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La “famiglia Agip”: il caporalato dell’industria petrolifera
In Nigeria chi ha in subappalto la gestione della manodopera vieta il sindacalismo, ma le comunità non si mobilitano. Il sistema di potere alimenta gruppi armati che minacciano la stabilità dell’area
21 Aprile 2020

Lorenzo Bagnoli

Lo Stato del Rivers è lo snodo principale dell’industria petrolifera nigeriana. A partire dagli anni Novanta, è stato uno dei principali luoghi di scontro tra gruppi armati locali e multinazionali del greggio: anni di sequestri, di scontri armati, di milizie criminali travestite da gruppi politici. A tutt’oggi il sito del Dipartimento di Stato americano sconsiglia di viaggiare in questa zona della Nigeria a causa di «criminalità, sommosse, sequestri e crimini marittimi».

Dietro questa instabilità ci sono i cosiddetti “miliziani”, gruppi criminali che controllano il territorio e parte dell’economia locale.

Le loro vittime sono da un lato le compagnie petrolifere, dall’altro le popolazioni locali, tenute sotto minaccia da queste organizzazioni e costrette a vivere in un ambiente altamente inquinato (qui un report di Amnesty International del 2012). Come in ogni angolo povero del pianeta, i gruppi di criminalità organizzata hanno gioco facile a comprare l’appoggio della popolazione locale.

Secondo un report dell’agenzia governativa Nigerian Extractive Industries Transparency Initiative (Neiti) del novembre 2019, tra il 2009 e il 2018 i furti di petrolio, greggio e raffinato, sono costati alle casse dello Stato nigeriano 41,9 miliardi di dollari. Il problema è definito «endemico». Secondo le ultime statistiche, è in continua crescita e con la crisi del petrolio dovuta al blocco imposto dal coronavirus è probabile che aumenti ancora.

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Non ci sono vere e proprie indagini per trovare i responsabili dei furti. Il groviglio delle responsabilità tra miliziani, minoranze delle comunità che fanno affari con i criminali e aziende locali che si occupano di sicurezza sono difficili da districare.

Non c’è nemmeno interesse politico a trovare i colpevoli. A livello governativo, il capro espiatorio sono sempre le popolazioni locali.

Per cercare di contenere questo problema, fin dal 2009, il governo ha concesso l’amnistia agli ex miliziani, in cambio del loro disarmo. Riporta nel 2013 l’Istituto della pace americano, centro studi del Congresso, che «i critici del programma ritengono che abbia fallito nello sradicare le cause profonde del conflitto, che sia corrotto e instabile, e promuova la creazione di signori della guerra e diffonda il crimine organizzato, oltre al resto. Queste critiche non sono prive di basi, ma spesso mancano di contesto ed equilibrio».

Sette anni dopo luci e ombre rimangono le stesse: da un lato, il programma dell’amnistia è l’unico strumento per coinvolgere le popolazioni locali in una profonda trasformazione sociale, dall’altro, però, non è stato finora in grado di smantellare davvero le reti dei miliziani, che continuano ad esistere e che nel 2019 hanno ucciso almeno 1.031 persone.

Il programma prevede che circa 30 mila ex guerriglieri, in cambio della rinuncia alle armi, possano ricevere uno stipendio di 420 dollari al mese e trovare un lavoro. Non sempre questo accade e molti miliziani si riciclano nel settore della “sicurezza”. Il governo si ritrova così periodicamente minacciato dai leader delle ex milizie di abbandonare il programma e tornare alla guerriglia.

A condurre inizialmente il processo dell’amnistia – che è parte consistente del problema odierno – sono stati alcuni dei principali attori del cartello nigeriano.

La prima fase, nel 2009, è stata gestita dall’allora presidente Umaru Yar’Adua, padrino politico sia di Goodluck Jonathan, sia di Abubakar Atiku, entrambi, in tempi diversi, suoi vicepresidenti.

