responsabilità sociale delle imprese (CSR).

«L’industria del tabacco continua a lanciare grandi campagne di marketing ed è ancora in grado di espandere la sua base di consumatori e acquisire con successo una nuova generazione di fumatori», ha notato l’OMS nel suo rapporto 2019 sull’epidemia globale di tabacco.

I benefici del contrabbando

Potrebbe essere controintuitivo, ma le grandi compagnie del tabacco hanno una lunga storia di contrabbando, sia direttamente, sia riversando deliberatamente sigarette nei vari mercati, sapendo che i prodotti in eccesso finiranno nelle reti di distribuzione illegali.

Il contrabbando beneficia le multinazionali del tabacco per diverse ragioni:

  • Spingere le sigarette sul mercato nero è un’utile strategia d’ingresso nel mercato locale. Quando le sigarette sono più economiche e più ampiamente disponibili, più persone cominceranno a fumarle – specialmente i giovani e i più poveri.
  • Una volta che le loro marche sono ampiamente presenti sul mercato nero, le compagnie del tabacco possono sfruttare questa situazione per fare pressione e abbassare le accise o ridurre le restrizioni sul tabacco.
  • Queste aziende fanno la maggior parte dei loro soldi vendendo ai grandi distributori. Non importa se le sigarette sono vendute legalmente o sul mercato nero.
  • All’inizio del 2000, la Commissione Europea ha intentato una causa contro Philip Morris e RJR Nabisco a New York, sostenendo che avevano sistematicamente messo le loro sigarette – che includevano i marchi più venduti come Marlboro e Camel – nelle mani dei contrabbandieri. PMI ha accettato di pagare 1,25 miliardi di dollari per i successivi 12 anni in cambio della fine del contenzioso. L’azienda è stata anche di riciclaggio di denaro e frode telematica ai sensi della legge RICO (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations).

CNTC aveva appena iniziato a espandersi a livello globale proprio in quegli anni, agli inizi del 2000, e non era coinvolta nelle cause. Tuttavia, è ancora obbligata a seguire l’accordo anti contrabbando negoziato all’indomani dello scandalo, il Protocollo del Commercio Illecito. In base a questo accordo, le compagnie del tabacco non possono lavorare con distributori noti per essere stati coinvolti nel contrabbando in passato, e devono condurre una due-diligence sui loro clienti.

I media statali cinesi e persino i siti web governativi riportano articoli sulle buone opere delle filiali della CNTC, come la Guangdong China Tobacco Industry Co. Un comunicato stampa pubblicato sul sito web del governo provinciale del Guangdong a metà del 2020 esponeva la «vittoria decisiva» della società sulla povertà nel villaggio di Dengfang.

Un residente, «reso povero a seguito di una malattia contratta da giovane», ha ricevuto una formazione agricola che lo ha aiutato a ottenere «il più alto reddito da coltivazione del tabacco nel villaggio», riporta il comunicato stampa.

La China Tobacco ha anche svolto attività di supporto economico all’estero, in violazione con quanto riporta la FCTC. La filiale CNTC in Zimbabwe si impegna in una serie di progetti, dal rimboschimento al finanziamento di orfanotrofi, secondo il suo profilo aziendale sul sito del ministero del commercio cinese.

In Cambogia, la società Viniton, che è della della CNTC e produce la popolare marca di sigarette Angkor, ha pubblicizzato la sua sponsorizzazione delle scuole primarie sul suo sito web, fino a quando la pagina è stata tolta l’anno scorso.

La società ha citato un discorso tenuto dal direttore generale di Viniton, Liu Daoxin, in una scuola elementare. Ha detto che Viniton «contribuisce attivamente alle iniziative di welfare nazionale, specialmente nel settore dell’istruzione» e ha «costantemente fornito assistenza finanziaria in diverse forme per finanziare la fornitura di infrastrutture e attrezzature per scuole e strutture educative, contribuendo a promuovere lo sviluppo del settore dell’istruzione del paese».

Queste sono flagranti violazioni del trattato FCTC. Anche se la Cina è firmataria della convenzione, i documenti scoperti da OCCRP mostrano che la società ha reso nota la sua opposizione alla FCTC negli anni precedenti al lancio del trattato nel 2003.

«Vietare qualsiasi pubblicità del tabacco o determinare l’avvertimento sulla salute nel pacchetto con la stessa dimensione e contenuto in tutto il mondo è inaccettabile ed è una violazione di diritto di un prodotto legale», ha scritto la società in una presentazione del 2000 alla FCTC, che i giornalisti hanno scoperto in un archivio online dell’Università della California a San Francisco.

