23 marzo 2020 | di Cecilia Anesi
II coronavirus Covid19 non è solo un virus che sta causando un’emergenza sanitaria a livello globale. In alcuni paesi è diventato un pretesto per dare un giro di vite alla libertà di stampa. Con la scusa del contrasto alle fake news alcuni governi utilizzano l’emergenza per catalogare giornali e giornalisti sgraditi.
La settimana scorsa il governo romeno ha approvato un decreto d’emergenza che tra le varie cose consente alle autorità il potere di chiudere quei siti web che diffondono fake news sul Covid19. Contemporaneamente, il Ministero dell’Interno ha pubblicato dei chiarimenti: è stata creata una task-force specifica, in seno al governo, che si occuperà di decidere quali siti web d’informazione verranno chiusi e quali invece no. La mossa però manca di trasparenza, non si sa chi siano i membri della squadra di “censori” né quali siano i criteri di censura per valutare cosa sia una fake news e cosa no. L’organizzazione non governativa ActiveWatch che si occupa di monitoraggio della libertà di stampa e protezione dei giornalisti ha criticato la manovra, dicendo che «il governo non dovrebbe mai avere il potere di stabilire quale informazione è vera e quale falsa. Solo le dittature hanno questo potere».
Nella vicina Bulgaria, invece è stato approvato un decreto di modifica al codice penale in cui si legge che «Chiunque trasmetta via radio, telefono o qualsiasi altro mezzo allerte false o dia falso allarme, o diffonda informazioni false rispetto alla diffusione di una malattia contagiosa sarà punito con una pena fino a tre anni di carcere e una pena pecuniaria che va dalle 1.000 alle 10.000 Lev (dai 500 ai 5.000 euro)». Un provvedimento che si presta a diverse interpretazioni e che mette in allarme la stampa bulgara: «Questo significa – spiega Atanas Tchobanov, giornalista di Bivol, a IrpiMedia – che oggi chiunque pubblichi i dati sui contagiati di ieri è potenzialmente candidato alle patrie galere».
Domenica 15 marzo il Dipartimento contro il crimine informatico del governo ungherese guidato da Viktor Orbán ha arrestato un trentenne reo di avere pubblicato un video su Youtube in cui dichiarava come Budapest sarebbe stata messa a breve in quarantena (cosa che effettivamente in queste ore il governo ungherese sta valutando). La pena in questi casi, per procurato allarme, è il carcere fino a tre anni. Diventano cinque, o più, se si aggiunge una grave lesione della “tranquillità pubblica”.
«C’è un’enorme quantità di fake news sul Covid19 che circolano in Ungheria – fanno sapere a IrpiMedia i redattori di Átlátszó – ma al contempo noi stessi siamo stati accusati dalla propaganda pro-governativa di essere un pericolo pubblico solo perché abbiamo pubblicato grafici e mappe dei dati ufficiali sul contagio».
Nella confinante Repubblica Ceca, il governo ha limitato invece il numero i giornalisti che possono partecipare alle conferenze stampa del gabinetto. È permesso partecipare solo alle tre televisioni pubbliche nazionali e due canali privati. La stampa, compresa quella online, è tagliata fuori.
Un po’ più a nord, in Estonia, il primo ministro Jüri Ratas ha annunciato punizioni per chi dovesse diffondere informazioni false, misure che prevedono anche la detenzione.
Nel frattempo anche in Italia da almeno due settimane le Regioni hanno fissato alcuni paletti per i rapporti tra giornalisti e personale medico. È accaduto in Sardegna dove il 13 marzo l’assessore alla Sanità, il leghista Mario Nieddu, ha inviato una nota all’azienda sanitaria regionale e ai dirigenti dei reparti malattie infettive con la quale da direttive in merito all’attività di comunicazione sul Covid19, spiegando che i provvedimenti regionali «pongono in capo alla Regione Sardegna tutta l’attività di comunicazione verso la popolazione […] per cui si ribadisce di attenersi strettamente a tale disposizione», chiedendo quindi agli ospedali di non dare informazioni direttamente agli organi di stampa, ma di inviare i dati solo e soltanto alla Regione che poi sceglierà come e cosa dire alla popolazione. I trasgressori verranno puniti con «opportuni provvedimenti disciplinari».
In Lombardia, focolaio principale dell’emergenza, era stata notificata all’inizio di marzo una diffida per «uso improprio di riprese/foto e video» a due giornalisti de Il Giorno e del Cittadino di Lodi. I due documentando una raccolta firme a Casalpusterlengo (allora all’interno della prima zona rossa) avevano filmato un intervento della pattuglia del Gruppo Pronto Impiego di Milano per disperdere l’assembramento così come da indicazioni della prefettura. La diffida è stata in seguito archiviata. Dal 9 marzo inoltre la stessa Regione Lombardia ha informato il personale sanitario di non rilasciare interviste senza il benestare dell’ente regionale. In questo caso nulla di scritto, ma la parola è bastata per complicare ulteriormente la situazione.