Processi in corso: il regime di Jammeh alla sbarra e il mandato d’arresto per Putin
Dopo il processo di Coblenza si ricorre più spesso alla giurisdizione universale. Quando si dispone di risorse e di volontà politica, è anche possibile aprire procedimenti penali. I casi di Gambia e Russia

27 Ottobre 2023 | di Marta Bellingreri, Costanza Spocci

In seguito al processo di Coblenza, sono diventate più numerose le denunce di crimini contro l’umanità per le quali si può ricorrere al principio della giurisdizione universale. I lavori per la preparazione di dossier contro ex-dittatori, funzionari o addirittura presidenti in carica, prendono piede in diversi Paesi dove esistono gruppi della società civile, avvocati e vittime che si mettono al lavoro per raccogliere prove da esibire in tribunale. Al momento, però, i casi che hanno portato all’apertura di un’indagine giudiziaria e che sono state accettate dalle autorità nazionali competenti riguardano due casi: i crimini commessi in Gambia durante la dittatura di Yahya Jammeh, e i crimini commessi dalla Russia nel conflitto in corso in Ucraina.

Dopo la dipartita dal Paese dell’ex dittatore Yahya Jammeh, cacciato all’inizio del 2017 da una rivolta popolare, il Parlamento gambiano ha votato per l’istituzione della Commissione per la verità, la riconciliazione e i risarcimenti (Trrc) che ha lo scopo di indagare i crimini commessi sotto l’epoca Jammeh. Il processo di giustizia transizionale, con cui la società gambiana affronta un’eredità di gravi e massicce violazioni dei diritti umani, è sostenuto dagli Stati vicini e dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas), che ha tutto l’interesse a mantenere una stabilità regionale. Anche all’estero il cambio di regime in Gambia è accompagnato dall’aprirsi di processi fondati sulla giurisdizione universale. Questo avviene in ben tre Paesi diversi, la Germania, gli Stati Uniti e la Svizzera, dove ex-funzionari e paramilitari finiscono alla sbarra con accuse di crimini contro l’umanità.

In Ucraina invece, in seguito dell’aggressione militare da parte della Russia, i membri che formano la coalizione occidentale in sostegno a Kiyv hanno sia impugnato la giustizia internazionale per avviare indagini preliminari nei rispettivi Paesi sui crimini commessi da Mosca sia sostenuto e finanziato la Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja perché aprisse un’inchiesta e cominciasse le indagini contro il governo di Vladimir Putin.

Lo squadrone della morte dei Junglers

Un uomo indossa un giaccone parka invernale con un cappuccio nero e nasconde il suo viso alle telecamere dietro un foglio di cartone verde mentre entra nell’aula di tribunale di Celle, in Germania. Cinque giudici lo attendono seduti di fronte al banco degli imputati. Bai L., gambiano di 46 anni, si scopre il viso e prende posto davanti a loro, guardandosi bene dal voltarsi. Seduto dietro, a pochi metri da lui, c’è Baba Hydara, l’uomo che l’ha portato in tribunale. È un uomo elegante, anche lui gambiano, ed è arrivato al palazzo di giustizia con la barba curata e fresca di parrucchiere. In mano stringe la foto di Deyda Hydara, suo padre, freddato nel 2004 dall’’unità paramilitare dei Junglers quando ricopriva il posto di direttore di The Point, uno dei più importanti giornali indipendenti del Gambia.

Bai L. era residente ad Hannover, in Germania, quando la polizia tedesca lo ha arrestato nel marzo 2021 sulla base della giursdizione universale, perché sospettato di crimini contro l’umanità, omicidio e tentato omicidio. Erano passate solo poche settimane dalla sentenza di Coblenza, quando un ex colonnello a capo di un’unità dell’intelligence siriana, Anwar Raslan, era stato condannato all’ergastolo in Germania per crimini contro l’umanità. In entrambi i processi, quello di Coblenza contro Raslan, e quello di Celle contro Bai L., la parte civile nel processo è rappresentata dall’avvocato tedesco Patrick Kroker del Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (ECCHR) con sede a Berlino.