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Goodluck Jonathan è originario del Bayelsa, Stato confinante a quello di Rivers. È qui che ha cominciato, nel 2005, la sua carriera politica come governatore. L’ascesa si è completata con il quinquennio da presidente cominciato nel 2010, alla morte di Yar’Adua. Jonathan avrebbe avuto contatti con i vertici di Eni e Shell per le trattative della presunta tangente da 1,1 miliardi di dollari sui quali indagano i pm di Milano nel processo Opl 245.

Eni attraverso la sua controllata Nigerian Agip Oil Company (Naoc), per i nigeriani Agip, è presente in Nigeria dal 1962. Per molte persone delle comunità locali, e molti ex guerriglieri, lavorare per la multinazionale è una delle poche speranze di occupazione.

L’impiego più che con la società petrolifera è con i subappaltatori locali, che si occupano di reperire manodopera giornaliera non qualificata e a basso costo. Il sistema che denunciano i membri delle comunità locali, però, è sbilanciato fin dalle sue regole di partenza e legittima una gestione che non rispetta i diritti dei lavoratori, un sorta di caporalato istituzionale.

I colleghi Kelechuku Ogu e Damilola Banjo del giornale partner di questo progetto, Sahara Reporters, insieme ai ricercatori della Stakeholder democracy network (Sdn), sono andati sul posto a verificare quanto accade in una comunità, quella degli Egbema, tra le più toccate dalle esplorazioni di Naoc.

Molti hanno chiesto di restare anonimi per paura di conseguenze sul posto di lavoro.

Quello che segue è l’adattamento in italiano della loro inchiesta. Le informazioni raccolte sul campo risalgono a gennaio 2020.

Damilola Banjo
Kelechukwu Ogu

A segnare l’ingresso nel territorio delle tribù Ogba/Ndoni/Egbema (in breve, Onelga, dove Lga sta per “local government authority”) ci sono due torce fiammeggianti. Bruciano dai pozzi del petrolio estratto in queste terre. Le loro fiamme rosse e arancio sono il segno tangibile di una comunità impattata dall’industria petrolifera.

Le nuvole stanno per scaricare il loro carico di pioggia: dopo l’ultimo diluvio, almeno un terzo del territorio Onelga è rimasto senz’acqua corrente. L’acqua piovana, invece, invade tutto: si mescola al fango e a una poltiglia di greggio. È stata piantata una barriera protettiva – usata per contenere le perdite di petrolio – allo scopo di frenare la fiumana limacciosa. È inefficace: petrolio e acqua sono scivolate nei territori vicini di Aggah, Mgbede e Okwuzi, tre comunità che appartengono agli Egbema.

In questa terra gli sversamenti avvengono con una certa frequenza: stando ai dati aggiornati a settembre 2019 dell’agenzia governativa di Monitoraggio delle perdite di petrolio, oltre 81 mila km2 di terra sono stati contaminati da idrocarburi. Proprietaria delle licenze petrolifere è soprattutto la Nigerian Agip Oil Company (Naoc), la controllata nigeriana di Eni, che in queste terre fa perforazioni alla ricerca del greggio nel 1962.

Una perdita di petrolio – Foto: Cornelius Itepu

Un accordo non rispettato

Tra azienda e tribù locali è operativo un memorandum of understanding (MoU) firmato sotto l’egida del governo del Rivers State, uno degli Stati che compone la Repubblica federale della Nigeria.

Il primo MoU raggiunto nella regione di Onelga è stato firmato nel 1999 e va rinnovato ogni quattro anni. Quando abbiamo visitato la regione, avrebbe dovuto essere in funzione la sesta edizione dell’accordo, invece la comunità stava negoziando ancora il terzo, in un processo che durava già da oltre un anno.

Le copie dell’accordo sono in mano solo a poche persone che partecipano alla trattativa.

