Arresti eccellenti e aziende fantasma: il traffico di rifiuti tra Italia e Tunisia
Documenti confidenziali mostrano il retroscena di uno scandalo che, partito dalla Campania, ha provocato le dimissioni di un ministro a Tunisi
11 Febbraio 2021

IrpiMedia
Inkyfada

Duecentoottantadue container di balle di rifiuti italiani arrivati a Sousse, città a 170 km a sud-est da Tunisi, sono al centro di uno scandalo politico in Tunisia. Dall’altro lato del Mediterraneo, la vicenda ha portato prima alle dimissioni e poi all’arresto dell’ex ministro dell’ambiente, Mustapha Laroui, il 21 dicembre 2020. Appena due mesi prima, il 2 novembre, il governo tunisino annunciava l’apertura di un’inchiesta giudiziaria per traffico di rifiuti, ancora in corso.

Sulla lista degli indagati non appare solo il nome dell’ex ministro dell’ambiente, ma anche quello del suo capo di gabinetto, dei direttori dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED) e di quella per la Protezione dell’ambiente (ANPI). Oltre a tre funzionari della dogana, il responsabile di un laboratorio di analisi e un impiegato delle poste, risulta essere indagato anche Beya Ben Abdelbaki, console tunisino a Napoli. Per il giudice di Sousse incaricato del dossier, Tarek Saied, sono tutti accusati di aver favorito l’arrivo di 7.900 tonnellate di rifiuti non riciclabili sul suolo tunisino.

I 282 container, partiti dal porto di Salerno tra il 22 maggio e il 20 luglio 2020, contengono tonnellate di rifiuti classificati come 191212, un codice che per il catalogo europeo corrisponde alla dicitura «rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani». Per la ditta che li ha prodotti, la Sviluppo Risorse Ambientali di Polla, piccolo comune di 5mila abitanti in provincia di Salerno, si tratta di rifiuti derivati dalla lavorazione industriale dell’immondizia differenziata. Sono stati inviati in Tunisia, sostiene l’azienda, per un secondo trattamento di valorizzazione in nome della «maggior economicità del processo di recupero rispetto al paese d’origine», si legge sulle carte che accompagnano le spedizioni, ottenute da IrpiMedia.

Per il rappresentante del Ministero dell’Ambiente tunisino Abderrazak Marzouki, invece, nei depositi non arriva materiale riciclabile ma solo «scarti di rifiuti urbani e misti, impossibili da valorizzare» e quindi destinati allo smaltimento in discarica o all’incenerimento, come spiega lui stesso sulla base delle analisi condotte dal tribunale di Sousse in un’email inviata il 15 dicembre 2020 alla Regione Campania e a Sergio Cristofanelli, funzionario del Ministero dell’Ambiente italiano.

Secondo il regolamento europeo sui rifiuti 1013 e la convenzione di Basilea che regola i movimenti transfrontalieri tra un Paese Ue e un Paese extra Ue, l’Italia può esportare rifiuti di questo tipo solo se effettivamente destinati al riciclo. Spetterebbe proprio ai due rappresentanti della Convenzione di Basilea – i cosiddetti focal points italiano e tunisino, dipendenti dai rispettivi ministeri dell’Ambiente – autorizzare o rifiutare la spedizione. Invece la procedura non viene rispettata: i container lasciano il porto di Salerno con il beneplacito della Regione Campania, ma senza l’accordo delle autorità competenti, cioè i rappresentanti della Convenzione di Basilea. A consentire la spedizione è un funzionario dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED) della regione di Sousse, oggi in manette. Ad attenderli, c’è una società fantasma che dichiara di esportare plastica e che tra luglio e settembre, prima che l’affare diventi pubblico, ha già ricevuto un totale di 230 mila euro dall’azienda campana Sviluppo Risorse Ambientali.

Secondo il regolamento europeo sui rifiuti 1013 e la convenzione di Basilea che regola i movimenti transfrontalieri tra Paesi UE ed extra Ue, l’Italia può esportare rifiuti di questo tipo solo se effettivamente destinati al riciclo

Insieme ai colleghi tunisini di Inkyfada, IrpiMedia ha indagato su chi sono i protagonisti di quella che in Tunisia è già diventata l’inchiesta giudiziaria più delicata del 2021.