Proprio dal processo di Coblenza in poi, i procedimenti penali incardinati grazie al principio della giurisdizione universale cominciano a moltiplicarsi. E il caso del Gambia è il primo che ECCHR con Patrick Kroker, insieme al supporto dell’avvocato noto come il “cacciatore di dittatori” Reed Brody, porta davanti a una corte europea.

Secondo i pubblici ministeri tedeschi, Bai L. sarebbe stato l’autista e un ex membro dello squadrone della morte Junglers, ritenuti responsabili di gravi violazioni dei diritti umani eseguite per conto dell’ex presidente gambiano Yahya Jammeh. Bai L. avrebbe facilitato l’omicidio di Deyda Hydara e quello di altri due oppositori politici del presidente, Dawda Nyassi e l’avvocato Ousman Sillah. Non solo: su lui e altri Junglers pendono anche altri capi d’accusa.

Trial International e Human Rights Watch, due organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani, hanno affermato che l’unità paramilitare Junglers avrebbe giustiziato sommariamente più di 50 persone migranti dell’Africa occidentale (tra cui 44 ghanesi) nel luglio 2005. Queste persone erano dirette in Europa ma erano state erroneamente sospettate di essere un gruppo di mercenari. Per questo dopo che i più stretti collaboratori di Jammeh nell’esercito li avevano catturati e trattenuti, i membri dello squadrone della morte li avevano uccisi tutti. Solo una persona era riuscita a scappare e a riferire cosa era successo.

La dittatura di Yahya Jammeh
Yahya Jammeh ha preso il potere con un colpo di Stato in Gambia nel 1994, dando inizio a un’amministrazione brutale durante la quale sono stati incarcerati oppositori politici e giornalisti. Persino i gambiani fuggiti in Senegal temevano che li stesse spiando anche oltre confine, da quanto è stata pervasiva la sua campagna per terrorizzare i dissidenti. Il Gambia è stato ostaggio in una tesa prova di forza del dittatore quando Jammeh è stato spodestato dalle elezioni nel 2016. Dopo aver inizialmente ammesso la sconfitta, ha infatti annunciato pubblicamente di rifiutare il responso delle urne, giurando di usare l’esercito per difendere la sua presidenza. La decisione ha scatenato una reazione dei Paesi confinanti che hanno inviato sia un contingente di truppe sia negoziatori che cominciassero delle trattative diplomatiche. A gennaio 2017 la crisi si è risolta con Jammeh che è salito su un aereo, diretto in esilio in Guinea Equatoriale, una nazione nota per il suo governo brutale. Il presidente Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, che governa senza interruzioni dal 1979, ha detenuto arbitrariamente e torturato gli oppositori, oltre a non rispettare i risultati delle elezioni. La sua famiglia è stata perseguita a livello internazionale per aver utilizzato centinaia di milioni di dollari di profitti petroliferi per arricchirsi.

Grazie alla testimonianza dell’unico sopravvissuto e grazie allo scambio con l’associazione dei familiari delle vittime uccise dalla repressione di Hissène Habré in Ciad – una connessione facilitata da Reed Brody e colleghi – nel maggio 2018, le famiglie delle vittime e una coalizione di Ong locali e internazionali hanno chiesto alle autorità ghanesi di aprire un’indagine contro il presidente Jammeh.

Poi, nel gennaio 2019, cinque osservatori dei diritti umani delle Nazioni Unite hanno sollecitato l’Onu e la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) a rendere pubblico il loro rapporto sul massacro del 2005, secondo cui elementi «che agivano per conto proprio» dei servizi di sicurezza gambiani sarebbero stati i responsabili del massacro. Nel giro di pochi mesi, tre ex membri dei Junglers hanno testimoniato pubblicamente davanti alla Commissione per la verità, la riconciliazione e i risarcimenti (Trrc) del Gambia affermando che loro e altri dodici appartenenti allo squadrone della morte avevano assassinato su ordine di Jammeh. Nel luglio 2020, le famiglie delle vittime e undici organizzazioni per i diritti umani hanno chiesto un’indagine internazionale sul massacro dei migranti avvenuto nel 2005.