Abbiamo incontrato qualche giovane della comunità di Egbema alla porta d’accesso cittadina – sotto un possente mango. Nonostante la sua rarità, abbiamo ottenuto una copia del memorandum del 1999. L’accordo prevede impiego, educazione e infrastrutture per i membri delle comunità impattate dalle perforazioni petrolifere. Tutte compensazioni che non si sono mai viste.

Per ottenere un impiego ci si deve rivolgere a quella che i locali chiamano “la famiglia Agip”: un gruppo di famiglie importanti, con conoscenze e agganci politici che gestisce tutta la filiera della manodopera giornaliera. Sono loro a parlare con Agip a nome del resto della popolazione.

«Il 90 % dei lavori svolto dai giovani della nostra comunità – gli Egbema – sono saltuari e non richiedono specializzazioni», spiega un giovane che dice di chiamarsi Dagogo. Per ottenere un impiego, ci si deve rivolgere a quella che i locali chiamano “la famiglia Agip”: un gruppo di famiglie importanti, con conoscenze e agganci politici che gestisce tutta la filiera della manodopera giornaliera. Sono loro a parlare con Agip a nome del resto della popolazione. Eppure, sulla carta, i diritti dei lavoratori della filiera del petrolio nel territorio di Onelga dovrebbero essere diversi.

Il paragrafo dedicato all’impiego della popolazione locale esplicita che sette candidati debbano essere impiegati dalla Naoc e altri quattro ogni anno entrino in una scuola di formazione tecnica nella vicina città di Warri.

«Il problema è che Agip non vuole prendersi le sue responsabilità», aggiunge un uomo che ha lavorato con i subappaltatori di Naoc per dieci anni. «Quando impiegano qualcuno, la sua paga appartiene a loro (i subappaltatori, ndr). [Agip] sa di queste pratiche illegali. Queste persone non hanno alcun contratto, ogni giorno il loro datore di lavoro può lasciarli a casa». Era parte del gruppo di negoziatori del secondo memorandum of understanding. Sostiene che membri della “famiglia Agip” si siano opposti a trattative con l’azienda sui posti di lavoro.

La famiglia Agip

«Il mio salario è di 47mila naira (113 euro, ndr), ho nove figli – spiega, chiedendo di mantenere anonima la sua identità -. Lavoro qui da dieci anni».

È uno dei tanti impiegati nella filiera attraverso i caporali della “famiglia Agip”. È proprietario di un terreno dove sono costruiti gli alloggi di Agip per i pozzi petroliferi. Molti nella comunità hanno qualche pezzo di terra requisito dall’azienda. Una volta che un tecnico identifica un lotto come potenziale sito di trivellazione, nulla impedisce l’ottenimento del terreno. Lo prevede la sezione 36 del primo programma del Petroleum Act, secondo cui un’azienda titolare di un contratto per la prospezione petrolifera o per l’affitto di un terreno può fare ciò che vuole nell’area interessata, a prescindere dai proprietari.

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In teoria, la legge prevede anche «un’equa e adeguata compensazione per l’occupazione del suolo». Il prezzo, però, non è ritenuto adeguato dai locali: la compensazione più consistente è di 1,5 milioni di naira al mese (3.572 euro) per 60 membri dell’intero albero genealogico. A testa, sono 25 mila naira: 59,5 euro.

Il compenso, inoltre, si esaurisce una volta completata la struttura. Agip ripete il pagamento quando qualsiasi forma di manutenzione deve essere eseguita sul pozzo. Chiunque ritenga il corrispettivo troppo basso e voglia un lavoro, deve rivolgersi alla “famiglia Agip”.

Il caso della Manila Industrial Security Service Ltd

Tra le società della “famiglia Agip” c’è la Manila Industrial Security Services Ltd di Alexander Orakwe. Stando ai contratti visionati da Sahara Reporters, il 1° gennaio 2014 si è aggiudicata la gara di subappalto di Naoc per la guardia delle strutture.

Un contenzioso mai concluso, però, solleva dubbi sul modo in cui l’azienda tratta i lavoratori.

