#FuoriGioco
Giulio Rubino
Dallo sport professionistico alla partitella a cinque. Per alzare l’asticella dei propri limiti fisici e giocare anche quando il dolore imporrebbe loro di fermarsi, i calciatori di ogni categoria fanno costante abuso di farmaci da banco, antinfiammatori e antidolorifici. Tra questi i più ricorrenti sono ibuprofene, paracetamolo e voltaren: medicine legali che possono essere assunte senza prescrizione e che non hanno niente a che vedere con il doping. Ma diverse ricerche e decine di testimonianze certificano l’allerta: a lungo termine anche l’abuso di farmaci tanto comuni può produrre effetti collaterali gravissimi, tra i quali l’alta percentuale di infarti, il ritiro anticipato, perenni dolori articolari, problemi gastrointestinali cronici e malattie ai reni.
Il centro di giornalismo tedesco Correctiv, che coordina questa inchiesta sulle omertà degli abusi farmaceutici nel mondo del pallone in collaborazione con La Stampa, ARD e France 2, ha anche condotto un sondaggio tra quasi 1200 giocatori a livello amatoriale in Germania. Il risultato è che oltre la metà dei partecipanti assume questi farmaci regolarmente, a conferma che non sono solo i professionisti ad assumere con troppa frequenza antinfiammatori e antidolorifici. Come aveva detto nel 2004 l’allenatore Antonio Conte, sentito come testimone nel primo processo italiano sul tema, «se non ci fosse il Voltaren non ci sarebbero campionati di serie A, B e C, e neanche quelli interregionali».
«Non importa in che categoria giochi, per te è sempre come la serie A: anche una partita di promozione diventa Real Madrid- Barcellona». Al telefono, col lockdown che non permette di guardarsi negli occhi, la sincerità e la passione di chi ha dedicato oltre 40 anni al gioco più bello del mondo ci coglie quasi di sorpresa. Edoardo (nome di fantasia obbligatorio per riservatezza) è tra i pochi che hanno accettato di raccontarci la sua storia. Tra eccellenza, promozione e prima categoria, ha tenacemente costruito una carriera e una famiglia, per poi diventare allenatore, professione che continua tutt’ora. Al calcio Edoardo ha dato tutto, forse troppo: «A fine carriera, mi è stata quasi diagnosticata un’insufficienza renale – racconta -. Mi dissero di non prendere più questi cavolo di antinfiammatori».
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L’immobilismo delle Leghe europee
Le federazioni calcistiche internazionali sono consapevoli del problema. «Dovremmo fare di più per educare tutti gli attori del mondo del calcio», dichiara Jiri Dvorak, capo dello staff medico della Fifa, la federazione internazionale del calcio, dal 1994 al 2015. Dalla sua questa posizione, Dvorak ha avuto un osservatorio speciale sulla dimensione del fenomeno. La Fifa a partire dai mondiali in Francia del 1998 ha raccolto sistematicamente dati su quanti farmaci venissero assunti dai giocatori durante ogni edizione della Coppa del mondo. «Nel ‘98 erano ancora incompleti, ma già potevamo osservare un consumo molto alto», spiega. Negli anni i consumi sono solo aumentati, tanto che secondo gli ultimi tre report, una percentuale tra il 40 e il 50% dei giocatori ha assunto farmaci prima di ogni partita del torneo. I numeri sarebbero ancora più alti secondo il medico Toni Graf-Baumann, al tempo collega di Dvorak alla Fifa e fino a marzo scorso consulente per la Dfb, il corrispettivo della Figc tedesca: «Credo che, tenendo in considerazione i casi non riportati, dobbiamo stimare che i numeri siano il 25-30% più alti».
Quanti e quali rischi per la salute vengano dall’abuso di antinfiammatori e antidolorifici è ancora relativamente poco noto. L’alta incidenza di infarti in ex-calciatori, tuttavia, è stata rilevata da almeno tre studi pubblicati negli ultimi anni. Uno fra questi, condotto da Morten Schmidt, Henrik Toft Sørensen e Lars Pedersen sul diclofenac (principio attivo del Voltaren, ndr) e pubblicato nel 2018, rileva che nei trenta giorni successivi all’assunzione il rischio di infarto raddoppia.

