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L’Anonima sequestri del boss Luciano Leggio
Negli anni ‘70, ci sono stati oltre 500 sequestri a scopo di estorsione. Il boss di cosa nostra Luciano Leggio, da Milano, aveva rotto l’inattività della latitanza per mettersi nel giro. Gli è costato l’arresto
02 Settembre 2020

Luca Rinaldi

Nella serata del 18 dicembre 1972 i carabinieri di Corbetta ritrovano avvolta nella nebbia della periferia milanese un’auto abbandonata sulla strada statale che collega Milano a Novara. Non hanno dubbi: l’auto, una Citroën-Maserati, appartiene all’industriale di Vigevano (Pavia) attivo nella produzione di macchine per calzaturifici Pietro Torielli. La sicurezza degli uomini dell’arma scaturisce dalla denuncia arrivata poche ore prima da parte della famiglia dell’imprenditore, visto il mancato rientro a casa dell’uomo. «La vettura del Torielli – si legge nella ricostruzione degli inquirenti dell’epoca – è stata abbandonata aperta e con le luci accese; all’atto del suo ritrovamento – concludono – essa presenta il cristallo anteriore destro in frantumi, mentre all’interno vi sono evidenti tracce di sangue». Appena fuori l’auto i carabinieri ritrovano un martello di plastica, un revolver e un cappello da uomo. Nessuno di questi oggetti appartiene a Torielli, e la tesi del rapimento prende corpo poco dopo quando alcuni testimoni oculari confermano di aver visto alle 21 un uomo trascinato fuori dalla propria vettura e fatto salire su un’altra che si è poi allontanata in direzione Milano diretta a Vigevano.

Sono anni delicati per il Paese e destinati a segnare tutto il decennio degli anni ‘70. I cosiddetti anni di piombo stanno mettendo a dura prova la tenuta politica e democratica del Paese, la strage di Piazza Fontana è avvenuta solo tre anni prima. Il 31 maggio dello stesso anno un commando di terroristi neri farà saltare in aria cinque carabinieri, uccidendone tre, a Peteano, frazione della cittadina di Sagrado in provincia di Gorizia. Il grosso degli sforzi investigativi e giudiziari è concentrato lì, in un susseguirsi di atti e stragi che lasceranno a terra uomini delle forze dell’ordine, politici, magistrati e civili. Milano, teatro di alcune di queste indagini, è diventata però meta anche degli uomini della criminalità organizzata, che seguendo l’odore dei soldi risalgono lo Stivale e puntano dritta la capitale economica del Paese.

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Tra loro c’è anche Luciano Leggio, poi divenuto Liggio a causa di un errore di trascrizione di un brigadiere, corleonese fuggito dalla Sicilia per evitare un conflitto con Riina e Provenzano da cui difficilmente sarebbe uscito vincitore e soprattutto vivo. È lui uno dei protagonisti della stagione dei rapimenti in Lombardia di quella che è stata ribattezzata “Anonima”. Alla sua corte sono cresciuti alcuni protagonisti che hanno condizionato la vita nella Milano da bere degli anni successivi: personaggi che “nessuno” conosceva ma che nel tempo hanno imparato a prendersi subappalti e quote occulte nelle grandi società di costruttori con pochi scrupoli. La paura dei rapimenti favorì la frequentazione di picciotti in carriera e imprenditori di successo in cerca di valide protezioni.

Luciano Leggio

La stagione della “Anonima” di Leggio comincia così, con il sequestro Torielli. Solo negli anni ‘70, l’epoca d’oro dei rapimenti a scopo di estorsione, ce ne saranno circa cinquecento. La ‘ndrangheta, la criminalità organizzata calabrese, è stata l’organizzazione che nel tempo ha maggiormente fatto ricorso al mezzo per poi investire le somme ricavate nel narcotraffico. Anche i siciliani praticano la via del sequestro, ma la amano poco: troppo movimento, troppi sbirri e posti di blocco. Però una volta a Milano, Leggio vede nella capacità di spesa degli imprenditori del nord una possibilità per l’industria dei sequestri.