Nel 2017 lo Stato del Rivers e il Ministero federale del Lavoro scrivono in una lettera che l’impresa ha dedotto circa 5.000 naira (11,77 euro) dagli stipendi delle persone impiegate nel 2014 e non ha provveduto, come previsto dalla legge, a versare i contributi alla Cassa previdenziale (Pension Fund Administrator, Pfa). I giornalisti sono in possesso anche di un secondo documento in cui l’azienda rinuncia a un incontro con gli organismi statali per risolvere il contenzioso. Da allora, nessuno ha cercato di chiudere la faccenda.

Dal momento in cui è iniziato il contenzioso, diversi dipendenti sono stati licenziati. Non hanno però su chi far valere i loro diritti: nella lettera d’incarico per i lavoratori non specializzati di Manila era già prevista questa clausola: «Accetto la presente lettera di assunzione e rinuncio ad aderire a qualunque sindacato o organizzazione».

L’ultimo vantaggio è per le società petrolifere internazionali, che possono far lavorare manodopera contrattualizzata secondo la normativa nigeriana.

Non solo. Stando agli articoli 2.1.3 e 2.1.4 della bozza di accordo tra Manila e Agip, è previsto che i lavoratori abbiano diritto sia all’assicurazione, sia alla pensione. Nessuno dei lavoratori però ha mai avuto né l’una né l’altra, dichiarano.

Le autorità locali

Nelson Ekperi è il primo ministro della comunità di Okwuzi, nonché uno dei “baroni” della “famiglia Agip”. La sua carica, definita «governo tradizionale» dalle leggi nigeriane, gli conferisce un potere effettivo, seppur inferiore rispetto a governo di regione, Stato e federazione. Rappresenta la comunità nelle occasioni ufficiali, comprese le negoziazioni con le aziende.

A Naoc, spiega ai giornalisti, in una votazione da 0 a 10 dà 7. L’unico problema ritiene sia la gestione delle politiche occupazionali delle comunità impattate dai progetti: «Chi lavora come manager – spiega – tende ad assumere solo gente propria, senza considerare la comunità ospitante per occupazioni migliore, come il personale assunto direttamente». Aggiunge che la clausola di assunzione prevista nel protocollo d’intesa del 1999 «non è stata rispettata fino ad oggi». «Nell’ultimo MoU – prosegue – l’occupazione non c’è». La politica industriale, continua, «è causare divisioni all’interno della comunità, creando problemi al suo interno».

C’era una volta

Un tempo le relazioni lavorative tra comunità e Naoc erano migliori. Spiega Ignatius Ekezie, sovrano tradizionale della comunità di Aggah, tribù Egbema, che una volta i lavoratori saltuari potevano ambire, dopo qualche anno, a diventare impiegati normali non per subappaltatori ma direttamente con la multinazionale.

Questa condizione oggi si ripresenta molto più di rado: «In pochissimi Egbema oggi lavorano con Agip», dice. Racconta poi che il primo sciopero delle comunità è stato organizzato proprio dagli Aggah: «Abbiamo ottenuto molto in quel modo – rammenta -. Ora è diverso. Anche i nostri giovani preferiscono contrattare per il loro interesse personale piuttosto che per altro».

Contrariamente all’opinione del primo ministro di Okwuzi secondo cui Agip ha fatto abbastanza in termini di sviluppo della comunità, il capo Ekezie pensa di no. A suo avviso, «la multinazionale petrolifera non ha fatto abbastanza». Dà la colpa alla popolazione, però, non alla ditta: pensa che il clan Egbema non abbia trattato a sufficienza con la compagnia per ottenere quanto spettava loro di diritto.

È tra i pochi a sostenerlo. Molti altri sembrano soddisfatti delle attuali condizioni nelle quali alcuni privilegiati si aggiudicano gare e lavori e li distribuiscono agli altri che attendono le briciole.

