21 Maggio 2021 | di Lorenzo Bodrero, Francesco Caremani
Nelle intenzioni doveva arrestare la crisi economica in cui langue il calcio europeo. Nella pratica si è invece rivelato un goffo tentativo riservato a pochi eletti di allargare il solco che separa i club di prima fascia da tutti gli altri. Ma si è trattato pur sempre di un tentativo di ragionamento sul futuro del calcio europeo e sulla sua sostenibilità economica. Sotto la cenere, tra le minacce da parte della Uefa e le prese di posizione di tre club scissionisti (Real Madrid, Barcellona, Juventus), la Super League rimane ufficialmente in piedi seppur non realizzabile. Sui media hanno prevalso due schieramenti e le posizioni si sono polarizzate fino a offuscare il nocciolo della questione: la legittimità legale della Super League.
IrpiMedia ne ha parlato con Federico Venturi Ferriolo, avvocato di LCA Studio Legale ed esperto di diritto sportivo.
Cosa c’è da sapere
Il 18 aprile è stata presentata la Super League, campionato “privato” fondato da dodici prestigiosi club europei a cui ogni anno si sarebbero aggiunte cinque squadre. Minacce di sanzioni e squalifiche delle federazioni nazionali e internazionali hanno bloccato l’operazione sul nascere. La banca d’affari JPMorgan aveva promesso un investimento da 3,5 miliardi di euro per finanziare i club partecipanti. Scopo dell’operazione era immettere liquidità nelle casse dei club, che affogano nei debiti. La banca americana si è poi defilata dopo le polemiche seguite al lancio della Super League. Tra i meno critici c’è chi ha ricordato l’esempio della Euroleague di basket, campionato molto seguito e di successo che è nato dai club più ricchi e fuori dalla giurisdizione della federazione europea di pallacanestro.
Dal punto di vista legale la Super League cos’è?
«Un’associazione di natura privatistica basata su contratti di diritto privato tra più società sportive professionistiche, affiliate a federazioni e leghe differenti. Alle spalle, un contratto di collaborazione tra le parti, al quale immagino si affacciassero anche i fondi d’investimento e le banche».
I dodici club avevano il potere legale di fondare una nuova competizione fuori dai paletti Uefa, essendo affiliati alle rispettive federazioni nazionali che a loro volta sono affiliate alla prima?
«È proprio questa la vexata quaestio, tralasciando gli statuti Uefa che regolano il funzionamento dell’associazione. A mio avviso, non vedo ostacoli dal punto di vista del diritto europeo, trattandosi di aziende che svolgono un’attività commerciale, considerando che all’interno della Ue esistono e sono normati sia il libero mercato sia la libera concorrenza. Nulla osta quindi alla creazione di competizioni amichevoli e a rapporti di collaborazione per un evento sportivo. Faccio un esempio, se un privato cittadino organizza un torneo di calcetto lo può fare, resta da vedere se può coinvolgere atleti tesserati. I club sono affiliati alle federazioni che nei loro statuti non vietano questo tipo di iniziative e tutto ciò che non è vietato potrebbe essere di fatto permesso».
Esistono dei precedenti?
Sì, quello che riguarda l’Unione internazionale di pattinaggio (ISU), la quale nel suo statuto vietava ai propri tesserati di prendere parte a manifestazioni sportive non organizzate da questa. Gli atleti sanzionati hanno fatto ricorso alla Commissione europea che ha stabilito come quella norma dello statuto della federazione sia contraria all’articolo 101 del trattato sul funzionamento Ue sulla tutela della concorrenza del mercato e sul divieto di abuso di posizione dominante. Una volta che lo sport non è solo un’attività ludica ma diventa anche economica bisogna rivedere le norme e le tutele di questa, entra in gioco l’antitrust».
Quindi la Uefa può detenere il monopolio delle coppe europee oppure viola le norme Ue?
«Le coppe europee sono le sue e può farci ciò che vuole. La questione è se questo monopolio e l’esclusiva sulla disciplina del calcio siano accettabili alla luce delle norme europee. Il rischio, se la questione dovesse arrivare alla Commissione europea, è una nuova sentenza Bosman».
La “sentenza Bosman”, quando il calcio ha cambiato pelle
Il 15 dicembre 1995 la Corte di giustizia europea si pronunciava a favore di Jean-Marc Bosman in tre procedimenti differenti che lo vedevamo opposto alla Uefa, alla federazione calcistica del Belgio e al club RFC Liège.
La vicenda risale al 1990, anno in cui scadeva il contratto che legava il giocatore belga all’RFC Liège. La sua volontà di trasferirsi in Francia al Dunkerque fu vanificata poiché l’offerta economica del club francese fu respinta da quello belga, con la conseguenza che a Bosman fu impedito di cambiare squadra, come da prassi di allora, pur non essendo più vincolato da un contratto. La Corte di giustizia europea stabilì, cinque anni più tardi, che il divieto imposto dall’RFC Liège limitava la libertà di movimento del calciatore. Ne risultò che un giocatore era ora libero di trasferirsi da un club all’altro gratuitamente alla scadenza del contratto, prassi ormai comune oggigiorno. La sentenza scatenò una reazione a catena con conseguenze ad ampio raggio nel mondo del pallone.