La paura dei rapimenti favorì la frequentazione di picciotti in carriera e imprenditori di successo in cerca di valide protezioni.

La mossa segnerà anche la fine della sua latitanza: Lucianeddu verrà infatti arrestato nel maggio del 1974 in un attico di via Ripamonti a Milano. Nel milanese Leggio aveva contatti con mafiosi del calibro di Salvatore Enea, Ugo Martello, Gaetano Fidanzati e dei fratelli Pullarà. Oltre che di Gaetano Carollo, Giuseppe Ciulla e Franco Guzzardi, protagonisti di questa storia insieme allo stesso Leggio. Saranno poi i sequestri del dirigente torinese Luigi Rossi di Montelera e di Emilio Baroni nel marzo del 1974 che metteranno fine a quella stagione e soprattutto alla latitanza di Leggio.

La primula rossa di Corleone

Luciano Leggio nasce a Corleone il 6 gennaio 1925 da una famiglia contadina. Viene affiliato prestissimo alla mafia locale dallo zio paterno Luca.

Lucianeddu, come viene soprannominato, cresce alla corte del medico e capomafia Michele Navarra e nel 1948 viene accusato dell’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto. Quattro anni dopo viene assolto e costituisce una società di autotrasporti che ben presto va in concorrenza con quella di Navarra. Sono gli anni della “mafia dell’acqua” magnificamente raccontata nel disco de I Giganti “Terra in bocca”: in una regione in piena siccità si libera l’acqua soltanto per coloro che pagano il pizzo. Ed è proprio la costruzione di una diga che ancora una volta mette contro Navarra e Leggio, che nel frattempo ha portato dalla sua parte una fetta consistente dei corleonesi e costituito una società di trasporti con Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi.

Navarra deciderà di attaccare Leggio con un agguato, ma Lucianeddu ne uscirà vivo e servirà al capomafia la sua vendetta. Il 2 agosto del 1958 Navarra viene ucciso su ordine di Leggio, così come nelle settimane successive tutti i suoi sodali. Nel 1964 viene arrestato, trovato a casa della ex fidanzata di Placido Rizzotto, e poi processato per i fatti della prima guerra di mafia. Viene assolto per insufficienza di prove. Alla sua scuola sono cresciuti Totò Riina e Bernardo Provenzano, che per conto di Leggio uccidono il boss rivale Michele Cavataio.

Sempre in fuga dalle forze dell’Ordine finisce la sua “carriera” a Milano dove importa la piaga dei sequestri di persona a scopo di estorsione. Arrestato nel 1974, nel 1975 viene processato per l’omicidio del giudice Cesare Terranova e condannato all’ergastolo per l’omicidio di Michele Navarra. Morirà nel 1993 nel carcere di Badu ‘e Carros in Sardegna e sepolto nella nativa Corleone.

Cronaca di un sequestro dell’Anonima: il rapimento Torielli

Quel 18 dicembre 1972 è il primo dei cinquantadue giorni di prigionia di Torielli, che dovrà attendere il 7 febbraio del 1973 per essere liberato dopo il pagamento di un riscatto da 1,5 miliardi delle vecchie lire. Durante quei giorni, la principale preoccupazione della polizia è salvaguardare l’incolumità di Torielli, gli investigatori dunque seguono le fasi della trattativa raccogliendo notizie negli ambienti vicini ai sequestratori. I carabinieri di Vigevano nell’ambito di questi approfondimenti trasmettono alla locale procura, oggi assorbita in quella di Pavia, una informativa in cui si fa l’ipotesi che il fidanzato della figlia dei portinai di villa Torielli, Giancarla Ferri, possa essere in qualche modo coinvolto nel rapimento. Non è un’ipotesi casuale: Michele Guzzardi, fratello di Calogero e Francesco, tutti residenti a Vigevano, sono in rapporti, si legge nell’informativa «con elementi mafiosi del milanese e del pavese», tra cui Giuseppe Ciulla e Riccardo Muscio, già a processo per alcuni sequestri di persona a scopo di estorsione. Altri nomi entrano nell’informativa e al termine dell’indagine saranno trentuno le persone coinvolte in questi tre rapimenti, che hanno fruttato all’organizzazione 2 miliardi e 300 milioni di lire.