Tre anni prima, in risposta a una conferenza dell’OMS sul tabacco, la CNTC aveva scritto agli organi statali del governo – compreso l’Ufficio Centrale del Partito Comunista – per mettere in guardia contro l’imposizione di nuovi regolamenti antifumo. La società ha fatto notare che l’industria del tabacco era «il produttore di tasse più importante del governo» e impiegava 100 milioni di persone in tutto il Paese.

Nella lettera, che è stata fornita a OCCRP da un esperto dell’industria e che non è stata precedentemente resa pubblica, China Tobacco ha persino attaccato la scienza che dimostra che il fumo è dannoso.

«L’evidenza sanitaria è controversa, e molti fumatori vivono a lungo», ha scritto la compagnia. «Una pubblicità anti-fumo non scientifica non raggiungerebbe l’obiettivo e sarebbe fuorviante».

CREDITI

Autori

Alessia Cerantola
Andrei Ciurcanu

Ha collaborato

Bopha Bhorn
Nathan Jaccard
Sol Lauría
David Tarrazona
Mateo Yepes
Lilia Saúl
Anna Myroniuk
Naira Hofmeister
Luiz Toledo

In partnership con

OCCRP

Editing

Lorenzo Bagnoli

Immagine di copertina

Svetlana Tiourina (OCCRP)

PFAS: l’inquinamento che spaventa l’Europa

PFAS: l’inquinamento che spaventa l’Europa

Francesca Cicculli
Silvia Pittoni

Non solo Veneto: si estende in tutta Europa la contaminazione da Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche contenute in molti oggetti di uso quotidiano, dalle padelle antiaderenti alle giacche impermeabili, fino alle schiume antincendio. Sostanze tossiche se accumulate in grandi quantità e difficili da individuare con le normali analisi di laboratorio sulle acque. Da un rapporto dell’Agenzia europea per l’Ambiente, pubblicato a gennaio 2020, è emerso che le acque, il suolo e il sangue dei cittadini europei contengono quantità preoccupanti di Pfas.

«In Europa abbiamo casi di inquinamento da PFAS relativamente estesi, anche se nessuno ai livelli della Miteni in Italia», spiega a IrpiMedia Valentina Bertato, specialista di scienze ambientali e membro della Direzione Generale per l’Ambiente della Commissione Europea. «Il problema è che le zone contaminate non vengono cercate: se si cominciasse a fare monitoraggio dei siti dove sono prodotti e utilizzati PFAS – continua Bertato – si troverebbero sicuramente altri casi. A livello europeo manca ancora un approccio globale per quanto riguarda il monitoraggio dei siti contaminati». Il rischio è quello di avere un inquinamento diffuso e irreversibile in tutta Europa. A peggiorare la situazione anche la poca trasparenza e la colpevole omissione dei dati dei monitoraggi eseguiti dalle aziende che producono o utilizzano Pfas.

L’azienda che ha inquinato Stati Uniti ed Europa

É il 1999 e in West Virginia, Stati Uniti, Wilbur Tennant, un allevatore di bovini, denuncia la morte dei suoi animali dopo aver bevuto l’acqua di un torrente vicino l’azienda chimica DuPont. La DuPont detiene il brevetto per il Teflon, definito “una delle tecnologie più preziose e versatili mai inventate”. Ma per produrlo si usa il PFOA, una delle sostanze perfluoroalchiliche che la DuPont acquistava dalla multinazionale 3M con la raccomandazione, già dagli anni ‘50, di non scaricarla nelle acque proprio per i suoi effetti dannosi sulla risorsa idrica.

Negli anni è emerso nel corso di una causa tra gli allevatori e la stessa DuPont come l’azienda chimica abbia sversato 70 mila tonnellate di PFOA e PFAS, pur conoscendone la tossicità. Nel corso del processo è stato trovato un collegamento tra l’esposizione ai PFAS e alcune malattie che la popolazione intorno alla fabbrica ha sviluppato negli anni. La DuPont ha eliminato definitivamente dalla produzione il PFOA nel 2014 e dopo la causa ha pagato la bonifica del territorio e milioni di dollari di risarcimento alle vittime della contaminazione. Un esito a cui aspirano anche le parti civili costituite nell’analogo processo che si sta celebrando a Vicenza nei confronti della Miteni.

Mentre negli Stati Uniti la DuPont è stata condannata per disastro ambientale e si è fatta carico di tutti i costi relativi alla contaminazione, nei Paesi Bassi, dove possiede una fabbrica gemella, è rimasta impunita.

L’Istituto nazionale per la salute pubblica e l’ambiente olandese (RIVM) ha stimato che 750.000 persone siano state esposte ad alti livelli di PFOA a causa della loro residenza in città vicine all’impianto di Dordrecht.

