19 Giugno 2023 | di Laura Fasani, Nuri Fatolahzadeh
Brescia, Corte d’appello. Alle 11:58 del 13 giugno scorso gli avvocati entrano nell’aula 1-16 della sezione penale. Il caso è enorme, ma tutti sembrano quasi annoiati: nessuno si aspetta nulla. Del resto è una storia che pare ripetersi uguale a se stessa da ormai più di ventidue anni. L’ordine del giorno: nuova inchiesta di disastro ambientale, vecchio caso. Il giorno è quello dell’udienza preliminare sul dossier Caffaro, un capitolo con cui Brescia cerca di fare i conti dal 2001, anno in cui il bubbone esplode travolgendo un’intera provincia, fino a quel momento rimasta ignara di quanto terreni, acque e rogge fossero avvelenati e di quanto fosse alto il rischio per la salute delle persone.
Le porte dell’aula al piano interrato del palazzo di giustizia restano chiuse. È un’area quasi asettica, ma mentre dalle scale arrivano le chiacchiere e il tintinnio delle tazzine di caffè, consumati ai tavolini del bar, sul banco degli imputati ci sono le responsabilità. Che restano ancora una volta sospese nei corridoi del Tribunale. «Se ne riparla il 26 settembre», è la sentenza spiccia e laconica degli avvocati di parte, quasi felici di essersi lasciati alle spalle una tappa giudiziaria che sapevano che non avrebbe consegnato loro risposte decisive. A dire il vero, un effetto sorpresa – lieve per qualcuno, assai più sconcertante per altri – c’è stato: il silenzio delle istituzioni, che hanno deciso di non costituirsi come parte civile nel procedimento penale in cui la città e i suoi abitanti sono la prima parte lesa. Non lo ha fatto il Comune, non lo ha fatto la Provincia, non lo ha fatto la Regione e non il ministero dell’Ambiente. I cittadini restano, ancora una volta, senza voce in un processo che pare non finire mai.
È una storia che ha lasciato finora ferite profonde a Brescia, della quale si è parlato a fasi alterne e che per anni si è preferito cercare di non vedere.
Nel 2021 è stato aperto un nuovo filone d’inchiesta che ha riacceso i riflettori sulla fabbrica diventata ormai un simbolo complesso e doloroso per la città, spesso rimasta all’ombra di altri casi di disastro ambientale che hanno destato più clamore nel resto d’Italia. Eppure il danno e i veleni che lo hanno causato rappresentano un unicum: si tratta di un cocktail di inquinanti della peggior specie, dai Pcb (i policlorobifenili, confinati poi nell’elenco delle sostanze cancerogene) al cromo esavalente, dal mercurio ai metalli pesanti. Tutte sostanze tossiche che nel secondo capoluogo lombardo sono presenti oggi come allora, perché la bonifica, ventidue anni dopo, ancora non c’è. Quello che resta è invece un’infestazione che ha viaggiato fino a 22 chilometri a sud dell’epicentro della contaminazione: la fabbrica, appunto.
L’azienda nasce con il nome Società Chimica ed Elettrochimica del Caffaro nel 1906. Viene costruita a novecento metri dal centro storico di Brescia, a ridosso di una scuola elementare e delle case di una zona chiamata borgo San Giovanni, ma che in realtà intreccia almeno altri tre quartieri: Fiumicello, Primo Maggio e Porta Milano, uno spazio in cui oggi vivono circa 25 mila persone. Si tratta della prima azienda chimica della città e viene concepita come una cittadella industriale che si è estesa negli anni fino a ricoprire 110 mila metri quadrati, incastonata fra tre vie.