L’ex Junglers arrestato in Colorado, l’ex ministro a processo in Svizzera

Oltre a Bai L., due presunti complici di Jammeh sono detenuti all’estero grazie alla giurisdizione universale. Michael Sang Correa, anch’egli presunto membro dei Junglers, è stato arrestato in Colorado tre anni fa. Secondo le accuse del procuratore Reid Neureiter, Correa sarebbe responsabile della tortura di almeno sei persone. Correa avrebbe «interrogato le vittime in merito al loro coinvolgimento e alla loro conoscenza del fallito colpo di Stato» e in seguito le avrebbe «torturate allo scopo di ottenere una confessione», riporta il documento in cui sono contenute le imputazioni. L’arresto è stato spiccato da un magistrato del Colorado perché l’ultimo indirizzo conosciuto di Sang Correa era a Denver, dove è arrivato nel dicembre 2016.

«Lo status di extraterritorialità negli Stati Uniti riguarda solo la tortura, quindi non è possibile incriminare qualcuno per gli omicidi», spiega Reed Brody. Correa è il secondo caso ad essere processato in base allo statuto federale sulla tortura extraterritoriale, secondo cui il reato è imputabile a chiunque si trovi negli Stati Uniti, indipendentemente dal fatto che sia cittadino americano, anche se è stato commesso all’estero. La legge si applica anche a prescindere dalla nazionalità della vittima. Secondo le testimonianze di ex Junglers raccolte dalla Commissione Trrc, Correa sarebbe anche responsabile dell’esecuzione dell’ex capo dell’intelligence Daba Marenah e di quattro collaboratori nell’aprile 2006, dell’uccisione del giornalista Ebrima Manneh e di altre 13 persone tra il 2012 e il 2013.

L’ex Presidente del Gambia, Yahya Jammeh, nel novembre 2016 alla vigilia delle elezioni presidenziali, poi perse – Foto: Marco Longari/Getty

Il caso più importante, però, è attualmente in corso in Svizzera, dove l’ex ministro dell’Interno di Jammeh, Ousman Sonko, è stato arrestato sei anni fa. È stata l’Ong svizzera Trial International, in base al principio della giurisdizione universale, a presentare una denuncia alle autorità di Berna. Ousman Sonko è stato ministro dell’Interno del Gambia dal 2006 al 2016, quando è fuggito in Svezia e poi in Svizzera, dove ha chiesto asilo.

Attualmente a Sonko è stato negato lo status di rifugiato e il procuratore generale della Svizzera ha presentato un atto d’accusa contro di lui per aver sostenuto e partecipato ad «attacchi sistematici e generalizzati» che facevano parte di una campagna repressiva delle forze di sicurezza contro tutti gli oppositori di Jammeh.

«Siamo tutti in attesa del rapporto finale della Commissione Trrc in Gambia per assicurare alla giustizia i membri del regime nel Paese», dice Reed Broody durante una chiamata dal Gambia. Yahya Jammeh però è ancora in Guinea Equatoriale, sottolinea Brody, e per farlo uscire e processare davanti a un tribunale di un Paese dell’Africa occidentale «ci sarà bisogno di una pressione politica più forte».

Le pressioni sulla Guinea Equatoriale e il documento della Commissione Trrc

Anche in questo caso il fattore politico è fondamentale perché la giurisdizione universale funzioni. Sebbene il Gambia abbia avuto un cambio di regime, necessita che il governo della Guinea Equatoriale, il suo vicino, conceda l’estradizione di Jammeh. Il Paese dove Jammeh ha trovato rifugio è governato da 43 anni da Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, il quale da gennaio 2023 è indagato in Spagna per presunte torture mortali inflitte in carcere ai dissidenti, cittadini spagnoli, Feliciano Efa Mangue e Julio Obama Mefuman.

Secondo alcuni gruppi per i diritti umani, Mbasogo sarebbe talmente sotto forte pressione da parte della comunità internazionale che starebbe considerando di emanare un decreto per estradare l’ex dittatore gambiano Jammeh. Intanto, ulteriori indagini del quotidiano The Point, la testata per cui scriveva il giornalista assassinato dai Junglers Deyda Hydara, hanno anche rivelato che «prove inconfutabili indicherebbero che anche l’ex dittatore gambiano deve essere imputato, se si vuole fare vera giustizia».