A ricevere i rifiuti, un’azienda fantasma che non può riciclarli

A firmare il contratto con la Sviluppo Risorse Ambientali il 30 settembre 2019 è la ditta tunisina Soreplast, di proprietà di Mohamed Moncef Noureddine, da più di dieci anni nel campo dei rifiuti. Dieci giorni prima del mandato d’arresto inviato dal procuratore di Sousse, il proprietario fugge in Germania.

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La famiglia Noureddine, connessa agli ambienti della dittatura di Ben Ali e tutt’ora vicina al mondo politico, è molto influente nella regione di Sousse. La ditta di Moncef Noureddine viene fondata nel 2009 ma multata dalla dogana nel 2012 per aver falsificato dei documenti sulle quantità delle merci che trattava. Da quel momento, smette ufficialmente di lavorare e non dichiara più nulla al fisco, anche se un ex collega di Mohamed Moncef Noureddine sa che «ogni tanto ottiene qualche commissione in nero sul mercato locale». Ufficialmente Soreplast torna attiva a novembre 2019, due mesi dopo la firma del contratto con la Sviluppo Risorse Ambientali. È allora che il proprietario tenta di mettersi in regola e dichiara al fisco le entrate dell’anno precedente: 1 milione e 300 mila dollari, riporta un documento bancario visionato da IrpiMedia.

Il contratto con Soreplast – firmato durante la prima visita in Tunisia di Alfonso Palmieri, proprietario della Sviluppo Risorse Ambientali ai locali della ditta, come conferma ad IrpiMedia la stessa SRA durante una conferenza stampa a Polla – prevede un tetto massimo di 120 mila tonnellate di rifiuti da esportare a sud del Mediterraneo, divisi in tranches minori. Le tonnellate autorizzate dalla Regione Campania con due decreti dirigenziali – uno del 14 aprile, l’altro dell’8 luglio – sono 12 mila in totale, di cui 7.900 sono arrivate in Tunisia prima che le spedizioni venissero bloccate. Le balle di rifiuti misti sono state trasportate via mare da Salerno a Sousse in 282 containers, di cui solo 70 sono stati trasportati presso i locali di Soreplast. I restanti 212 sono ancora bloccati al porto, sotto sequestro: ogni giorno di sosta dei container costa 26 mila euro alla regione Campania.

Ad attraversare il Mediterraneo con i carichi di rifiuti sono due navi della compagnia turca Arkas, prima la Martine A e poi la Mehmet Kahveci. Tra le condizioni del contratto, si legge nel documento ottenuto da IrpiMedia, i rifiuti fuoriusciti dalla Sviluppo Risorse Ambientali di Polla dovranno essere riselezionati e, per la parte non recuperabile, smaltiti a carico dell’impianto. Il prezzo è 52 euro per ciascuna tonnellata fatta arrivare al porto di destinazione, a cui vanno sommati 85 euro per il trattamento di riciclo: «Un prezzo più che conveniente», conferma un tecnico dei rifiuti incontrato da IrpiMedia in Tunisia.

Dallo statuto societario risulta che al momento della firma del contratto la Soreplast sia una società uninominale che si occupa di «riciclaggio e recupero dei rifiuti post-industriali, plastica e materiali vari». Secondo la ditta italiana, i rifiuti inviati in Tunisia, una volta recuperati, avrebbero dovuto essere trasformati in tubicini di plastica per poi essere riesportati, non è specificato verso dove. Soreplast, infatti, risulta essere una società «totalmente esportatrice»: almeno il 50% di quello che produce deve essere inviato all’estero e non può entrare sul mercato locale.