«Credo che, tenendo in considerazione i casi non riportati, dobbiamo stimare che i numeri siano il 25-30% più alti»
L’ex medico della Fifa Jiri Dvorak è sorpreso e preoccupato dal legame tra antidolorifici e aumento del rischio cardiovascolare. Nonostante già ci fossero dati allarmanti su questa connessione, confessa che «non ne sappiamo ancora abbastanza». I casi esistenti sono raccolti in un registro internazionale dei giocatori che hanno subito attacchi di cuore improvvisi e sono morti di insufficienza cardiaca. A oggi si parla di più di 600 casi.

«L’uso di antinfiammatori iniettati, senza ricetta medica, dovrebbe essere proibito. Dovremmo inserirli nella lista delle sostanza proibite dal Wada quando non c’è una precisa ragione terapeutica per il loro utilizzo».
Certo servono più ricerche, come chiedono tutti i ricercatori e i medici consultati per questa inchiesta, ma anche regole più stringenti. «L’uso di antinfiammatori iniettati, senza ricetta medica, dovrebbe essere proibito. Dovremmo inserirli nella lista delle sostanza proibite dal Wada (l’agenzia mondiale antidoping, ndr) quando non c’è una precisa ragione terapeutica per il loro utilizzo», ragiona Dvorak. Anche perché oltre gli infarti si rischiano emorragie interne e malattie dei reni che arrivano a fine carriera, «quando ormai non interessa più a nessuno», constata l’ex medico Fifa.
Se il problema non si affronta, la responsabilità è delle leghe calcio di tutto il mondo, attacca l’ex collega di Dvorak, Toni Graf-Baumann: «Ma non si può cambiare nulla lì, è come sbattere contro un muro». I calendari che stilano sono sempre più fitti, il carico fisico sempre più pesante. Ridurlo però non è un’opzione: «È ovviamente una questione di soldi e interessi mediatici. Le ragioni mediche sembrano non avere nessuno spazio». In Germania Graf-Baumann ha provato a coinvolgere medici delle società calcistiche per uno studio sull’abuso di antidolorifici. Risultati zero: «Alcuni dei dottori mi hanno confessato che i presidenti delle squadre li avevano bloccati. Nessuno vuole parlare del problema», conclude.
I casi esistenti sono raccolti in un registro internazionale dei giocatori che hanno subito attacchi di cuore improvvisi e sono morti di insufficienza cardiaca. A oggi si parla di più di 600 casi.
Tra i fattori economici si contano i diritti televisivi, naturalmente, ma anche quelli del mondo delle scommesse, fattore trainante nella crescente popolarità del calcio specialmente sul mercato asiatico.
Il processo da cui tutto è cominciato
«A volte invidio i miei colleghi che fanno antimafia, perché a loro almeno qualche volta un pentito capita, io non ne ho trovato nessuno». La confessione è di Raffaele Guariniello, ex magistrato della procura di Torino che per primo si è occupato, nei primi anni Duemila, dell’abuso di farmaci legali, non considerati dopanti, nel mondo del calcio. In Italia più della giustizia sportiva è stata infatti quella penale a occuparsi del problema. Il mondo del calcio professionistico italiano ha assunto verso l’argomento due atteggiamenti, entrambi distorti.
Da un lato c’è la stessa omertà diffusa, dettata dalla paura di ritorsioni, che ha sottolineato anche Graf-Baumann. Tra tutti i giocatori contattati, salvo rare eccezioni, l’abuso di farmaci è stato ammesso solo in forma anonima oppure da chi si è ritirato da tempo.