Un documento di 14 mila pagine della Commissione Trrc sostiene che almeno 240 persone sono morte per mano dello Stato o dei suoi agenti. Quasi 400 testimoni hanno fornito prove agghiaccianti di torture autorizzate dallo Stato, squadroni della morte, stupri e «caccia alle streghe». Tra i Junglers che avrebbero commesso questi crimini, c’è Malick Jatta, un tenente dell’esercito vicino a Jammeh, secondo la cui testimonianza l’ex presidente avrebbe pagato più di mille dollari a testa i membri del suo servizio di sicurezza che hanno ucciso Deyda Hydara. Nel rapporto si legge anche il nome del sergente Omar Jallow: è lui che ha detto alla commissione che nel 2005 Jammeh ha ordinato l’uccisione di persone migranti disarmate che pensava fossero venute per rovesciarlo. Infine, Fatou Jallow, la vincitrice di un concorso di bellezza del 2014, ha testimoniato che Jammeh l’ha violentata quando aveva 19 anni.

La Commissione nelle sue raccomandazioni ha chiesto di perseguire «le persone che hanno la maggiore responsabilità per gli abusi», senza fare nomi. Però, all’inizio del volume otto del report, si legge: «Per consolidare il suo potere, Jammeh ha creato un gruppo speciale all’interno dell’esercito, senza alcuna base legale per le sue operazioni e gli ha affidato il solo compito di reprimere chiunque fosse considerato un critico o una minaccia per la sua amministrazione. Questo gruppo clandestino di soldati – che divenne noto come Junglers – era fedele solo al presidente e eseguiva tutti i suoi ordini senza discutere. (…) Hanno eseguito omicidi extragiudiziali, arresti arbitrari, detenzioni e torture per conto di Yahya Jammeh, con la totale assenza di un’autorità giudiziaria, nel totale disprezzo delle funzioni delle forze armate, che devono difendere il popolo e non opprimerlo».

Al momento Jammeh resta in Guinea Equatoriale, ma il corso della giustizia internazionale continua. E ancora una volta il lavoro congiunto di avvocati, vittime e società civile dà un valore all’uso di strumenti giuridici in più angoli del pianeta.

Acceleratore Ucraina, la giurisdizione universale 3.0

Quando il 24 febbraio 2022 la Russia invade l’Ucraina succede qualcosa di inedito rispetto ai casi dei crimini commessi in Siria e Gambia: lo schieramento occidentale anti-russo, che in breve tempo forma una vera e propria alleanza, crea una forte accelerazione della giustizia internazionale. A meno di un mese dall’invasione, l’avvocato penalista britannico di origine pakistana, Karim Khan, eletto nel giugno precedente Procuratore generale della Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja, è partito per l’Ucraina per avviare le indagini sui potenziali crimini di guerra commessi da entrambi le parti in conflitto, l’aggressore e l’aggredito, forze armate, milizie, gruppi di autodifesa, dal 21 novembre 2013 a oggi.

Il suo curriculum dimostra oltre 25 anni di esperienza sul campo: da giovane laureato in Giurisprudenza e dopo un dottorato all’Università di Oxford, Khan lavora come legale al Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia e subito dopo al Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda, fino al 2000. Da allora, non si è mai fermato: Liberia, Sierra Leone, Cambogia, Libano, Iraq. Nei diversi angoli della terra, ha fatto parte dell’accusa, ha difeso le vittime, ha rappresentato le parti civili.

Il Procuratore generale della Corte penale internazionale, Karim Khan, durante un sopralluogo a Bucha nella cintura di Kyiv (Ucraina) ad aprile 2022, luogo di presunte atrocità commesse dall’esercito russo – Foto: Fadel Senna/Getty

Nel giro di meno di un anno dall’inizio del suo mandato all’Aja si ritrova a lanciare un’indagine nell’Ucraina che si sgretola sotto le bombe russe, con l’assedio e l’accerchiamento delle città, la fuga dei civili e la resistenza di esercito e combattenti. Le atrocità che l’avvocato britannico porta con sé hanno probabilmente determinato l’urgenza di agire. Fino a poco prima del suo mandato all’Aja, Khan si trovava in Iraq, a capo dell’Unità Investigativa delle Nazioni Unite per i crimini commessi dall’Isis, a scavare insieme al suo formatissimo team internazionale e ai medici forensi iracheni le fosse comuni del genocidio yazida.