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Il proprietario di Soreplast, in un documento inviato alla ditta italiana e ottenuto tramite accesso agli atti alla Regione Campania, dichiara di aver già valorizzato le prime 1.900 tonnellate di rifiuti esportate con la prima spedizione del 26 maggio 2020. Di queste, 1840 tonnellate sarebbero state recuperate, ma dei tubicini di plastica ottenuti dal “processo di valorizzazione” non c’è traccia. L’azienda tunisina, infatti, non possiede i macchinari necessari per trattare migliaia di tonnellate di rifiuti misti, come invece dichiara. A confermarlo è il rappresentante della Convenzione di Basilea in Tunisia, Abderrazak Marzouki, in una mail confidenziale inviata al Ministero dell’Ambiente italiano il 23 novembre 2020: «La società non dispone dei mezzi materiali e umani né della tecnologia necessaria per riselezionare i rifiuti importati da Sviluppo Risorse Ambientali», afferma Marzouki. Lo sostiene anche il rapporto della commissione d’inchiesta del parlamento tunisino istituita ad hoc per il caso dei rifiuti italiani: «Soreplast non è in grado di procedere al riciclo dei rifiuti arrivati in Tunisia, il che fa sorgere dubbi rispetto alla veridicità delle operazioni di recupero che l’azienda intende realizzare».

L’entrata (sx) del deposito a Moureddine dove è stato scaricato (dx) il contenuto di 69 containers – Foto: IrpiMedia/Inkyfada

I container scaricati in mezzo al nulla: che fine hanno fatto i rifiuti?

A Soreplast non mancano solo i macchinari necessari alla valorizzazione, ma anche lo spazio dove depositare i rifiuti. La sede dell’azienda nella zona industriale di Sousse è composta da un ufficio e un piccolo magazzino dove è stato depositato il contenuto di un solo container. I restanti 69 sono stati scaricati in un secondo deposito affittato da Soreplast a 15 chilometri da Sousse, a Moureddine. In questo villaggio di 5mila abitanti in piena campagna, accanto al capannone contenente i rifiuti si trova un edificio in costruzione, senza tetto né finestre, con mattoni e sabbia ancora impilati di fronte ad una lamiera che funge da porta. Una targa indica: «Soreplast, azienda sotto controllo doganale». Nel villaggio agricolo tutti sono a conoscenza del caso: «Abbiamo visto arrivare i container», racconta una donna mentre sorveglia un gruppo di pecore al pascolo proprio di fronte al deposito. Un passante punta il dito contro la targa Soreplast: «Quest’edificio è stato costruito sei mesi fa in tutta fretta, prima non c’era».

Secondo Alfonso Palmieri della Sviluppo Risorse Ambientali, quando si reca in Tunisia «c’era un capannone grigio e rosso, come si vede nelle foto delle emittenti tunisine, con macchine installate, nastri di selezione, pressa compattatrice e un guardiano».

Moncef Mohamed Noureddine affitta anche un secondo deposito nella località di Sidi El Hani (30 km da Sousse), un villaggio da meno di tremila abitanti in un mucchio di case sparse intorno alla strada che da Sousse porta a Kairouan, importante città dell’entroterra tunisino. Rimasto inutilizzato, nel capannone di Sidi El Hani Soreplast avrebbe dovuto scaricare il contenuto dei 212 container bloccati al porto. Entrambi i depositi sono situati accanto a due centri di raccolta dei rifiuti gestiti dall’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED), l’ente ministeriale che in Tunisia tratta i rifiuti. Quello di Moureddine dista solo dieci minuti di auto dalla discarica statale del governatorato di Sousse, dove vengono interrati i rifiuti urbani provenienti da tutta la regione.

Secondo la testimonianza di un attivista per i diritti ambientali attivo nella regione, che preferisce rimanere anonimo per paura di ritorsioni, non è un caso: «Mohamed Moncef Noureddine intendeva trasportare i rifiuti arrivati dall’Italia direttamente in discarica, senza procedere ad alcuna operazione di riciclo», racconta l’attivista.

A marzo 2020 Soreplast ha effettivamente firmato un accordo per avere accesso alla discarica di Sousse dove, secondo il decreto dirigenziale della Regione Campania, avrebbe dovuto smaltire la parte non riciclabile dei rifiuti in arrivo da Polla. Secondo i documenti visualizzati da IrpiMedia sull’effettivo smaltimento dei primi 70 container, almeno 129 tonnellate di scarti provenienti dal deposito di Moureddine sarebbero già finite nella discarica poco lontana, ma non appaiono sul registro dell’ente che la gestisce, l’ANGED. Il sindaco di Moureddine, contattato da IrpiMedia, nega qualsiasi coinvolgimento e afferma di non avere idea di che fine abbiano fatto.