Si tratta della fabbrica di Teflon di Dordrecht, gestita dalla DuPont fino a luglio 2015. L’azienda è accusata di aver sversato PFOA nel fiume Beneden-Merwede. Nonostante la DuPont fosse stata condannata negli Stati Uniti per inquinamento ambientale, le autorità olandesi non hanno ritenuto necessario svolgere analisi nella zona di Dordrecht, fino a che un’inchiesta realizzata da Follow The Money ha portato il caso davanti all’opinione pubblica dando così avvio al parlamento dei Paesi Bassi. L’inchiesta, infatti, ha rivelato che numerosi cittadini, negli anni, hanno sviluppato malattie riconducibili all’esposizione a queste sostanze.

Nel 2016 è stata commissionata un’indagine all’Istituto nazionale per la salute pubblica e l’ambiente olandese (RIVM) per esaminare le concentrazioni di PFOA nell’aria e nell’acqua e fare una stima degli effetti sulla salute. Considerato il periodo 1970-2012, il RIVM ha stimato come 750.000 persone siano state esposte ad alti livelli di PFOA a causa della loro residenza in città vicine all’impianto di Dordrecht. Tuttavia, secondo il RIVM: «La concentrazione di PFOA nel sangue calcolata non comporta alcun rischio tossicologico».

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L’analisi però non si basa su rilevazioni effettuate dall’Istituto pubblico. Alcuni dati sono stati messi a disposizione dalla DuPont stessa e quindi da fonti direttamente coinvolte nelle emissioni. La società tra il 2005 e il 2013 ha attivato un programma di monitoraggio sul sangue dei dipendenti di Dordrecht, senza condividere i risultati con l’ispettorato del lavoro olandese. Questi dati dimostrerebbero che i dipendenti olandesi avevano livelli «scioccanti» di PFOA nel sangue, come definiti dal tossicologo dell’Università di Utrecht Martin van den Berg. L’azienda ha sempre sostenuto che da parte propria mai ci siano state violazioni dei limiti di PFOA.

Come in Veneto, vari legali si sono offerti di difendere gli ex lavoratori della DuPont che, negli anni, hanno sviluppato delle patologie. I residenti della zona pretendono oggi, come in Veneto, un monitoraggio generale della popolazione coinvolta. Un passaggio necessario per ottenere i dati, individuare le eventuali responsabilità dell’inquinamento e ottenere poi i risarcimenti.

A preoccupare i cittadini della zona, c’è la vendita dello stabilimento, nell’estate 2015, alla Chemours, una società definita spin-off della DuPont, cioè scorporata dal gruppo e dalla casa madre. Chemours sviluppa alcune attività del comparto chimico e l’accordo di vendita prevede che tutte le possibili richieste di risarcimento pervenute alla DuPont fossero in capo alla Chemours. Secondo Follow The Money, questa è stata una strategia attuata dalla DuPont per sollevare il proprio management da eventuali richieste risarcitorie.

L’assenza di dati certi e di un’analisi più approfondita sulla popolazione olandese in generale, per molti anni ha impedito che il PFOA venisse considerato come una sostanza nociva. Il RIVM ha aggiunto il PFOA all’elenco delle “sostanze estremamente preoccupanti” solo nel dicembre 2013. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che se tutti i 270.000 residenti delle zona potenzialmente interessata dovessero essere controllati, la spesa sanitaria ammonterebbe a 54 milioni di euro.

Non solo acqua: se la contaminazione raggiunge il cibo

Ted van der Vlies, 70 anni, è un residente di Dordrecht. Per oltre 45 anni ha mangiato gli ortaggi del suo orto contaminato da PFOA. I suoi esami del sangue hanno mostrato livelli molto alti di questa sostanza. Van der Vlies ora ha il cancro, ma è difficile dimostrare una relazione causale con le sostanze. A Follow The Money ha detto di essere «l’uomo più velenoso della zona».

Ai giornalisti olandesi, il tossicologo Jacob de Boer, ha dichiarato: «L’aver trovato tracce di PFOA negli orti di Dordrecht potrebbe indicare che Chemours non abbia affatto smesso di usare il PFOA e che l’inquinamento delle acque sotterranee è più grave del previsto. Significherebbe che i documenti sono stati manomessi e che Chemours non ha deliberatamente rispettato i permessi concessi».

In teoria Chemours avrebbe dovuto interrompere la produzione di PFOA dal 2012, sostituendolo con altre sostanze, gli GenX che ha scaricato direttamente nel Merwede, senza prima depurare l’acqua di scarico.