Tra i primi c’è anche Nelson Ekperi. È un caso particolare quello degli Egbema: in altri contesti simili nel confinante Stato di Bayelsa contenziosi e sfide in tribunale sono state molto più frequenti.

A questo si aggiunge l’inefficacia delle leggi: il Local Content Act, scritto nel 2010 per aumentare la partecipazione dei nigeriani all’industria petrolifera, è rimasto sempre lettera morta, dicono dalla comunità.

La replica di Eni

«Naoc rispetta le pari opportunità e non discrimina alcuna comunità in materia di lavoro o di contratto. La Società inoltre non assegna quote di occupazione a nessuna comunità o area di governo locale. Le statistiche disponibili mostrano che oltre il 60% del personale Naoc (compresi i dirigenti) proviene dalle sue aree operative, tra le quali è il governo locale di Onelga nello stato di Rivers.

Per quanto riguarda i contratti di lavoro, il grado di retribuzione e le condizioni di servizio sono negoziati con i sindacati dei lavoratori dell’industria, il sindacato dei contraenti e la Naoc utilizzano accordi-quadro per generare contratti».

A un’ulteriore domanda di approfondimento rispetto agli stipendi previsti da questi accordi-quadro, non sono state fornite ulteriori risposte.

«Nel caso di contratti di servizio, il grado di retribuzione e le condizioni di servizio sono negoziati direttamente tra i contraenti e il loro personale senza coinvolgere Naoc e Naoc non prende decisioni di assunzione per altre società.

Tuttavia, la registrazione del fornitore Naoc e gli accordi contrattuali impongono agli appaltatori Naoc di rispettare:

  • Tutte le leggi, le norme, i regolamenti, le ordinanze, le sentenze, gli ordini e altri atti ufficiali del nigeriano e qualsiasi altra autorità governativa riconosciuta dalla Società che sono ora o potrebbero, in futuro, diventare applicabili al Contraente
  • Requisiti standard Eni, tra cui le Linee guida del sistema di gestione anticorruzione Eni, il Codice etico Eni (con particolare riferimento agli “Standard etici aziendali”) e la Dichiarazione Eni sul rispetto dei diritti umani, che copre i diritti economici, sociali e culturali (ad es. Il diritto all’occupazione, condizioni di lavoro eque e soddisfacenti, parità di retribuzione per pari lavoro, salute e istruzione).
  • I venditori si impegnano inoltre a garantire che i loro azionisti, amministratori, dipendenti e collaboratori rispettino le stesse linee guida e gli stessi principi.

Naoc gestisce oltre 3700 contratti all’anno e oltre 900 fornitori.

Per garantire che tutti gli appaltatori, in particolare i piccoli fornitori di servizi provenienti dalle comunità in cui operiamo, rispettino tutto quanto sopra, Naoc si impegna a fornire in modo proattivo la formazione ai propri appaltatori locali sulle normative pertinenti e sulle migliori pratiche di approvvigionamento da parte delle agenzie di regolamentazione del settore oil and gas.

Queste iniziative fanno parte del contributo della Società allo sviluppo delle capacità indigene e garantiscono la conformità con la legge nigeriana sullo sviluppo di contenuti dell’industria petrolifera e del gas del 2010. La formazione consente di sensibilizzare gli appaltatori sul rispetto e la promozione dei diritti umani nell’esercizio di le loro operazioni quotidiane e durante eventi a rischio.

In riconoscimento dell’impegno e del contributo della società allo sviluppo di contenuti locali nel settore oil and gas in Nigeria, nel febbraio 2020 Eni, attraverso le sue filiali in Nigeria, è stata riconosciuta come Local Content Operator dell’anno».

CREDITI

Autori

Lorenzo Bagnoli
Damilola Banjo
Kelechuku Ogu

In partnership con

Sahara Reporters

Editing

Giulio Rubino

Foto

Flickr
Sahara Reporters

Con il sostegno di