La discarica regionale di Sousse per i rifiuti urbani di Ouled Laya, a dieci minuti di auto da Moureddine – Foto: IrpiMedia/Inkyfada

Si sospetta quindi che siano stati inviati in Tunisia rifiuti non riciclabili per essere direttamente interrati in discarica, senza procedere alle operazioni di riciclo che ne giustificano l’esportazione, violando le norme europee sul movimento transfrontaliero di rifiuti, la Convenzione di Basilea e quella di Bamako (un trattato firmato dai Paesi africani che impedisce l’arrivo sul continente di rifiuti che non siano smaltiti in maniera ecologica).

Soreplast, che si occupa di polimeri, cioè plastica, non è in grado di riciclare i rifiuti con codice 191212 ricevuti da Sviluppo Risorse Ambientali. Per poter ricevere i rifiuti campani, l’azienda tunisina dichiara il falso in dogana, presentando una richiesta di autorizzazione allo sbarco con un codice diverso da quello presente sulle carte che accompagnano i container. Soreplast prova così a far passare i rifiuti di tipo 19, misti, come pura plastica, si legge nel documento doganale. La ditta tunisina deposita anche delle analisi a sostegno della sua dichiarazione, ma il direttore del laboratorio in questione si trova oggi in detenzione, sospettato di averne falsificato i risultati. A fine settembre 2020, l’azienda fa un ultimo tentativo: cambia il proprio oggetto sociale e su carta diventa una «ditta per il riciclo e la valorizzazione dei rifiuti urbani». Troppo tardi.

Cosa sono i rifiuti non pericolosi classificati con codice CER 191212 e Y46?

Il primo, 191212, indica la composizione del rifiuto secondo il Codice Europeo del Rifiuto (CER). Corrisponde alla dicitura: «Rifiuti (compresi materiali misti) prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani». L’Italia produce circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani l’anno e dovrebbe riciclarne almeno il 65%, obiettivo che però non riesce a raggiungere. Come ci impone la legislazione europea, l’indifferenziata va infatti selezionata una o più volte per separare la frazione riciclabile dallo scarto finale, che andrà poi smaltito in discarica o incenerito. Ma questo ha un costo e in Italia mancano gli impianti necessari.

«Una piattaforma raccoglie l’indifferenziata e seleziona la parte pregiata, che sarà consegnata ad un consorzio nazionale, mentre la parte residuale, il cosiddetto scarto, viene bollato con il codice 19 – spiega Claudia Silvestrini, direttrice del consorzio Polieco -. Il rifiuto 19 può essere inviato ad un’altra piattaforma che lo riseleziona oppure viene spedito in altri Paesi, dove poi bisogna vedere se l’impianto finale esiste ed è in condizione di riceverlo». Dalla Campania proviene il 95% dei 191212 esportati da tutta Italia, che a loro volta rappresentano il 17% del totale dei rifiuti mandati all’estero. A riceverli sono principalmente Spagna, Portogallo, Danimarca ed Est Europa.

Il codice Y46 invece fa riferimento alla classificazione stabilita dalla Convenzione di Basilea sui movimenti transfrontalieri e corrisponde alla dicitura di “rifiuti urbani”. L’Y46 implica un potenziale rischio di pericolosità. «I rifiuti così contraddistinti richiedono quindi un controllo speciale», spiega Silvestrini, ed è per questo che insieme ai documenti di spedizione parte un certificato di analisi rilasciato da un laboratorio napoletano che ne attesta la non pericolosità. Il codice Y46 è quello più prossimo al CER 191212.