Dall’altra parte, dietro le porte chiuse degli spogliatoi delle grandi squadre, c’è una frenetica attività di ricerca per sviluppare trattamenti farmacologici che possano migliorare le prestazioni dei giocatori. Tracce di queste attività emergono dalle carte del processo istruito dal pm Guariniello a carico di Riccardo Agricola, ex medico della Juventus, e l’allora Ad Antonio Giraudo, accusati di frode sportiva e di aver utilizzato una sostanza dopante, l’epo. Francesco Botrè, professore di Medicina alla Sapienza di Roma ed ex membro della procura antidoping del Coni, sentito come testimone durante il processo aveva ben sintetizzato l’approccio al problema: «Se uno trova che l’Aspirina migliora la performance, e l’aspirina non è vietata, questa scoperta ha quasi la valenza di un brevetto industriale, perché non viola la legge e vado meglio…».
Condannato in primo grado nel 2002, Agricola è stato assolto nel 2005 dalla Corte d’Appello di Torino. Due anni dopo la Cassazione ha sì confermato l’assoluzione per il reato di doping, ma ha anche trasformato l’assoluzione per frode sportiva in prescrizione, riconoscendo cioè la validità dell’impianto accusatorio. Per tutta la durata del processo si è difeso definendosi capro espiatorio di un intero sistema.
Le conseguenze di questa sentenza, se venissero applicate su larga scala, sarebbero enormi.
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«Sono un teorico del fatto che i processi, al di là della condanna, servano proprio per stimolare l’attenzione su un problema», racconta il pm Guariniello. E infatti, almeno in un primo momento, sembrava che l’intero sistema del calcio fosse destinato a subire uno scossone, tanto che dopo il processo è stata scritta una legge sul doping, in cui si configurava un reato da affiancare al reato di frode sportiva contestato dal magistrato nel suo procedimento. Eppure sul futuro l’ex magistrato non sembra particolarmente ottimista, visto che di condanne non se ne vedono da anni.
Le ragioni sono duplici. La prima è tecnica: la giustizia penale, spiega Guariniello, è più libera e indipendente di quella sportiva, che per definizione dirime affari interni all’organizzazione. «In questa materia – dice Guariniello – non ci si può basare solo sui controlli delle urine, bisogna fare perquisizioni, sequestri, intercettazioni». Il pm ricorda di essere stato avvicinato alle prime fasi del processo dall’allora presidente del Coni, che cercò di tranquillizzarlo dicendo che le loro migliaia di analisi sulle urine non avevano portato a nulla. «Rimasi sconcertato», rammenta Guariniello, il quale per tutta risposta mandò uno dei suoi ispettori migliori al laboratorio del Coni, a Roma. «Scoprimmo che non trovavano le sostanze dopanti perché non le cercavano», fu l’ovvia conclusione del blitz.
Da un lato c’è la stessa omertà diffusa, dettata dalla paura di ritorsioni. Dall’altra parte, dietro le porte chiuse degli spogliatoi delle grandi squadre, c’è una frenetica attività di ricerca per sviluppare trattamenti farmacologici che possano migliorare le prestazioni dei giocatori
La seconda ragione delle mancate condanne è il compatto muro di omertà che abbiamo affrontato anche noi in questa inchiesta. Anche qui, il processo di Guariniello è esemplare. Il pm ricorda oramai con un sorriso le reticenze dei calciatori interrogati, compresa quella di Montero che chiedeva «stanza riservata», per le sue deposizioni. «Ho equiparato i calciatori ai lavoratori sfortunati dei miei processi per infortuni sul lavoro – spiega -, nel senso che se il lavoratore è ancora dipendente del datore di lavoro sotto accusa, è un pessimo testimone». Sono i calciatori, infatti, a restare con il cerino in mano, che siano campioni strapagati o semi-professionisti con uno stipendio medio-basso. Alla fine spetta a loro la scelta di ipotecare la propria salute domani in cambio di un altro assaggio di gloria oggi.