Ma ancora più sorprendente della sua capacità di agire è stato il rapido risultato: il 17 marzo 2023, a meno di un anno dall’inizio delle indagini, la Corte Penale Internazionale ha emesso, su sua richiesta, un mandato d’arresto nei confronti del Presidente russo Vladimir Putin e del suo Commissario per i diritti dei bambini, Maria Lvova-Belova (vedi foto di copertina), per il loro presunto ruolo nella deportazione e nel trasferimento forzato di bambini ucraini in Russia. Migliaia di bambini, infatti, sarebbero stati rapiti e portati in Russia in seguito all’invasione russa.

Secondo il governo ucraino, i bambini deportati in Russia sarebbero 16.226, di cui 10.513 sono stati rintracciati e più di 300 sono tornati in patria.

Questa iniziativa dimostra la capacità della Corte di affrontare i potenti, compreso il presidente in carica di una potenza nucleare e membro permanente del Consiglio di Sicurezza, quando si hanno la volontà politica e i mezzi per farlo. La decisione e determinazione della Cpi ha riaperto due questioni: da un lato, quella dei doppi standard e della passività e selettività della Corte di fronte ai crimini commessi in altri contesti come Palestina, Iraq e Afghanistan; dall’altro, è stato considerato un acceleratore della giustizia internazionale e della giurisdizione universale, moltiplicatore di casi che già negli ultimi anni, grazie a svariati fattori, tra cui l’arrivo massiccio di rifugiati in Europa, aveva ripreso vitalità da alcuni anni.

Philip Grant, avvocato fondatore dell’Ong svizzera Trial International, la definisce «la giurisdizione universale 3.0», che segue dunque alla giurisdizione 1.0 avviata col caso Pinochet e a quella 2.0 che invece ha subito il contraccolpo delle potenze occidentali, come nel caso Rumsfeld, e che ha raggiunto il suo apice proprio nel 2022 con le condanne in Germania di Anwar Raslan, in Svezia di Hamid Noury e in Francia di Kunti Kamara.

Nonostante alcuni limiti della sua giurisdizione e il fatto che né la Russia né l’Ucraina sono Stati parte del Tribunale penale internazionale e perciò sarebbero fuori dalla sua competenza, la forte volontà politica dei Paesi occidentali di inchiodare la Russia di Vladimir Putin alle sue responsabilità ha permesso di attivare una procedura speciale. L’iniziativa è stata proprio l’Ucraina all’inizio del conflitto in Donbass nel 2014, un caso senza precedenti in cui uno Stato non membro del Tribunale penale internazionale che tramite una formale dichiarazione depositata accetta ugualmente la sua competenza sul proprio territorio. Questo aveva permesso l’apertura di una «preliminary examination» (indagine preliminare, ndr), conclusasi nel dicembre 2020.

Quanto alla Russia, dato che le indagini si svolgono sul territorio ucraino, non doveva approvare la decisione come spetterebbe a uno Stato membro. Rispetto alla giurisdizione della Cpi, rimane escluso solamente il crimine di aggressione che non si può indagare nei confronti di uno stato non firmatario dello Statuto di Roma del 1998, alla base della creazione del Tribunale dell’Aja. Il salto in avanti che ha permesso all’Ufficio del Procuratore di far partire le indagini è la richiesta al Tribunale da parte di trentanove Stati membri della Cpi – prima fra tutti la Lituania, tra gli altri anche l’Italia – di procedere.

L’offensiva giudiziaria

Nel frattempo è iniziata un’offensiva giudiziaria senza precedenti per velocità e portata. Oltre alla Cpi, si sono attivate la Corte internazionale di giustizia (Cig) e la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), mentre il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (Unhcr) ha avviato una commissione d’inchiesta per raccogliere prove. Tutto questo unito agli sforzi giudiziari dell’Ucraina, guidati dal suo Procuratore generale e corroborati dal lavoro senza sosta di organizzazioni locali che raccolgono prove. L’intenzione deliberata di fare morire di fame – e di freddo – centinaia di cittadini ucraini è oggetto di ricerca di avvocati per i diritti umani della Global Rights Compliance che collaborano con il pubblico ministero ucraino per un dossier da presentare alla Cpi. Le prove che vogliono fornire potrebbero essere il primo procedimento penale di questo tipo che potrebbe incriminare il presidente russo Putin.