La possibilità di trasferirsi gratuitamente consentì ai calciatori di pretendere stipendi più alti e contratti più lunghi da parte del nuovo club per compensare la mancanza delle cifra sborsata per acquistarli. Questi potevano inoltre chiedere salari più alti con l’avvicinarsi della scadenza del contratto minacciando, nel caso le richieste non fossero accolte, di lasciare il club gratuitamente. Nacque così il ruolo di agente, incaricato dal calciatore di curare i propri interessi in fase di contrattazione con i club.
Prima della sentenza Bosman, inoltre, la Uefa imponeva l’utilizzo di non più di tre stranieri in campo per ciascuna squadra. A seguito della sentenza, i club potevano invece ingaggiare un numero illimitato di giocatori provenienti dall’Unione europea e i calciatori ambire a contratti più ricchi e più lunghi. In periodi di stabilità economica ciò non rappresentava un problema per il singolo club, ma in caso di retrocessione o di minori introiti per diritti tv, le società si trovavano con pesanti contratti a gravare sulle proprie casse. I club più piccoli si trovavano dunque costretti a svendere i giocatori migliori alle squadre più ricche per aggiustare i conti. A lungo termine, in molti campionati europei, questa tendenza ha contribuito ad ampliare il gap tra club di prima fascia e quelli più piccoli.
Florentino Perez, il presidente del Real Madrid, si è rivolto all’antitrust. Come giudica questa mossa?
«A mio avviso l’iniziativa è corretta, anche perché diventa l’unica difesa possibile davanti a eventuali azioni sanzionatorie dell’Uefa, la quale impedisce un accesso al mercato, in questo caso al mercato delle competizioni sportive. I club hanno, inoltre, depositato delle richieste di misure cautelari precauzionali per impedire azioni avverse in base alle norme antitrust e hanno vinto perché il diritto europeo tutela la concorrenza in caso di attività economiche e la creazione di una competizione sportiva è riconducibile a un’attività commerciale».
L’Uefa e le federazioni nazionali possono squalificare le squadre che continueranno a essere affiliate alla Super League?
«L’Uefa può fare pressione sulle federazioni, che a questa sono affiliate, ma mi sfugge la previsione normativa dalla quale si dovrebbe desumere una violazione. L’articolo 49, più volte citato, dice che l’Uefa ha la giurisdizione esclusiva per organizzare competizioni internazionali in Europa rispetto alle federazioni e ai club che a queste rispondono. Ma di fatto non vieta espressamente che si possano organizzare altre competizioni. Inoltre, la fonte normativa è statutaria e per ciò è vincolante solo per i propri associati: le federazioni nazionali».
Non rischia, però, di scatenare una nuova sentenza Bosman? E se sì con quali sviluppi?
«Può servire a comprendere quali sono i vincoli dei poteri delle federazioni sull’organizzazione delle competizioni sportive rispetto alle leggi antitrust e, magari, aiutare a mappare lo sport e i suoi confini giurisdizionali in un mercato regolamentato. Lo sport non è più e non solo un’attività ludica, ma un’attività commerciale e come tale soggetta alle norme sull’impresa, sulla libertà d’impresa e sulla concorrenza tra imprese».
I club hanno interesse ad andare al muro contro muro e cosa potrebbe accadere?
«L’interesse è quello di prendere posizione per negoziare. Io credo che nessuno voglia arrivare a rotture difficili da rimarginare».
Dovranno pagare delle penali alla JPMorgan?
«Bisogna capire come sono stati redatti i contratti per la costituzione della Super League. Chi ha investito rischia di trovarsi con un pugno di mosche in mano».
Che similitudini ci sono tra la Super League di calcio e l’Euroleague di pallacanestro?
«L’Euroleague è nata come sistema chiuso e solo da alcuni anni si è aperto. La FIBA (il corrispettivo dell’Uefa nella pallacanestro, ndr) voleva sanzionare i club partecipanti, in particolare greci e turchi, ma continua a non riuscirci, questo perché sia alla FIBA che alle federazioni manca il potere sanzionatorio. È un sistema privato e l’economia, purtroppo, ci insegna spesso che il privato funziona meglio del pubblico. Le federazioni, anche se sono soggetti di diritto privato, scontano l’aspetto classico del pubblico: burocrazia, corruzione, scandali. È come se il privato favorisse di più l’aspetto commerciale e il pubblico quello politico. Restando in Europa, l’Euroleague dimostra che laddove la “politica” è messa in disparte rispetto all’aspetto commerciale ne guadagna la competizione stessa: più ricchezza, più spettacolo. Di conseguenza ne guadagnano i tifosi e quindi pure lo sport in generale. Tornando al calcio andrebbe rivisto il funzionamento delle federazioni, la trasparenza dei bilanci, come vengono investiti i soldi, chi fa veramente il bene di chi e cosa, e pensare un diverso coinvolgimento dei tifosi, senza dimenticare la condizione strutturale degli stadi italiani».