Negli anni d’oro Caffaro ha impiegato fino a mille persone per produrre soda caustica, altri prodotti derivati dal cloro e Pcb, una sostanza considerata all’epoca un efficace lubrificante e un ottimo isolante termico. Solo decenni più tardi si è confermato che fosse un prodotto nocivo e la produzione fu interrotta nel 1984: per circa cinquant’anni, però, Brescia lo aveva non solo prodotto, ma anche assorbito. Perché i Pcb non si distruggono: persistono, si appiccicano e si annidano. Dall’azienda, ben presto soprannominata “la fabbrica dei veleni”, ne sono fuoriuscite 150 tonnellate. E sono ancora tutte lì. I reflui sono stati riversati nel terreno e nelle canaline di scarico che poi fioccavano nei sottili canali che vanno a irrigare la provincia padana. I veleni invisibili si sono presi così ettari di campi e chilometri quadrati di spazi, mentre intorno allo stabilimento la città continuava la sua routine: case, negozi, parchi, famiglie, anziani, bambini.
I magnati della chimica
Il primo a ipotizzare il disastro è stato lo storico ambientalista Marino Ruzzenenti, che nel suo libro Un secolo di cloro e… Pcb – Storie delle industrie Caffaro di Brescia (Jaca Book, Milano 2001) ha svelato quello che per decenni in molti hanno solo sussurrato a bassissima voce, mantenendo sottotraccia il lato oscuro della chimica. «Si sono persi ventidue anni in cui sostanzialmente non si è fatto nulla – sottolinea – anzi, lo stabilimento è stato completamente abbandonato e ha proseguito a inquinare imperterrito davanti ai nostri occhi: parliamo di cromo esavalente, di mercurio, di diossine, di Pcb». Sono trascorsi quasi quarant’anni dalla fine della produzione di policlorobifenili, eppure quelle sostanze – che una ricerca dell’Istituto Mario Negri ha certificato che, negli anni, mutano e generano nuove specie di cui nessuno conosce gli effetti – continuano ad avvelenare Brescia.
Quando tutto ha inizio siamo nell’agosto 2001: si parla di «Seveso bis» e di «altissime concentrazioni di Pcb». Si inaugura per la città una interminabile stagione di analisi, studi, divieti, attese e paure: nel sangue di chi abita nei dintorni della fabbrica si riscontrano concentrazioni di policlorobifenili fino a 340 nanogrammi per millilitro. Quasi immediatamente si tenta di circoscrivere il sito contaminato, si scopre che ad essere infestato non è solo il terreno nelle vicinanze dello stabilimento in piena città, ma anche quello di alcuni Comuni della provincia, costellata di discariche di cui la vecchia Chimica si è servita.
Il perimetro da un lato, la preoccupazione dall’altro, si allargano di pari passo. All’area della fabbrica si aggiungono campi, cascine, rogge, acque superficiali. La paura fa spazio alle richieste di danni e alle denunce di inquinamento e di reati contro la pubblica amministrazione: in prima fila ci sono i residenti di quello che è presto ribattezzato “il quadrilatero del Pcb”. Il 24 febbraio 2003 – dopo quasi due anni di indagini – nasce il Sito di interesse nazionale Brescia-Caffaro e si comincia a studiare il recupero ambientale per cui il ministero dell’Ambiente stanzia una cifra irrisoria: 6,7 milioni di euro. Agli agricoltori viene tolto tutto, i parchi e i giardini che incorniciano la cittadella industriale vengono chiusi per inquinamento, inizia il calvario delle conferenze dei servizi.
Cosa sono, quanti sono e perché sono pericolosi i Siti di interesse nazionale.
Erano 57 sparsi in tutta Italia, ridotti a 39 con il D.M. 11 gennaio 2013, attualmente sono 41. La Lombardia è la regione con più Siti di interesse nazionale: sono 5, a cui va aggiunta una parte del sito di Pieve Vergonate, che si estende tra Lombardia e Piemonte.
A spiegare la correlazione tra l’inquinamento industriale presente nei Sin e la salute ci pensa lo studio Sentieri, redatto da Iss e ministero della Salute. I siti inclusi nell’analisi di mortalità di Sentieri sono 45, localizzati in 17 Regioni italiane: 22 sono ubicati nel Nord, otto nel Centro e 15 nel Sud. I decreti di perimetrazione dei Sin forniscono l’informazione sul tipo di impianti produttivi presenti nell’area perimetrata e sulle sostanze inquinanti. Lo studio ha analizzato il profilo di salute in ciascun sito e nel complesso dei siti. I comuni interessati sono 319, con una popolazione residente di circa 5.900.000 abitanti: per l’insieme dei 45 siti sono stati stimati in otto anni 5.267 decessi in eccesso negli uomini e 6.725 nelle donne; di questi, 3.375 decessi per tutti i tumori maligni in eccesso negli uomini, e 1.910 nelle donne. Le fonti di esposizioni ambientali che vengono menzionate nelle schede relative ai 45 siti studiati sono quelle citate nei Decreti ministeriali di perimetrazione di ciascun sito.