L’incipit dell’ordinanza che ha portato all’arresto di Luciano Leggio

A insospettire i carabinieri non sono solo contatti e parentele, ma anche l’attivismo di Guzzardi nel corso delle trattative intavolate tra i rapitori e la famiglia. Sarà per i magistrati di Milano Giovanni Caizzi e Giuliano Turone un’inchiesta lunga e faticosa che dovrà scontrarsi con le dichiarazioni «contraddittorie, reticenti, molto spesso mendaci dei vari protagonisti», si legge nell’ordinanza sentenza d’arresto.

La sera stessa del rapimento, pur non sapendo ancora che si trattasse di un sequestro, Michele Guzzardi si rende disponibile per avviare le ricerche di Torielli. Lo fa con il padre, Pietro Torielli senior, il quale inizialmente non gli da ascolto, salvo una settimana dopo pregarlo di fare il possibile per stabilire un contatto con i rapitori. Torielli senior incarica anche il proprio avvocato di stabilire un contatto con gli stessi, che però con una lettera scritta dal sequestrato il 28 dicembre si fanno vivi chiedendo il miliardo e mezzo per la liberazione di Torielli junior e che da mediatori operino Michele Guzzardi e la sua fidanzata, portinaia di villa Torielli.

Iniziano alcune fasi convulse della trattativa e Guzzardi, pur avendo accettato l’incarico a un certo punto si tira indietro: ha paura per sé, sa che avrà sicuramente problemi con la giustizia visti i suoi precedenti e lascia Vigevano per un periodo. La sua scomparsa è un problema, ma convinto a tornare dal fratello il 12 gennaio è nuovamente in città e invita Torielli senior a escludere il proprio legale dalla trattativa. Lo stesso faranno i sequestratori per telefono che nel frattempo iniziano a fare pressioni sul rapito. Nessuno, a eccezione dei rapitori, sa dove sia tenuto Torielli junior: dovrà passare ancora del tempo prima della scoperta della cascina al civico 23 di via Calvenzano a Treviglio.

L’indirizzo non viene comunicato nemmeno nella lettera lasciata il 28 gennaio dai rapitori nella macchina di Guzzardi dopo averla forzata. Comunicano un itinerario che però è destinato a cambiare. L’appuntamento è previsto per il giorno successivo. A raggiungere il luogo prestabilito dovranno essere la moglie di Torielli junior e i due fidanzati, Michele Guzzardi e Giancarla Ferri. Portano, come stabilito, una prima parte del riscatto, 150 milioni di lire. Strada facendo due uomini in moto si affacciano al finestrino dell’Alfa Romeo di Guzzardi comunicando un cambio di itinerario: i tre lasceranno la macchina abbandonata col denaro a bordo in via Marochetti a Milano. Nella valigetta un biglietto della madre di Torielli junior dove questa si rende disponibile a un pagamento per il giorno successivo. Chiede inoltre che il riscatto venga dimezzato.

Il giorno seguente, il 30 gennaio i rapitori chiamano casa Torielli: l’auto può essere ritirata nel medesimo punto dove era stata lasciata. Guzzardi insieme al fratello e alla fidanzata vanno a recuperarla e a bordo trovano una copia del giornale La Notte con alcune righe scritte a mano dal sequestrato, due valigie capienti per la restante parte del riscatto e due lettere. La prima non lascia spazio a negoziazioni sulle cifre del riscatto: «ultima consegna della cifra richiesta – si legge – riavrete subito il vostro amato»; mentre la seconda è indirizzata alla moglie di Torielli junior e riporta un vecchio itinerario per la consegna del denaro.