Sotto la forte pressione sociale – e la minaccia di richieste di risarcimento danni- Chemours ha annunciato a settembre di quest’anno che avrebbe investito 75 milioni di euro nella riduzione delle sue emissioni GenX a Dordrecht. Entro la fine del 2020 la società fa sapere di voler ridurre le emissioni di GenX del 99%.
«Gli GenX sono stati considerati più sicuri, ma le aziende produttrici hanno trascurato gli effetti di queste sostanze nel lungo periodo», spiega Valentina Bertato. «Bisogna tener presente – specifica Bertato – che sono sostanze meno efficienti, quindi le loro emissioni sono molto superiori: se continuiamo a usarle la loro concentrazione aumenterà, con effetti negativi sulle persone».

GenX, cosa sono?

Rispetto agli Pfas, che hanno 8 atomi di carbonio, gli GenX sono a catena ridotta, con 6 o 4 atomi di carbonio. Sono stati inseriti dalla Commissione Europea nell’elenco delle sostanze altamente pericolose poiché, come gli PFAS a catena lunga, sono persistenti nell’ambiente e si muovono facilmente, raggiungendo acque e terreni anche molto lontani dal luogo della contaminazione. Gli GenX sono metabolizzati di più dal corpo umano, ma comunque si bioaccumulano. Inoltre, rispetto agli PFAS a catena lunga, si concentrano di più nella vegetazione e quindi possono essere assunti consumando cibo contaminato.

Gli GenX olandesi sono legati anche all’Italia e alla Miteni di Trissino: nel 2018 un rapporto di Greenpeace ha rivelato che dal 2014 al 2017, su autorizzazione della Regione Veneto, l’azienda veneta avrebbe importato almeno 100 tonnellate l’anno di rifiuti contenenti GenX, finiti nel suolo e nelle acque vicentine.

La pericolosità degli GenX e di altri PFAS cosiddetti a catena corta, ha portato la Commissione Europea a rendere necessaria una regolamentazione unica per tutta la famiglia di PFAS: «Ci siamo resi conto che regolamentare le singole sostanze non era sufficiente per limitare le contaminazioni», racconta ancora Bertato. «Con il regolamento REACH – conclude – vorremmo imporre l’utilizzo di PFAS solo in settori necessari, ad esempio dell’industria medica e in quella delle energie rinnovabili, e imporre materiali alternativi ma ugualmente performanti, in tutti gli altri settori. Nel frattempo studieremo composti alternativi che portino a sostituire completamente i PFAS».

Un rapporto di Greenpeace del 2018 ha rivelato che dal 2014 al 2017 la Miteni avrebbe importato almeno 100 tonnellate l’anno di rifiuti contenenti GenX, finiti nel suolo e nelle acque vicentine

Il REACH

Il REACH (acronimo di «registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche») è un regolamento dell’Unione europea, adottato il 1 giugno del 2007, per migliorare la protezione della salute umana e dell’ambiente dai rischi che possono derivare dalle sostanze chimiche, inclusi gli PFAS.

Per quanto riguarda gli PFAS, si sta cercando di inserire e regolamentare anche quelli a catena corta. «Ma i composti chimici alternativi agli PFAS a catena lunga, già regolamentati, sono numerosi e quindi il processo sarà molto lungo. Durerà almeno fino al 2024», ha spiegato Valentina Bertato a IrpiMedia.

Secondo il REACH le aziende sono tenute a registrare le sostanze che producono o utilizzano. L’ECHA (Agenzia europea delle sostanze chimiche) riceve le singole registrazioni e ne valuta la conformità normativa e se è possibile gestire i rischi che derivano dall’uso di queste sostanze. Se i rischi non possono essere gestiti, le autorità possono limitarne l’uso. Nel lungo termine quelle più pericolose devono essere sostituite con altre meno pericolose.

Gli Stati europei che hanno già adottato il REACH per gli PFAS sono: Germania, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Danimarca.

La strategia europea non piace alle aziende chimiche che utilizzano Pfas. Il 10 dicembre, la Chemours ha organizzato un webinar online in cui ha spiegato ad altre società del settore come poter mobilitarsi per fare lobbying sugli Stati membri e sulla UE, per ostacolare il regolamento REACH.

Secondo le aspettative, il regolamento della Commissione Europea darà l’impulso per adattare le legislazioni in materia di contaminazione dell’acqua e del cibo, ma anche quella relativa alle emissioni industriali e al ciclo di rifiuti. «Le padelle e le pentole antiaderenti contenenti PFAS – spiega Bertato -, raggiungono le discariche e vengono bruciate come gli altri rifiuti. Non sappiamo se da questo processo vengano emessi nell’aria altri PFAS», spiega la dottoressa. «In ogni caso – conclude -, le normative europee devono poi essere implementate dai singoli Stati. Sono loro a dover verificare che le aziende le rispettino».

CREDITI

Autori

Francesca Cicculli
Silvia Pittoni

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero
Silvia Pittoni

Editing

Luca Rinaldi