Per Claudia Salvestrini, direttrice del Consorzio Polieco (Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni a base di polietilene, ndr), «il fatto che un materiale prevalga non rende i rifiuti riciclabili: posso avere un carico di sola plastica di cui solo il 2% è riciclabile». Secondo l’esperta, le foto del contenuto dei container non lasciano dubbi: «Si tratta chiaramente di rifiuti mescolati di provenienza urbana». Per Salvestrini, il codice CER 191212 non aiuta a definire chiaramente il contenuto dei container ma, al contrario, rappresenta una sorta di «insalata russa dei rifiuti», perché la sua definizione apre a tante modalità di conferimento e ingloba sia un rifiuto urbano ancora riciclabile, sia lo scarto finale da mandare in discarica o da incenerire, il cosiddetto «ultimo nastro». «L’azienda di Polla potrebbe aver mescolato insieme allo scarto dei rifiuti urbani anche rifiuti di altra provenienza, ammassati vecchi tipo ecoballe o rifiuti di altre piattaforme che hanno preso fuoco, per poi inviare tutto in Tunisia», spiega ancora Salvestrini.

La procedura: chi autorizza la spedizione verso la Tunisia?

Ma allora, perché la regione Campania autorizza questa spedizione transfrontaliera? Al di là della composizione non chiara dei rifiuti esportati, è la stessa procedura che sembrerebbe esser stata raggirata. Antonio Barretta, dirigente per la Regione Campania della Direzione Generale per il Ciclo integrato delle Acque e dei Rifiuti e responsabile del procedimento, non si rivolge infatti al rappresentante italiano della convenzione di Basilea sui movimenti transfrontalieri di rifiuti, ma al Consolato tunisino di Napoli.

Il 16 marzo, Barretta scrive una mail al consolato per verificare che l’autorità tunisina a cui rivolgersi per ottenere le autorizzazioni necessarie all’export sia effettivamente l’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (ANGED), come indicato dall’azienda campana. Spetterebbe in realtà al rappresentante della convenzione di Basilea presso il ministero dell’Ambiente, ma il consolato tunisino conferma che l’autorità competente è l’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Rifiuti nella figura di Makram Baghdadi, un semplice assistente dell’amministrazione di Sousse.

Secondo il rapporto della commissione parlamentare d’inchiesta, già a fine febbraio, prima dell’ok da parte della regione Campania, Makram Baghdadi ha firmato tutte le autorizzazioni necessarie alla Soreplast per importare rifiuti. Per questo oggi è indagato.

Chi è Sviluppo Risorse Ambientali

La Sviluppo Risorse Ambientali srl è un’azienda di selezione, recupero, valorizzazione, trasformazione e smaltimento di rifiuti con sede a Polla, in provincia di Salerno, a ridosso del parco del Cilento e Vallo Di Diano. Sul sito dell’azienda si legge che la ditta «non è una semplice azienda operante nel campo del trattamento dei rifiuti ma è parte integrante dei grandi sistemi di recupero e riciclo». Si occupa della raccolta differenziata di diciotto Comuni nel parco del Cilento. L’amministratore unico della società è Antonio Cancro ma la società è controllata dal gruppo Palmieri nella persona di Alfonso Palmieri che possiede il 90% delle quote societarie, oltre ad essere anche amministratore della Kyklos Ambiente srl, un’altra azienda di recupero e riciclaggio di rifiuti solidi. Il restante 10% è di Federico Palmieri.

Chi è Alfonso Palmieri? E qual è la storia della Sviluppo Risorse Ambientali? L’azienda nasce nel 2008 dalla cessione di un ramo della Fond.Eco srl alla Sviluppo Risorse Ambientali, azienda dove ci sono stati diversi roghi, l’ultimo lo scorso agosto. Le aziende Fond.Eco, Sviluppo Risorse Ambientali e la ditta Palmeco srl con sede a Battipaglia sono tutte indirettamente riconducibili a Tommaso Palmieri, padre di Alfonso.

La FondEco e la Sra, e con loro Tommaso ed Alfonso Palmieri, circa cinque anni fa sono finite al centro di una inchiesta giudiziaria condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Salerno. Per i magistrati, Tommaso Palmieri era a capo di un’organizzazione che riciclava ingombranti provenienti anche dalla vicina Basilicata. Per la Dda furono commesse irregolarità nello smaltimento dei rifiuti. In alcuni casi la raccolta era avvenuta senza le prescritte autorizzazioni. Stando a quanto sostenuto dall’accusa, in un sito di Polla deputato a ricevere e smistare il risultato della differenziata, arrivavano anche rifiuti “sporchi”, con varie tipologie mischiate tra loro.