Alla fine di gennaio la famiglia riesce a racimolare la restante parte del riscato: 1,35 miliardi di lire, che la moglie e la madre di Torielli junior iniziano a stipare nelle stesse valigie fornite dai rapitori. Domenica 4 febbraio 1973 l’ordine per la consegna finale: «Le persone debbono essere quelle da noi volute e non uno in più», scrivono i sequestratori nel messaggio recapitato a Guzzardi. Questa volta i due fidanzati e la moglie di Torielli junior lasciano l’auto a Milano in viale Etiopia. Dentro il veicolo, la moglie di Torielli lascia una lettera in cui prega i rapitori di permettere al marito di tornare a casa con quella stessa auto e la possibilità di restituire una cinquantina di milioni alla famiglia. Nella tarda serata del 7 febbraio con l’Alfa Romeo di Guzzardi Torielli farà ritorno a Vigevano. Con un pacco di banconote da 47 milioni di lire. Quarantasette, come il “morto che parla”. «Il significato cabalistico di quel numero – scrivono i magistrati – viene immediatamente colto da Pietro Torielli, e incomberà poi funestamente sul suo comportamento processuale lungo tutto il corso dell’istruttoria».

Da Torielli a Rossi di Montelera e Baroni: gli investimenti del denaro dei sequestri

Nel corso degli interrogatori successivi infatti Torielli sarà reticente, obbedendo del resto, scriverà anche la Corte di Cassazione nella sentenza del 2 aprile 1982, «a precisi ordini dei sequestratori dando informazioni volutamente inesatte». Tuttavia, a condurre gli inquirenti nell’ambiente della mafia siciliana è proprio quell’iniziale intuizione dei carabinieri di Vigevano – poi sviluppate dalla Guardia di finanza di Milano guidati dal colonnello Giovanni Vissicchio – rispetto alle frequentazioni dei fratelli Guzzardi.

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Il resto del puzzle si compone con i sequestri Rossi di Montelera e Baroni, con una storia che da Milano sconfina nel torinese e finisce a Palermo con la complicità di un chiacchieratissimo prelato locale, don Agostino Coppola. Quest’ultimo fa da intermediario nel corso del sequestro Rossi di Montelera, mentre emergono i legami sempre più stretti tra i Guzzardi e la famiglia mafiosa dei Ciulla insediata a Trezzano sul Naviglio, in provincia di Milano.

A poco meno di un anno dal sequestro di Pietro Torielli Jr, arriva il sequestro Rossi di Montelera, che verrà poi ritrovato nella stessa cascina dove rimase Torielli, e nel marzo del 1974 quello di Emilio Baroni che passò la sua prigionia a Moncalieri, in provincia di Torino. Gli uomini della Guardia di finanza sviluppano la parte patrimoniale dell’inchiesta sul sequestro del figlio dell’industriale vigevanese e nel frattempo cercano di individuare il nascondiglio dove lo stesso Torielli è stato tenuto prigioniero.

Emerge così l’impiego dei denari derivanti dai sequestri, finiti soprattutto in acquisti immobiliari di terreni e fabbricati, in una Milano che vive il boom edilizio e ospedaliero. In questo contesto individuano la famiglia Taormina, che già risultava legata ai Guzzardi. Arrivano così a Treviglio dove i Taormina avevano appena acquistato una cascina e poi a Moncalieri da Giuseppe Ugone, uomo di Leggio che aveva anch’egli acquistato una cascina con una parte dei denari del sequestro Torielli.

I dettagli in questa fase faranno la differenza, soprattutto a Treviglio. Perquisiscono il cascinale per due volte a cavallo tra l’11 e il 14 marzo del 1974: «Ci risultava – racconta alla commissione parlamentare d’inchiesta nel 1974 Giuseppe Sessa, comandante del nucleo regionale della Guardia di finanza di Milano – che nella cascina dei Taormina c’erano due concimaie. Fu fatta una prima perquisizione e fu trovata una sola concimaia. Siccome le notizie confermavano che ce ne doveva essere una seconda, dopo tre giorni, dall’11 al 14, il giudice ordinò una ulteriore ispezione nella cascina: e nella stalla, dopo aver rimosso tutte le bestie (dieci o dodici mucche), dopo aver lavato il pavimento, fu scoperta una botola di una certa dimensione». «Si pensò – proseguiva Sessa – che il nascondiglio del Torielli fosse quello lì. Magari non si escludeva che, forse, sotto ci potesse essere qualcun altro, ma non sapevamo che c’era Rossi di Montelera».