Lo studio Sentieri mostra alcune criticità anche nel profilo di salute dei bambini e dei giovani. Per quanto riguarda l’incidenza oncologica tra bambini e giovani nei 28 siti campione studiati (22 coperti da registri tumori generali e sei da registri tumori infantili 0-19 anni), lo studio rileva 1.050 casi di tumori maligni. Le analisi effettuate mostrano 666 casi di tumore maligno tra i bambini e i giovani (0- 24 anni) nei 28 siti, il 9% in più rispetto ai coetanei che vivono in altre aree italiane che non includono siti contaminati di interesse per le bonifiche.
Cosa è successo nel frattempo? La storia si ingarbuglia e, per certi versi, ha dell’incredibile, a partire dalle mosse strategiche che riguardano il riassetto della società madrina del danno. Chi c’è dietro e come riesce a non risarcire i danni causati? La Snia, il gruppo cui apparteneva la vecchia Caffaro Chimica, ha come azionista maggioritario Bios Spa, contenitore del quale erano soci di maggioranza la Hopa Holding Spa (tradotto: Mittel Spa), la Interbanca Spa (ora Ge Capital Spa, già GE Capital Spa), la banca Monte Paschi di Siena e la Unipol Spa compagnia assicuratrice Unipol. Da Snia viene spacchettata la parte sana della società (quella con il capitale) attraverso una scissione che fa nascere la good company Sorin. Quindi la Snia – un contenitore rimasto a quel punto spoglio di qualunque fondo – fallisce.
Si arriva così al 2011, l’impianto viene acquisito da un’altra azienda: Caffaro Brescia srl, che di Caffaro mantiene il marchio perché conosciuto in tutto il mondo. Chi è e che lavorazione svolgeva Caffaro Brescia fino al 2020 e oggi in liquidazione? La società si occupava della produzione di clorito di sodio, un disinfettante che serve per la potabilizzazione delle acque. Il clorito ha una lavorazione articolata in vari step: in uno di questi passaggi si usa anche il cromo. Non come materia prima, ma come additivo. In cifre: per 20 mila tonnellate di clorito di sodio la quantità di cromo è di poco inferiore alla mezza tonnellata.
Scatta un SOS bis. A lanciarlo, stavolta, è direttamente l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpa): dal 2014 nota che, allora come oggi, nel sito si riscontrano livelli di cromo esavalente e Pcb superiori rispetto a quelli già noti e dovuti all’inquinamento storico. Dopo uno studio approfondito, l’Agenzia arriva a una conclusione che rimescola tutte le carte sul tavolo: «C’è nesso causale tra l’impianto attuale e la contaminazione». Di più: la mancata manutenzione della barriera idraulica – il sistema di pozzi che, emungendo le acque, cerca di filtrare gli inquinanti, così da bloccare nuove fuoriuscite – ha fatto sì che quella diga non facesse più da “schermo” ai veleni.
Per capire l’entità basta un dato: nel 2019 la concentrazione di Pcb nello scarico ha superato di oltre il 500% il limite consentito. Il vecchio nuovo Sin Caffaro inquina ancora. Il 9 febbraio la Procura ha apposto i sigilli all’area industriale, iscrivendo nel registro degli indagati i vertici di Caffaro Brescia e l’ex commissario straordinario del Sito di interesse nazionale.