La crociata scatenatasi contro la Super League secondo lei a cosa è dovuta?
«L’errore della Super League è stato quello di voler creare un sistema chiuso, dove non c’è alcuna possibilità per gli underdog di turno di partecipare, togliendo allo sport una delle sue cose più belle: l’incertezza del risultato finale. Giocare solo tra top club, in un condominio chiuso agli altri, toglie elementi come l’agonismo, la creatività, la sorpresa. Lo sport è democrazia, la Super League è una plutocrazia».
Perché non è possibile paragonare l’organizzazione degli sport statunitensi con il calcio europeo? Quali le macro differenze?
«Quello statunitense è entertaiment, quello europeo è più carnale, vicino al concetto dell’Antica Grecia di agonismo/competizione. Sono l’espressione di due culture diverse. Gli Stati Uniti sono stati pionieri di tante nuove forme di economia, anche nello sport, e dove c’è una cultura d’élite c’è uno sport d’élite. Non è un caso che gli statunitensi investono nel calcio europeo con l’atteggiamento di chi vuole insegnare agli altri come fare business».
Come è stato possibile che i dirigenti di alcuni dei club più importanti d’Europa e del mondo abbiano partorito un topolino dal punto di vista organizzativo e comunicativo?
«Bisogna porsi una domanda diversa: qual è il vero progetto alle spalle?».
Dal punto di vista legale come possiamo chiamare un’azione del genere?
«Una presa di posizione. La Champions League così com’è non funziona più (prende più soldi chi sale in Premier League dal Championship, la seconda divisione inglese, ndr) e allora vogliono rinegoziare. Resto basito, per esempio, di fronte alla gestione dei diritti televisivi. I numeri dicono che la serie A è seconda solo alla Premier League, eppure. Perché esistono dei cartelli? Perché ci devono essere degli intermediari? Certo, portano profitto, ma quanto ne assorbono?».
In questa faida chi ha vinto davvero e cosa ci aspetta ancora dal punto di vista legale?
«Ci saranno sicuramente strascichi giudiziari, ma dal punto di vista legale bisogna prima vedere quali sanzioni saranno comminate ai club “ribelli”. Per adesso mi sembra che siano solo delle minacce, frutto di atteggiamenti “politici”, appunto. Però anche le parole sono importanti, soprattutto se dette dal presidente dell’Uefa. Quando queste minacce si concretizzeranno ci saranno delle reazioni e allora dovremo andare a vedere i regolamenti, da dove nascono, la loro validità nel sistema europeo. In ultima istanza poi c’è il TAS di Losanna. Altro dubbio: l’Uefa ente regolatore e sanzionatorio insieme?».
Si è parlato molto pure dei fondi d’investimento come rete economica per salvare il calcio. Cosa ne pensa?
«È giusto vietarli in condizioni di conflitto d’interesse, come in caso di multiproprietà partecipanti alla stessa competizione. Ma fuori da questo credo che possano essere benvenuti se possono risollevare le sorti economiche di un sistema in difficoltà. I fondi d’investimento possono aiutare a sviluppare il business, il marketing, i diritti televisivi, tutte cose gestite in modo obsoleto dal sistema calcio italiano. Siamo molto indietro nel valorizzare lo spettacolo della Lega A, quindi i fondi potevano e potrebbero essere d’aiuto».
Anche per il calcio sarà inevitabile la deriva finanziaria? E quanto è pericolosa in prospettiva dato che presume una crescita economica (diritti televisivi, ecc.) infinita che tale non può essere?
«Non credo che il calcio possa risentire di una bolla, come ne abbiamo viste in altri settori economici. La questione, a mio parere, è diversa: la sostenibilità dello sport e lo sport professionistico italiano, così com’è organizzato, non è sostenibile. Quindi ci vuole un sistema capace di monetizzare meglio la partecipazione degli spettatori e degli investitori».
È evidente che la Super League nasce, in primo luogo, come soluzione all’indebitamento cronico di gran parte dei club fondatori. Qualora fosse andata in porto, crede che questo obiettivo sarebbe stato raggiungibile?
«Quando realizzi che tu sei l’attore principale dello spettacolo ma ti vengono assegnate parti ridotte dei ricavi dello stesso tenti di rinegoziare i termini dell’accordo, oltre a cercare di avere maggiore libertà decisionale. Senza contare la questione Psg e Financial Fair Play, oppure gli accordi personali del Manchester City sulla medesima questione. Pare evidente a tutti che a livello Uefa non ci sia stato un atteggiamento paritetico di applicazione dei regolamenti, lasciando molto spazio alla discrezionalità. Tutto questo va rivisto e non aiuta la serenità dei ragionamenti, ma alimenta solo le crociate pro o contro, che servono a poco».
Editing: Lorenzo Bagnoli | Foto: Elaborazione IrpiMedia su immagini phFAB/Shutterstock e LCA Studio Legale