Dal Moet et Chandon alla primula di Corleone

Durante quelle perquisizioni, le indagini prendono una strada ben precisa: quella dei soldi e dei patrimoni. E ancora una volta sono i dettagli a fare la differenza. Così alcune bottiglie di Moet et Chandon del 1966, ritrovate durante le indagini danno una svolta al caso. Le bottiglie, che lo stesso Rossi di Montelera dichiarò per altro di aver visto nella cascina anche durante il rapimento, avevano un cartellino bianco che riportava la dicitura «Ditta Vinicola Borroni – Milano». Pochi mesi prima la Guardia di finanza stessa aveva fatto un accertamento fiscale proprio presso tale società. «Sentiamo il capitano – spiega Sessa – il quale ci disse che i titolari erano due siciliani e che in quei pochi giorni che era stato lì aveva visto un certo andirivieni e si riservava, perciò, di tener presenti questa circostanze per un intervento successivo». I finanzieri fiutano che questa pista è promettente e accertano la proprietà della ditta: «Risultò appartenere ai Pullarà (famiglia mafiosa che negli anni ‘70 ha retto uno dei mandamenti di cui era composta la Cupola di cosa nostra, ndr), zio e nipote», conclude Sessa.

Uno stralcio della sentenza della Corte di Cassazione che conferma la definitiva condanna a 22 anni di carcere per Luciano Leggio

A quel punto i magistrati decidono di mettere sotto controllo le utenze telefoniche dei due. La Guardia di finanza intanto riesce a decifrare anche le rubriche telefoniche sequestrate nella disponibilità dei Pullarà: i numeri appuntati risultavano inesistenti, ma se sommati tra loro restituivano dei numeri esistenti, effettivamente contattati dai mafiosi. Tra questi quello di un certo “zio Antonio” che, ricordava Sessa, «veniva trattato con molto rispetto, che dava ordini con voce di capo, che qualche volta s’arrabbiava e, dall’altra parte, tutti tacevano». Da lì in poi gli inquirenti hanno avuto pochi dubbi, l’uomo non è un semplice gregario.

Così l’incrocio tra indagini patrimoniali e indizi raccolti ha portato i magistrati ad una abitazione di via Ripamonti a Milano. Lì, «ci poteva essere un pezzo grosso, il quale poteva anche essere Leggio, o un altro grosso nome della mafia, ma noi non sapevamo che era Leggio». Tuttavia, essendo il boss corleonese il pericolo pubblico numero uno dell’epoca, gli inquirenti si preoccupano di ritrovare tutto il materiale che lo riguarda per poterlo identificare. Anche perché girava voce che Lucianeddu si fosse fatto una plastica facciale per non farsi riconoscere. I finanzieri sanno che devono citofonare a casa di un certo Antonio Ferruggia, senza sapere esattamente di chi si tratti.

Il 15 maggio del 1974 “zù Antonio” in una delle sue telefonate fa sapere che all’alba del giorno successivo sarebbe partito da Milano. Alle sei e mezza del 16 maggio gli uomini guidati dal colonnello Vissicchio suonano all’appartamento di Ferruggia, un attico di 180 metri quadrati con una Bmw in garage. Sono nove in tutto. Ad aprire è la signora Lucia, moglie di Leggio, da cui lo stesso boss, sempre sotto il falso nome di Antonio Ferruggia, ha appena rilevato l’appartamento di via Ripamonti. Lucianeddu si nasconde sotto le coperte, ma i finanzieri senza troppa fatica lo individuano. Lui chiede di mettersi in ordine e chiede tempo per dare spiegazioni alla donna: «Non sa chi sono, fatemi spiegare due cose». È la fine della latitanza della “primula di Corleone”, poi rimpiazzato dal regno di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Al processo scaturito da questa operazione e istruito da Caizzi e Turone Luciano Leggio fu condannato a 22 anni di reclusione.

Gli atti del processo di Milano all’Anonima sequestri di Luciano Leggio sono interamente disponibili sul sito della Rete degli Archivi per Non Dimenticare.

CREDITI

Autori

Luca Rinaldi

Editing

Lorenzo Bagnoli

Illustrazioni