Da quasi tre anni dentro il sito industriale tra via Milano e via Nullo, quindi, non si produce più nulla. Nel gigantesco reticolo di impianti e capannoni in rovina sono stipate cisterne che contengono mercurio e altre sostanze liquide non identificate. Alcune sono ancora sotto sequestro perché derivano dalla gestione di Snia. Tra le macerie accatastate ai bordi, gli unici che si aggirano in questo enorme complesso fantasma sono i dipendenti superstiti di Caffaro Brescia srl. Sono rimasti in quattro, più il direttore generale. Il loro compito è mantenere in funzione la barriera idraulica per evitare che la città venga contaminata dagli inquinanti rilasciati dalla fabbrica. Nei mesi scorsi la siccità ha paradossalmente aiutato perché la falda è rimasta più bassa del solito e dunque più lontana dai terreni impregnati di sostanze tossiche.
L’eredeità dell’inquinamento
Ma se anche questa seconda azienda è fallita e non produce più nulla, come mai sta ancora occupando gli spazi della cittadella industriale? Perché ha la responsabilità di mantenere attiva la diga anti-veleni, un impianto che non si può fermare, altrimenti all’inquinamento storico se ne potrebbe aggiungere un secondo, di portata enorme. Il timore si è intensificato quando l’azienda ha annunciato la volontà di andarsene licenziando i dipendenti rimasti, citando una «difficoltà a sostenere tutti gli impegni» e gli «oneri relativi alla attività ordinaria (gestione barriera, presidio e sicurezza del sito), oltre alle altre attività in essere».
Dai 54 operai che erano rimasti in servizio con Caffaro Brescia srl si è passati a un dimezzamento della forza lavoro nell’arco di otto anni, fino ad arrivare al 2023. Da 26 lavoratori sono rimasti prima in nove e da maggio solo in quattro. Per un giorno hanno scioperato in segno di solidarietà con i colleghi, mantenendo però sempre attivo un presidio del sito a tutela della città. Perché di fatto, in sordina e senza cercare visibilità, i pochissimi tecnici chimici ed elettrochimici rimasti sono diventati le uniche sentinelle di Brescia, che proteggono i suoi abitanti da un altro, potenziale, disastro ambientale che pende su di loro come una spada. «Non vogliamo essere chiamati supereroi – dicono loro – cerchiamo di fare il nostro dovere con responsabilità per la città, come abbiamo sempre fatto».
Il loro destino al momento è incerto. Si sa che la società intende procedere con i licenziamenti entro la fine di giugno e che nel frattempo il commissario straordinario del Sin Mario Nova ha avviato un dialogo con A2A, la multiutility del Comune di Brescia e del Comune di Milano, per chiedere un subentro straordinario a Caffaro Brescia srl nella gestione della barriera idraulica fino al nuovo bando. Si tratterebbe di una fase di passaggio e la speranza è che gli attuali lavoratori di Caffaro vengano in qualche modo riassorbiti da A2A: sono gli unici a conoscere l’impianto e le sue problematiche.
Il tempo, insomma, stringe. Per completare i lavori alla barriera idraulica potrebbe servire ancora un anno e mezzo. Per quanto riguarda invece la prima fase della bonifica del sito industriale, Nova auspica di bandire una nuova gara entro questo mese, dopo che l’ultima è andata a vuoto a fine 2022. È comunque una prospettiva piena di incognite perché nessuno sa cosa esattamente verrà trovato sotto gli impianti della Caffaro (quella vecchia e quella nuova). Questo significa che i costi della prima fase di bonifica – per cui sono stati previsti 50 milioni di euro – potrebbero essere ben più alti. E con questi anche il rischio di nuovo inquinamento.