Ma sono anche i sistemi giudiziari nazionali di una dozzina di Paesi europei (Germania, Polonia, i tre Stati baltici, Spagna, Svezia, Slovacchia, Svizzera, Romania, Norvegia) e il Canada a reagire in massa avviando indagini preliminari e avvalendosi del principio della giurisdizione universale. In Germania, per esempio, le indagini iniziali hanno riguardato gli attacchi indiscriminati contro i civili e le infrastrutture civili, l’uso di munizioni a grappolo e le notizie secondo cui le forze russe dispongono di liste della morte per l’uccisione di attivisti e politici ucraini.

Le testimonianze dirette di sopravvissuti portano alle denunce, individuando le responsabilità dirette: l’Ukrainian Legal Advisory Group (Ulag) e il Centro Europeo per i Diritti Costituzionali e Umani (Ecchr) hanno presentato una denuncia penale alla Procura federale tedesca a sostegno di una donna ucraina sopravvissuta a una violenza sessuale. La denuncia è diretta contro quattro membri delle forze armate russe, tra cui due ufficiali di alto rango, e sostiene che questi individui siano responsabili dell’uccisione arbitraria del marito della sopravvissuta e di aver commesso atti di estrema violenza sessuale contro di lei. Al fine di ritenere tutti i responsabili pienamente responsabili, la donna chiede che le autorità tedesche si adoperino per integrare le indagini già in corso in Ucraina.

L’intera panoplia, come l’ha definita il portale JusticeInfo, dei crimini internazionali commessi durante l’invasione russa – crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e crimine di aggressione – ha messo in moto il panorama contemporaneo della giustizia internazionale, con una velocità senza precedenti nella storia.

Cosa resterà in futuro?

L’acceleratore Ucraina, mosso dalla volontà politica dei Paesi occidentali di impugnare la giustizia internazionale a seguito dell’aggressione militare da parte della Russia, pone diversi quesiti che sono già emersi negli ultimi 25 anni di evoluzione del concetto di giurisdizione universale. Uno di questi è se, come spesso sottolineato per il doppio standard applicato a Paesi e leader responsabili di crimini rimasti impuniti, ci sia anche un doppio standard rispetto alle risorse e ai tempi che per il caso Russia-Ucraina sono state investite da più parti, e se dunque questo vada a detrimento di tanti altri casi.

Grant, avvocato e fondatore di Trial International, invita però a guardare al bicchiere mezzo pieno tenendo a mente l’esempio del processo di Norimberga: allora era stata fatta la giustizia dei vincitori ma quando si guarda al quel momento storico si pensa alle basi fondamentali gettate per la giustizia internazionale, come ad esempio i concetti di crimini contro l’umanità. La situazione attuale va messa allora in prospettiva: il sistema “potenziato” della giustizia internazionale che è stato messo in moto contro la Russia potrà in futuro essere replicato con la stessa forza e volontà contro altri grandi potenze in caso di crimini di guerra o contro l’umanità? La valutazione dell’esperienza di oggi si deciderà con la risposta a questa domanda.

È un fatto che il principio della giurisdizione universale continua a fare il suo corso, facendosi largo sempre più nei diversi Paesi che la applicano grazie all’immenso lavoro di avvocati, testimoni e difensori dei diritti umani. Per quanto piccolo possa essere il pesce preso rispetto ai leader inafferrabili all’origine della catena di comando, le vittime di certi reati rappresentano l’umanità. In questo senso la giurisdizione universale dà uno strumento in mano a tutti contro la banalità del male: non solo ai testimoni o alle vittime che si fanno avanti nelle aule di tribunale davanti ai loro carnefici, ma anche a quei cittadini comuni, legali e membri della società civile, che decidono che il loro Paese non sarà quel Paese terzo in cui i dittatori, torturatori e criminali di guerra potranno trovare rifugio.

Editing: Lorenzo Bagnoli
Foto: Vladimir Putin, a marzo 2022, insieme alla Commissaria per i diritti dei bambini, Maria Lvova-Belova, entrambi destinatari di un mandato di arresto da parte della Corte penale internazionale – Mikhail Klimentyev/Getty

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