Al termine dell’inchiesta sono stati emessi 41 avvisi di garanzia nei confronti anche di alcuni collaboratori dell’azienda ed amministratori comunali. Il processo di primo grado dinanzi ai giudici della seconda sezione penale di Salerno è iniziato alla fine del 2016 e per alcuni reati già si profila la prescrizione. Al processo per associazione per delinquere e smaltimento illegale di rifiuti sono stati indagati tra gli altri Tommaso e Alfonso Palmieri, Antonio Cancro, amministratore unico della Sviluppo Risorse Ambientali e Luigi Cardiello, detto «Re Mida» che, dagli anni ‘90, è stato indagato da diverse Procure per smaltimento illecito dei rifiuti.

Una volta ottenuta la conferma del consolato, in Italia la procedura avanza spedita.

Il 30 marzo, in piena pandemia, lo stesso dirigente regionale scrive al Ministero dell’Ambiente italiano chiedendo se ci sono particolari restrizioni al trasferimento dei rifiuti dall’Italia alla Tunisia, ma non ottiene risposta. Passano quindici giorni e il 14 aprile 2020, un decreto della giunta regionale autorizza l’azienda campana al trasporto verso Sousse delle prime 230 spedizioni per 6mila tonnellate di rifiuti. Ne seguirà un secondo, l’8 luglio, per le restanti 6 mila tonnellate delle 12 mila previste. Lo stesso giorno, dall’altra parte del Mediterraneo, nell’ufficio della direzione della dogana si tiene una riunione che riunisce diciassette dirigenti e funzionari tra l’ANGED, il Ministero dell’Industria e la dogana. Due settimane prima, il capo settore della dogana di Moureddine si è reso conto che il contenuto dei container non corrisponde a ciò che dichiara Soreplast, e lo segnala ai suoi superiori. Durante la riunione dell’8 luglio, per la prima volta viene menzionato il rischio di traffico illecito. I container vengono così bloccati al porto. 

Il caso scoppierà solo a novembre, quando il canale tunisino El-Hiwar Ettounisi trasmette un servizio sull’arrivo dei rifiuti italiani. Prima di allora, il ministero dell’Ambiente tunisino non interviene né sollecita i rappresentanti della Convenzione di Basilea, l’autorità di riferimento. I 212 container mai scaricati restano fermi al porto e la regione Campania richiama più volte Sviluppo Risorse Ambientali, chiedendo di sbloccare la situazione. «La ditta Soreplast ha assicurato che la prossima settimana provvederà alle operazioni di ritiro e lavorazione dei rifiuti. A tal proposito, un nostro amministratore unico ha delegato un dipendente perché si rechi a Sousse per assistere alle operazioni di riciclo», risponde l’azienda di Polla alla Regione in una mail. Ma i rifiuti rimangono lì.

«C’è un inizio di contaminazione dei rifiuti liquidi, di percolato e delle emissioni gassose che costituiscono un rischio per la salute pubblica e per l’ambiente», scrive invece Abderrazak Marzouki, vicedirettore del dipartimento prevenzione dei rischi del Ministero dell’Ambiente tunisino al funzionario del Ministro dell’Ambiente italiano Sergio Cristofanelli in uno scambio di mail confidenziali.

Passano diverse settimane e le autorità italiane non rispondono, poi il 27 novembre qualcosa si sblocca e iniziano a collaborare. Con la mediazione delle autorità della convenzione di Basilea – a cui si sarebbe dovuto far riferimento fin dal principio – le discussioni avanzano sul piano della diplomazia: il dossier è oggi nelle mani dei rispettivi ministri degli Esteri.

Nel frattempo, su richiesta della Tunisia, la Regione Campania ha chiesto a Sviluppo Risorse Ambientali di riprendersi i rifiuti. Attraverso il suo avvocato, l’azienda italiana ha però fatto sapere che non ha alcuna intenzione di farlo a meno che sia completamente risarcita o dallo Stato tunisino o da quello italiano. Il 2 febbraio, però, il Tar ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato da Sviluppo Risorse Ambientali.

CREDITI

Autori

IrpiMedia
Inkyfada

Infografiche & Mappe

Lorenzo Bodrero

Editing

Lorenzo Bagnoli