Il giallo dei terreni erosi negli anni Settanta
Tra il 1952 e il 1954 la “Brescia agricola” aveva tutt’altra estensione rispetto ad oggi. A mapparla dal cielo per la prima volta, furono proprio gli enti. Un’osservazione banale, si dirà: sì, ma la premessa è indispensabile. Ad essere stato “mangiato” da uno sviluppo urbano inarrestabile è circa il 60% di quegli appezzamenti, molti dei quali dislocati proprio nella zona sud-ovest del nostro capoluogo. Basta ripercorrere la nascita di interi spicchi di città per immaginare la metamorfosi: da lì in avanti sono nati, ad esempio, i quartieri di Chiesanuova, Fornaci, l’Ortomercato, la stessa area industriale (solo per citarne alcuni). Tutte costruzioni nate su terre che ancora non si sapeva fossero del tutto intrise del cocktail di veleni sprigionati dalla storica fabbrica di via Milano: del resto, l’acqua impiegata per la produzione industriale, impregnata di sostanze chimiche (Pcb in primis, ma anche cromo, arsenico, diossine, furani, mercurio e metalli pesanti), veniva poi utilizzata per irrigare i campi a sud-ovest. E così la contaminazione ha viaggiato ben oltre i confini dell’azienda, ben oltre i confini dei quartieri limitrofi, ben oltre i confini dello stesso capoluogo.
Terreni malati, dunque: su questo non vi è dubbio. Non a caso, ancor oggi, nei campi agricoli monitorati dall’Ersaf, l’inquinamento persiste, almeno nei primi 40 centimetri di strato superficiale. Ma quel 60% di terreni contaminati eroso nell’area sud-ovest tra il 1954 e il 2001 (finché cioè Marino Ruzzenenti non ha puntato i riflettori nazionali sulla bomba Caffaro), che fine ha fatto? Dove si trova oggi, visto che non ha mai raggiunto una discarica?
«All’epoca – spiega Paolo Nastasio, a capo del Settore biodiversità dell’Ersaf, l’ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste – quelle movimentazioni di terreno non erano tracciate, a differenza di quanto avviene oggi. Semplicemente, il terreno veniva distribuito laddove serviva: negli anni Settanta, quando iniziano a nascere tutte queste nuove parti di città, per legge sia le rocce sia le terre da scavo venivano reimpiegate dove si costruiva, in sostanza dove occorreva in quel momento altra terra». Possibile ricostruirne la filiera e capire dove sia stato impiegato quel materiale di scavo contaminato? «No, impossibile. Sarà distribuito in altre parti di Brescia, nessuno sa e potrebbe sapere nulla, ma questo – spiegano da Ersaf – non solo per quanto riguarda Caffaro».
Quel che è certo è che, essendo stati impiegati in operazioni edilizie, non sono finiti in zone di coltivazione. Potrebbero invece essere convogliati, ad esempio, in parchi e giardini, quello sì, non necessariamente spostandosi di molto in linea d’aria. Ma la geografia precisa, ora, sembra davvero un’impresa impossibile da ricostruire.
Permane quindi l’attesa in una città che a volte sembra dimenticarsi di quel «carcinoma» che porta nel cuore, come l’ha definito il procuratore capo di Brescia Francesco Prete il giorno del sequestro nel 2021. E che però immancabilmente la costringe a fare i conti con un passato scomodo, con la fabbrica che resta una sorvegliata speciale ed è costeggiata con timore da chi sa e si chiede cosa ancora potrà succedere.
Come stanno i cittadini che per anni hanno abitato attorno alla fabbrica dei veleni? Qualcuno risarcirà mai la città e chi per colpa di Caffaro ha perso tutto quello che aveva? C’è un solo responsabile o, in parte, è una colpa condivisa da chi per decenni ha scelto di stare in silenzio? Cosa possiamo aspettarci da questo processo? Quali risposte, finalmente decisive, potrebbe portare alle tante domande dei cittadini?
In questi mesi abbiamo riunito un lavoro di indagine durato anni. Siamo tornate nei luoghi da cui tutto è iniziato e abbiamo raccolto le voci e le testimonianze di chi c’era e di chi ancora vive nelle zone all’ombra di questo disastro. Perché nel caso Caffaro ci sono tante storie nella storia. Abbiamo cercato risposte a tante domande che gli abitanti si pongono da tempo, nel tentativo di ricostruire questa vicenda complessa e i suoi strascichi. Racconteremo tutto questo in un podcast prodotto da IrpiMedia, in collaborazione con il Giornale di Brescia, che uscirà a settembre.
Foto: Nuri Fatolahzadeh, Laura Fasani
Editing: Christian Elia, Giulio Rubino
In partnership con: Giornale di Brescia