Quando finisce la carriera
Molto spesso la decisione è di sottoporsi all’ennesima puntura. Come accaduto a Edoardo, il girovago delle leghe minori che per primo ha condiviso la sua storia: ogni sabato sera andava da un dottore, in dote una bottiglia di vino, per farsi un’infiltrazione che gli permettesse di giocare la domenica. «Sono sceso in campo, da portiere, anche con le dita lussate», ricorda. Prima del calcio d’inizio, prendeva due Aulin senz’acqua e si preparava un cocktail di Aulin, Vivin C e Supradyn. «Quando tornavo a casa la sera guidavo la macchina solo con la gamba sinistra, la destra mi faceva così male che la dovevo tenere distesa sul sedile del passeggero», ricorda. Per chi guadagna 1500 o 2mila euro in promozione, spesso in nero, giocare è un obbligo, perché «se cominci a saltare le partite, ti tolgono dalla prima squadra, e smetti di guadagnare».
Dal 2015 l’Associazione calciatori ha in corso una campagna di sensibilizzazione sull’argomento. Perché, come dice il presidente Damiano Tommasi, ex Roma e Nazionale, «nelle squadre il medico è un anello debole». Non riesce mai a imporre uno stop. Anzi, Uefa e Fifa stanno allungando la lista degli impegni: «Avevamo fatto una proposta che è stata introdotta due anni fa per l’introduzione dei cinque cambi, eccetto nei campionati di vertice, una proposta tornata utile in questa situazione di pandemia per far riprendere i campionati».
Un ulteriore problema riguarda le dirigenze: i contratti dei manager sono ormai più brevi di quelli dei calciatori, così «nessuno si preoccupa di salvaguardare oggi un calciatore che poi domani qualcun altro venderà».
Per chi guadagna 1500 o 2mila euro in promozione, spesso in nero, giocare è un obbligo, perché «se cominci a saltare le partite, ti tolgono dalla prima squadra, e smetti di guadagnare»
Tommasi conosce il problema sia in qualità di presidente di assocalciatori sia come giocatore: «Sicuramente ci sono stati dei momenti in cui una pausa in più non avrebbe fatto male», racconta. «Tra la Nazionale e la Roma impegnata nelle coppe avevo un calendario molto fitto, e spesso non si trovava tempo per quell’allenamento di strutturazione fisica che poi è anche antinfortunistico. E a volte anche l’allenamento non riesci a farlo senza l’aiuto di farmaci».
Non che nel passato la situazione fosse più semplice. Salvatore Garritano, attaccante di Bologna, Torino, Ternana e Atalanta negli anni Settanta, racconta che ai suoi tempi «se avevi un dolore, ti davano qualcosa con cui giocare, ma che fosse dannosa o meno noi non lo sapevamo». A Garritano è stata diagnosticata la leucemia nel 2007 e da allora, al male del corpo, si è aggiunto quello dell’ostracismo che ha subito per aver denunciato la presenza del doping nel calcio. Luca Mezzano, 15 stagioni e oltre 300 presenze tra serie A e B, per più di un anno ha tenuto a bada una pubalgia a botte di Aulin e iniezioni di Voltaren. Era il secondo anno nelle fila del Torino, il primo in serie A. A fine stagione è arrivata la chiamata dell’Inter: «Non ho detto nulla allo staff medico, perché per me era l’occasione della vita», confessa. Quando ormai gli anti infiammatori non facevano più effetto ha finalmente scoperto che si trattava di tre ernie inguinali.
A Gianluca Gil De Ponti nel 1995 è stato diagnosticato un tumore alla testa. Negli anni ‘70 è stato centravanti del Cesena, Bologna, Avellino e per un anno nella Sampdoria, prima di diventare allenatore. Oggi se pensa a tutte le squadre in cui ha giocato si ritrova a contare i nomi dei compagni di squadra morti negli anni, con il sospetto più o meno verificato di una responsabilità dovuta ai farmaci assunti: «Sulla parete di camera mia ci sono le fotografie di tutte le squadre in cui ho giocato: anche solo a colpo d’occhio, conto almeno venti morti». Spesso per infarto.